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Jugoslavia.

Regione storica dell'Europa balcanica. Le sue dimensioni e i suoi confini sono variati a seconda dei momenti storici, con una massima espansione, dal 1954 al 1991, comprendente buona parte del retroterra adriatico orientale, dall'Austria e dall'Ungheria all'Albania e alla Grecia, dall'Italia alla Romania e alla Bulgaria. • Nel III sec. a.C. il territorio era abitato da tribù illiriche. A partire dal II sec. a.C. i Romani iniziarono la conquista della regione e in età imperiale stabilirono il confine orientale dell'Impero sul Danubio. Nel 395 d.C., alla morte dell'imperatore Teodosio, l'Impero romano fu diviso in Impero d'Oriente e Impero d'Occidente; il confine fu posto sui fiumi Sava e Danubio e la regione passò sotto l'influenza bizantina. Nei secc. VI-VII d.C. si ebbe una massiccia immigrazione di popoli slavi nella penisola balcanica; essi erano stati costretti ad abbandonare i loro territori, compresi fra il Dnepr, il corso superiore della Vistola e il Don, a causa delle pressioni di tribù nomadi provenienti dal Caspio e dagli Urali. Con continue infiltrazioni gli Slavi riuscirono gradualmente a modificare la composizione etnica del territorio che da allora assunse il nome di Sclavenia o Sclavonia. Già alla fine dell'VIII sec. esistevano piccoli principati vassalli di Costantinopoli; tra questi emerse il principato di Raška (la cosiddetta Vecchia Serbia), che mantenne la propria indipendenza sino all'XI sec., quando fu conquistata dallo Stato degli Slavoni (Montenegro). Nel XII sec. anche quest'ultimo Regno cadde sotto i Bizantini, ma verso la fine di quello stesso secolo il sovrano di Raška, Stefano Nemanja, si rese indipendente, conquistò i territori dell'ex Regno degli Slavoni e in un decennio sottomise (con l'eccezione della Bosnia) tutto il Nord-Ovest della penisola balcanica. Nel 1217 il figlio Stefano I ottenne dal papa Onorio III il titolo di re di Serbia e del Montenegro, fondando così la Grande Serbia. Fino agli inizi del XIV sec. la Grande Serbia attraversò un difficile periodo di assestamento contrassegnato da violente lotte interne. Un rapido sviluppo economico e il sorgere di strutture politiche unitarie permise tuttavia a Stefano VIII Uroš III Dečanski di riconsolidare la monarchia e di sottomettere l'Impero bulgaro. Sotto il regno di Stefano IX Uroš IV Dušan la Serbia raggiunse il massimo della sua potenza: vennero conquistate la Macedonia, l'Albania, l'Epiro, quasi tutta la Tessaglia e nel 1346 Stefano IX assunse a Skopje la corona imperiale. Tale Impero ebbe però vita breve: passato nelle mani del debole Stefano X Uroš V, cadde in preda dell'anarchia e, dopo la sconfitta nella battaglia del fiume Maritza (1371) contro i Turchi, si disintegrò in una miriade di staterelli, destinati a cadere poco alla volta sotto il giogo turco. Nel 1389 i Turchi annientarono nella battaglia di Kosovo gli eserciti coalizzati serbo-bosniaci e nel 1459, con la battaglia di Smederevo, venne conquistato l'ultimo Principato serbo; solo il Montenegro si mantenne indipendente. La Serbia fu ridotta a provincia ottomana e governata dall'aristocrazia cavalleresca dei siphai. Il risveglio nazionale serbo iniziò solo verso la fine del XVIII sec. La prima insurrezione (1804-13), comandata dal capo contadino Gjorgje Karagjorgje, riuscì per breve tempo a liberare il Paese. Miloš Obrenovič, un altro capo contadino, prese la testa di una seconda insurrezione (1815-30), assassinò Karagjorgje e costrinse il sultano a riconoscerlo principe di Serbia e a ritirare dal Paese le truppe ottomane. Nel 1878 i Serbi, in cambio dell'aiuto dato alla Russia in guerra con la Turchia, ottennero, con il Trattato di pace di Santo Stefano, ingrandimenti territoriali. L'anno seguente il Congresso di Berlino assicurò al principato la totale indipendenza e nel 1882 esso venne trasformato in Regno di Serbia. In questo stesso congresso anche il Montenegro ottenne il riconoscimento internazionale di Stato indipendente e sovrano, mentre la Bosnia-Erzegovina fu posta sotto la protezione dell'Austria. Iniziò da questo momento una crisi nelle relazioni