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Lippmann, Walter.

Giornalista americano. Laureatosi all'università di Harvard nel 1909, dalle iniziali posizioni socialisteggianti andò orientandosi verso un tipo di liberalismo radicale e successivamente verso posizioni sempre più conservatrici, diventando uno dei più autorevoli rappresentanti della pubblicistica repubblicana di destra. Sottosegretario aggiunto alla Guerra nel 1917, fece parte della delegazione statunitense alla conferenza di Versailles del 1919. Dal 1921 al 1931 fu direttore e columnist del "World", passando poi al "New York Herald Tribune" di cui fu autorevole commentatore sino al 1967. Nel dopoguerra, in pieno clima di guerra fredda, egli sostenne la tesi secondo cui la pace non doveva essere considerata il fine della politica statunitense, affermando che "la logica della pace, come suprema idea nazionale, porta all'assurdità". Secondo la sua concezione della politica di potenza relativa agli Stati nazionali, uno Stato deve condurre la propria politica estera sulla base delle sue effettive risorse di potenza ed essendo il fine supremo la "sopravvivenza" il modo migliore per garantirla è quello di promuovere una guerra preventiva, contando sulla propria superiorità militare. Come studioso dell'opinione pubblica egli si è fatto assertore di un'ideologia aristocratica e pessimistica, secondo cui il "pubblico" è un fantasma e le opinioni dell'uomo-massa sono in gran parte determinate da nozioni fisse, che egli definisce stereotipi, tali da suscitare risposte più o meno prevedibili, così che, distinti richiami ai sensi possono essere prodotti da certe combinazioni di colori, forme, odori. Opere principali: La giusta società (1937); La politica estera degli Stati Uniti (1943); La guerra fredda (1947); Filosofia pubblica (1955); Gli imminenti confronti con l'URSS (1961); Unità occidentale e Mercato comune (1962) (New York 1889-1974).