eXTReMe Tracker
Tweet

ITINERARI - L'OCCIDENTE- IL MEDIO EVO

Il Medio Evo è il periodo compreso tra l'antichità classica e l'età moderna. Il primo ad usare l'espressione «Medio Evo» nel suo preciso significato di partizione cronologica della storia fu Christoph Keller nella sua Historia Medii «vi del 1688, che era un vero e proprio testo di storia medievale. È tuttavia tra il Quattro e il Cinquecento che cominciò a farsi strada, con la comparsa di termini quali media aetas, media tèmpestas, l'idea che tra la fine dell'età classica (emblematicamente rappresentata dalla caduta dell'Impero Romano) e il recente rifiorire degli studi umanistici e classici si fosse frapposto un lungo intervallo di ignoranza e di barbarie. Lo stesso giudizio sottintende il termine «Rinascimento», evidentemente correlato a «Medio Evo» e usato a indicare, con connotazioni fortemente positive, la splendida civiltà europea del XV e del XVI secolo (e particolarmente le sue espressioni artistiche e letterarie).
Gli umanisti, ossia gli studiosi che stavano lavorando al recupero della cultura classica, si sentivano per molti aspetti più vicini alla civiltà antica che non al mondo che li aveva immediatamente preceduti (e di cui, in realtà, gli piacesse o meno, erano figli). La stessa cosa accadde nel Cinquecento ai seguaci di Lutero e degli altri riformatori religiosi: la loro rottura con la Chiesa di Roma era giustificata anche con il desiderio di riallacciarsi all'esperienza della Chiesa primitiva rinnegando i secoli della corruzione e della decadenza, che erano, appunto, i secoli del Medio Evo. All'origine dell'espressione «Medio Evo» c'è dunque un atteggiamento di condanna che dagli umanisti e dai riformatori religiosi del Cinquecento è passato agli storici dei secoli successivi, fino al Romanticismo, che ha segnato una sorta di entusiastica riscoperta della civiltà medievale.
Oggi il termine «Medio Evo» è semplicemente un'etichetta utile a indicare, senza entusiasmi e senza condanne, un lungo periodo della storia europea che appare contrassegnato sul terreno morale e culturale dal predominio dei valori cristiani e su quello politico dal prevalere di un ideale di organizzazione statale di tipo universalistico di cui l'antico Impero Romano forniva il modello. Ma un'età così lunga (circa un millennio) non si può pensare come un tutto unico, sempre uguale a se stessa o anche soltanto abbastanza simile a se in tutto il suo corso: in verità un fiorentino dell'età comunale (tanto per fare un esempio) aveva ben poco in comune con un suo conterraneo dell'età carolingia e non si sarebbe trovato affatto a suo agio dovendo scambiare quattro chiacchiere con lui. Così, per cogliere più concretamente, sul piano della periodizzazione, questo o quel processo storico, si è suddivisa in varie maniere la lunga età medievale: l'«età comunale» e l'«età carolingia», di cui abbiamo appena parlato, sono appunto due di queste possibili suddivisioni. Da ricordare è la distinzione tra «Alto» e «Basso» Medio Evo, per la quale si assume di solito come frontiera cronologica l'anno Mille, oppure l'intero secolo XI. «Alto» nel senso di più remoto, che viene prima (da cui «Basso» nel senso di tardo, che viene dopo: per esempio Basso Impero o Tardo Impero per indicare gli ultimi secoli dell'Impero Romano) e legato al tedesco alt, che vuol dire «vecchio». «antico».

IL REGNO DEI FRANCHI E IL DOMINIO DI SAN PIETRO

Una delle ragioni del successo dei Franchi rispetto agli altri popoli germanici è che essi sono entrati a far parte della Cristianità occidentale passando, per così dire, dalla porta principale. Adottando fin dall'inizio la confessione di fede romana, i Franchi hanno «saltato» quell'iniziale adesione all'Arianesimo che per altri popoli germanici ha significato un lungo periodo di tensioni e incomprensioni con la Chiesa di Roma e con le vecchie classi dirigenti romane. I Franchi, insomma, hanno potuto godere fin dall'inizio dell'appoggio del Papato, che sul piano culturale, morale ed economico era sicuramente il più autorevole centro di potere dell'Occidente.
Come altri regni romano-barbarici, anche lo Stato franco era una costruzione relativamente fragile. Il potere monarchico, ad esempio, era considerato patrimonio della famiglia regnante, il che significava (tra le altre cose) che alla morte di ogni sovrano il regno veniva diviso tra gli eredi, causa di ricorrente instabilità politica. La debolezza della prima dinastia franca, quella dei Merovingi, permise alla lunga l'ascesa di una grande famiglia aristocratica, quella dei Carolingi (detta così dal suo più noto esponente, Carlo Magno), che a poco a poco accentrò nelle proprie mani il governo effettivo del Paese, lasciando ai re solo l'ombra del potere.
Il primo grande rappresentante della dinastia carolingia, fu Carlo Martello, che aveva la carica di maestro di Palazzo dei sovrani merovingi. Diventò famoso per aver sconfitto, nel 732, gli Arabi nella battaglia di Poitiers, arrestando definitivamente l'avanzata dell'Islam in Europa. Proprio la difesa della Cristianità occidentale contro la persistente minaccia dei musulmani attestati nella penisola iberica costituì il punto di forza della politica e della propaganda carolingia e, quando venne il momento di mettere definitivamente da parte i sovrani merovingi, questa benemerenza religiosa servì egregiamente a coprire e a giustificare l'usurpazione del trono. Fu infatti grazie all'appoggio del papa che il figlio di Carlo Martello, Pipino il Breve (714-768), poté deporre nel 751 il re legittimo facendosi incoronare in suo luogo. Nel 754 lo stesso pontefice, Stefano II, venne in Francia per benedire il fatto compiuto e consacrare re l'usurpatore.
L'antica alleanza tra il Papato e il regno franco veniva così rinnovata, con grande e reciproco vantaggio. La nuova dinastia carolingia ne ricavava la legittimazione del proprio potere e la solidarietà della Chiesa. Questa solidarietà voleva dire tra l'altro che il personale ecclesiastico, che era il solo fornito di una certa istruzione e in grado di svolgere con qualche competenza incarichi amministrativi, poteva essere utilizzato nella gestione dello Stato: da allora, in effetti, la maggior parte dei prelati, vescovi e abati, cumulò funzioni religiose e civili.
Il Papato, dal canto suo, otteneva l'appoggio militare dei Franchi contro i Longobardi, da tempo convertiti alla religione romana, ma troppo potenti e troppo vicini per poter essere davvero considerati amici dai vescovi di Roma. La liquidazione della potenza longobarda in Italia per mezzo delle armi franche era la condizione indispensabile per la definitiva trasformazione in un vero e proprio Stato pontificio di quel «Dominio di San Pietro» che nel corso dei secoli i papi avevano messo insieme nell'Italia centrale mediante donazioni, acquisti e usurpazioni. Inoltre (e forse era la cosa più importante) il Papato otteneva la collaborazione della dinastia carolingia nell'opera di cristianizzazione forzata dell'Europa: le vittorie degli eserciti franchi avrebbero d'ora in poi assicurato l'allargamento costante della sfera d'influenza della Chiesa di Roma.
Nel 768, alla morte di Pipino, Carlo, primogenito di Pipino, dovette dividere col fratello Carlomanno le responsabilità del regno. Fra i due fratelli, però, i rapporti non erano affatto buoni. Il maggiore storico del tempo, Eginardo (770 ca. - 840), nella sua Vita di Carlo, ne addossa la colpa al carattere poco conciliante e invidioso di Carlomanno. Ma la testimonianza di Eginardo, che era stato educato alla corte di Carlo e ne era diventato uno dei più intimi collaboratori, è certamente parziale. La verità è che neppure Carlo era immune da gelosie ed anzi assai presto l'ambizione si rivelò in lui più forte della lealtà dovuta al fratello e collega di governo. Alla fine del 771 Carlomanno morì all'improvviso e Carlo ne approfittò per impadronirsi di tutto il potere, escludendone la moglie e i figli di Carlomanno, che fuggirono in Italia, trovando ospitalità alla corte longobarda.
I Longobardi erano ufficialmente alleati dei Franchi, ma avevano delle ottime ragioni per diffidare di Carlo. Nel 770 Carlo, aveva ripudiato la sua prima moglie, la franca Imiltrude, per sposare Desiderata (che tutti i nostri studenti conoscono come l'Ermengarda dell'Adelchi, la nota tragedia del Manzoni), figlia del re longobardo Desiderio. Desiderio, fidando nell'alleanza franca, agli inizi del 771 si era spinto fino a Roma ed era riuscito a trattare da una posizione di forza col papa. Matrimonio e alleanza avevano avuto però brevissima durata: nello stesso 771 Desiderata fu ripudiata da Carlo e rimandata in Italia. Nel 772, poi, l'elezione del nuovo papa, Adriano I, ancor più ostile ai Longobardi dei suoi predecessori, fu l'annuncio dell'imminente intervento franco.
Carlo valicò le Alpi nel 773, sconfisse ripetutamente le forze di Desiderio e, vinte le ultime resistenze, assunse il titolo di rex Francorum et Longobardorum, ossia re dei Franchi e dei Longobardi. In esecuzione dei trattati di alleanza che Adriano I si era affrettato a rinnovare, Carlo donò al pontefice (anche se è difficile dire in che cosa esattamente consistesse tale donazione) vastissimi territori: vi erano compresi, tra l'altro, la Corsica, le Venezie, l'Istria, i ducati longobardi di Spoleto e Benevento e le terre che in passato dipendevano dall'esarca (dal greco èxarchos = «comandante») bizantino di Ravenna.
L'assestamento del nuovo potere franco-pontificio in Italia non fu facile. In diverse regioni della penisola emergevano dissensi e resistenze, che costrinsero Carlo a ripetuti interventi. In poco più di dieci anni, tra il 776 e il 787, dovette scendere in Italia tre volte per sedare ribellioni, per scoraggiare i tentativi di restaurazione longobarda e specialmente per vincere la renitenza dei principi longobardi di Benevento, che non erano mai stati sottomessi davvero, a riconoscere formalmente e definitivamente la sovranità franca. Anche se frequentemente impegnato in Italia Carlo non trascurò gli altri fronti, la Spagna musulmana e la Germania pagana.
In Spagna è difficile dire se l'obiettivo di Carlo fosse fin dall'inizio di creare semplicemente un argine fra il regno franco e i domini musulmani oppure se aspirasse a conquistarla per intero. Fatto sta che almeno sulle prime le cose non gli andarono affatto bene. Nel corso della famosa campagna del 778, decantata come impresa di tutta la Cristianità contro l'Islam e rievocata per secoli in innumerevoli opere letterarie, i Franchi furono costretti alla ritirata e al passo di Roncisvalle la loro retroguardia fu assalita e fatta a pezzi. Nell'episodio trovò la morte anche il marchese bretone Orlando, il famoso paladino cantato nella Chanson de Roland. La rotta di Roncisvalle non fu però opera dei Mori, come vuole la tradizione epico-cavalleresca, bensì di un corpo di cristiani baschi (il che la dice lunga sul carattere religioso di queste imprese). Il risultato finale di un trentennio di lotte fu in ogni caso la costituzione e il consolidamento di una Marca di Spagna (con capitale Barcellona), che si estendeva dai Pirenei all'Ebro.
Altrettanto lunghe e sanguinose furono le guerre contro i Sassoni. Esse hanno una speciale importanza nella storia dell'Occidente perché hanno segnato l'integrazione nella civiltà cristiana ed europea delle vaste regioni comprese fra il Mare del Nord, l'Assia, l'Ems e l'Elba, rimaste fino a quel momento tenacemente pagane. Quanto ai Bavari, pare che il loro capo, che era genero del re longobardo Desiderio, tramasse qualcosa contro Carlo d'intesa col principe di Benevento e con gli Avari, temibilissimi scorridori di origine mongola (a loro viene attribuita l'introduzione in Europa della staffa e della scimitarra) che erano stanziati nei territori dell'attuale Ungheria. Nel 787 Carlo lo costrinse ad abdicare e si impadronì del suo dominio. Venuto così a trovarsi a diretto contatto con gli Avari, Carlo non tardò ad organizzare anche contro di loro una guerra di sterminio. Una prima spedizione, nel 791, costrinse gli Avari a ripiegare oltre la Raab, una seconda, fra il 795 e il 796, distrusse gli ultimi loro accampamenti. Ai superstiti venne imposto il battesimo e i renitenti vennero passati per le armi, secondo lo stile già collaudato. Anche per questo genere di benemerenze la Chiesa di Roma ha accolto Carlo Magno tra i suoi santi.

LA CAMPAGNA D'ITALIA CONTRO I LONGOBARDI

Ad affrontare la campagna d'Italia contro i Longobardi Carlo era stato indotto dagli inviti che gli venivano dal papa e dalla necessità di eliminare la minaccia rappresentata dai figli del defunto Carlomanno, che avevano trovato rifugio presso il re longobardo Desiderio. Nel 773 l'esercito di Carlo si mosse da Ginevra diviso in due tronconi, l'uno diretto al passo del Moncenisio, l'altro al Gran San Bernardo. Il primo scontro avvenne presso le chiuse della Val Susa, nelle vicinanze di Avigliana: aggirate le postazioni nemiche, Carlo si vide spianata la strada verso la pianura padana. Le forze longobarde si concentrarono allora in Pavia e in Verona, al comando rispettivamente del re Desiderio e di Adelchi, figlio ed erede del re. Delle due roccaforti longobarde, la seconda fu presto sopraffatta: Adelchi riuscì a stento a fuggire e a riparare a Costantinopoli, mentre i familiari di Carlomanno, che si trovavano con lui furono catturati. Pavia oppose invece una lunga resistenza e si arrese soltanto nel giugno del 774. Fatto prigioniero, Desiderio fu rinchiuso in un monastero francese. Da quel momento il Regno longobardo cessò di esistere come Stato indipendente e venne incorporato nell'Impero Franco, conservando però le sue leggi e le sue strutture amministrative.

EVANGELIZZATI COL TERRORE

Il Vangelo è stato spesso predicato, in Europa e fuori d'Europa, con il più sbrigativo dei sistemi: la forza. La conversione delle popolazioni sassoni e la loro integrazione nel sistema politico di Carlo al termine di un trentennio di indescrivibili atrocità, costituiscono un eccellente esempio di evangelizzazione mediante il terrore. A farsene un'idea basta qualche disposizione del capitolare che Carlo Magno impose ai Sassoni per vincerne l'insofferenza verso la religione cristiana (si chiamavano «capitolari», ossia «raccolte di capitoli», le disposizioni legislative dei sovrani franchi):

«Se qualcuno sarà entrato con la forza in una chiesa e vi avrà perpetrato furti o rapine o avrà bruciato la chiesa stessa, sia condannato a morte.»

«Se qualcuno, per disprezzo della religione cristiana, avrà trascurato il digiuno quaresimale e avrà mangiato carne, sia condannato a morte. Consideri però il sacerdote se il fatto di mangiar carne non sia dovuto a necessità.»

«Se qualcuno tra i Sassoni avrà voluto sottrarsi al battesimo rimanendo nascostamente pagano sia condannato a morte.»

«Se qualcuno avrà tramato contro i cristiani con i pagani o avrà voluto in qualunque modo mantenersi ostile ai cristiani, sia condannato a morte. E chiunque avrà appoggiato con l'inganno tali crimini contro il re e il popolo cristiano, sia condannato a morte.»

E il lugubre ritornello «sia condannato a morte» si ripeteva di capitolo in capitolo, qualunque fosse l'infrazione prevista.

IL SACRO ROMANO IMPERO

A seguito delle conquiste militari, il regno franco aveva ampliato notevolmente i suoi territori, che alla fine dell'VIII secolo si estendevano dal Mare del Nord al Mediterraneo e dall'Eloa all'Ebro. Gran parte dell'Europa era nelle mani di Carlo, ricondotta a un'unità che, come si è detto, rinverdiva il ricordo dell'unità romana. In effetti l'idea di restaurare l'antico Impero Romano esercitava una grandissima attrazione su Carlo e sulla sua corte. I tempi si presentavano singolarmente propizi: le due maggiori potenze del tempo, i Bizantini e gli Arabi, erano, per diverse ragioni, nell'impossibilità di opporsi efficacemente all'ascesa della monarchia carolingia; quanto ai rapporti tra il regno franco e la Chiesa di Roma erano diventati, se possibile, ancora più stretti che nel passato.
Morto Adriano I nel 795, era stato eletto papa Leone III, un personaggio contestato dalla sua stessa corte, che, fuggito da Roma, si era rifugiato presso Carlo. Carlo riportò il papa a Roma fornendogli un'adeguata scorta armata, ma si riservò di valutare le accuse che erano state formulate contro di lui e di risolvere personalmente la controversia presiedendo un apposito tribunale. Alla fine Carlo decise di assolvere Leone e di condannare i suoi avversari. Nella vicenda Carlo aveva avuto modo di esprimere molto chiaramente come intendeva esplicare il suo ruolo di «difensore» della Chiesa: si considerava protettore ma, al tempo stesso, giudice del vescovo di Roma.
Il giorno di Natale, e cioè subito dopo la conclusione del processo, Carlo era presente alla celebrazione della messa in San Pietro. Al termine della funzione, Leone III si volse verso di lui e, mentre i fedeli lo acclamavano imperatore, gli pose sul capo la corona imperiale. Secondo quanto afferma Eginardo, il biografo di Carlo Magno, l'incoronazione sarebbe stata decisa da Leone III all'insaputa di Carlo, il quale, anzi, «non sarebbe neppure entrato in chiesa se avesse potuto conoscere in anticipo il progetto del pontefice». Questa versione non sembra molto credibile: è impensabile che un evento di tale portata non fosse stato preventivamente concordato e adeguatamente preparato in tutti i suoi particolari, compreso quello della finta sorpresa di Carlo. Una finzione che poteva tornare utile, tanto per cominciare, con l'aristocrazia franca, probabilmente poco soddisfatta dell'accaduto: che Carlo fosse stato acclamato imperatore dal popolo di Roma stava a significare che il nuovo Impero era romano, non franco e la presunta sorpresa era per Carlo un modo per blandire la suscettibilità dei suoi vassalli.
Ma l'ambiguità di cui si volle circondare la cerimonia riguardava anche altri e più delicati problemi: i rapporti tra imperatore e papa e quelli tra il nuovo Impero «Romano» e il vecchio Impero di Bisanzio. Per quanto riguarda i rapporti tra Carlo e Leone III, almeno da un punto di vista pratico, erano molto chiari. L'appoggio di Carlo era per Leone un indispensabile fattore di sicurezza, senza il quale il papa non avrebbe saputo come mantenersi in Roma; viceversa, il consenso del Papato (che si era fatto a suo modo custode e interprete della tradizione romana) costituiva la sola possibile forma di legittimazione della decisione presa da Carlo di restaurare l'antico Impero. Per il momento era questo che contava.
Restava però irrisolta una fondamentale questione di principio: quale delle due autorità doveva essere considerata superiore, quella pontificia o quella imperiale? Se nessuna delle due era superiore all'altra, come era possibile distinguere le reciproche sfere di competenza? In altre parole, dove finiva la religione e dove cominciava la politica? Ma poi, in uno Stato cristiano (Res Publica Christiana), quale era l'impero di Carlo, che esportava il cristianesimo sulla punta delle spade e imponeva l'amor di Dio con il terrore, era davvero possibile o desiderabile separare la politica dalla religione?
L'incoronazione di Carlo in Roma non poteva passare inosservata a Bisanzio (Costantinopoli), capitale di quel che restava dell'Impero Romano d'Oriente. Qui regnava l'imperatrice Irene che si considerava l'unica legittima erede degli imperatori romani e che perciò era propensa a considerare l'incoronazione di Carlo come una usurpazione. Sulle prime, comunque, i rapporti fra Irene ed il nuovo imperatore d'Occidente furono improntati a reciproca cautela: Carlo non ottenne alcun riconoscimento formale, ma in entrambi c'era il desiderio di superare in qualche modo l'imbarazzante situazione. Si giunse persino a prospettare un matrimonio fra i due, che avrebbe eliminato ogni contrasto. La situazione mutò radicalmente nell'802 con l'avvento del nuovo imperatore bizantino Niceforo, che scelse un atteggiamento di aperta ostilità verso Carlo. Ci sarebbe stata la guerra, se le due potenze avessero avuto modo di fronteggiarsi militarmente: ma l'Impero di Bisanzio poteva contare soltanto su forze navali e l'Impero Carolingio soltanto su forze di terra. Così, a parte qualche scontro sulle coste adriatiche, prevalsero le dispute diplomatiche, che si trascinarono fino all'812. In quell'anno, finalmente, si celebrò ad Aquisgrana, alla presenza degli ambasciatori bizantini, una solenne cerimonia in cui venne dichiarata la legittimità dell'impero di Carlo e riconosciuta ufficialmente la sua autorità. Da quel momento tornava a sussistere, non solo di fatto, ma anche di diritto, quell'Impero Romano d'Occidente che era scomparso dalla scena da oltre tre secoli.