tra Austria e Serbia, poiché quest'ultima costituiva l'unico ostacolo alle mire espansionistiche dell'Impero austro-ungarico nei Balcani. L'assassinio nel 1903 del re Alessandro I Obrenovič, filo-austriaco, e la sua sostituzione con il filo-russo Pietro I Karagjorgjevic, aggravò le relazioni con Vienna, che nel 1908 proclamò l'annessione della Bosnia-Erzegovina. Dal canto suo Belgrado, partecipando alla prima e alla seconda guerra balcanica (nel 1912 contro la Turchia, nel 1913 contro la Bulgaria) ottenne, con la Pace di Bucarest del 1913, i territori a Ovest del fiume Struma. In seguito a questo successo il Regno di Serbia divenne il centro di attrazione di tutti gli Slavi del Sud ancora sotto il dominio austriaco. La tensione tra Austria e Serbia culminò con l'assassinio dell'arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono austriaco, il 28 giugno 1914 mentre questi era in visita alle provincie bosniache: l'Austria prese a pretesto questo episodio per inviare alla Serbia un ultimatum che fu respinto. Ebbe così inizio la guerra che assunse ben presto carattere europeo e poi mondiale. Verso la fine del 1915, dopo una strenua resistenza, la Serbia venne occupata dalle forze austro-bulgare ma l'esercito, raggiunto l'Adriatico, venne evacuato dalle flotte italiana e inglese e, trasportato in Grecia, continuò la lotta contro gli Imperi centrali sino alla fine vittoriosa del conflitto nel 1918. Nel 1917 era stata frattanto firmata una dichiarazione nella quale si esprimeva il desiderio di costituire uno Stato che raggruppasse gli Slavi del Sud. Lo smembramento dell'Impero asburgico fece sì che anche Croazia, Slovenia e Bosnia-Erzegovina proclamassero il loro desiderio di unirsi alla Serbia e al Montenegro, per formare quello che sarebbe diventato il Regno di Serbi, Croati e Sloveni, con una popolazione di 14.000.000 di abitanti e 250.000 kmq di superficie. Al congresso di pace di Versailles (1919) il problema delle frontiere jugoslave fu ampiamente discusso: per quanto riguardava i confini con l'Italia l'accordo fu raggiunto solo nel 1920 con il rattato di Rapallo, che riconobbe all'Italia Trieste, l'Istria, Zara e alcune isole dalmate, mentre Fiume venne riconosciuta città libera (ma nel 1924 anche quest'ultima passò all'Italia). Tuttavia, sin dal suo nascere, il nuovo Regno fu travagliato da gravi crisi interne: particolarmente aspro era il conflitto fra i Croati, che richiedevano piena parità per i vari popoli del Paese, e i Serbi, che tendevano invece all'annullamento delle autonomie locali intendendo l'unificazione prevalentemente come ingrandimento della Serbia. La vita politica del Regno fu contrassegnata, nel primo dopoguerra, dalla grande instabilità dei vari Governi succedutisi; ad aggravare la situazione contribuirono i movimenti separatisti croati e sloveni, appoggiati dal Partito contadino croato. Nel gennaio 1929 il re Alessandro I, per sedare i contrasti, con un colpo di mano sciolse il Parlamento e incaricò il generale Zukovic di formare un nuovo Governo, di fatto retto dallo stesso Alessandro che cambiò il nome del Paese in Regno di J. Nel 1931 fu concessa una nuova Costituzione, tendente a smorzare i particolarismi, che però incontrò ugualmente opposizioni in Croazia, dove si formò un comitato di agitatori (gli ustascia) propugnatore della Croazia indipendente. Il 9 ottobre 1934 il re Alessandro, in visita ufficiale in Francia, fu assassinato a Parigi da un ustascia: la corona passò allora a un suo giovane cugino che governò con grandi difficoltà a causa del perdurante malcontento croato. Poco prima che scoppiasse la seconda guerra mondiale, nel 1939, la Croazia ottenne una maggiore autonomia per mezzo di un'assemblea eletta a suffragio universale: il Governo di Belgrado mantenne però tutti i poteri in politica estera e in materia di difesa e di finanze. Allo scoppio del conflitto il reggente Paolo, spinto dall'atteggiamento aggressivo di Germania e Italia, aderì alla politica dell'Asse ma l'immediata sommossa di Belgrado rovesciò il Governo, che passò al principe Pietro II. Nell'aprile 1941 le truppe tedesche e italiane invasero il Paese e lo occuparono