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Locke, John.

Filosofo e pensatore politico inglese. Compì gli studi universitari a Oxford dove conseguì il baccellierato e il diploma di maestro delle arti. Negli anni tra il 1660 e il 1667 si dedicò agli studi di medicina, di fisica e di fisiologia e si legò agli ambienti scientifici di Oxford, soprattutto a Boyle. Trasferitosi a Londra nel 1667 al seguito del conte di Shaftesbury, entrò a far parte nel 1668 della Royal Society, impegnandosi nella soluzione di importanti questioni politiche ed economiche. Nel 1668 Shaftesbury fu nominato presidente del consiglio privato della corona e, in tale veste, si trovò a capeggiare l'opposizione contro i tentativi assolutistici di Carlo II. Quando Shaftesbury dovette fuggire in Olanda, dopo il fallimento della sua lotta contro il re, anche L. venne sospettato e dovette rifugiarsi dapprima ad Oxford e poi ad Amsterdam (1683). Ritornato in Inghilterra nel 1689, dopo la rivoluzione che portò al trono Guglielmo d'Orange, vide riconosciuta la propria autorità quale teorico del liberalismo. Nel 1691 lasciò Londra ritirandosi in campagna, nell'Essex, ospite di sir F. Masham nel castello di Oates, dove rimase sino alla morte, pur continuando a tenere contatti con gli ambienti politici e culturali londinesi. Tra le sue numerose opere ricordiamo il Saggio sull'intelletto umano (1690), l'opera filosofica fondamentale, l'importante Lettera sulla tolleranza, pubblicata anonima nel 1689, i Due trattati sul governo (1690), l'opera principale di filosofia politica. L. viene considerato il padre dell'empirismo inglese e il teorizzatore del liberalismo sostenuto dalla nuova e attiva classe mercantile e borghese alla fine del Seicento. Il punto di partenza della sua filosofia è la critica all'innatismo. Secondo il filosofo inglese pensare che certi principi, come quelli di identità, di non contraddizione, di giustizia siano "impressioni permanenti che l'anima umana riceve dal primo momento della sua esistenza" è un errore. La mente si presenta inizialmente come una tabula rasa, "un foglio di carta bianco, privo di qualsiasi segno, senza nessuna idea". La fonte delle idee è dunque l'esperienza, che viene posta alla base di qualsiasi forma di conoscenza. L. distingue un'esperienza esterna (sensazioni) e un'esperienza interna (riflessione). L'esperienza esterna ci offre gli elementi primi del conoscere (colori, suoni, sapori, ecc.), cioè le idee semplici, mentre l'intelletto, sulla base del materiale sensibile, formula, attraverso tutta una serie di operazioni (astrazioni, comparazioni, ecc.), le idee complesse (idea di sostanza, idea di modo, idea di relazione, ecc.). Le idee, considerate singolarmente, non sono né vere né false, e la verità o la falsità sono insite nel giudizio. Le cose hanno in se stesse una "essenza reale" che è preclusa alla conoscenza umana, poiché l'unico mezzo di conoscenza, la sensibilità, tende a soggettivare qualsiasi dato. Pertanto l'essenza che noi conosciamo è solo nominale. Infatti, anche se le qualità delle cose sono classificabili in oggettive (primarie) e soggettive (secondarie), le prime (estensione, solidità, ecc.) ci consentono di conoscere solo la struttura generale della materia e le seconde (colori, sapori, suoni, ecc.) non ci consentono di uscire dalla sfera del soggettivismo. Quanto al nostro io, noi abbiamo di esso una conoscenza per intuizione, ma non sappiamo quale sia l'essenza dello spirito e quali siano i suoi rapporti col corpo. Nella sua dottrina politica L. parte, come Hobbes, da un'analisi dello stato di natura, che definisce uno stato di "pace, benevolenza, mutua assistenza e difesa". Lo stato di natura non è fondato sull'anarchia, come affermava Hobbes, non corrisponde a uno stato di guerra di tutti contro tutti. Esiste infatti una legge naturale che vincola gli uomini e che si fonda sulla ragione. La ragione pone come diritti inalienabili e irrinunciabili il diritto alla libertà, il diritto alla vita, il diritto alla proprietà. Il difetto dello stato di natura sta solo nel fatto che l'esercizio dei diritti naturali è esposto agli arbitrii individuali, così che si rende necessaria una sovranità superiore che garantisca l'imparzialità e l'equilibrio della giustizia. Ne deriva che, in forza di una libera contrattazione, si passa dallo stato di natura allo stato civile. Ma per L. lo stato, al contrario di quanto affermava Hobbes, non comporta da parte dei cittadini la rinunzia ai diritti dati loro dalla natura. Esso, ha il compito di tutelare questi diritti, e l'autorità ne risponde di fronte alla comunità. Quando l'autorità esce dai limiti della legge, non rispondendo più ai fini per i quali è stata creata, il popolo può ribellarsi allo stato, poiché non è l'individuo ad essere al servizio dello stato, ma lo stato al servizio dell'individuo. Le rivoluzioni sono quindi razionalmente giustificate. In accordo con la dottrina politica L. afferma inoltre la necessità della tolleranza religiosa, come presupposto indispensabile della convivenza civile (Wrington, Somersetshire 1632 - Oates, Essex 1704).