CARLO MAGNO NELLA BIOGRAFIA DI EGINARDO

Secondo la precisa descrizione del suo biografo Eginardo, Carlo Magno era piuttosto alto, aveva occhi grandi, capelli bianchi, un naso più grande della media, un collo troppo corto ed il ventre sporgente. Negli ultimi quattro anni della sua vita era stato colpito frequentemente da febbri. Finì anche per zoppicare da un piede. Odiava i medici perché gli proibivano di mangiare le carni arrostite di cui era ghiotto. Vestiva secondo il costume dei Franchi.
Durante la cena amava ascoltar musica o qualche lettura. Gli piacevano i libri di Sant'Agostino. Aveva imparato il latino, tanto da poterlo parlare come la sua lingua, e conosceva anche un po' di greco, che però non sapeva parlare. Gli erano stati maestri Pietro da Pisa per la grammatica, e il diacono Alcuino, l'uomo più sapiente di quei tempi, per le altre discipline. Incoronato imperatore il figlio Ludovico (813), l'anziano sovrano da tempo colpito dalla podagra, si ritirò ad Aquisgrana, dove morì il 28 gennaio dell'814. È sepolto nella stessa Aquisgrana, presso la Cappella palatina.

LA ROTTURA DELL'UNITĀ MEDITERRANEA

Mentre l'Impero Romano d'Occidente si era sfasciato sotto i colpi delle invasioni barbariche, l'Impero d'Oriente, grazie a una struttura economica e a un'organizzazione statale (militare e burocratica) più solide, era riuscito a sopravvivere e, come Impero Bizantino (da Bisanzio o Costantinopoli, sua capitale), durò ancora per un millennio. Un tentativo di riconquistare la parte occidentale dell'Impero era stato fatto nel VI secolo dall'imperatore Giustiniano (527-565) che in effetti riuscì a rientrare in possesso di alcune regioni, tra cui l'Italia. Ma il suo ambizioso progetto di ricostituire l'antica unità del Mediterraneo era destinato al fallimento: la società occidentale nata dalla fusione dei popoli germanici con le popolazioni latine o latinizzate dell'Europa costituiva una realtà del tutto nuova, per la quale un ritorno al passato era impossibile. L'Occidente e l'Oriente mediterranei avrebbero avuto sviluppi autonomi e diversi: dopo molti secoli di unità, tornava ad affermarsi su questo mare una varietà di centri di civiltà e di potere rivali.
In questo senso il VII secolo rappresentò una svolta: l'Impero Bizantino, sotto il governo di Eraclio, si dette un'organizzazione nuova, conforme alle sue effettive esigenze, che lo portavano a disinteressarsi della povera e rozza società occidentale e ad occuparsi, invece, molto seriamente del suo grande rivale, l'Impero Persiano. Lo scontro con i Persiani si risolse a favore di Bisanzio, ma le lunghe e dure ostilità avevano indebolito entrambi i contendenti e nel vuoto da loro lasciato nel Vicino Oriente poté inserirsi, con imprevedibile furia, la nascente potenza araba. La comparsa degli Arabi e dell'Islam sulle sponde del Mediterraneo e il loro dilagare dalla Siria alla Spagna ebbero un'importanza molto maggiore della separazione tra l'Occidente europeo e l'Oriente bizantino, che nonostante tutto, conservavano una certa unità spirituale: erano entrambi cristiani e, pur nella diversità delle esperienze politiche, si richiamavano entrambi al modello dell'antico Impero Romano. Gli Arabi, invece, erano portatori di una civiltà nuova, ostile contemporaneamente al Cristianesimo e alla romanità.
La comune minaccia poteva suggerire l'opportunità di un riavvicinamento, ma i rapporti dell'Impero Bizantino con i potentati cristiani dell'Occidente restarono burrascosi, in un alternarsi di alleanze e di aperte ostilità. Si approfondì in particolare la divisione tra la Chiesa ortodossa, che faceva capo al patriarca di Costantinopoli, e quella occidentale, che riconosceva come sua massima autorità il vescovo di Roma.
Contro gli Arabi, sia l'Impero Bizantino, sia la Cristianità occidentale riuscirono, dopo la sorpresa iniziale, ad organizzare una difesa efficace e l'avanzata dell'Islam fu arrestata. L'Impero Bizantino, in particolare, tenne saldamente l'Anatolia (o Asia Minore, l'attuale Turchia) fin dopo il Mille, quando a poco a poco dovette ritirarsi sotto la pressione di una nuova ondata di invasori: si trattava delle bellicose popolazioni turche, che, convertite all'Islam, ridiedero slancio all'espansione musulmana nel Mediterraneo in un momento in cui anche la potenza araba si avviava a un lento declino. In ogni caso, fino alla caduta di Costantinopoli nelle mani dei Turchi, nel 1453, il Mediterraneo si presentò diviso in tre grandi aree fra di loro prevalentemente ostili: la romana, la bizantina e la musulmana.

LA BREVE VITA DELL'IMPERO

La «restaurazione» dell'Impero era tale solo in teoria: di fatto, come si è già accennato, si trattava di una cosa affatto nuova. Innanzi tutto l'Impero di Carlo Magno, il Sacro Romano Impero, si configurava essenzialmente come Res Publica Christiana, ossia come l'organismo politico comune a tutti i popoli che si riconoscevano nella fede cristiana secondo la professione del vescovo di Roma: il suo attributo di «romanità» si esauriva, dunque, nel legame con la Chiesa e col Papato. In secondo luogo i confini del Sacro Romano Impero non coincidevano affatto con quelli dell'Impero Romano d'Occidente. Costruito a cavallo dell'antica frontiera sul Reno e sul Danubio, comprendeva più o meno la Francia, la Germania e l'Italia attuali: poca cosa rispetto al passato, ma soprattutto qualcosa di molto diverso.
Mancava la sponda africana e quasi per intero la penisola iberica. Il mare, che aveva avuto un ruolo fondamentale nella vita dell'antico Impero Romano, stava scomparendo dall'orizzonte degli Europei ed anzi era diventato un'area di pericolo, infestata da predoni, da cui era molto meglio star lontani. La caratteristica principale dell'antico Impero Romano era stata l'intensa vita cittadina, sostenuta da una fitta rete di comunicazioni terrestri, fluviali e marittime. L'Impero di Carlo, invece, era segnato da un assoluto predominio dei villaggi agricoli, pressoché isolati l'uno dall'altro e immersi nelle foreste e nell'incolto; quanto alle città non erano più che sparuti abitati dove le case si frammezzavano ad orti e a mucchi di rovine.
Ma la differenza forse più importante (perché in un certo senso le riassumeva tutte) riguardava l'apparato politico-amministrativo dello Stato. Quello dell'Impero Romano si era sfasciato da tempo e nulla di simile gli si era sostituito. Carlo, che era perfettamente cosciente delle difficoltà di controllare dal centro un organismo vasto come lo Stato franco in una società disperatamente povera di servizi, di capacità amministrative, di mezzi di comunicazione e dominata in ogni parte dalla violenza, non si era preoccupato soltanto di estendere il suo impero e di eliminare ai confini i possibili nemici. Le sue campagne militari erano state precedute e accompagnate da una serie di riforme dirette a riorganizzare l'apparato statale in funzione di un consolidamento del potere monarchico, secondo una politica che era già stata abbozzata nelle sue linee essenziali da Carlo Martello e da Pipino il Breve. Si trattava in sostanza di escogitare meccanismi di controllo centrale conciliabili con la necessaria autonomia dei poteri locali, che, data l'inefficienza del sistema di comunicazioni, erano i soli in grado di esercitare quotidianamente le normali funzioni di governo e di intervenire efficacemente in caso di emergenza. Carlo Magno riuscì, bene o male, nell'intento, ma dopo di lui l'autorità del centro scomparve rapidamente a tutto beneficio dei poteri periferici.
Gli organismi fondamentali nei quali si articolava il regno carolingio erano le contee (all'epoca di Carlo Magno ne esistevano 230), affidate a membri dell'aristocrazia franca fedeli alla casa regnante. I conti ricevevano tutti i poteri amministrativi, giudiziari, fiscali e militari direttamente dal re ed erano tenuti a rispondere del loro operato solo al re, che in qualsiasi momento poteva revocare la carica loro assegnata. Nei territori di confine, dove maggiori e più pressanti erano le esigenze di difesa militare, vennero create delle organizzazioni territoriali più vaste, le marche, affidate al governo di un duca o di un marchese. A complemento e a correzione di questa struttura fondata sulla delega dei poteri sovrani ai conti e ai marchesi, c'erano i missi dominici (= «inviati del signore», ossia del re), veri e propri ispettori con l'incarico di controllare periodicamente l'operato dei dignitari laici ed ecclesiastici nelle rispettive giurisdizioni.
Il conte e il missus dominicus costituivano quello che potremmo definire il corpo amministrativo ufficiale dello Stato carolingio. Ma le difficoltà di tenere effettivamente sotto controllo l'enorme Impero Franco indussero Carlo Magno a integrare queste due figure di funzionari con quella del vassallo (o vassus dominicus) la cui obbedienza era garantita da un vincolo di natura morale più che giuridica. Si trattava di un nobile o comunque di un uomo libero (ossia di condizione non servile) legato al sovrano (il dominus) da un vincolo di fedeltà personale che, sanzionato da un solenne giuramento, assumeva un carattere sacro, irrevocabile e inviolabile. Compito del vassallo era di assistere il re in pace e in guerra con la propria opera, con il proprio consiglio e con i propri beni. Come contropartita dei servigi prestati, il vassallo riceveva dal re i mezzi per vivere nobilmente (ossia senza lavorare) e all'altezza del proprio rango. Poiché di solito questa contropartita (il «beneficio» o «feudo») consisteva in concessioni di terre (con la relativa dotazione di contadini-servi), intorno al sovrano si consolidò un'aristocrazia di guerrieri e di ecclesiastici, nella quale il prestigio e il potere di ciascuno era pressappoco proporzionale alla consistenza delle terre avute in beneficio.
Non è difficile vedere quale fosse sotto questo aspetto la differenza tra il nuovo Impero e l'antico. L'Impero Romano aveva tratto i suoi funzionari e i suoi agenti da una classe relativamente vasta di proprietari terrieri, che però vivevano in città e partecipavano attivamente alle magistrature cittadine. Queste magistrature operavano con ampia autonomia, ma nel quadro di un solido sistema di norme giuridiche che, tra l'altro (almeno in linea di principio) garantiva a tutti i cittadini romani uguali diritti. L'Impero Carolingio si reggeva invece sul potere mal definito di un ceto di guerrieri e di ecclesiastici, vescovi e abati, i cui interessi erano interamente rivolti al possesso della terra; legati alla persona del sovrano da un semplice patto di fedeltà, solo l'esile garanzia di un giuramento ne frenava le ambizioni.
Il Sacro Romano Impero era quel che si dice «un gigante dai piedi d'argilla». Morto il suo fondatore, cominciò il graduale logoramento delle sue strutture: i territori dell'Impero finirono con l'essere spartiti tra i successori di Carlo Magno e i frequenti contrasti tra i diversi sovrani carolingi minarono un po' dovunque l'autorità della monarchia. Gran parte delle misure adottate da Carlo per garantire il buon funzionamento dell'apparato statale e il controllo del governo centrale sulle autorità locali si rivelarono alla lunga insufficienti. Funzionari e vassalli desiderosi di conquistare una maggiore autonomia o abbandonati a se stessi di fronte alla drammatica emergenza di una nuova ondata di scorrerie e invasioni che quasi all'improvviso si riversò sull'Europa, finirono per sottrarsi ad ogni disciplina.

IL TRATTATO DI VERDUN

Appena trent'anni dopo la morte di Carlo Magno, nell'843, il trattato di Verdun metteva fine al sogno dell'unità imperiale e alle lotte familiari scoppiate tra gli eredi di Carlo. Il figlio di Carlo, Ludovico (778-840), detto il Pio perché si affidava interamente ai grandi prelati della sua corte (il che non gli impedì di imporre al papa, nell'824, il giuramento di fedeltà, facendo del Dominio di San Pietro un protettorato franco), aveva tenuto fede come aveva potuto a quel sogno, ma i suoi figli, Lotario, Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo, non esitarono, alla morte del padre, ad azzuffarsi per la spartizione dell'Impero. Il trattato di Verdun attribuì a Carlo il Calvo la Francia, a Ludovico la Germania e a Lotario quel che restava e cioè una lunga fascia di territorio comprendente la Renania, la Borgogna e l'Italia. Nessuno dei tre regni carolingi riuscì però a sopravvivere a lungo, stretti tra i devastanti attacchi di Arabi, Normanni e Ungari all'esterno e l'incorreggibile indisciplina dei feudatari all'interno.

CLERO, LAICATO, PRIVILEGI ECCLESIASTICI, ABATE

Il termine «clero» (dal greco klèros = «parte eletta di una comunità») indica nella chiesa cristiana quella categoria di persone cui è affidato uno speciale compito di guida spirituale, con speciali diritti e speciali doveri. In pratica è l'insieme dei preti (dal greco presbyleros, comparativo di présbys = «anziano») inteso come categoria distinta dal laicato (dal greco laikòs = «profano», derivato di laòs = «popolo») e cioè dal resto dei fedeli. Il clero «secolare» è costituito dai preti che vivono nel «secolo» ossia (nel linguaggio ecclesiastico) nella società, in mezzo al popolo. Il clero «regolare» è invece costituito dai religiosi che vivono separati dal popolo in conventi o monasteri o comunità religiose e che sono tenuti ad osservare la «regola» dell'ordine a cui appartengono.
Il clero cristiano, dal tempo di Costantino in poi, ha accumulato una massa impressionante di «diritti speciali» e cioè di «privilegi» (dal latino lex = «legge» e privus = «solo», unico: è, appunto, un diritto speciale, una legge che vale solo in un caso). Tra i privilegi ecclesiastici meritano particolare attenzione due tipi di immunità: quelle fiscali, per cui gli ecclesiastici erano esentati dall'obbligo di pagare le tasse, e quelle giudiziarie, per cui gli ecclesiastici non potevano essere giudicati dai giudici e dai tribunali comuni (laici), ma erano sottoposti a una giurisdizione speciale (foro ecclesiastico).
«Abate» (o «abbate») deriva dall'aramaico 'abba = «padre», attraverso il greco abbàs e il latino abbas. In Oriente, in epoca paleocristiana, era l'appellativo con cui si indicavano i monaci più anziani (o anche i monaci in generale). In Occidente, introdotto dalla Regola di San Benedetto (secolo VI), fu invece il titolo che spettava al capo di un monastero (che perciò viene detto «abbazia»). Tipica creazione benedettina, la figura dell'abate è presente anche presso i monaci di San Basilio, i canonici regolari e gli eremiti di San Gerolamo. Di norma l'abate veniva eletto direttamente dalla comunità monastica; nel Medio Evo però non furono rari i casi di abati nominati da principi o feudatari e, pertanto, investiti anche di poteri signorili-feudali.
Nella struttura delle gerarchie ecclesiastiche la dignità dell'abate è immediatamente successiva a quella del vescovo; nel Medio Evo, tuttavia, le maggiori abbazie benedettine (come Montecassino) furono svincolate dalla giurisdizione episcopale e godettero di una sorta di extraterritorialità nei riguardi degli organismi diocesani (si dissero, quindi, nullius dioecesis = «di nessuna diocesi»). Per analogia, si chiamano «abbadesse» o «badesse» (dal latino abbalissa) le monache rettrici dei monasteri femminili di suore benedettine.

UNA FORTEZZA ASSEDIATA

Il IX e il X secolo sono stati definiti «i secoli di ferro e di piombo» del Medio Evo per l'interminabile assedio a cui l'Europa fu sottoposta su tutti i fronti e per le generali condizioni di violenza, di insicurezza, di paura che ne erano derivate. Gli Arabi (o Saraceni, come nel Mediterraneo venivano comunemente chiamati, con parola greca, i musulmani) continuavano a premere da Sud contro la fortezza cristiana, riuscendo talvolta a penetrare profondamente nelle sue difese. Ma a loro si erano aggiunti gli Ungari da Est, e i Normanni da Nord.
Tra gli Arabi e i nuovi aggressori c'era una differenza fondamentale. Gli Arabi erano portatori di una grande civiltà mediterranea, per molti aspetti non dissimile da quella europea e più progredita di questa, giacché l'Islam aveva saputo raccogliere meglio di quanto non avesse fatto l'Europa cristiana l'eredità culturale del mondo classico. Là dove riuscivano ad insediarsi stabilmente, come accadde in Spagna o in Sicilia, gli Arabi promuovevano uno sviluppo economico e civile di cui anche l'Europa cristiana finiva per godere i benefici. Ungari e Normanni erano invece del tutto estranei alla cultura dei popoli mediterranei e si rovesciavano sull'Europa come una pura, brutale forza distruttiva.
Gli Ungari (o Magiari, dal nome della loro tribù più potente) erano un popolo nomade, le cui origini restano piuttosto oscure, anche se è certa la loro provenienza dalle steppe euroasiatiche. Nel corso del IX secolo erano penetrati nella pianura danubiana incuneandosi tra gli Slavi del Nord (che occupavano un'area pressappoco corrispondente alla Polonia e alla Russia attuali) e quelli del Sud (stanziati nell'attuale Jugoslavia). Dalle loro nuove sedi presero a lanciare ogni primavera micidiali spedizioni a scopo di bottino e di razzia contro la Germania, contro l'Italia e addirittura contro la Francia. In Italia le loro bande si spinsero fino alle Puglie; al Nord, tra le grandi città italiane, riuscirono a espugnare perfino Pavia. Di solito però gli Ungari non perdevano tempo ad attaccare le città fortificate; scorrevano le campagne oppure si dirigevano verso i nuclei abitati non adeguatamente difesi da cinta murarie. Per lo più chi cadeva nelle loro mani era destinato ad essere venduto come schiavo.
Pastori di cavalli e guerrieri, gli Ungari avevano una straordinaria mobilità: si spostavano senza trascinarsi dietro bagagli o masserizie di alcun genere; si nutrivano col latte delle giumente e con quel che trovavano sulla loro strada, ossia coi prodotti della caccia e della rapina. Sembravano incapaci di assuefarsi ad un sistema di vita sedentario e disciplinato e occorse più di un secolo perché ne adottassero le abitudini. La formazione di uno Stato unitario (che si sovrappose alla vecchia organizzazione per tribù) e poi la conversione al Cristianesimo ad opera del loro primo re, Stefano (969-1038), più tardi fatto santo dalla Chiesa di Roma, segnarono l'abbandono del loro tradizionale sistema di vita e il loro ingresso tra i popoli d'Europa. Da quel momento il Regno di Ungheria diventò uno dei baluardi dell'Europa cristiana contro le rinnovate minacce provenienti da oriente e da sud.
Con il termine Normanni, che significa «uomini del Nord», viene indicato genericamente l'insieme delle popolazioni stanziate nei territori della Svezia, della Norvegia e della Danimarca attuali. Se gli Ungari erano essenzialmente un popolo di nomadi e di pastori, i Normanni erano innanzitutto degli esperti marinai che, alla ricerca di bottino e di terre più fertili di quanto non fossero quelle della Scandinavia, solcarono con continuità i mari circostanti nelle più svariate direzioni sfruttando i fiumi come vie di penetrazione verso l'interno. Quelli che identifichiamo con i Vichinghi si spinsero fin verso l'Islanda, la Groenlandia e, molto probabilmente, le coste nordamericane. Un altro nucleo, i Vareghi (o Variaghi), si spinse lungo i grandi fiumi russi fino al Mar Nero. Per questa via si stabilì un intenso traffico commerciale tra il Nord Europa e il mondo mediterraneo.
Altre popolazioni del Nord, infine, organizzarono ripetute e devastanti spedizioni contro l'Inghilterra e la Francia del Nord. In Normandia (che deve il suo nome al loro insediamento) finirono con lo stanziarsi in qualità di vassalli del Re di Francia e un duca di Normandia, Guglielmo, detto il Conquistatore, guidò nel 1066 una spedizione contro l'Inghilterra, di cui si impadronì stabilmente, sottomettendo le popolazioni anglosassoni e fondando la moderna monarchia inglese. Infine, nel corso di avventurose migrazioni, gruppi di Normanni giunsero nel Mediterraneo e tra l'XI e il XII secolo si stabilirono nell'Italia meridionale dove, vinti i potentati locali e scacciati gli Arabi dalla Sicilia, fondarono un proprio regno.