completamente, ma dopo solo qualche mese furono organizzate le prime formazioni di resistenza, aiutate anche dal legittimo Governo costretto nel frattempo all'esilio. Particolarmente attive furono le formazioni comuniste, comandate da Josip Broz, detto Tito, che diedero vita nel 1942 a un Consiglio antifascista di liberazione nazionale, con un programma economico, politico e sociale di impronta comunista e federalista insieme. Frattanto il Paese era travagliato anche da una terribile guerra civile dovuta alle discordie tra la Croazia, che mirava alla completa indipendenza, e la Serbia. Dopo la resa italiana (8 settembre 1943) la guerriglia aumentò di intensità; in quello stesso anno Tito fu nominato maresciallo di J. e comandante dell'esercito di liberazione. Il 20 ottobre 1944 Belgrado fu liberata. Nel marzo 1945 si formò un nuovo Governo sotto la presidenza di Tito e il 29 novembre l'Assemblea costituente proclamò la Repubblica. La Costituzione della Repubblica Federale Popolare di J. del 15 gennaio 1946 prevedeva uno Stato federale composto da sei Repubbliche (Serbia, Croazia, Slovenia, Macedonia, Montenegro e Bosnia-Erzegovina), ognuna con una Costituzione autonoma, e organizzava lo Stato secondo i principi socialisti. Il primo piano quinquennale, varato nel 1946, impostò la nazionalizzazione dei mezzi di produzione e la pianificazione dell'economia. In politica estera furono stretti rapporti soprattutto con i Paesi dell'Europa dell'Est. Ma dal 1948, per divergenze ideologiche e politiche con gli altri Stati del blocco orientale, la J. si riavvicinò all'Europa occidentale per quanto riguardava la collaborazione economica. Nel 1954 fu risolto anche il contrasto sorto con l'Italia per la questione del territorio libero di Trieste e la J. ottenne, a seguito degli accordi di Londra, la Zona B del territorio triestino. Dopo la morte di Stalin (1953) ci fu un sensibile riavvicinamento della J. all'Unione Sovietica, sottolineato dalla visita di N. Krusciov a Belgrado nel 1955. La ripresa delle relazioni diplomatiche con l'URSS determinò un temporaneo irrigidimento del gruppo dirigente, ma nel 1963 gli elementi più filo-sovietici del regime furono destituiti. In realtà la J. perseguì in politica estera una linea di neutralità attiva fra Washington e Mosca, fondando con India ed Egitto il movimento dei "Paesi non allineati". Tito morì nel maggio 1980, all'età di 88 anni, lasciando vacanti le cariche di presidente della Repubblica e della Lega dei comunisti. La scomparsa dell'anziano leader, che aveva simboleggiato l'unità nazionale, trovò la J. impreparata. La forma di Governo collegiale, varata nel 1974, si rivelò inefficace e di complicata attuazione: essa prevedeva un gruppo dirigente composto dai rappresentanti delle sei Repubbliche e delle due province autonome di Kosovo e Vojvodina, mentre la carica di capo dello Stato veniva assegnata a rotazione a ognuno dei diversi rappresentanti e aveva durata annuale. Il 15 maggio 1980 venne nominato il primo presidente della Repubblica con mandato annuale: Vijetin Mijatovic, rappresentante della Bosnia-Erzegovina. Già l'anno seguente, però, la minoranza albanese del Kosovo manifestò violentemente contro il Governo centrale, che represse duramente la protesta, partita dall'Università di Pristina. Il 1983 fece registrare ancora tensioni nel Kosovo, dove i nazionalisti albanesi costrinsero all'esodo parte della minoranza serba, e anche in altre regioni come la Bosnia-Erzegovina, la Vojvodina e la Macedonia. Ai contrasti nazionalistici si aggiunsero ben presto una dura crisi economica e il dissenso degli intellettuali. Il Governo reagì decurtando i salari, bloccando le tariffe e i prezzi di alcuni generi di prima necessità e svalutando il dinaro. Tali misure non riuscirono però a frenare la discesa dell'economia nazionale né l'aumento dell'inflazione. Per quanto riguardava i problemi etnici prevalse la linea dura nei confronti delle minoranze. Capofila di questa tendenza fu il comunista serbo Slobodan Miloševic, che nel 1987 assunse la presidenza della Lega dei comunisti serba dopo aver costretto alle dimissioni il precedente presidente, Ivan