LA RUSSIA DI KIEV

A chi la percorre in direzione Nord-Sud la pianura russa presenta una grande varietà di ambienti. All'estremo Nord c'è la tundra, gelata e inospitale, con la sua povera vegetazione di arbusti, licheni e muschi. Alla tundra succede gradualmente la taiga, una foresta di aghifoglie ricca di animali da pelliccia. Poi cominciano i fertili terreni agricoli, ma ancora più a sud, dove il clima diventa più secco, prevalgono le steppe, che in qualche caso assumono carattere desertico. A dispetto di questa varietà di ambienti, la pianura russa conserva una sostanziale unità in virtù dei grandi fiumi, in gran parte navigabili, che la attraversano: Ural, Volga, Don, Dnepr, Bug, Dnestr verso sud, Njemen, Dvina occidentale e settentrionale verso Nord.
Le origini della Russia moderna risalgono alla fusione di due popoli che sfruttando le vie fluviali fecero di questa regione una delle più importanti aree del commercio medievale: gli Slavi e i Variaghi. Con la rottura dell'unità mediterranea dovuta alle invasioni Arabe, nelle comunicazioni tra Europa e Asia e tra Europa meridionale e settentrionale erano stati valorizzati percorsi alternativi. Uno di questi, dal Baltico al Mar Nero e di qui a Bisanzio, passava per la regione dei grandi fiumi russi dove appunto nel VII secolo d.C. si erano insediati gli Slavi (mentre altre popolazioni dello stesso gruppo stavano penetrando nei Balcani e in Polonia). Lungo gli itinerari commerciali che collegavano l'Europa del Nord con il Mediterraneo sorsero centinaia di città, alcune delle quali destinate a raggiungere un alto grado di sviluppo.
La principale minaccia alla floridezza della regione veniva dalla sua instabilità politica. Fu appunto per superare questa situazione che nel IX secolo Novgorod, uno dei più importanti centri cittadini, si diede a un condottiero variago, Rjurik. I Variaghi da tempo si erano affiancati agli Slavi nel commercio tra Baltico e Mar Nero; dal IX secolo furono i protagonisti di una vasta operazione di unificazione e di pacificazione della zona. Da Novgorod Rjurik e i suoi successori mossero verso sud, conquistando prima Smolensk e poi Kiev, che divenne la capitale del nuovo principato, il cui obiettivo fondamentale fu di mantenere sgombra la strada per Bisanzio. Con Bisanzio le relazioni non furono sempre pacifiche, ma i Bizantini restavano i principali clienti dei mercanti russi e i due popoli finirono con l'avvicinarsi anche culturalmente: alla fine del X secolo il principe di Kiev si convertì al cristianesimo introducendo nel Paese un'organizzazione ecclesiastica modellata su quella bizantina e caratterizzata dalla subordinazione del clero all'autorità politica.
Nel XII secolo lo Stato fondato da Rjurik si frazionò in numerosi principati uniti fra di loro da legami sempre più deboli. All'origine della decadenza di Kiev furono i dissidi interni all'aristocrazia, gli attacchi di popoli stranieri, gli intrighi della sempre attivissima diplomazia bizantina. Ma una delle ragioni di fondo che portò al crollo del primo Stato russo fu il declinare dell'importanza commerciale dell'itinerario Mar Baltico-Mar Nero. Le crociate che, come vedremo la Cristianità occidentale aveva lanciato contro i popoli dell'Islam nel tentativo di conquistare i cosiddetti «Luoghi Santi» della Palestina erano servite, se non altro, a contestare la superiorità marittima musulmana nel Mediterraneo e avevano riaperto ai popoli dell'Europa meridionale la strada per il Levante. Genova e Venezia penetravano da dominatrici nel Mar Nero: a scapito delle vie fluviali e terrestri che attraversano la Russia, il commercio internazionale tornava ad utilizzare le antiche rotte marittime.

LA SOCIETĀ FEUDALE

Anche se alla fine Ungari e Normanni furono assorbiti dalla società europea e vi si integrarono positivamente, le conseguenze del disordine, delle violenze e delle distruzioni che avevano seminato per ogni dove in oltre un secolo di scorrerie, furono ravissime. Non soltanto le monarchie carolingie crollarono, mostrando quanto fosse fragile la pretesa «restaurazione» imperiale operata da Carlo Magno, ma qualsiasi potere non puramente locale parve eclissarsi. Era forse inevitabile che fosse così: come la vita economica si stava concentrando nelle piccole comunità semi-isolate e autosufficienti, così il potere politico si disgregava al centro e passava progressivamente nelle mani di chi aveva effettivamente la possibilità di esercitarlo, e cioè di quei feudatari che erano a più diretto contatto con la terra e che controllavano e dirigevano le popolazioni rurali proteggendone l'esistenza.

«Il re non ha più del re che il nome e la corona; non è più capace di difendere dai pericoli che li minacciano né i suoi vescovi né gli altri suoi sudditi. Così vediamo che tanto gli uni quanto gli altri se ne vanno a servire i grandi signori con le mani giunte. E con questo ottengono la pace».

Così si esprimeva, attorno al 1016, un prelato germanico a proposito del regno di Borgogna. A quel tempo, in verità, la società europea stava riorganizzandosi e ritrovando un po' di ordine: l'attività economica dava i primi sicuri segni di risveglio e, dopo secoli di declino, anche la popolazione tornava ad aumentare. L'agricoltura, perno e limite dell'economia dell'alto Medio Evo, conosceva progressi quantitativi e qualitativi di dimensioni mai viste prima. Ma la situazione così efficacemente descritta in quelle poche righe dal nostro prelato, si era ripetuta nei due secoli precedenti con angosciosa monotonia in ogni parte d'Europa.
L'incertezza del domani, la paura dell'isolamento e, non ultima, la fame avevano spinto una quantità di uomini liberi a rifugiarsi, per così dire, nella servitù: e cioè a offrirsi come servi a quei signori che erano in grado di assicurare una qualche protezione ai propri dipendenti e che, nella latitanza dei poteri centrali, si erano assunti il compito di organizzare e dirigere a livello locale la convivenza sociale. Costoro si erano preoccupati soprattutto di difendere la popolazione dagli attacchi esterni costruendo castelli e arruolando uomini d'arme. Ma il bisogno di protezione, che spingeva i contadini a rinunciare alle proprie terre e alla propria libertà per mettersi sotto la protezione dei signori, induceva gli stessi signori a mettersi a servizio di signori più potenti di loro, in una rete di dipendenze personali che finì per abbracciare, dal basso in alto, tutta la società europea. È quella che un grande storico e filosofo napoletano del primo Settecento, Giambattista Vico (1668-1744), chiamava «l'eterna legge dei feudi»: la paura (che, quando manca un potere pubblico capace di assicurare una pacifica convivenza, è la condizione in cui è costretta a vivere la maggioranza) genera servitù.
Ne era risultata una società a struttura piramidale, la cui base era costituita dalla grande massa dei contadini asserviti e al cui vertice stava il sovrano, che poi non era altro che un signore più potente degli altri, e cioè un signore abbastanza potente da non dover riconoscere alcun signore sopra di sé. In mezzo c'era un'aristocrazia variamente stratificata di guerrieri, titolari di feudi e castelli, e di prelati, titolari di feudi e abbazie. In questa società nessuno, salvo il sovrano, era propriamente libero (almeno nel senso che oggi diamo a questa parola) giacché ciascuno si riconosceva vassallo di qualcun altro, e cioè, come si diceva, «uomo di un altro uomo». A qualsiasi livello della gerarchia sociale la richiesta di protezione e l'offerta di servigi era la regola delle relazioni interpersonali e nessuno sfuggiva all'obbligo di servire.
C'erano, naturalmente, delle differenze. Così, ad esempio, tra la condizione del nobile vassallo e quella di un semplice contadino una prima e fondamentale differenza stava nel fatto che l'uno aveva il diritto di scegliersi il signore da servire e poteva avere a sua volta vassalli che lo servivano (valvassori, vassi vassorum = «vassalli di vassalli»), mentre l'altro nasceva servo, non aveva alcuna facoltà di scelta, e non poteva esercitare la sua autorità su alcuno, all'infuori della propria famiglia (della quale per altro poteva far parte qualche schiavo).
Un'altra differenza, non meno importante, riguardava la natura dei servizi prestati, che nel caso del vassallo consistevano nell'espletamento, per conto del signore, di onorevoli e proficue funzioni di carattere militare o amministrativo, mentre nel caso del servo consistevano nella semplice erogazione di lavoro manuale, ossia nell'esercizio di banali, poco redditizie e universalmente disprezzate attività produttive.
Le istituzioni fondamentali di questa società, che chiamiamo «feudale» e il cui avvento ha segnato nella storia europea il momento di massimo oscuramento dell'autorità statale, erano le stesse a cui i sovrani carolingi avevano affidato la sopravvivenza del proprio potere: il vassallaggio e il beneficio (o feudo). La terra era la fonte pressoché esclusiva della ricchezza e del potere e la concessione di terre era in pratica la sola possibile forma di remunerazione dei servigi resi dal vassallo al suo signore. Chi riceveva l'investitura di un feudo si impegnava a servire fedelmente chi gliela aveva concessa sia in pace, sia in guerra. Il feudo era appunto il compenso per questi servigi. In questo sta la particolarità del possesso feudale della terra: il feudatario (ossia il vassallo titolare del beneficio) non era il padrone assoluto (il proprietario) della terra, ma ne aveva soltanto l'usufrutto e, almeno teoricamente, poteva essere privato del beneficio qualora fosse venuto meno agli obblighi contratti con il signore.
La concessione di terre da parte di un sovrano si accompagnava sempre alla trasmissione al vassallo di un certo numero di poteri quali la facoltà di riscuotere imposte, di amministrare la giustizia, di costituire e comandare corpi armati, di battere moneta e così via. L'investitura di un feudo, dunque, non significava soltanto per il titolare l'acquisizione di specifici diritti sulla terra e sulle sue rendite, ma anche l'assunzione di una autorità (spesso mal definita) sulle persone che su quella terra vivevano. Bisogna anzi sottolineare con forza che il feudo non era propriamente un'unità economica, ma politica: era una «giurisdizione», ossia l'ambito territoriale entro il quale il vassallo aveva il diritto di esercitare i poteri che gli erano stati concessi. Dal punto di vista economico l'unità produttiva, ossia l'azienda da cui il titolare del beneficio traeva i suoi redditi, era la villa o curtis.
Una giurisdizione feudale poteva comprendere più villae o curtes e non necessariamente i suoi confini coincidevano con quelli delle villae o curtes concesse in usufrutto.
In teoria i vassalli dovevano rispondere al proprio signore del modo in cui esercitavano questa autorità. In pratica governavano i propri dipendenti senza alcun controllo efficace da parte dei poteri superiori. Fin dall'età carolingia i feudatari regi godevano di due fondamentali «immunità» (latino munera = doveri e in - privativo: «esenzioni da obblighi o servizi»): l'esenzione dal pagamento di determinati tributi e il privilegio di non consentire l'ingresso nel proprio feudo a ufficiali, giudici e ispettori regi. Ciò equivaleva a una delega senza condizioni dei fondamentali poteri dello Stato ai feudatari, i quali sulle proprie terre potevano riscuotere tasse e gabelle e amministrare la giustizia come meglio credevano. Col tempo e con l'indebolirsi del potere monarchico, i grandi feudi concessi dal re, da temporanei, quali erano all'inizio, diventarono vitalizi, e da vitalizi diventarono ereditari. Naturalmente ereditare un feudo significava ereditare anche gli obblighi che gli erano connessi. È evidente però che con l'ereditarietà dei feudi crebbe enormemente l'autonomia di cui i feudatari godevano nei confronti del sovrano e non c'è da stupirsi che a lungo andare al re, come diceva il prelato citato più sopra, non restasse del re che il nome e la corona. Il particolarismo politico, ossia la frammentazione del potere statale in una miriade di poteri locali, è la caratteristica della prima età feudale, dal IX all'XI secolo.
Fu però questo stesso sistema feudale, causa ed effetto a un tempo della disgregazione del potere statale, a evitare che la società europea precipitasse nel caos. Mentre le monarchie non erano più in grado di controllare e difendere efficacemente i territori a loro nominalmente soggetti, all'ombra dei castelli o dei grandi monasteri fortificati continuava la vita civile. La popolazione dei villaggi, per quanto rarefatta e asservita, continuava a produrre ed anzi, imparando un po' da tutti, non esclusi i rozzi guerrieri che infestavano l'Europa (fossero barbari invasori o signori feudali) e adattando alle arti della pace i ritrovati delle tecniche belliche, realizzava continui, poco appariscenti, ma importantissimi progressi nella lavorazione del terreno, nella fabbricazione di strumenti di lavoro (aratri adatti a diversi tipi di terreno, attrezzi in ferro, ecc.), nello sfruttamento dell'energia animale (la staffa per i cavalieri, i ferri per proteggere gli zoccoli dei cavalli, i nuovi sistemi di attacco dei cavalli da tiro, ecc.) e di quella inanimata (mulini ad acqua e a vento), e così via.
Alla fine le società locali si ritrovarono più ricche, la popolazione, dopo secoli di declino, tornò a crescere, i villaggi si moltiplicarono, terre già abbandonate alla foresta o alla palude tornarono ad essere seminate, sorsero nuove città o risorsero le antiche. L'economia «chiusa» (ossia povera di scambi) dell'alto Medio Evo carolingio e feudale veniva a poco a poco sostituita da un'economia «di mercato»: i surplus che l'agricoltura era ormai in grado di produrre in abbondanza grazie al maggior numero di braccia, alle nuove tecniche di coltivazione e alle terre nuovamente messe a coltura, potevano essere commercializzati; gli scambi più intensi imponevano il massiccio ritorno alla moneta come strumento di pagamento respingendo a un ruolo del tutto marginale il sistema del baratto; nei borghi e nelle città sorgevano nuovi centri di traffico, mercati permanenti e fiere periodiche, mentre una più ampia fascia di popolazione poteva dedicarsi specificamente al commercio e all'artigianato.
Da secoli l'Europa era attaccata da tutte le parti, come in un interminabile assedio. Dopo il Mille l'Europa occidentale, feudale e cristiana, si trovò non solo più ricca di quanto non fosse stata nell'ultimo mezzo millennio, ma anche più forte. La guerra era (e sarebbe rimasta nei secoli futuri) una delle principali attività economiche dell'Europa. Alcuni Stati europei potevano mettere in campo eserciti numerosi e agguerriti. Alcune città di mare, specialmente in Italia (Genova, Venezia, Pisa), avevano ritrovato il coraggio, l'utile e il gusto della navigazione, ossia del commercio marittimo e della pirateria (inestricabilmente legati fra di loro). Dall'XI secolo, in coincidenza con la ripresa economica e demografica, cominciò la lunga (e crudele) vicenda dell'espansione europea. Sino al XV secolo essa si sviluppò essenzialmente in tre direzioni. A Est verso le terre degli Slavi: fu la cosiddetta «marcia verso Oriente» (Drang nach Osten in tedesco) organizzata e diretta dai principi, dai feudatari e dai cavalieri tedeschi (in particolare quelli dell'Ordine Teutonico). A Ovest contro gli Stati islamici della penisola iberica: la Reconquista, come la chiamavano gli Spagnuoli cristiani. Nel Levante mediterraneo, infine, contro le potenze musulmane che controllavano la Terra Santa: le crociate, dette così dalla croce che quanti vi partecipavano portavano come contrassegno sul petto.

L'INVESTITURA

Il verbo investire che nel latino classico aveva il significato letterale di «coprire con una veste», nel latino medievale assunse quello traslato di «mettere qualcuno in possesso di qualcosa»: per esempio, mettere il vassallo in possesso del feudo. Il legame tra i due significati sta nel fatto che la cerimonia dell «investitura» consisteva effettivamente in una «vestizione» o, se si preferisce, in un «cambio d'abito», che naturalmente stava a simboleggiare il mutamento di abito morale che era richiesto a chi, con l'investitura, faceva l'ingresso in una nuova condizione di vita che comportava doveri e impegni fuori del comune: era il caso del feudatario o del cavaliere, ma anche del sacerdote, del monaco, ecc. La tonaca del prete o la toga del giudice sono le moderne sopravvivenze dell'antica usanza della vestizione.
Nella cerimonia dell'investitura feudale ogni gesto aveva un significato preciso. All'origine essa era abbastanza semplice, ma col passare del tempo e col perfezionarsi del sistema feudale divenne sempre più ricca di particolari e, conseguentemente, di significati. In un giorno fissato, spesso davanti alla popolazione del territorio su cui l'investito avrebbe esercitato la sua giurisdizione, il vassallo si inginocchiava a capo scoperto di fronte al suo signore che restava seduto a capo coperto. Ponendo le mani in quelle del signore, il vassallo compiva l'atto di omaggio recitando la formula di fedeltà. Il signore, a questo punto, gli porgeva un oggetto, come ad esempio una spada una zolla, un mazzo di spighe, simbolo della trasmissione del potere. Il potere così trasmesso consisteva in una serie di privilegi o «immunità», tra i quali i più importanti (e i più frequenti) erano quelli di riscuotere le tasse, di amministrare la giustizia, di capitanare le milizie e, infine, di essere esentati in parte o in tutto dal pagamento dei tributi. Il vincolo feudale impegnava sia il signore sia il vassallo, costituiva, cioè, un rapporto bilaterale, anche se ineguale. Il vincolo che si istituiva con la cerimonia dell'investitura feudale, era anche più forte del vincolo di sangue (poteva accadere che due fratelli combattessero l'uno contro l'altro per lealtà verso i rispettivi signori in guerra fra loro) ed era destinato a durare fino alla morte o fino a che uno dei due avesse mancato ai patti («fellone» è il termine, di origine sconosciuta, con cui, a partire dal X secolo, veniva indicato chi veniva meno agli obblighi vassallatici).

FEUDO, FIO, GIURISDIZIONE, ALLODIO

La parola feudum compare nel IX secolo ed è la versione latina del franco fëhod che vuol dire, alla lettera, proprietà (od) di bestiame (fëh a cui è legato anche il tedesco moderno Vieh). Come dal latino pecus = bestiame è venuto pecunia = ricchezza in forma di bestiame e quindi, per estensione, ricchezza in beni mobili e infine «danaro», che è il bene mobile per eccellenza, così da fëh è venuto feudum, ma nel senso di compenso pagato per un servizio. Poiché in età altomedievale il denaro era scarsissimo e la ricchezza si esprimeva essenzialmente in possedimenti terrieri, il termine «feudo» ha finito per indicare soprattutto, con una sorta di inversione di significato, la terra (bene immobile per eccellenza, l'esatto opposto del bestiame) concessa dal signore al vassallo come compenso dei suoi servizi.
«Feudo» si diceva in francese medievale feu, fiet, fieu (in francese moderno: fief) da cui è venuto l'italiano «fio» che da feudo è passato a indicare l'obbligo feudale e in generale ogni forma di tributo o balzello. Oggi si adopera ancora, ma solo nella locuzione «pagare il fio» (il balzello) con il significato specifico di subire il castigo meritato.
Il feudo era una giurisdizione di governo e si esprimeva essenzialmente nell'esercizio della funzione giudiziaria. «Giurisdizione» significa, alla lettera, espressione o manifestazione (latino dictio, derivato di dicere = dire) del diritto (iutis): è dunque innanzi tutto l'autorità del giudice di amministrare la giustizia e di pronunciare sentenze; più in generale è l'autorità di esercitare un potere legittimo. La parola può indicare anche l'ambito territoriale o di competenza entro il quale si esercita tale autorità.
Il feudo era un possesso condizionato. Il sovrano, infatti, o comunque il signore che concedeva il feudo a un vassallo, pretendeva da questo fedeltà e una serie di servizi. In molti casi, poi, il feudo era revocabile. Infine, sui beni feudali potevano continuare ad esistere altri diritti di uso o di possesso (per esempio quelli dei contadini a cui erano affidati i diversi poderi). Ai beni feudali si contrappongono i beni «allodiali», ossia i beni di assoluta e incondizionata proprietà, sui quali cioè non gravavano vincoli feudali. I due modi di possesso, feudale e allodiale, sono esistiti l'uno accanto all'altro per tutta l'età feudale, anche se spesso tendevano a confondersi (il feudatario aveva interesse a considerare come allodiali ossia di piena proprietà, i beni che possedeva per concessione feudale e che comportavano determinati obblighi di servizio). Il termine allodio viene dal franco alod che significa alla lettera «piena proprietà».

LA CAVALLERIA

Nella lingua italiana le parole «cavaliere» e «cavalleria» hanno significati diversi. È cavaliere chi combatte a cavallo o, semplicemente, chi pratica l'equitazione; è cavaliere chi si attiene nella vita di società (e in particolare nei rapporti con il «gentil sesso») ad un determinato codice di «cortesia»; è cavaliere chi per meriti veri o presunti, viene insignito di tale onorificenza. Allo stesso modo, il termine «cavalleria» può indicare l'arma di un esercito, oppure una classe sociale, o, ancora, una particolare forma di comportamento. In pratica, i valori di questi termini possono ricondursi a due: l'uno a carattere strettamente tecnico-militare, l'altro a carattere politico-sociale. In francese, a differenza dell'italiano, la distinzione è resa esplicita dall'esistenza di termini diversi: cavalerie e cavalier nel primo significato, chévalerie e chévalier nel secondo. Lo stesso accade nel tedesco (reiterei e reiter nel primo, ritterschaft e ritter nel secondo) e nell'inglese (cavalry e horseman, chivalry e knight).
Le ragioni di questa duplicità di significati sono di natura storica e risalgono alle origini e alle vicende della cavalleria. Ovunque si è manifestata, e per esempio nella Grecia e in Roma antiche, la cavalleria ha teso a trasformarsi da semplice arma dell'esercito a ordine sociale, da distinzione di censo (la classe di quanti erano abbastanza ricchi da prestare il servizio militare a cavallo) a casta aristocratica. È evidente che i gruppi che erano protagonisti di questa trasformazione rivendicavano una superiorità sulla gente comune, si appellavano a un diverso e più nobile sistema di valori (un particolare concetto d'onore, ad esempio), e insomma seguivano un diverso codice di vita (il codice cavalleresco, appunto).
Fra la cavalleria del mondo antico e quella dell'età medievale ci sono molte analogie, ma nessuna diretta filiazione. Nell'uno come nell'altro caso, si è trattato di un'istituzione inizialmente a carattere militare che è finita per costituirsi in gruppo politico e sociale, e in entrambi i casi essa reclutava i propri membri nelle classi sociali elevate. Ma, operando in situazioni profondamente diverse, la cavalleria antica e quella medievale non potevano non avere finalità e caratteri affatto distinti.
Le origini vere e proprie della cavalleria medievale si possono collocare nell'VIII secolo, al tempo cioè della reazione antiaraba della Cristianità occidentale, quando, per fronteggiare i temibili cavalieri musulmani anche gli eserciti cristiani dovettero dotarsi di una forte compagine di cavalleria. Se in quei frangenti nacque, o rinacque la cavalleria come istituzione militare, la sua affermazione come istituzione politico-sociale venne solo col pieno sviluppo delle strutture feudali. Fu al tempo del feudalesimo che l'obbligo di servire a cavallo divenne segno distintivo di un determinato rango sociale.
Il punto di partenza di questa evoluzione si può fissare al momento in cui i grandi feudi concessi dai sovrani, che, come sappiamo, erano inizialmente temporanei o vitalizi, divennero ereditari. Si sviluppò allora un'importante differenza fra i Paesi d'Oltralpe e l'Italia, ovvero tra regioni a «feudo franco» e regioni a «feudo longobardo».
Mentre il feudo longobardo era divisibile tra i figli, quello franco non lo era e passava per intero al primogenito. Così, nelle aree a feudo franco, dove solo il primogenito aveva diritto all'eredità, si formò una classe sempre più numerosa di «cadetti», i figli esclusi dall'eredità. Costoro, non essendo titolari di benefici, non erano neppure tenuti a giurare fedeltà a un signore, e, pur appartenendo all'aristocrazia feudale, di cui condividevano valori e abitudini di vita, erano estranei alle due fondamentali istituzioni del feudalesimo: il beneficio, appunto, e il vassallaggio.
Per questa loro ambigua collocazione, i cadetti costituirono in molti Paesi la principale base di reclutamento della Cavalleria, un'istituzione la cui principale funzione sociale fu quella di riassorbire nell'ordine feudale gruppi tendenzialmente estranei ad esso e perciò pericolosamente fuori controllo. In effetti, almeno in principio, l'azione di questi cadetti ebbe caratteri tutt'altro che «cavallereschi» e presentò piuttosto aspetti di violenza e di sopraffazione; ne sono testimonianze anche le prime Chansons de geste, i cui protagonisti, insofferenti ad ogni freno politico e morale, si macchiano spesso di inaudite atrocità. Era il momento in cui i cadetti, emarginati dalla gerarchia feudale e non ancora disciplinati in un ordine istituzionale, ricercavano una propria fisionomia nell'avventura e nel gesto clamoroso: una turbolenza che era possibile grazie anche alle coperture di cui godevano i cadetti, che erano pur sempre membri della classe dominante.
Diversa era la situazione in Italia, dove, non essendovi la regola della primogenitura, non esisteva neppure una classe di cadetti. La divisibilità dei feudi, però, favoriva la frantumazione della proprietà e l'impoverimento di una parte della nobiltà. Il ruolo che Oltralpe fu esercitato dai cadetti, in Italia fu svolto dalla cosiddetta «piccola nobiltà», cioè dall'insieme di quei vassalli minori che, pur integrati nel sistema feudale, si distinguevano nettamente dall'alta nobiltà titolata (quella dei marchesi, dei conti, dei grandi feudatari imperiali) che godeva di prerogative assai più estese e di molto maggiore prestigio. La lotta fra piccola e grande nobiltà è un dato storico di grande rilievo: la stessa nascita dei comuni italiani, come vedremo, va collegata, almeno in parte, all'azione della bassa nobiltà.
La classe dei cadetti e la piccola nobiltà operavano l'una dall'esterno e l'altra dall'interno delle strutture feudali e per un certo tratto ebbero finalità e caratteri divergenti. Alla fine però si trovarono in una mentalità, in una tradizione, in un complesso di regole e di aspirazioni comuni: quelli della Cavalleria. Il processo non fu né rapido né pacifico: fra l'acquisizione di una certa coscienza di classe da parte dei cadetti e dei nobili minori, e il loro confluire nella Cavalleria propriamente detta, corse diverso tempo (all'incirca due secoli, dal IX all'XI secolo).
Se la Cavalleria diventò una delle componenti essenziali del feudalesimo, non si identificò mai del tutto con esso. In rapporto al feudalesimo, la Cavalleria presentava non pochi elementi di distinzione: era un'istituzione in teoria aperta a tutti (mentre il feudalesimo si fondava su una rigida chiusura gerarchica); era dotata di proprie norme (il codice cavalleresco); era svincolata dal sistema della dipendenza personale su cui si reggeva ogni organismo politico feudale (il cavaliere non era tenuto ad alcun giuramento di fedeltà); era aperta, come vedremo, agli influssi dei princìpi cristiani e pronta a porsi al servizio della Chiesa (mentre il cardine giuridico del feudalesimo era la persona dell'imperatore); era destinata, infine, a sopravvivere anche dopo l'età feudale propriamente detta.

LA CAVALLERIA, LA CORTE E LA CHIESA

Un ruolo decisivo nella nascita della Cavalleria va riconosciuto alla Chiesa romana, sempre pronta ad appropriarsi degli spazi sociali «neutri» per indirizzarli, con la forza del suo messaggio, ai fini suoi propri. L'opera della Chiesa fu diretta innanzi tutto a contenere la violenza delle prime generazioni di cadetti: attraverso l'ideologia cristiana si crearono le basi dell'etica cavalleresca. Il Cristianesimo fu di fatto l'elemento di coesione del multiforme mondo dei cavalieri medievali. Esso rappresentò anche (insieme alla componente feudale) la nota distintiva della Cavalleria medievale nei confronti della Cavalleria antica.
Il cavaliere medievale era sì un nobile, un miles (ossia, in latino, un soldato), un paladino, ma al tempo stesso era il combattente per la fede, il protettore delle vedove e degli orfani, il difensore dei deboli, l'eroe delle «giuste cause». Egli doveva sottostare ad una rigida educazione che, per quanto fondamentalmente militare, laica e mondana, lo preparava alla difesa della religione. Certo, l'educazione cavalleresca è stata, fino al diffondersi delle università e delle prime scuole comunali e private, l'unica forma di educazione propriamente «laica» del Medio Evo: laica, però, solo perché gestita da un settore laico della società (l'ambiente militare-nobiliare); non completamente laica, tuttavia, per i suoi contenuti, che erano intrisi di ideali religiosi.
Il luogo di questa educazione era essenzialmente il castello. Fino all'età di 7 anni circa il futuro cavaliere restava in famiglia, dove imparava molto presto a cavalcare e passava il suo tempo fra giochi di abilità ed esercizi fisici; quindi veniva mandato a corte, dove aveva luogo la sua vera e propria formazione. Fra i 7 e i 14 anni aveva la qualifica di «paggio», dai 14 ai 21 quella di «scudiere»: in tutto questo periodo pagava (per così dire) la propria educazione ed il proprio mantenimento a corte servendo il signore che lo ospitava, seguendolo ovunque, provvedendo a tutte le sue necessità. A 21 anni infine (ma talora anche prima) era consacrato «cavaliere», pronto a dedicare «la sua anima a Dio, la sua vita al Re, il suo cuore alla Dama, il suo onore a se stesso». Questa era la sua etichetta morale, anche se la storia ce lo mostra di solito in termini assai meno lusinghieri.
Il cavaliere doveva essere preparato all'uso delle armi, all'esercizio del coraggio, allo sprezzo della morte. Ma doveva essere educato anche al rispetto del codice di «cortesia», e doveva prendere dimestichezza con la letteratura, la musica, la poesia. Sue caratteristiche erano, appunto, la «cortesia» e l'«onore», il culto della donna e dell'avventura, ma anche l'obbedienza alla morale cristiana e ai richiami di Roma: il cavaliere doveva all'occorrenza farsi crociato, era anzi il crociato per eccellenza.
L'azione di assorbimento che la Chiesa pose in atto nei riguardi della Cavalleria, si può dire conclusa nel secolo XI. Proprio alla fine dell'XI secolo si realizzò la prima crociata: una grande rassegna della Cavalleria occidentale al servizio della fede e la prima verifica operativa del binomio Chiesa-Cavalleria. Uno dei più grandi santi di quest'epoca, Bernardo da Chiaravalle (1090-1153), monaco cistercense e dottore della Chiesa, scrisse su questo tema un trattato, De laude novae militiae, dedicato all'ordine dei Templari, dove l'ideale della guerra santa era contrapposto esplicitamente alla concezione che interpretava la professione cavalleresca come professione essenzialmente mondana:

I soldati di Cristo - scriveva tra l'altro San Bernardo - combattono sicuri le guerre del loro Signore e non temono né il peccato se uccidono il nemico, né il pericolo se muoiono essi stessi, giacché la morte vien data e ricevuta in nome di Cristo e non v'è in ciò delitto, ma anzi merito di grandissima gloria.

Le crociate, però, dopo un breve successo iniziale, fallirono i loro obiettivi religiosi. Riuscirono perfettamente, invece, sul terreno politico ed economico. Il fatto è che, per quanto permeata dall'ideologia cristiana, la Cavalleria non si riduceva a questa, così come non si riduceva ad una semplice componente del mondo feudale. Come molte istituzioni del Medio Evo, anch'essa presentava una congenita ambiguità: era una delle tante proposte di conciliazione fra cielo e terra, fra Stato e chiesa.
Feudalesimo e Chiesa, poli essenziali della Cavalleria, a lungo andare furono anche le ragioni della sua decadenza. Il venir meno dell'idea di crociata segnò il declino della componente religiosa della Cavalleria, mentre la progressiva evoluzione della Cavalleria nel senso di una casta nobiliare chiusa finì per toglierle autonomia rispetto all'aristocrazia feudale. Nel secolo XII ci fu un momento di rifioritura della Cavalleria che per un verso contribuiva alla nascita del comune e per un altro sembrava voler salvaguardare i suoi attributi più autentici vietando l'ereditarietà del titolo di cavaliere. Ma già nel Duecento iniziò un lungo processo di riflusso. Mentre in origine era aperta a tutti, la Cavalleria diventò accessibile soltanto ai nobili e finì per riaccostarsi e confondersi con l'elemento signorile-feudale, di cui divenne una sorta di controfigura.

ELOGIO DELLA GUERRA

Uno dei più significativi rappresentanti del mondo feudale e cavalleresco fu il trovatore provenzale Bertran de Born (1140 ca. - 1215 ca.) signore del castello di Hautefort nel vescovato di Périgord, in Aquitania. Dante lo ricorda nel Convivio per la sua liberalità (ossia per la larghezza con cui scialacquava quel tanto o quel poco che gli capitava di avere), nel De Vulgari Eloquentia quale «cantore di armi» e nell'Inferno (XXVIII, vv. 124 sgg.) quale fomentatore di discordie. In quest'ultimo caso Dante si riferiva alla parte avuta da Bertran de Born nella ribellione di Enrico Corto Mantello e Riccardo Cuor di Leone, figli del Re d'Inghilterra, Enrico II Plantageneto, contro il loro padre. Ma Bertran era continuamente coinvolto in guerre private e contese feudali e non perché fosse un tipo litigioso, ma perché considerava la litigiosità un valore di vita, il modo d'essere proprio della nobiltà feudale. Gran parte della produzione poetica di Bertran de Born è dedicata all'esaltazione della guerra e del saccheggio, attività belle e buone in sé, indipendentemente dalle loro motivazioni:

Molto mi piace la lieta stagione di primavera
che fa spuntar foglie e fiori
[...]
E mi piace quando gli scorridori
mettono in fuga le genti con ogni lor roba
[...]
E vedo i morti che attraverso il petto
han tronconi di lancia con i pennoncelli.
Baroni date a pegno
castelli borgate e città
piuttosto che cessare di guerreggiarvi l'un l'altro.

Ma l'aristocrazia feudale amava Dio quasi quanto la guerra e anche in questo Bertran de Born era un perfetto esemplare della sua classe: a un certo punto si fece monaco entrando nell'ordine riformato dei Cistercensi (lo stesso di San Bernardo di Chiaravalle), e concluse piamente nell'abbazia di Dalon un'esistenza omicida

IL MASSACRO DEGLI INFEDELI

Gli Arabi nella loro espansione avevano conquistato numerosi territori abitati da popolazioni cristiane, in Asia Minore, lungo la costa africana e anche in Europa (Spagna, Sicilia), ma la loro politica nei confronti di quanti non si convertivano all'Islam fu sempre relativamente tollerante e non vi furono mai consistenti episodi di ribellione da parte delle popolazioni cristiane. Per questo verso la situazione non cambiò sensibilmente quando alla guida del mondo islamico i Turchi si sostituirono agli Arabi.
Furono forze esterne, il Papato, la feudalità europea, i comuni e le repubbliche marinare d'Italia che, perseguendo i propri particolari interessi politici ed economici, alimentarono la convinzione che fosse necessario e doveroso «liberare» i cristiani caduti sotto il dominio islamico. Ma naturalmente fu soprattutto la Chiesa di Roma, che aspirava a consolidare la propria autorità nell'Europa occidentale e a estenderla in nuove regioni, che propagandò con tutti i mezzi a sua disposizione l'idea della crociata, una sorta di pellegrinaggio armato, nel quale la più eccitante opera di misericordia era lo sterminio degli infedeli e, naturalmente, il saccheggio dei loro beni.
Il papa Urbano II al concilio di Clermont Ferrand (1095), invitando gli Europei alla crociata non mancò di sottolineare che l'impresa poteva rivelarsi un buon affare:

... Incamminatevi verso il Santo Sepolcro, strappate quella terra a quella gente nefanda fatela vostra! Quella terra fu destinata da Dio ai figli d'Israele; vi scorrono, come dice la Scrittura, fiumi di latte e miele [...], è feconda sovra ogni altra, quasi un secondo paradiso di delizia...

I primi a partire verso Gerusalemme, spinti dalla predicazione di un monaco, Pietro l'Eremita, e sotto la guida di Gualtiero Senza Averi (un epiteto assai indicativo), furono schiere di poveracci e contadini, che giunti in gran disordine in Asia Minore, dopo aver compiuto lungo la strada ogni sorta di violenze, furono a loro volta facilmente fatti a pezzi dai musulmani. I superstiti si unirono all'esercito di Goffredo di Buglione, capo di quella che viene considerata la prima crociata vera e propria. Questa impresa, che vide una partecipazione massiccia della feudalità francese, renana e dell'Italia meridionale era molto meglio preparata della sgangherata spedizione di Pietro l'Eremita. Ma già all'inizio, vale a dire all'arrivo delle truppe crociate a Costantinopoli. si rivelò il contrasto di fondo (destinato a riemergere nel corso delle successive spedizioni) tra gli obiettivi dei crociati e quelli dell'imperatore bizantino, che pure aveva in una certa misura sollecitato e appoggiato l'iniziativa. L'imperatore bizantino sperava di trovare nei cristiani occidentali un qualche aiuto contro l'avanzata turca e per la riconquista dei territori perduti. I crociati, invece, piccoli e grandi feudatari o semplici cavalieri, erano partiti dall'Europa con la speranza di arricchirsi e di ottenere per sovrammercato la salvezza dell'anima. Non avevano dunque alcuna intenzione di conquistare terre per conto d'altri. La presa di Gerusalemme, avvenuta il 15 luglio 1099, si risolse, come sempre o quasi sempre in questi casi, in un macello. Nei territori conquistati i crociati fondarono diversi regni a carattere nettamente feudale: in essi le città mercantili e marinare d'Italia, Genova, Pisa, Venezia, senza le cui navi le spedizioni crociate non avrebbero mai potuto realizzarsi, ebbero in concessione scali e fondachi e ottennero importanti privilegi commerciali, tanto che si dice comunemente che furono loro le vere beneficiarie della santa furia crociata. Quanto ai nuovi regni fondati in Terrasanta, dovettero presto sostenere il contrattacco dei Turchi. Una seconda crociata fu predicata in loro aiuto da San Bernardo, ma ebbe scarso successo. Salah-ed-Din, meglio noto da noi come il Saladino, dopo essersi costruito un impero in Egitto e Mesopotamia, riconquistò Gerusalemme all'Islam nel 1187 e resistette ad una nuova crociata, la terza, che gli fu lanciata contro dall'Europa cristiana e a cui vollero prendere parte in una gran parata i re d'Inghilterra e di Francia e l'imperatore di Germania.
Il termine «crociata» oltre che per le spedizioni in Terra Santa è stato usato anche per le guerre che i regni cristiani di Spagna conducevano contro gli Arabi (la Reconquista) e per le campagne di sterminio contro gli eretici all'interno dell'Europa, come quella contro gli Albigesi del 1208-1213. Tra le crociate vere e proprie la quarta testimonia come (pur restando ben vivo in Europa il fanatismo religioso e l'ideale della crociata come pellegrinaggio armato e movimento di «liberazione») nell'organizzazione concreta di queste imprese risultassero ormai determinanti altri fattori: gli interessi economici dei mercanti italiani e il gusto della guerra e della conquista di cavalieri e nobili feudatari. Completamente controllata dai Veneziani, la quarta crociata non finse neppure di volgersi contro gli infedeli, ma si rovesciò a tradimento su Costantinopoli, dove il vecchio Impero Bizantino venne abbattuto e sostituito con un Impero Latino d'Oriente che era di fatto nelle mani della Repubblica di Venezia (e, in parte, di quella di Genova).
Partenza di Goffredo di Buglione per la prima Crociata