Stambolič. Nel maggio 1988 la Lega dei comunisti respinse le richieste slovene e croate in favore del pluralismo e della ristrutturazione del sistema politico. L'impronta socialista dello Stato venne riconfermata ma, nel 1989, anche la J. fu interessata dal vento di rinnovamento che stava investendo tutti i Paesi dell'Est europeo. L'anno seguente il Partito comunista della Slovenia abbandonò la Lega nazionale dei comunisti, che si sciolse dopo aver bandito libere elezioni: in Slovenia e Croazia i partiti di ispirazione comunista furono sconfitti, mentre la popolazione palesò con un referendum la volontà di completa autonomia rispetto al Governo federale. Poco dopo anche la Bosnia proclamò la propria sovranità, mentre le prime elezioni libere serbe premiarono lo sciovinismo e il nazionalismo di Miloševic, già presidente della Serbia dal 1989. Vojvodina e Kosovo vennero privati di ogni autonomia e le autorità serbe repressero nel sangue le proteste di quest'ultima regione. Dopo mesi di disordini sanguinosi, il 25 giugno 1991 il Parlamento sloveno e quello croato proclamarono quasi contemporaneamente l'indipendenza delle due Repubbliche. La reazione dell'esercito federale, allineato sulle posizioni della Serbia, non si fece attendere ma esso andò incontro a una sconfitta in Slovenia, la cui indipendenza venne riconosciuta in luglio dagli Accordi di Brioni. In Croazia, invece, la comunità serba insorse e, appoggiata dalle Forze armate serbo-federali, si impadronì di ampi territori. In ottobre anche Macedonia, Bosnia-Erzegovina e Kosovo proclamarono l'indipendenza, ponendo virtualmente fine alla Federazione jugoslava. Il 27 aprile 1992 venne fondata la nuova Repubblica federale di J., di cui facevano parte solo le Repubbliche di Serbia (con le regioni del Kosovo e della Vojvodina private di ogni autonomia) e di Montenegro. La guerra civile nelle Repubbliche ex jugoslave, però, continuò e anzi si intensificò estendendosi alla Bosnia-Erzegovina dove, come in Croazia, la comunità serba insorse con lo scopo di impadronirsi delle regioni da essa abitate, in vista di una futura annessione di queste alla Serbia. Gli anni seguenti videro l'intensificarsi degli scontri tra Serbi, Bosniaci e Croati che le pur numerose trattative di pace, condotte grazie alla mediazione di diplomatici occidentali, non riuscirono a bloccare. La Serbia, dopo la riconferma di Miloševic come presidente della Repubblica (1992) e nonostante le severe sanzioni economiche da parte dei Paesi europei, continuò la sua offensiva contro la Bosnia-Erzegovina, ponendo l'assedio alla città di Sarajevo. Mentre nel giugno 1993 nella Kraijna, regione croata a popolazione serba, si effettuava un referendum che decretava l'annessione del territorio alla Serbia, la comunità internazionale decise di dichiarare la città di Sarajevo sotto l'amministrazione e la protezione dell'ONU per un periodo di due anni. Alla fine del 1993 le elezioni per il rinnovamento del Parlamento serbo videro una nuova vittoria del Partito socialista di Miloševic; nella primavera seguente, nell'impossibilità di giungere a un accordo di pace, fu deciso il primo intervento di aerei NATO nei cieli della Bosnia. Il 1994 segnò un deciso rivolgimento delle sorti, con il prevalere sempre più netto dei musulmani di Bosnia sulle milizie serbo-bosniache. Con l'intervento della Croazia, impegnata nella riconquista della Kraijna (posta anch'essa ufficialmente sotto la protezione dell'ONU) e nella creazione di un asse croato-bosniaco in funzione antiserba, il conflitto conobbe un nuovo inasprimento. Solo nel settembre del 1995 si poté giungere ad un accordo di pace e al conseguente ritiro delle truppe serbo-bosniache da Sarajevo. La conclusione del conflitto bosniaco fu decretata ufficialmente dalla firma degli Accordi di Dayton (14 dicembre 1995) che, tuttavia, ottennero un equilibrio piuttosto instabile e precario. Tali accordi prevedevano infatti la divisione della Bosnia in due entità dotate ciascuna di un proprio Governo, ma costituenti lo Stato unitario della Bosnia-Erzegovina, avente come capitale la città di Sarajevo: la Federazione croato-musulmana, con