GLI ARABI E L'ISLAM

Intorno al Mille le potenze musulmane estendevano il proprio dominio dalla Spagna all'India, dal Marocco all'Asia Centrale. L'area d'influenza della religione islamica e del commercio arabo era ancora più vasta. Il Mar Caspio, il Golfo Persico, il Mar Rosso, l'Oceano Indiano erano mari arabi. Sin dal IX secolo i marinai arabi si erano spinti a Canton, nella Cina meridionale. Ancor prima era iniziata la penetrazione araba nell'Africa nera a partire dalle città mercantili della costa orientale. Nello stesso tempo la fede islamica si era diffusa nel Sudan seguendo il cammino delle carovane che attraversavano il Sahara. L'Europa stessa derivò dalla cultura araba buona parte del suo patrimonio tecnico e quasi tutto il suo patrimonio scientifico: trigonometria, algebra, geografia, astronomia, ottica, alchimia, medicina furono per lungo tempo discipline prevalentemente o esclusivamente arabe. Per merito della civiltà islamica l'unità puramente geografica del Vecchio Continente era diventata, entro certi limiti, un'unità anche culturale.
Fino all'XI secolo la potenza militare e la fecondità culturale erano cresciute insieme. Da quel momento, però, lo sviluppo della civiltà araba parve arrestarsi. Nella loro espansione gli Arabi erano venuti in contatto, e spesso in conflitto, con popoli diversi: i Berberi del Nord Africa, i Neri del Sudan e soprattutto i Turchi, che provenivano dalle steppe e dai deserti dell'Asia Centrale. Convertiti alla religione musulmana questi popoli erano entrati a far parte del mondo islamico, ma avevano posto fine al predominio arabo.
Sarebbe toccato ai Turchi riprendere l'espansione dell'Islam. Originari del Khorasan e della Corasmia, i Turchi Selgiuchidi (o Selgiucidi, da Selgiuq, il capo che per primo si convertì alla religione musulmana) erano penetrati nell'Iran attorno al 1040. Nel 1055 erano giunti a Bagdad e il loro condottiero, Toghrul, aveva ricevuto dal califfo il titolo di Sultano e di Re dell'Est e dell'Ovest. I primi successori di Toghrul, approfittando dei contrasti esistenti tra i principi locali, riuscirono ad annettere in breve tempo tutta l'Asia musulmana, ad eccezione dell'estrema Arabia, e a ridurre quasi interamente sotto il loro controllo la metà orientale dell'Impero Islamico. Continuarono poi gli attacchi e le rapide razzie contro i territori dell'Impero d'Oriente, fino al 1071, quando l'esercito bizantino fu clamorosamente sconfitto.
In pochi anni quasi tutta l'Asia Minore fu occupata e conquistata. Nei secoli seguenti l'espansione turca continuò sotto le dinastie dei Quaramanidi a Sud e degli Ottomani a Nord-Ovest.
Tuttavia proprio nel settore mediterraneo l'Islam dovette subire tra l'XI e il XIII secolo il contrattacco della cristianità europea: il dominio arabo del mare cominciò ad essere seriamente contrastato dai marinai di Amalfi, di Pisa, di Genova, di Venezia, che fino a quel momento avevano osato a mala pena mettere le loro navi in mare; in Spagna continuava, tra successi e sconfitte, la Reconquista cristiana; la Sicilia, che era il cuore della potenza musulmana nel Mediterraneo, dovette essere abbandonata ai Normanni; infine le crociate portarono la guerra sulla stessa sponda asiatica del Mediterraneo e consentirono alle Repubbliche marinare d'Italia di assumere il controllo del mare. Le conquiste territoriali dei crociati in Terra Santa non furono durature, ma il dominio del mare restò saldamente nelle mani degli Europei.
Non è un caso, forse, che proprio in questo periodo anche la cultura islamica sia entrata in crisi. Per diversi secoli quella islamica continuò ad essere una civiltà splendida, ma dopo aver rimesso in circolazione la grande eredità culturale della Grecia antica, parve incapace di creare qualcosa di nuovo: filosofi e scienziati si limitavano a ripetere e a commentare l'opera dei loro predecessori. Qualche secolo più tardi quando l'Europa, liberatasi almeno in parte dalle pastoie del fanatismo religioso, sarebbe stata in grado di dotarsi di una tecnica evoluta e di una scienza capace di costanti progressi, questa incapacità del mondo islamico a mettersi in discussione e a rinnovare il proprio bagaglio culturale, si sarebbe rivelata un grave, e forse decisivo, fattore di inferiorità.

CITTĀ E MONDO FEUDALE

Uno delle componenti più importanti della rinascita europea a partire dall'XI secolo fu il rifiorire della vita cittadina e la nascita degli ordinamenti comunali. I comuni erano nuove forme di potere locale, prevalentemente ma non esclusivamente urbane (c'erano anche, infatti, comuni rurali), fondate sui principi dell'associazione e dell'autogoverno: rispetto all'autorità monarchica (regia o imperiale) e a quella dei grandi feudatari che ne erano i rappresentanti nelle province, i comuni si ritagliarono ampi spazi di autonomia, facendo leva proprio sui contrasti che opponevano i sovrani ai loro indisciplinati vassalli, desiderosi i primi di riprendersi i poteri concessi e gli altri di sottrarsi, per quanto possibile, agli obblighi della dipendenza.
La rinascita delle città fu un processo graduale, che non modificò all'improvviso le condizioni di vita della gente; i cambiamenti, però, furono significativi e nettamente percepibili nell'arco di qualche generazione. La quasi totalità della popolazione europea continuava a vivere nelle campagne e quasi tutta la ricchezza disponibile continuò a essere prodotta dai contadini, ma artigiani e mercanti presero a specializzare e a estendere l'area delle proprie attività, a concentrarsi nelle città, a condizionare dalle città, attraverso il controllo dei mercati, i modi di vita e di lavoro delle popolazioni rurali. Lo sviluppo delle attività manifatturiere e commerciali si risolveva in un vantaggio per tutti, a cominciare dai signori feudali che erano i tradizionali padroni delle campagne europee. Esso però richiedeva l'esistenza di due condizioni, che il sistema feudale sembrava incapace di assicurare: una certa libertà di iniziativa e di movimento e una almeno relativa pace. Questo bisogno di libertà e di pace fu tra i moventi principali della nascita dei comuni.
Per quanto riguarda la libertà, il sistema feudale ne era la più aperta negazione. Per poter operare, dunque, mercanti e artigiani dovettero ottenere una serie di privilegi, che li sottraevano alla comune condizione di dipendenza; in questo modo le città che ne ospitavano le attività, vennero a costituire delle isole di libertà in un oceano di servitù. Talvolta erano gli stessi sovrani o i grandi feudatari o i signori ecclesiastici (vescovi e abati) che offrivano questi privilegi e si facevano promotori della fondazione di nuovi insediamenti urbani ripromettendosi grossi vantaggi economici e politici dall'esistenza nelle proprie giurisdizioni di mercati e di centri di attività manifatturiere. Altre volte, invece, gli abitanti delle città e dei borghi (artigiani e mercanti, ma anche piccoli nobili inurbati e, nelle sedi episcopali, ecclesiastici e laici dipendenti dal vescovo) dovettero conquistare e poi difendere con le armi le proprie libertà.
Quanto alla pace, il sistema feudale era riuscito a organizzare un'efficiente difesa dell'Europa dagli attacchi esterni, ma non era mai riuscito a eliminare il disordine interno. La classe feudale era una casta militare e la guerra era la sua ragione di vita. I feudatari grandi e piccoli erano perennemente in lotta fra di loro e con i propri signori. I nobili impoveriti, poi, che avevano poche terre e pochi contadini alle loro dipendenze (o che non ne avevano affatto, avendo finito per perdere le une e gli altri nel dispendioso gioco della guerra), se non trovavano da impiegare in qualche modo le proprie capacità militari (al servizio di qualche gran signore, oppure, inurbandosi, al servizio dei nascenti comuni) non esitavano a trasformarsi in predoni da strada e a procurarsi le risorse di cui avevano bisogno assaltando e taglieggiando mercanti di passaggio e contadini.
Al disordine feudale si tentò, soprattutto da parte della Chiesa, di trovare qualche rimedio o imponendo in certe zone e in certi periodi dell'anno tregue obbligatorie per tutti (le cosiddette «paci di Dio») o, come nel caso della Cavalleria, sottoponendo l'esercizio delle armi a regole precise. Anche le crociate, ossia le spedizioni militari bandite e organizzate dal papa per la liberazione dei Luoghi Santi erano un modo per scaricare fuori d'Europa la violenza e l'ardore guerresco della classe feudale. In un'età in cui non era infrequente che i nobili guerrieri che dominavano l'Europa temessero più una maledizione che un colpo di spada e tenessero più alla promessa della salvezza nell'altro mondo che alla concessione di un feudo in questo, la Chiesa poteva fare molto per mettere un po' d'ordine, e nel complesso fece quel che poteva.
Ma furono soprattutto i nuovi ceti urbani (quelli che, con un termine un po' ambiguo possiamo già chiamare la «borghesia») che si assunsero il compito più gravoso nella repressione del disordine, organizzandosi in libere associazioni, da cui in molti casi sarebbero poi nati i comuni. Compito principalissimo di queste associazioni era appunto la sorveglianza sulla tranquillità delle campagne circostanti (il contado) e sulla sicurezza delle strade. Con le buone o con le cattive molti nobili furono indotti a lasciare i loro castelli e a stabilirsi entro le mura urbane; sottomettendosi alle magistrature cittadine erano accolti a pieno titolo nel ceto dirigente del comune. Tra la borghesia cittadina e l'aristocrazia feudale, c'era (si potrebbe dire) un naturale antagonismo. Non bisogna però immaginare questo antagonismo come un'ostilità generale e insanabile. Il fatto che molte città fossero sorte proprio per iniziativa e con la protezione dei signori feudali e che molti nobili non esitassero a mescolarsi ai borghesi nel governo del comune sta a indicare che molto spesso gli interessi degli uni e degli altri coincidevano.
In effetti, borghesia e aristocrazia non potevano fare a meno l'una dell'altra. Feudatari grandi e piccoli erano i migliori clienti dell'artigianato cittadino ed era con loro che i mercanti combinavano i migliori affari. Solo i signori feudali, del resto, che erano padroni delle campagne, disponevano di quelle eccedenze agricole che erano necessarie ad alimentare il consumo delle città. Certo, i signori feudali, tutti presi dalle loro occupazioni guerresche e sensibili solo ai valori cavallereschi e cortigiani del coraggio, dell'onore, della fedeltà al capo, ostentavano disprezzo per i borghesi (da cui si sentivano derubati e che volentieri derubavano, quando gli capitava) e specialmente per la loro dannata fame d'oro.
Ma per trasformare in denaro sonante le ricchezze che riuscivano a spremere con la forza dai propri contadini, questi orgogliosi aristocratici erano costretti a ricorrere proprio ai servizi degli spregiati borghesi.
Era a loro che dovevano vendere i prodotti della terra; era da loro che dovevano acquistare i costosi manufatti (armi e strumenti in metallo, suppellettili di lusso, tessuti, ecc.) indispensabili alla vita di corte e alla guerra; ed era bussando alla loro porta che, all'occorrenza, potevano sperare di trovare prontamente in prestito quei quattrini di cui avevano grandissimo e crescente bisogno.
Così, almeno finché il sistema feudale riuscì a garantire la graduale espansione della produzione agricola, sulla quale si fondava in ultima analisi la prosperità di tutti, i ceti borghesi non ebbero difficoltà ad integrarvisi. Anche l'istituzione comunale, ossia l'organizzazione politica delle città, si inserì senza eccessivi problemi nelle strutture dello Stato feudale: essa semplicemente si affiancò alle vecchie signorie feudali, delle quali rivendicò tutte le prerogative e tutte le immunità, come la facoltà di amministrare la giustizia, di imporre e riscuotere tasse, di organizzare eserciti, di coniare monete.

CASTELLO, BORGO, CONTADO

Il castello medievale è un edificio-fortezza, cinto di mura e solitamente costruito su un'altura, dotato di una o più torri, che serviva per dimora dei signori e intorno al quale, per ovvie ragioni di difesa, tendeva a raccogliersi la popolazione rurale. La parola «castello» è un diminutivo del latino castrum che vuol dire fortezza, spazio chiuso e fortificato e che nel Medio Evo ha finito per indicare un abitato difeso da mura centro di una giurisdizione territoriale, distinto però dalla città vera e propria: ancora oggi la parola vive in numerosi toponimi (Castrovillari, Montalto di Castro, ecc.).
«Città» viene dal latino civitas, che indica l'insieme degli abitanti di una città, ossia la collettività dei cittadini, diversamente da urbs, che vuol dire sempre città, ma intesa come semplice agglomerato fisico di edifici e di mura. Civitas, insomma, era l'equivalente del greco polis, la città-stato, la città in quanto organizzazione giuridica e politica dei cittadini.
Anche «borgo» vuol dire città, ma in un significato alquanto diverso. La parola viene dal latino medievale burgus, corrispondente al germanico burgs, che voleva dire originariamente fortificazione, castello, luogo cinto da mura, più o meno come il latino castrum. Nel Medio Evo, quando qualsiasi grosso insediamento era protetto da mura, il termine divenne sinonimo di città. «Borghese» (latino medievale: burgensis; francese: bourgeois) è, dunque, nell'accezione più elementare (torneremo più avanti sugli altri significati della parola), l'abitante del borgo, ossia il cittadino, in contrapposizione al «villano» (l'abitante delle villae o villaggi che erano le unità produttive e abitative delle campagne), al «rustico» (l'abitante della campagna, dal latino rus = campagna), o al «contadino» (l'abitante del contado).
«Contado» indica genericamente la campagna che circonda una città; in senso più specifico indica il territorio su cui si esercitava il dominio di un comune medievale. Il termine viene dal provenzale comtat, che a sua volta deriva dal latino medievale comitatus, che significava «territorio dipendente da un conte». Il conte (in latino: comes) nel tardo Impero Romano era il funzionario che nelle diverse città rappresentava il potere centrale; nell'Impero Franco era invece, come sappiamo, il governatore di una provincia.

I COMUNI ITALIANI

L'esperienza comunale non ebbe le stesse caratteristiche in tutti i Paesi. Una prima grande distinzione va fatta, per esempio, fra i comuni italiani (specialmente dell'Italia centro-settentrionale) e quelli d'Oltralpe. In Francia, in Belgio, in Germania, in Inghilterra il comune aveva di solito una dimensione esclusivamente cittadina: s'identificava, cioè, con organismi chiusi entro le mura e chiaramente separati dall'ambiente rurale circostante. Le mura che circondavano l'abitato cittadino erano l'espressione visibile di questa separazione fra città e campagna, a cui corrispondeva una netta contrapposizione fra la nascente società «borghese» e la nobiltà feudale. In Italia invece, dove non si era mai perso completamente il ricordo della città romana, che era fortemente integrata nella campagna circostante, il comune mantenne sempre stretti contatti con il contado su cui si sforzò di estendere la propria autorità alleandosi o combattendo di volta in volta con i signori feudali, ma in ogni caso cercando di assorbirli.
Così, mentre fuori d'Italia il comune fu espressione pressoché esclusiva dei ceti «borghesi», in Italia fu principalmente un polo di attrazione per componenti sociali disparate (in primo luogo l'elemento nobilare-feudale), che realizzavano nel governo delle città un'originale forma di convivenza. Dal canto suo, il ceto signorile italiano, pur mantenendo solide basi nelle campagne, non trascurò mai i contatti con le città, dove molti suoi esponenti risiedevano e svolgevano funzioni di governo. Nel successo dei comuni italiani, poi, a differenza di quelli d'Oltralpe, accanto alle forze mercantili, ebbero un grande peso proprio i «signori», vescovi e feudatari: nato come associazione giurata puramente volontaria, che nei rapporti con il potere costituito (ossia con l'autorità feudale e, attraverso di essa, con l'autorità imperiale) conservava una fisionomia incerta, a metà tra il pubblico e il privato era naturale che il comune cercasse una legittimazione appoggiandosi su elementi, come appunto i vescovi e i feudatari, che nel sistema politico dell'Impero avevano una funzione pubblica riconosciuta.
Anche per questo, i comuni italiani ebbero agli inizi una forte impronta aristocratica. I consoli, che erano i massimi organi dirigenti della nuova associazione, non erano espressione della componente popolare, ma dei ceti socialmente ed economicamente più elevati della città. I «capitani» (dal latino caput = «capo»), i «valvassori», i «visconti» (alla lettera, feudatari che facevano le veci del conte) costituivano, insieme con i più cospicui rappresentanti dell'ambiente finanziario-mercantile, una ristretta classe di governo, una vera e propria «oligarchia», ben decisa a tenere tutti gli altri lontani dal potere.
All'interno di questa ristretta classe, per altro, non mancavano contrasti. Per tutti, infatti, l'esercizio del potere e il controllo dell'organizzazione comunale non aveva altro senso che l'affermazione di interessi particolari, personali o familiari o di consorteria. Questi contrasti e l'incapacità dell'originario gruppo dirigente del comune a esprimere la crescente complessità della vita cittadina (dove avevano preso a pullulare associazioni d'ogni genere, professionali, di partito, rionali, ecc., che aspiravano ad avere parte nella gestione del potere) portarono, tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo, a un cambio di regime. I consoli furono sostituiti da un podestà, che era di norma un forestiero, estraneo alle fazioni cittadine e perciò in grado (almeno in teoria) di assicurare una maggiore imparzialità nell'amministrazione del comune. Il podestà era affiancato da una serie di consigli e di magistrature, dove erano largamente rappresentate le nuove forze emergenti nella società, escluse invece dai vecchi organismi del comune consolare. Furono appunto questi consigli e queste magistrature ad ereditare gran parte del potere un tempo esercitato dai consoli.
Con l'avvento del regime podestarile si realizzò, dunque, una sorta di compromesso tra vecchi e nuovi gruppi di potere: i primi non furono (almeno di norma) scacciati dal governo del comune, ma le nuove componenti della vita comunale salirono, dove più dove meno, alla ribalta. Questo ricambio dei gruppi dirigenti fu particolarmente visibile nei cosiddetti «comuni popolari», nei quali le organizzazioni territoriali e le associazioni professionali o artigiane riuscirono a far assumere ai propri capi (Anziani, Priori, Capitani del Popolo, ecc.) vere e proprie funzioni di governo.
Il regime che si suole definire «popolare» fu il più diffuso e, per molti aspetti, il più significativo dell'età podestarile. Sarebbe però un errore interpretarlo come un fenomeno di «democratizzazione» della vita comunale. Certo, il comune del Popolo assicurava una più ampia partecipazione al governo della cosa pubblica. Anche in esso, però, non si ebbe mai (o quasi mai) un'effettiva partecipazione di tutto il popolo. Anche il comune «popolare» era controllato da un'oligarchia: non si trattava più dell'antica aristocrazia di origine feudale, giacché comprendeva larghi settori dei ceti più propriamente «borghesi», legati alle attività manifatturiere, al commercio, alla finanza (il mondo degli affari), ma si trattava pur sempre di un gruppo ristretto, che non si confondeva e non aveva nessuna intenzione di essere confuso con le masse popolari.
L'esperienza dei comuni, e di quelli italiani in particolare, è stata spesso sopravvalutata o caricata di significati che non aveva affatto. Così, ad esempio, il comune medievale è stato interpretato da taluno come espressione della rivolta «democratico-borghese» contro il dominio dell'aristocrazia feudale. Come abbiamo visto, però, la contrapposizione tra borghesia e aristocrazia feudale, se pure può valere, in termini molto generali, come grande semplificazione, nei casi concreti incontra infinite eccezioni. Quanto poi alla «democrazia» comunale, occorre avvertire che termini come questo, quando vengono applicati al Medio Evo acquistano un senso tutto particolare e molto diverso dall'attuale; ma anche in questo significato particolare, non erano poi molti i comuni medievali a cui si possa davvero attribuire l'appellativo «democratico».
In Italia, poi, il mito dell'età comunale è stato alimentato nel secolo scorso dal desiderio di trovare nel passato anticipazioni delle aspirazioni risorgimentali alla libertà e all'indipendenza nazionale. Sono stati così esaltati, fino al loro totale fraintendimento, singoli episodi o particolari aspetti dell'esperienza comunale italiana e la lunga lotta di alcuni comuni dell'Italia settentrionale in difesa della propria autonomia contro l'autorità imperiale germanica è stata vista come la manifestazione di un presunto «spirito nazionale», ed anzi come la prima esplicita affermazione della «libertà» italiana. Ma si trattava di un'illusione ottica: come si avrà modo di vedere a suo luogo, lo «spirito nazionale» è un'invenzione ottocentesca; quanto alla libertà d'Italia, se ne è sempre fatto un gran parlare, ma ogni volta in un significato diverso e mai o quasi mai nel senso che sarebbe piaciuto agli uomini del nostro Risorgimento.

LA LEGA LOMBARDA

Gli episodi più noti della lunga lotta sostenuta dai comuni italiani in difesa delle proprie libertà sono legati alla Lega lombarda costituita nell'aprile del 1167 a Pontida e comprendente numerose città del Nord Italia (Milano, Lodi, Como, Pavia, Bologna, Parma, Piacenza, Verona, Padova, Venezia ecc.) con il patrocinio del papa Alessandro III, nemico dichiarato dell'imperatore Federico I di Svevia detto il Barbarossa. Federico I aveva già sconfitto più volte i suoi avversari in Italia tra il 1154 e il 1162 e per dare un esempio ai suoi recalcitranti sudditi aveva fatto radere al suolo le città di Crema e Milano. La vendetta dei comuni italiani venne nel 1176, quando l'esercito della Lega sconfisse a Legnano le truppe imperiali. Nella pace di Costanza del 1183 Federico Barbarossa dovette riconoscere le autonomie comunali; da parte loro, però, i comuni riconobbero queste stesse autonomie come una concessione imperiale, e cioè confermarono la propria dipendenza dal Sacro Romano Impero. Rinnovata più volte verso la metà del XIII secolo la Lega lombarda combatté e sconfisse ripetutamente anche il nipote di Barbarossa, Federico II, con il quale di fatto tramontarono i sogni della casa imperiale di Svevia di costruirsi un solido dominio anche in Italia.

IMPERATORI E PAPI

Nei secoli più difficili per l'Europa, tra il IX e il X secolo, l'Impero fondato da Carlo Magno non aveva resistito all'attacco congiunto di Arabi, Ungari e Normanni, e al disordine interno: l'autorità centrale, ridotta a poco più di un nome, aveva lasciato che ogni regione provvedesse da sé, con i propri capi e con le proprie risorse, a difendersi dalla minaccia delle invasioni e della fame. Ma sul finire del X secolo era nato in Germania (allora divisa in Sassonia, Turingia, Baviera, Svevia e Franconia) un nuovo potere imperiale che, come quello carolingio, si richiamava idealmente all'autorità degli antichi imperatori romani. Autori di questa seconda restaurazione imperiale furono i sovrani della casa di Sassonia: Enrico, detto l'Uccellatore, suo figlio Ottone I, il figlio di questi, Ottone II, e il figlio di Ottone II, Ottone III.
Come già Carlo Magno, gli imperatori sassoni si guadagnarono il titolo imperiale sconfiggendo i popoli ancora pagani (Slavi, Magiari, Danesi, ecc.) che premevano sulla frontiera orientale d'Europa e convertendoli, con le buone o con le cattive, al Cristianesimo. Come Carlo Magno, gli Ottoni ricercarono ed ottennero l'appoggio determinante della Chiesa. E come Carlo Magno cercarono un'intesa con l'Impero Bizantino anche per mezzo di matrimoni: Ottone II, in questo più fortunato di Carlo, riuscì effettivamente a sposare una principessa bizantina.
L'Impero Romano-Germanico (o, come più esattamente si chiamava, il Sacro Romano Impero della Nazione germanica) non aveva la stessa estensione dell'Impero Carolingio: si limitava alla Germania e all'Italia centro-settentrionale. Per di più in Italia gli imperatori dovettero lottare incessantemente e senza troppo successo per imporre la propria autorità: contro di loro si levarono di volta in volta re eletti dai grandi signori della penisola, comuni che rivendicavano la propria autonomia e papi, che, contendendo agli imperatori il primato nella guida della Cristianità occidentale, cercavano di crear loro tutti i fastidi possibili e soprattutto cercavano di tenerli lontani da Roma.
Sensibilmente più piccolo dell'Impero Carolingio, l'Impero Romano-Germanico, si rivelò, però, più vitale e duraturo: a quella di Sassonia sono successe via via altre case regnanti, ma il Sacro Romano Impero è scomparso ufficialmente dalla scena politica dell'Europa solo nel 1806. Sebbene controllassero effettivamente soltanto una porzione dell'Europa, gli imperatori tedeschi pretendevano di esercitare un'autorità di carattere universale, in forza della presunta eredità di Carlo Magno e, attraverso Carlo, dell'antico Impero Romano. Gli altri sovrani d'Europa non ammettevano alcuna ingerenza dell'imperatore nei propri domini, ma gli riconoscevano una certa preminenza, sia pure meramente onorifica.
Anche il papa, come l'imperatore, rivendicava un'autorità universale. Si trattava naturalmente di due autorità diverse: politica e «temporale» (cioè relativa alla vita terrena, che è soggetta a limiti di tempo) quella dell'imperatore, religiosa e spirituale quella del papa. Al tempo di Costantino, quando la Chiesa era stata riconosciuta ufficialmente e il Cristianesimo era diventato la religione dominante (e poi l'unica ammessa nell'Impero), i vescovi, compreso quello di Roma (ossia il papa), erano dei semplici funzionari imperiali e toccava all'imperatore decidere sia in materia di disciplina ecclesiastica sia in materia di fede. Con la scomparsa dell'autorità imperiale in Occidente il papa aveva acquistato prestigio e aveva preso a esercitare una serie di funzioni di comando anche sul terreno strettamente politico-temporale.
Quando Carlo Magno volle restaurare l'autorità imperiale il consenso del papa risultò un elemento decisivo per il successo dell'operazione: ormai era impensabile che un potere politico a carattere universale potesse costituirsi in Occidente senza la consacrazione della Chiesa di Roma. Come si è già accennato, in fatto di gerarchie i rapporti tra il papa e i sovrani carolingi restarono (forse volutamente) mal definiti. C'era, però, qualche elemento che lasciava supporre una certa preminenza dell'imperatore sul papa: dopo tutto, se il papa aveva incoronato Carlo, Carlo aveva processato e giudicato il papa. Ludovico il Pio, poi, figlio e successore di Carlo, aveva costretto il papa a giurargli fedeltà.
Anche i nuovi imperatori germanici si erano atteggiati, come Carlo Magno, a protettori e giudici della Chiesa. Nella vita della Chiesa erano anzi intervenuti pesantemente, prendendo apertamente partito per le correnti riformatrici che combattevano la corruzione del clero e volevano restituire la Chiesa alla sua primitiva purezza. «Corruzione» significava allora essenzialmente simonia: monaci, preti, vescovi e papi, in luogo di praticare le virtù evangeliche a edificazione dei fedeli, mescolavano sconciamente (così dicevano i loro accusatori) sacro e profano e badavano ad accumulare ricchezze e poteri. Tutti facevano un gran commercio di cose sacre (nel che consiste propriamente il peccato di simonia), in particolare di titoli e cariche: abbazie, vescovati e la stessa cattedra di San Pietro (ormai preda di un piccolo numero di famiglie nobili romane che se la disputavano selvaggiamente) si acquistavano con denaro o si conquistavano con la forza.
In verità, anche se sui costumi del clero si rifletteva inevitabilmente la barbarie dei tempi, non si trattava di un fenomeno nuovo e quella presunta purezza della Chiesa primitiva di cui parlavano i riformatori era del tutto immaginaria. Fin dal tempo di Costantino il clero era stato coinvolto nella gestione dello Stato e questo coinvolgimento, che aveva assicurato il trionfo del Cristianesimo sulle altre religioni dell'Impero e lo spropositato arricchimento della Chiesa proprio nel momento in cui il resto della società sprofondava nella miseria, rappresentava la causa principale e diretta della diffusione della simonia.
Al tempo di Carlo Magno l'integrazione di Chiesa e Stato era diventata tale da rendere assai confusa la distinzione delle rispettive competenze. Con gli imperatori Sassoni l'integrazione era diventata ancora più stretta, a causa del sistematico conferimento a vescovi e abati di poteri civili (investiture di feudi, governi di città e province, ecc.). Come feudatari i prelati presentavano agli occhi dell'imperatore il grosso vantaggio di non avere, almeno legalmente, figli ed eredi, il che significava che alla loro morte i feudi e i governi di cui li aveva investiti tornavano nelle sue mani. La pratica restituiva dunque all'imperatore una certa capacità di controllo sui suoi subordinati e costituiva un ottimo rimedio alla tradizionale e inguaribile indisciplina dei feudatari laici.
Dal punto di vista religioso presentava però seri inconvenienti: l'autorità temporale che conferiva i benefici feudali a vescovi e abati finiva col diventare l'arbitro della loro elezione, contro le regole ecclesiastiche e a scapito dell'indipendenza e del prestigio della Chiesa. Era insomma una pratica che contribuiva fortemente alla generale confusione di sacro e profano e metteva gli imperatori nella contraddittoria condizione di combattere la simonia per il bene della Chiesa e di diffonderne i germi per il bene dello Stato. Anche dal punto di vista degli interessi economici della Chiesa la pratica delle investiture laiche poteva risultare controproducente. Era vero, infatti, che mescolandosi al potere laico chiese e monasteri avevano come non mai occasione di arricchirsi e di estendere il proprio patronato su un numero crescente di sudditi; era anche vero però che i signori laici finivano col disporre a proprio beneplacito di queste ricchezze. Nel complesso non era facile dire chi ci guadagnasse.
Il movimento per la riforma della Chiesa nacque agli inizi del X secolo in ambiente monastico. Il suo centro fu il monastero di Cluny, fondato nel 910, e cluniacensi si dissero gli aderenti alla riforma. Sul finire del secolo successivo i monasteri che avevano adottato la riforma di Cluny erano più di duemila e altri ordini riformatori erano sorti nel frattempo, come i Camaldolesi, che vantavano una regola ancora più severa. La riforma cluniacense si presentava essenzialmente come un ritorno, contro le degenerazioni degli ultimi secoli, all'originario ascetismo (o almeno alla frugalità) della vita monastica, intesa, nel senso letterale della parola («monaco» deriva dal greco mònos = «solo»), come ritiro dal mondo, solitudine, silenzio. Era un ritorno soprattutto all'antico precetto di San Benedetto, ora et labora (= «prega e lavora»), anche se, in verità, nei monasteri cluniacensi si pregava molto più di quanto non si lavorasse. In compenso l'interesse per il mondo della produzione era vivissimo: i cluniacensi, pur lavorando poco, facevano lavorare molto, fondavano villaggi e mercati, spingevano i propri servi a realizzare migliorie agricole, si facevano ovunque promotori delle «paci di Dio», nel tentativo di diminuire nella società il tasso di violenza e di favorire le attività economiche.
Quando il movimento di riforma uscì dai monasteri per investire il mondo esterno fu una sorta di rivoluzione: i fedeli furono invitati a disertare le chiese e i monasteri di cui erano titolari ecclesiastici simoniaci o concubinari (che vivevano cioè con una «concubina», loro moglie di fatto, se non di diritto, e madre dei loro figli); i contadini (che non aspettavano altro) furono invitati a non pagare loro le decime. Il movimento (a Milano, che ne fu uno dei centri principali, prese il nome di Pataria) aveva anche un evidente significato antifeudale: col nome di simoniaci si bollavano in definitiva gli ecclesiastici che accettavano benefici feudali. La caccia al prete simoniaco o concubinario diventò una sorta di sport popolare e, naturalmente, come sempre accade nelle grandi esplosioni di fanatismo, non mancarono episodi di violenza.
A parte le intemperanze patarine, le correnti riformatrici riuscirono ad avere la meglio all'interno della Chiesa soprattutto per l'appoggio imperiale. I primi papi riformatori erano stati nominati dagli imperatori e imposti con la forza delle armi imperiali alla recalcitrante (e brigantesca) aristocrazia romana. Ma quando i riformatori furono saldamente insediati sul soglio pontificio, si rivoltarono contro gli alleati di un tempo rifiutando la loro soffocante protezione. Condannarono qualsiasi interferenza dell'imperatore nell'elezione dei pontefici e sollevarono il più generale problema delle doppie investiture: chi aveva diritto di scegliere l'uomo destinato a svolgere contemporaneamente, per esempio, le funzioni di vescovo e di conte? I papi riformatori (e fra di loro il più grande di tutti, Gregorio VII) non avevano dubbi: toccava a loro.
Non era la rivendicazione di una ragionevole autonomia nei confronti del potere laico, e tanto meno la richiesta di una separazione tra Stato e Chiesa. Era semplicemente l'affermazione (del tutto insolita) della superiorità del potere religioso. Come l'anima è superiore al corpo - dicevano - così l'autorità spirituale è superiore a quella temporale. La cosa non riguardava solo l'imperatore, ma qualsiasi titolare di un potere temporale: poiché ogni potere viene da Dio e poiché il papa è il vicario di Dio in Terra, anche nelle cose di questo mondo, ossia nel governo temporale degli uomini al papa spettava una suprema funzione di guida. Era la dottrina della «teocrazia» (dal greco theos = «Dio», e kratia = «potere», «governo»), formulata da Gregorio VII in un famoso documento, il Dictatus Papae, fatto di ventisette brevi proposizioni. Ecco alcune di queste proposizioni:

1. La Chiesa romana è stata fondata da Dio solo.
2. Solo il Pontefice Romano è a buon diritto detto universale.
3. Solo lui può deporre o ristabilire i vescovi.
12. A lui è lecito deporre gli imperatori.
19. Nessuno deve giudicarlo.
22. Secondo la testimonianza delle Sacre Scritture la Chiesa Romana non ha mai sbagliato e mai sbaglierà.
23. Il Pontefice Romano, se eletto regolarmente, diventa sicuramente santo [...].
26. Chi non è d'accordo con la Chiesa Romana non deve essere considerato cattolico.
27. Il Pontefice Romano può sciogliere dagli obblighi della fedeltà i sudditi degli iniqui ossia dei sovrani condanna dalla Chiesa.

Gli imperatori, naturalmente, non erano affatto disposti ad accettare princìpi di questo genere (sarebbe stato un suicidio per il potere laico) e anzi, rifacendosi all'esempio di Costantino e di Carlo Magno, ritenevano di dover esercitare uno stretto controllo su tutte le attività della Chiesa, a cominciare proprio dall'elezione dei pontefici. Tra Papato e Impero si giunse, così, rapidamente a uno scontro durissimo.
La prima fase di questo conflitto è nota come «lotta delle investiture», da quella che era effettivamente la questione più spinosa, risolta nel 1122, a Worms, con una pace di compromesso. Ma sulla questione del primato il contrasto non era conciliabile e si trascinò per secoli. I papi, forti delle enormi ricchezze accumulate dalla Chiesa e forti soprattutto del prestigio di cui godevano come capi indiscussi (o quasi) della Cristianità occidentale, aizzavano alla rivolta contro l'imperatore i suoi sudditi, grandi feudatari tedeschi o comuni italiani. Gli imperatori rispondevano scendendo in Italia alla testa dei loro eserciti, convocando concili e assemblee di prelati ostili al papa, destituendo il pontefice in carica e nominandogli un successore. Naturalmente il papa destituito non riconosceva né la legittimità della propria destituzione né, tanto meno, l'autorità del suo antagonista (l'antipapa) e fulminava scomuniche contro tutti.
La lotta non ebbe né vincitori né vinti: servì soltanto a logorare entrambi i contendenti, Papato e Impero. La verità è che via via che il tempo passava nessuna autorità universale poteva sperare di affermarsi in Europa, dove il particolarismo politico della prima età feudale era stato riassorbito a poco a poco, ma a vantaggio di altri centri di potere e di altre forze sociali: le grandi monarchie, i potentati regionali, i comuni.
Toccò a un re di Francia, Filippo il Bello, infliggere alle pretese teocratiche del Papato la più cocente umiliazione. Nel 1302 il papa Bonifacio VIII aveva scomunicato Filippo per lo scarso rispetto dimostrato in più occasioni per i privilegi ecclesiastici e aveva riconfermato la supremazia dai pontefici nella bolla (si chiamano così i documenti papali o imperiali dotati di sigillo, che in latino si dice, appunto, bulla) Unam sanctam (le parole iniziali, spesso usate come nomi di simili documenti). L'arroganza dell'Unam sanctam non era inferiore a quella del Dictatus Papae:

... Che ci sia una e una sola santa Chiesa cattolica apostolica siamo costretti a credere e a professare [...] perché il Signore dice in Giovanni, ossia nel Vangelo di Giovanni, che c'è un solo ovile, un solo e unico pastore. [...]
Noi sappiamo dalle parole del Vangelo che in questa Chiesa e in suo potere ci sono due spade, una spirituale e una temporale, perché quando gli Apostoli dissero: - Ecco qui due spade - (e qui significa «nella Chiesa», dato che erano gli Apostoli a parlare), il Signore non rispose che erano troppe, ma che erano sufficienti. [...] Ambedue sono in potere della Chiesa, quella spirituale e quella materiale: questa in verità impugnata per la Chiesa, quella dalla Chiesa; la prima dal clero, la seconda dalla mano di re o di cavalieri, ma sempre secondo il comando o il consenso del clero, perché è necessario che una spada dipenda dall'altra e che l'autorità temporale sia soggetta a quella spirituale. [...]
Se il potere temporale erra sarà giudicato da quello spirituale; se il potere spirituale inferiore erra, sarà giudicato da quello superiore; ma se sbaglia il supremo potere spirituale, questo potrà essere giudicato solo da Dio, e non dagli uomini. [...] Perciò noi dichiariamo, stabiliamo, definiamo e affermiamo che è assolutamente necessario per la salvezza di ogni creatura umana che essa si sottometta al pontefice di Roma...

Come risposta, nel settembre del 1303 Filippo il Bello mandò un gruppo di armati in Anagni, dove il papa risiedeva, e lo fece arrestare. Guglielmo di Nogaret, che comandava la spedizione, minacciò di trascinarlo a Lione per sottoporlo al giudizio di un Concilio. Si disse che in quel frangente il papa fosse stato addirittura schiaffeggiato. Il cronista Giovanni Villani lo nega: «Come piacque a Dio, per conservare la santa dignità papale, niuno ebbe ardire di toccarlo e non piacque loro di porgli mano addosso». Comunque sia, quello di Anagni fu un terribile schiaffo, se non fisico, morale, tanto che Bonifacio, «che tutto si rodea come rabbioso», ne morì nel giro di un mese.
Allo schiaffo d'Anagni seguì la cosiddetta «cattività avignonese» (dal latino captivitas = «prigionia»; l'espressione ricorda la «cattività babilonese», ossia la deportazione del popolo di Israele a Babilonia al tempo di Nabuccodonosor), che fu una dimostrazione forse ancora più evidente dello stato di crisi in cui si dibatteva il Papato: i papi dovettero acconciarsi a trasferire la propria residenza da Roma ad Avignone mettendosi sotto la gelosa sorveglianza dei re di Francia. Il che, per altro, non significò affatto una diminuzione del loro potere politico ed economico (si può dire anzi che mai come in quel momento la Chiesa abbia consapevolmente imboccato la strada di una totale mondanizzazione), né li indusse a rinunciare alle solite pretese di supremazia, come si vide di lì a poco nel conflitto tra il papa Giovanni XXII e l'imperatore Ludovico il Bavaro.
Papa Bonifacio VIII in un affresco attribuito a Giotto


SIMONIA, PATARIA

Simon Mago era un fortunato indovino e fattucchiere che, secondo la leggenda, visto il successo della nuova religione cristiana, aveva cercato di comperare da San Giovanni e da San Pietro il dono dello Spirito Santo. Da Simon Mago è stato coniato il termine «simonia» per indicare il comportamento di quanti fanno commercio di cose sacre o esercitano la professione sacerdotale a fini di lucro o di potere.
I patarini milanesi furono tra i più accesi avversari delle pratiche simoniache. Patta è un'antica voce mediterranea che vuol dire spazzatura, rifiuto, cencio. In milanese patèe vuol dire «rigattiere» e a Milano c'è ancora una Via dei Pattari. Il nome «Pataria» richiama insomma gli stracci di quel popolo che a Milano, nell'XI secolo, fu lo sbrigativo braccio secolare dei grandi riformatori ecclesiastici.

LA LOTTA DELLE INVESTITURE

L'uso delle armi «spirituali», come la scomunica, era tutt'altro che inoffensivo. Secondo una tesi che i papi presero a sostenere (e che faceva assai comodo ai grandi feudatari) tra i re e i popoli loro soggetti c'era una sorta di patto non scritto che impegnava entrambi alla difesa della vera religione e che, se veniva violato dal re, dava ai sudditi il diritto di ribellarsi. La scomunica da parte del papa era appunto la sanzione dell'avvenuta violazione e scioglieva automaticamente i sudditi dall'obbligo della fedeltà. Con ciò i papi si riservavano il diritto di deporre a loro piacimento i sovrani, considerati semplici «bracci temporali» della Chiesa. L'episodio che nel 1076 diede inizio alla lotta delle investiture, l'umiliazione di Canossa, dimostrò quanto fossero temibili le scomuniche, soprattutto quando servivano a coprire interessi mondani.
Il papa Gregorio VII aveva condannato formalmente la pratica delle investiture laiche, ossia l'uso dei signori laici di dare a ecclesiastici l'investitura di feudi e governi. L'imperatore Enrico IV, con un grave errore di valutazione, aveva ignorato la cosa e alle minacce di scomunica formulate dal papa aveva risposto facendolo deporre da un sinodo appositamente convocato a Worms. Gregorio reagì fulminando la scomunica e scatenando la guerra civile in Germania. Enrico IV corse allora ai ripari: prevenendo il papa, che stava dirigendosi in Germania, si precipitò in Italia e lo raggiunse nel castello di Canossa (l'espressione «andare a Canossa» è diventata proverbiale) dove Gregorio era ospite della potentissima contessa Matilde di Toscana. In veste di penitente, l'imperatore (in basso) chiese perdono al papa (a sinistra in alto, col pastorale). Fu Gregorio VII, questa volta, ad essere preso alla sprovvista: non era affatto contento di dover risparmiare l'avversario nel momento in cui aveva la possibilità di schiacciarlo, ma come sacerdote di Cristo non poteva onestamente negare il perdono.
La scomunica fu revocata ed Enrico IV, repressa la rivolta dei suoi vassalli, ricominciò daccapo con le investiture di ecclesiastici. Gregorio lo scomunicò di nuovo e di nuovo Enrico, occupata Roma, lo depose e gli nominò un antipapa (1084). Tra i due litiganti chi ci guadagnò furono i Normanni, che si erano costruiti un grande Stato nell'Italia meridionale e in Sicilia cacciandone i Saraceni e i Bizantini, ed eliminando gli ultimi Longobardi.
Chiamati da Gregorio, i Normanni, guidati da Roberto il Guiscardo in cambio di consistenti privilegi, accorsero a Roma con un esercito raccogliticcio di cui facevano parte anche alcuni reparti saraceni, e cacciarono Enrico. Poi, però, per rifarsi delle spese, sottoposero la città a un sacco talmente orribile, che per sottrarsi alla rabbia del suo popolo Gregorio VII fu costretto a seguire i suoi «liberatori» a Salerno, dove morì ufficialmente loro ospite, di fatto loro prigioniero.

GUELFI E GHIBELLINI

Nel conflitto tra imperatori e papi i sostenitori dei primi si dicevano ghibellini, quelli dei secondi guelfi. «Ghibellini» viene dal tedesco Wibelingen o Weiblingen attributo degli Hohenstaufen, duchi di Svevia, derivato da Wibeling, un loro castello in Franconia. «Guelfi» viene invece da Welf, che era il capostipite dei duchi di Baviera, rivali degli Hohenstaufen. In sostanza erano le denominazioni delle due grandi casate principesche, diventate i gridi di battaglia dei rispettivi seguaci. Quando l'imperatore Federico Barbarossa scese in Italia contro i comuni e contro il papa, il grido di guerra delle sue truppe, «Wibeling!» diventò, italianizzato in Ghibellini, il nome dei suoi seguaci; per analogia furono detti Guelfi i suoi nemici.

FRANCIA E INGHILTERRA

Secondo una teoria diffusa nel Medio Evo, ogni potere legittimo doveva derivare dalle due sole autorità supreme e universali, l'imperatore e il papa. Ma i principi che tra l'XI ed il XIV secolo, piegando all'obbedienza i propri vassalli ed estendendo prudentemente con alleanze o con matrimoni l'area dei propri domini diretti, erano venuti costruendo vaste ed efficienti organizzazioni statali non tolleravano alcun superiore, o, se trovavano conveniente riconoscerne uno per qualche tempo, se ne sbarazzavano appena possibile.
In Francia, per esempio, il re Filippo I (1060-1108) e i suoi immediati successori avevano accettato in linea di massima le tesi teocratiche relative alle investiture e al primato della Chiesa sullo Stato e questo aveva consentito loro di utilizzare il clero per tenere a bada i grandi feudatari (molti dei quali vennero spogliati dei loro beni a favore della Chiesa e della Corona). Ma, consolidato il potere monarchico, la musica cambiò completamente. Come abbiamo visto, fu proprio un sovrano francese, Filippo IV detto il Bello (1268-1314), che, all'inizio del Trecento, di fronte a tutta l'Europa, umiliò le pretese della teocrazia papale facendo addirittura arrestare il pontefice di allora, Bonifacio VIII. Quanto all'Impero, Petrarca, nel Trecento, lo considerava già «un nome vano». Non era più tempo di universalismi: quelli che contavano erano gli Stati nazionali, e in primo luogo la Francia e l'Inghilterra.
In Francia, dopo la dissoluzione dell'Impero carolingio si erano costituite diverse potenti casate feudali (le contee di Fiandre, di Champagne, di Tolosa, i ducati di Normandia, di Bretagna, di Aquitania ecc.). I nuovi re di Francia, i Capetingi (da Ugo Capeto, 941-996, «conte e abate» di Parigi, loro capostipite), controllavano all'inizio la città e il contado di Parigi e poco di più. Lentamente estesero i propri domini a spese dei grandi feudatari cercando l'appoggio, oltre che del clero, dei nuovi ceti urbani. Sia il re sia la nascente borghesia mercantile avevano interesse a limitare il potere dei signori feudali. Già Luigi VI, che regnò dal 1108 al 1137, per contrastare le più potenti casate aristocratiche aveva cercato l'alleanza delle città, concedendo loro numerosi privilegi soprattutto in campo fiscale. Dopo il regno di Luigi VII (1137-1180), occupato in gran parte dalle guerre con Enrico II d'Inghilterra (di cui parleremo fra poco), questa politica fu ripresa con notevole successo da Filippo II detto Augusto (1165-1223), il quale largheggiò ancor più del suo avo nel favorire le città, a patto che queste passassero sotto la protezione del re e si impegnassero a difendere gli interessi della corona.
Filippo II Augusto sostituì il vecchio titolo di re dei Franchi con quello di re di Francia, un evento che si è voluto interpretare come prima, aurorale manifestazione della vocazione «nazionale» della monarchia francese (per quel che può valere la parola «nazione» in età medievale). In una lunga serie di campagne militari Filippo II riuscì a strappare ai sovrani inglesi, Riccardo Cuor di Leone e Giovanni Senza Terra, gran parte dei possedimenti che avevano sul continente, in Normandia, in Bretagna e in Aquitania. Il suo maggior titolo all'appellativo di Augusto (alla lettera «consacrato dagli auguri»: indica maestà, forza, imponenza) sta forse nell'aver piegato all'obbedienza l'aristocrazia (sostituì dove possibile la giustizia feudale con tribunali e giudici regi) e il clero (di cui cercò di limitare i privilegi fiscali e giudiziari).
Evento decisivo e in qualche modo emblematico del regno di Filippo fu, nel 1214, la battaglia di Bouvines nella quale sconfisse due dei suoi maggiori feudatari, il conte di Boulogne e quello di Fiandra, che gli si erano ribellati e si erano schierati con i suoi nemici, il re d'Inghilterra, Giovanni Senza Terra, e l'imperatore Ottone di Brunswick. Nella politica di espansione territoriale di Filippo Augusto si inserisce anche la crociata contro gli Albigesi (1208-1213) della Linguadoca a cui il re non partecipò direttamente, ma a cui permise che partecipassero in massa i suoi vassalli sotto la guida di Simone di Montfort. La conquista della Linguadoca fu poi completata dal figlio di Filippo, Luigi VIII (1187-1226).
La moderna monarchia inglese, è nata con la battaglia di Hastings del 1066, nella quale il duca di Normandia, Guglielmo il Bastardo, poi ribattezzato il Conquistatore (1027-1087), legato per alleanza e per parentela all'ultimo re inglese, che era morto senza eredi, sconfisse l'altro pretendente al trono, Aroldo, sostenuto dai Sassoni. Nel giro di tre o quattro anni Guglielmo occupò tutto il Paese, distribuendo via via ai suoi seguaci normanni i possedimenti tolti ai vecchi baroni sassoni. Conclusa la sottomissione delle popolazioni sassoni (l'ostilità tra Sassoni e Normanni restò a lungo una componente della vita politica inglese), Guglielmo organizzò il suo regno secondo un preciso e funzionale schema amministrativo che si scostava sensibilmente da quello del tradizionale Stato feudale: sotto Guglielmo i baroni inglesi non ebbero mai le larghe immunità di cui godevano invece i signori feudali sul continente. Le contee inglesi, erano affidate a ufficiali di nomina regia, gli sceriffi, che dipendevano interamente dal re ed erano sorvegliati da ispettori e giudici regi.
Nella storia della monarchia inglese si sono alternate continuamente fasi in cui le autonomie feudali e le immunità ecclesiastiche finivano per prevalere sulla volontà dei re, o almeno per condizionarla fortemente, e fasi caratterizzate invece dall'iniziativa regia. Uno dei momenti di maggior forza del potere centrale fu segnato dal regno di Enrico II (1133-1189), fondatore della dinastia dei Plantageneti, e padrone, per via di eredità e di matrimoni, di vastissimi territori anche sul continente: Angiò, Normandia, Maine, Aquitania, Turenna. Con l'aiuto del clero e dell'arcivescovo di Canterbury, Thomas Becket, Enrico riuscì a piegare i feudatari al rispetto della sua legge. Quando però tentò di fare la stessa cosa con gli ecclesiastici, incontrò la fiera opposizione dello stesso Becket. Enrico, allora, prima esiliò l'arcivescovo, poi lo fece assassinare. Oltre che un delitto, fu un errore politico. La morte di Becket suscitò l'indignazione popolare, opportunamente alimentata dalla Chiesa; ad essa si accompagnò la sanguinosa rivolta degli stessi figli di Enrico, attivamente sostenuta dal re di Francia. Alla fine Enrico, isolato, dovette cedere e accettare patti umilianti.
Nonostante tutto, però, il regno di Enrico II si chiuse con un bilancio largamente positivo: l'amministrazione del regno era stata riorganizzata e resa più efficiente, i baroni tenuti a freno, il clero sfidato apertamente e i suoi privilegi in qualche modo limitati. Lo spirito di autonomia dei baroni e del clero si prese presto una rivincita con il re Giovanni Senza Terra (1167-1216), che, reduce dalla sconfitta di Bouvines e rimasto senza prestigio e senza soldi (come dice il suo stesso appellativo), fu costretto nel 1215 a sottoscrivere la Magna Charta Libertatum. Questo famoso documento, il cui scopo dichiarato era di limitare il potere regio, è talvolta ricordato come uno dei più antichi e autorevoli testi della moderna tradizione parlamentare. Si tratta di un'indicazione impropria: la Magna Charta non era un manifesto politico o filosofico, né tanto meno una dichiarazione di diritti sul genere di quelle con le quali si aprono le costituzioni moderne. Le «libertà» che vi erano puntigliosamente elencate costituivano piuttosto una confusa sequela di privilegi feudali ed ecclesiastici.
Due principi sanciti nella Magna Charta meritano però di essere ricordati, anche perché esercitarono davvero un ruolo importantissimo in tutta la successiva storia costituzionale dell'Inghilterra (e non solo dell'Inghilterra): la norma che vietava al re di imporre tributi senza avere prima ottenuto il consenso del Parlamento (ossia di un apposito consiglio di nobili ed ecclesiastici, detto poi la Camera dei Lord) e quella che conferiva a un comitato di venticinque baroni il compito di vigilare sull'osservanza della Carta ed eventualmente di imporla al re con le armi (il che equivaleva a riconoscere il diritto dei sudditi all'insurrezione). Coevo alla Magna Charta è l'impegno sottoscritto dal re, detto dell'Habeas corpus (dalle parole iniziali del documento), in virtù del quale nessun membro della nobiltà poteva essere arrestato arbitrariamente o trattenuto in carcere senza un motivato provvedimento dell'autorità giudiziaria.
Enrico III (1207-1272), figlio e successore di Giovanni Senza Terra, tentò di eludere l'autorità del Parlamento minacciando più volte di revocare la Magna Charta, ma riuscì solo a precipitare l'Inghilterra nella guerra civile: le Provvisioni di Oxford, che Enrico III fu costretto a sottoscrivere nel 1258, confermarono e integrarono le disposizioni della Magna Charta. L'assetto così definito fu poi completato pochi anni dopo, nel 1265, con l'istituzione, a fianco di quella dei Lord, della Camera dei Comuni: era il riconoscimento del peso politico acquistato nel frattempo dai ceti borghesi di cui, nel conflitto con il re, la nobiltà e il clero avevano cercato e ottenuto l'appoggio.

IL BECKET DI ELIOT

Il 29 dicembre del 1170, l'arcivescovo e primate d'Inghilterra Thomas Becket venne assassinato, durante gli uffici divini, nella cattedrale di Canterbury. Ad ucciderlo erano stati quattro cavalieri su mandato di Enrico 11 Plantageneto, re d'Inghilterra. Si concludeva così, tragicamente, il lungo conflitto tra i due, sorto, ancora una volta (e certamente non per l'ultima nella storia dell'Europa medievale), dalla difficile coesistenza dell'autorità civile dei re con un'autorità ecclesiastica che era emanazione diretta della Chiesa di Roma. Il letterato Thomas Stearns Eliot (1888-1965), statunitense di nascita ma inglese di adozione, premio Nobel per la letteratura nel 1948, ha tratto ispirazione da questo episodio storico per il suo dramma Assassinio nella cattedrale, scritto nel 1935. Da molti definito come una vera e propria «sacra rappresentazione», per la consapevolezza tragica che caratterizza i personaggi (tra i quali predominano le presenze di «gruppo» con funzioni di coro: le donne di Canterbury, i preti, i tentatori, i cavalieri, ecc.) e per l'impostazione rituale della vicenda, il dramma di Eliot è incentrato sulla complessa personalità di Becket.
Il Becket di Eliot è un uomo di potere: ha alle spalle ottimi studi e una vita mondana condivisa in gioventù proprio con l'amico Enrico II, a cui deve prima la nomina a cancelliere del regno e poi quella ad arcivescovo di Canterbury, la massima carica religiosa del Paese. Quest'uomo di potere è destinato, però, a diventare martire e santo: un destino ambiguo, che può essere vissuto come ultima e suprema espressione di potere e autorità, oppure con l'umiltà propria degli uomini di fede. Eliot tratteggia Becket come vittima consapevole di questo conflitto di ruoli e di sentimenti, spesso presente alla coscienza di altre grandi personalità della cultura e della politica del Medio Evo, ma tutt'altro che estraneo all'esperienza dell'uomo moderno.

PARLAMENTO

Il termine «Parlamento» indicava in antico il semplice atto di parlare e si è usato, per naturale estensione, per indicare qualsiasi adunanza convocata per discutere, negoziare, deliberare o, appunto, «parlamentare». Il francese parlement, a partire dal XIII secolo e sino alla rivoluzione francese, ha significato tribunale o corte di giustizia (per antonomasia il luogo di dibattito). Un ruolo particolarmente importante tra le istituzioni della monarchia francese ha avuto sino alla rivoluzione il Parlamento di Parigi, che era appunto una corte di giustizia.
Dal francese parlement è venuto l'inglese parliament usato però per indicare l'insieme delle assemblee rappresentative del regno, la Camera dei Lord (che del resto era anche un'alta corte di giustizia) e quella dei Comuni. Bisogna stare attenti a non fare confusione: in Francia (fino alla rivoluzione francese) le assemblee rappresentative che erano l'equivalente del Parlamento inglese non erano i Parlamenti (che erano corti di giustizia), ma gli Stati Generali (di cui parleremo più avanti). In italiano (come del resto nel francese moderno) la parola, per influsso dell'inglese parliament, ha il significato di assemblea politica rappresentativa della Nazione.

LA CHIESA TRA RIFORME ED ERESIE

La riforma ecclesiastica promossa, a partire dal X secolo, dai monaci cluniacensi e ripresa, tra l'altro, dal movimento popolare milanese della Pataria, si era esaurita in breve tempo. Le pretese teocratiche dei papi riformatori spingevano inesorabilmente la Chiesa verso una sempre più spinta mondanizzazione: più privilegi, più immunità, più ricchezze, più potere. All'interno del mondo monastico, dove lo straordinario successo del movimento cluniacense aveva coinciso con un sostanziale allentamento della disciplina, già alla fine dell'XI secolo riemersero le antiche esigenze di riforma, di cui si fecero interpreti questa volta i monaci cistercensi (dalla località, Cistercium in latino, o Citeaux in francese, nella quale fu fondato nel 1098 il loro primo monastero). Il grande propugnatore della nuova riforma fu, nel XII secolo, San Bernardo fondatore del monastero di Clairvaux (Chiaravalle): ancora una volta l'intento era di ritornare all'originario rigore della regola benedettina, di cui, però, a differenza dei cluniacensi, i cistercensi sottolinearono con forza l'obbligo del lavoro manuale.
La riforma dei Cistercensi, come del resto quella dei Cluniacensi che l'aveva preceduta, non era che una delle molte manifestazioni della crescente insofferenza verso la mondanizzazione della Chiesa. Per essere più precisi, era l'espressione di questa insofferenza quale poteva manifestarsi all'interno della Chiesa. Ma altre ve ne erano che si ponevano fuori e contro la Chiesa. Viste dalla Chiesa si trattava di movimenti ereticali, contrari cioè alle verità di fede e agli insegnamenti di Cristo, mentre dal loro punto di vista era la Chiesa ufficiale che aveva stravolto e tradito i princìpi del Vangelo. Per quanti volevano riformare la Chiesa dall'interno il problema era di perseguitare i preti simoniaci e concubinari; per gli «eretici» era la Chiesa stessa, simoniaca in ogni sua parte, che si era fatta concubina del Diavolo.
È quello che in sostanza pensavano i Catari, un movimento attivo già nell'XI secolo e che rappresentò per molti aspetti un ritorno di tesi manichee. Tra Bene e Male, tra Dio e Mammona, dicevano i Catari, non ci sono conciliazioni possibili e gli uomini devono scegliere: i puri (katharòs in greco significa «puro») si schierano con Dio; gli altri stanno con Mammona. L'avidità di ricchezze e di potere di cui la Chiesa ufficiale dava continua prova anche nella sua ala riformata era il segno manifesto della sua alleanza con Mammona (Mammona era un dio pagano della ricchezza e per i cristiani stava a indicare, per estensione, il demonio).
I Catari erano diffusi specialmente in Linguadoca ed erano detti anche Albigesi, dalla città di Albi, in Provenza, uno dei loro centri più importanti. Nel 1208 il papa Innocenzo III lanciò contro di loro una crociata di annientamento con grande soddisfazione delle migliaia di cavalieri a cui veniva offerta l'opportunità di guadagnarsi il paradiso mettendo a sacco una delle regioni più ricche e civili del tempo (e con gran profitto della monarchia di Francia, che alla fine, restò padrona di quelle terre anche se devastate).
All'annientamento sono invece sfuggiti i Valdesi, ossia i seguaci di Pietro Valdo, un ricco mercante di Lione, vissuto nel XII secolo, che in seguito a un'improvvisa crisi religiosa prodotta, pare, dalla morte di un amico, fece quello che, nella generazione successiva, avrebbe rifatto ad Assisi San Francesco: distribuì i suoi beni ai poveri e si mise a predicare il Vangelo (che fece tradurre dal latino in volgare perché tutti potessero intenderlo e interpretarlo liberamente). Quello di Valdo e dei suoi seguaci, era un Cristianesimo ragionevole, amabile, senza complicazioni teologiche. I Valdesi vivevano secondo una morale austera ma senza ostentazioni di santità, in questo diversi dai Catari, che si consideravano un gruppo di eletti. I Valdesi furono formalmente condannati come eretici nel 1184 e subirono nei secoli successivi ripetute, sanguinose persecuzioni. Tenacemente arroccati nelle valli alpine dove il movimento aveva messo le prime radici, sono sopravvissuti alle stragi (forse con l'aiuto di Dio, ma certo anche perché, all'occorrenza, erano capaci di fare a pezzi i loro persecutori) e sono tuttora attivi in Italia.
Contro le eresie la Chiesa adoperò sia le armi della persuasione, sia quelle della coercizione. A persuadere e a convertire era diretta la predicazione, a cui si dedicarono specialmente l'ordine dei Francescani, fondato dall'italiano Francesco d'Assisi (1182-1226) e quello dei Domenicani fondato dallo spagnolo Domenico di Guzman (1170-1221). Entrambi gli ordini, in funzione di questo loro fondamentale compito di predicare le verità della Chiesa, ma in concorrenza l'uno con l'altro (e cioè disputandosi con accanimento le cattedre di tutte le più celebri università) diedero un forte incremento agli studi filosofici e teologici tanto che gran parte della storia del pensiero europeo del Basso Medio Evo può essere ricondotta alla loro attività.
I Francescani, però, nella lotta e nella prevenzione dell'eresia avevano un'arma in più: un modello di vita che raccoglieva gli elementi più suggestivi delle esperienze che erano chiamati a combattere, il che consentiva di svuotare l'eresia di una parte almeno del suo fascino. La loro forza stava insomma nel rassomigliare a un movimento ereticale senza esserlo. Oltre al gesto di rinunciare pubblicamente ai propri beni, che ripeteva l'esempio di Pietro Valdo, anche la predicazione di Francesco d'Assisi richiamava, almeno nei suoi valori essenziali (la semplicità del Vangelo e la povertà di Cristo) quella valdese. Diversissima, addirittura opposta, era stata invece la sua azione, sempre molto attenta a non urtare le suscettibilità della Chiesa ufficiale.
La scelta della povertà e dell'umiltà evangeliche, secondo Francesco, non doveva suonare condanna dell'opulenza clericale o dell'autocrazia papale. In altre parole, Francesco offriva alla Chiesa la straordinaria opportunità di un movimento pauperistico (dal latino pauper = «povero») non ereticale, organizzato cioè non contro la Chiesa, ma dentro di essa e al suo servizio per assicurarne la presenza tra le masse turbolente dei diseredati. La Chiesa non si fece sfuggire l'occasione. Nel 1223 la regola francescana fu approvata dal papa e nel 1228 Francesco fu fatto santo. A reprimere le eresie, oltre le grandi imprese di sterminio, come quella contro gli Albigesi, fu istituito nel 1184 uno speciale tribunale, l'Inquisizione, che aveva il compito di ricercare (mediante un capillare apparato di delatori), catturare, inquisire (la tortura ne era lo strumento ordinario) e punire (nei casi gravi con il rogo) gli eretici. A partire dal 1235 il tribunale dell'Inquisizione fu affidato ai Domenicani. Grandi teologi (Tommaso d'Aquino, 1221-1274, era uno di loro) e predicatori (l'ordine si dice appunto «dei Predicatori»), i Domenicani si rivelarono ancora più grandi come persecutori: in oltre cinque secoli di attività hanno prodotto una straordinaria massa di sofferenze e un numero incalcolabile di morti. Con un facile gioco di parole amavano chiamarsi Domini canes, e cioè «cani del Signore», fedeli custodi della Chiesa. Accaniti: fedeli e feroci, appunto, come cani.

AUTOCRAZIA

Viene dal francese autocratie, una parola coniata nella seconda metà del Settecento (più o meno all'epoca della Rivoluzione Francese) sullo stampo del greco autokràteia, composto di autòs = «se stesso», e kratèin = «comandare». Alla lettera «autocrate» vuol dire che ha la forza (il potere) in sé stesso: già nell'antica Grecia stava a indicare il tiranno, che governava a proprio arbitrio, senza limiti di legge. In generale «autocrazia» sta a indicare un potere personale e assoluto, privo di condizionamenti. Lo si adopera in particolare per indicare il potere dei papi all'interno della Chiesa (quale essi hanno finito con il realizzare imponendo la propria assoluta supremazia sugli altri vescovi e sui concili), quello degli imperatori bizantini e quello dei loro continuatori, gli zar di Russia.

LA CHIESA, LO STATO, IL POPOLO

Nonostante la mansuetudine di Francesco d'Assisi e la sua personale vocazione all'obbedienza non fu mai facile addomesticare del tutto il movimento francescano e disinnescare il potenziale eversivo presente nella scelta della povertà e dell'umiltà di Cristo. Dal movimento francescano, diviso al suo interno in orientamenti diversi e talvolta addirittura inconciliabili, continuarono a uscire per molto tempo voci di protesta, richieste di riforma e anche battagliere correnti rigoriste poco preoccupate di esser tacciate di eresia; al suo esterno gli si affiancarono ripetutamente e pericolosamente altre correnti pauperistiche schiettamente ereticali. Proprio sul tema della povertà, nella prima metà del Trecento, tra l'ordine francescano e il Papato, che aveva trasferito la sua sede in Avignone, i rapporti divennero molto tesi. Il conflitto, intrecciandosi con quello, ormai tradizionale, tra Papato e Impero, parve per un momento che dovesse dar vita all'interno della Chiesa a un'effettiva alternativa democratica all'autocrazia papale.
L'imperatore Ludovico IV il Bavaro (1287-1347) si era rifiutato di ammettere la tesi della supremazia papale ribadita dal pontefice Giovanni XXII; tesi, in verità, che appariva tanto più assurda in quanto a sostenerla era un papa francese, che, dopo l'umiliazione di Anagni inflitta da Filippo il Bello a Bonifacio VIII, aveva accettato di spostare la sua residenza in Avignone giustificando le accuse che gli venivano rivolte da più parti di essere di fatto ostaggio del re di Francia. Giovanni XXII non solo aveva scomunicato Ludovico, ma gli aveva addirittura lanciato contro una crociata. L'imperatore aveva reagito appellandosi, al solito, all'autorità di un concilio e soprattutto appoggiando la rivolta dell'ordine francescano contro il papa. Alla fine, accusando Giovanni di eresia e apostasia, lo aveva dichiarato decaduto e gli aveva contrapposto un nuovo papa, Nicolò V, il francescano Pietro Rainallucci.
La rivolta dell'ordine francescano contro Giovanni XXII era sorta, come si è accennato, sulla questione della povertà di Cristo. Nel 1322 il capitolo generale dei Francescani riunito a Perugia aveva approvato ufficialmente la dichiarazione che né Gesù e né gli Apostoli avevano mai posseduto nulla, né singolarmente, né in comune. Questa affermazione, che aveva un evidente significato polemico, aveva mandato in bestia il papa Giovanni XXII, che in tre bolle successive, pubblicate tra il 1322 e il 1324, dichiarò eretico chiunque osasse negare che Cristo e gli Apostoli erano stati a tutti gli effetti proprietari, e convocò in Avignone il generale dei Francescani, Michele da Cesena, perché rispondesse del comportamento dell'ordine.
Ad Avignone c'era un altro francescano, l'inglese Guglielmo di Occam, uno dei più grandi pensatori del Medio Evo, che era stato anche lui convocato dal papa per rispondere di certe sue tesi filosofiche ritenute poco ortodosse. I due ebbero così l'opportunità di conoscersi e di stringere un'amicizia che sarebbe durata tutta la vita. La notte del 26 maggio 1328 entrambi fuggirono da Avignone e ripararono alla corte dell'imperatore. Si racconta che, raggiunto Ludovico il Bavaro, Occam gli abbia detto: Defende me gladio, ego te defendam calamo («Difendimi con la spada, ti difenderò con la penna»). In effetti cominciò allora una nuova, intensa fase dell'attività pubblicistica di Occam, rivolta, in collaborazione con Michele da Cesena, a difendere l'autorità imperiale dalle pretese egemoniche del Papato.
Alla corte imperiale i due francescani incontrarono Marsilio Mainardini, più noto come Marsilio da Padova (1275-1343 ca.), giurista e teologo, che in qualità di consigliere politico ed ecclesiastico dell'imperatore, aveva avuto un ruolo importante nella lotta contro il papa avignonese. Marsilio, che aveva studiato a Padova e poi a Parigi (dove era stato rettore dell'Università dal 1312 al 1313, ma da dove era fuggito per sottrarsi alle persecuzioni delle autorità ecclesiastiche) era l'autore di una delle più grandi opere politiche di tutto il Medio Evo, il Defensor pacis (Difensore della Pace, terminato nel 1324), che ribaltando le tesi teocratiche sosteneva la necessità di eliminare qualsiasi potere temporale della Chiesa e di sottomettere alla suprema autorità civile molte materie tradizionalmente considerate di religione. Senza opportune limitazioni, sosteneva Marsilio, la Chiesa cattolica, con la sua organizzazione e la sua gerarchia, non era soltanto un'istituzione inutile per la salvezza delle anime, ma rappresentava una vera e propria minaccia per la sicurezza dello Stato e per la pace dei cittadini. Quanto allo Stato, secondo Marsilio (che può essere considerato il primo teorico della sovranità popolare), la fonte di tutti i suoi poteri stava nel popolo, e i principi erano tali solo per delega popolare. Naturalmente la Chiesa non mancò di condannare come eretiche le sconvolgenti tesi laiche e «democratiche» di Marsilio.
Mentre Marsilio, nella lotta contro il papa di Avignone, difendeva l'autonomia dello Stato e, al suo interno, il ruolo sovrano del popolo, Occam si diede a difendere l'autonomia della coscienza individuale e la libertà del popolo cristiano all'interno della Chiesa. Scegliere Cristo - sosteneva - vuol dire rinunciare ai beni di questo mondo: non solo alle ricchezze, ma anche (e soprattutto) al potere sugli altri uomini. La libertà del fedeli è la sola e vera legge della Chiesa di Cristo. Nessuna verità può essere imposta con la forza alla coscienza degli uomini. Verità, del resto, sono quelle che la tradizione della Chiesa ha riconosciuto come tali. Ma la Chiesa non è né il papa, né il concilio. La Chiesa è la comunità di tutti fedeli, «la moltitudine di tutti i cattolici vissuti dai tempi dei profeti e degli apostoli sino ad oggi».
Michele da Cesena e Marsilio da Padova morirono tra il 1342 e il 1343, Ludovico il Bavaro nel 1347, Occam nel 1349. La Chiesa si liberò dei gruppi di opposizione e in particolare delle correnti pauperistiche. L'episodio era chiuso. Restavano gruppi estremistici o ereticali sparsi un po' dovunque, restava il ricordo di un'esperienza riformatrice arrivata a un passo dal successo, e restavano, naturalmente, le idee. Alcune di queste sarebbero riaffiorate in Inghilterra nella generazione successiva con John Wyclif e con il movimento, sorto intorno a lui, dei Lollardi (vedi oltre).

GIOACCHINO DA FIORE E L'ESTREMISMO FRANCESCANO

Accanto alle eresie dei Catari e dei Valdesi si svilupparono tra il XII e il XIII secolo altri movimenti ereticali che in parte le richiamavano e in parte se ne distinguevano per una più accentuata dose di misticismo, di ascetismo, di millenarismo, di estremismo spiritualistico: alla base, tuttavia, c'era sempre una critica radicale nei confronti della Chiesa e delle sue istituzioni temporali. Questi movimenti si ispiravano tutti in un modo o nell'altro al gioachimismo ossia alle dottrine di Gioacchino da Fiore, calabrese, abate cistercense, morto nel 1202, che aveva elaborato una singolare teologia della storia non centrata esclusivamente sulla venuta di Cristo, bensì a base trinitaria. In sostanza, Gioacchino sosteneva che alle tre persone della Trinità corrispondono tre diverse epoche storiche: a) l'età del Padre ovvero l'età della legge, della carne, dei laici; b) l'età del Figlio o età cristiana, della durata di 1260 anni, che è qualcosa di intermedio fra l'età della carne e quella dello spirito, ed è altresì l'età dei chierici; c) l'età dello Spirito Santo, ovvero dei monaci, che avrebbe dovuto avere inizio appunto nel 1260 e durante la quale l'ormai corrotta Chiesa della «carne» sarebbe stata sconfitta dalla nuova Chiesa dello «spirito».
Il pensiero gioachimita, condannato una prima volta dal Concilio lateranense del 1215 e poi respinto dal sinodo di Arles del 1263, ebbe una larghissima diffusione. Fu accolto, ad esempio, dalle correnti estreme del movimento francescano e in particolare dagli Spirituali, che, contro il lassismo dei Conventuali, erano sostenitori di una rigida osservanza della regola di San Francesco particolarmente in relazione alla questione della povertà. In questi ambienti estremistici, intorno alla metà del Duecento, San Francesco veniva indicato come il nuovo profeta inviato da Dio e gli Spirituali erano identificati con quel nuovo ordine religioso che era stato annunciato nelle profezie di Gioacchino come autore della definitiva riforma della Chiesa.
Al clima di misticismo millenaristico e di ansia di riforma instaurato dal gioachimismo vanno riportati, almeno in parte, fenomeni come quello dei Flagellanti (sorti a Perugia nel 1260-61) o personaggi quali Arnaldo di Villanova (il medico di fiducia di Bonifacio VIII), Pier di Giovanni Olivi (eccentrico capo degli Spirituali, morto nel 1298), Ubertino da Casale (1259-1329, un altro esponente degli Spirituali, che Giovanni XXII nel 1317 trasferì d'autorità dall'ordine francescano al benedettino) e lo stesso Iacopone da Todi (che conobbe la scomunica e la prigione).
Alla stessa matrice va ricondotta la setta degli Apostolici (o «Fratelli apostoli»): nata dalla predicazione del parmense Gerardo Segarelli, un francescano espulso dall'ordine nel 1260, condannato dall'Inquisizione al carcere a vita nel 1294 e mandato al rogo nel 1300, proseguì attraverso l'opera del successore, Fra Dolcino, implacabile accusatore della corruzione ecclesiastica, agitatore di folle, finito anch'egli arso nel 1307. (Chi desideri saperne di più sui movimenti ereticali di quel tempo, può leggersi la gustosa rievocazione che ne fa Umberto Eco nel romanzo Il nome della rosa).

POPOLO, PALAZZO, DEMOCRAZIA

In senso generalissimo si intende per «popolo» una collettività di persone che hanno in comune una fede politica o religiosa (in espressioni come: il popolo di sinistra, il popolo cristiano, ecc.), una condizione sociale o professionale (il popolo degli artigiani) e così via. Anche più genericamente il termine è usato come sinonimo di moltitudine o di folla (un grande concorso di popolo, ma anche una città popolosa) o di «gente», specialmente la «gente comune», «la maggioranza della gente» (vox populi, vox Dei), il «pubblico»: in questo senso si parla di «popolarità» (un attore popolare, è quello che ha il favore del pubblico della maggioranza della gente). Quelli che qui ci interessano sono però alcuni valori specifici del termine «popolo», riconducibili a due significati principali, l'uno politico, l'altro sociale.
In senso politico «popolo» indica il complesso dei cittadini di uno Stato, ossia l'insieme degli uomini che vivono sotto lo stesso governo e che obbediscono alle stesse leggi, senza distinzioni di classe o di cultura (ad esempio: il popolo italiano). La parola acquista però un accento particolare quando sta a indicare (magari usata al plurale: popoli) l'insieme dei governati in contrapposizione all'insieme di coloro che governano (o che «sgovernano») come nel sonetto di Giuseppe Gioacchino Belli (1791-1863) Li soprani der monno antico («soprano» sono i sovrani, alla romana). Qui, ridotta all'essenziale, Belli dà una folgorante definizione di quella che potremmo chiamare «la logica del Palazzo» (un termine, quest'ultimo, che viene dal latino Palatium = «il colle Palatino» a Roma, dove sorgevano le residenze degli imperatori e che, scritto con la P maiuscola, è correntemente usato per indicare l'arrogante combriccola dei governanti, in opposizione, appunto, alla gente comune, al popolo):

C'era una vorta un Re che dar palazzo
mannò fora a li popoli st'editto:
lo sò io, e voi nun zete un cazzo...

Si parla di governo «popolare» per indicare una forma di governo che invece di opporsi o di sovrapporsi arrogantemente al popolo (all'insieme dei cittadini), ne è libera espressione: «governo popolare» è allora sinonimo di democrazia (dal greco démos = «popolo» e kràtos = «potere»).
L'espressione «governo popolare» ha però un significato sensibilmente diverso quando il popolo di cui si tratta non viene inteso come l'insieme di tutti i cittadini, ma come un particolare gruppo sociale, e cioè come l'insieme delle classi «basse» e più numerose (i popolani i poveri, i lavoratori, ecc.) in contrapposizione alle classi «alte» (i nobili, i ricchi, i potenti, i colti). In questo caso «democrazia» e governo «popolare» sono l'antitesi di governo «oligarchico» (dal greco olìgoi = «pochi» e -archìa = «governo»: «governo di pochi»), «aristocratico» (dal greco àristos = «ottimo»: «governo degli ottimati»), «plutocratico» (dal greco plùtos = «ricchezza»: «governo dei ricchi»), ecc.
Il termine «popolo» inteso come gruppo sociale (l'insieme delle classi inferiori, in opposizione alle classi elevate) può indicare cose molto diverse a seconda delle epoche. I criteri che definiscono l'inferiorità o la superiorità sociale cambiano infatti con il tempo. La ricca borghesia, ad esempio, che oggi si contrappone al popolo come classe «elevata» ancora due secoli fa era considerata una classe «bassa» e assimilata al popolo giacché l'aristocrazia occupava da sola i più alti gradini della scala sociale: come criterio di discriminazione sociale la nobiltà della nascita prevaleva allora su ogni altro valore, e per esempio sulla ricchezza e sulla cultura (mentre oggi è piuttosto vero il contrario).
Nel suo significato sociale il termine «popolo» è ambiguo anche per un'altra ragione: in ogni epoca il cosiddetto «popolo» ha presentato al proprio interno diversità e stratificazioni, che impediscono di considerarlo una realtà sociale omogenea. Più che un gruppo sociale, «popolo» designa insomma un insieme di gruppi e di ceti, i cui interessi economici, la cui cultura, le cui aspirazioni politiche possono essere non solo diversi, ma contrastanti. Sono nate così una serie di distinzioni all'interno del «popolo» e di volta in volta si è contrapposto il popolo «grasso» (ricco) al popolo «minuto» (povero), il popolo colto al «popolino» ignorante, il popolo delle città a quello delle campagne, il proletariato al sottoproletariato, e così via.
Talvolta si è cercato di restringere la portata del termine «popolo» ai soli ceti più elevati del popolo stesso, quelli, cioè, caratterizzati da un certo benessere e da una certa cultura, riservando agli strati più umili termini come «popolino», «popolaccio», «plebaglia», «canaglia» e via vituperando, che sottolineano i caratteri moralmente e culturalmente negativi (ignoranza, rozzezza, brutalità, ecc.) di solito attribuiti ai poveri, ai diseredati, ai «marginali» (che vivono ai margini della società) e agli «emarginati» (che sono esclusi dalla società).
Un'ultima fonte di equivoci è l'uso arbitrario o ambiguo che in ogni tempo è stato fatto nel linguaggio politico del termine «popolo». In molte città del Basso Medio Evo e della prima Età Moderna, per esempio, il governo era conteso tra due fazioni, quella dei «Nobili» e quella dei «Popolari» e si diceva «popolare» il governo tenuto dalla fazione che così si denominava, anche se il popolo vero quello minuto dei bottegai, degli artigiani e dei lavoranti, ne era totalmente escluso. In realtà, la fazione detta «popolare» era costituita da famiglie della borghesia mercantile, ricche, potenti e di antica tradizione, non dissimili in sostanza dalle famiglie dette «nobili». Molto spesso questi «Popolari» finirono col fondersi del tutto con i «Nobili», proprio sulla base del comune interesse a impedire l'organizzazione politica e l'accesso al potere delle classi più umili.
Che cosa esattamente si debba intendere nel Medio Evo per «popolo» e per «democrazia» non risulta chiaro neppure nell'opera del primo teorico europeo della sovranità popolare, Marsilio da Padova. In qualsiasi autorità sovrana, diceva Marsilio, si possono distinguere tre poteri: quello legislativo (che fa le leggi, ossia stabilisce le norme della convivenza civile), quello giudiziario (che giudica circa la conformità o meno dei comportamenti individuali alle leggi in vigore) e quello esecutivo (che mette in atto quanto ordinato dalle leggi o dalle sentenze dei giudici). Il potere legislativo, sosteneva, appartiene al popolo mentre i poteri esecutivo e giudiziario sono delegati dal popolo stesso al principe; il principe, dunque, è un organo della volontà popolare, che resta sempre sottoposto al controllo della comunità e deve rispondere al popolo del modo in cui ha gestito i poteri a lui delegati.
La sovranità, insomma, appartiene al popolo: o meglio, aggiungeva Marsilio, «alla sua parte migliore». E qui le cose si complicavano. Che cosa intendeva Marsilio per «parte migliore» (valentior) del popolo? «la maggioranza» del popolo (valentior pro quantitate), oppure la parte socialmente e intellettualmente più qualificata e più influente (valentior pro qualitate)? Si è discusso a lungo intorno a questa alternativa, ma l'ambiguità resta ed è sufficiente a indicare quanto sia problematico parlare per il Medio Evo di «democrazia», almeno nel significato che oggi diamo a questa parola.