il 51% del territorio, e la Repubblica serba di Bosnia, con il 49%. I rapporti con la Croazia vennero faticosamente ristabiliti ma rimasero più tesi con la Bosnia-Erzegovina per gli stretti legami tenuti dalla J. con la comunità serba di Bosnia. La repressione delle spinte autonomiste della minoranza albanese nel Kosovo (1998) provocarono l'intervento militare della NATO (1999). Dopo una campagna di attacchi aerei sulla J., che danneggiarono pesantemente le infrastrutture del Paese, e il dispiegamento di un contingente multinazionale nella provincia, il Kosovo passò sotto il controllo di un'amministrazione civile dell'ONU. A conclusione della guerra si registrarono in tutto il Paese numerose manifestazioni popolari contro il regime di Miloševic: elemento propulsore della protesta fu il movimento degli studenti Otpor (in serbo "resistenza"), con al fianco L'Alleanza per il cambiamento, di Zoran Djindjič e il Partito del rinnovamento serbo, di Zoran Draskovič. Per bloccare questo movimento d'opposizione il Governo sospese in tutta la Serbia le lezioni universitarie e mise fuori legge l'Otpor. Una riforma istituzionale, che prevedeva l'elezione diretta del presidente della Repubblica, venne approvata nel 2000 dal Parlamento di Belgrado: secondo le nuove direttive Miloševic avrebbe potuto essere rieletto e gli sarebbero stati attribuiti maggiori poteri sia sul Governo sia sulle Forze armate. Dopo una fase di esitazione circa l'atteggiamento da tenere di fronte alla decisione di Miloševic di andare al più presto alle elezioni, l'opposizione decise, a settembre, di raccogliere la sfida e, cercando di accantonare per quanto possibile le divisioni, presentò un unico candidato: Vojislav Kostunica, giurista esponente del Partito democratico serbo. Dopo il voto si aprì un duro scontro sui risultati elettorali; la Commissione elettorale federale ammise la sconfitta di Miloševic ma sostenne la necessità del ballottaggio tra Miloševic e Kostunica per il raggiungimento del quorum. L'opposizione fece ricorso e nello stesso tempo organizzò una serie di marce di protesta. L'esito del ricorso confermò il giudizio della Commissione circa la necessità di andare al ballottaggio. L'ultimo passo compiuto dall'opposizione, che cercò in ogni modo di mantenersi nella legalità, fu il ricorso alla Corte costituzionale (ultimo grado del giudizio). Nell'attesa del verdetto venne proclamato uno sciopero generale (2-5 ottobre) che vide una partecipazione massiccia di tutte le categorie sociali. Con una mossa a sorpresa, il 5 ottobre la Corte dichiarò nulle le elezioni. Subito dopo migliaia di persone scesero in piazza, a Belgrado e nelle altre città serbe, per chiedere il riconoscimento della vittoria di Kostunica. I manifestanti invasero il Parlamento federale e la televisione pubblica, decretando la caduta del regime. A questo punto Miloševic riconobbe pubblicamente la vittoria dell'avversario (6 ottobre) e l'Unione europea decise di revocare le sanzioni economiche applicate dallo scoppio della guerra. Dopo la vittoria di Kostunica, in Serbia venne nominato un Governo di transizione, che guidò il Paese fino alle elezioni del 23 dicembre. Queste terminarono con la vittoria schiacciante della coalizione riformista ODS (Opposizione democratica serba); nel gennaio 2001 si formò dunque un nuovo Governo, guidato da Zoran Djindjič, leader del Partito democratico, non amato da molti perché considerato troppo filo-occidentale. A questo punto si aprì un conflitto tra le autorità federali (Kostunica) e il Governo serbo (Djindjič), in relazione all'atteggiamento da tenere verso Miloševic. Il premier serbo Djindjič si era schierato dalla parte dell'Occidente e degli Stati Uniti nel sostenere l'arresto dell'ex leader serbo, mentre Kostunica aveva assicurato allo stesso Miloševic che non avrebbe concesso la sua estradizione al Tribunale dell'Aja. Il 28 giugno il Governo serbo consegnò Miloševic al Tribunale dell'Aja; la sua consegna aprì una grave crisi politica in seno alla Federazione (il Partito socialista popolare si ritirò dalla coalizione del Governo federale e Kostunica ritirò il suo partito - il Partito democratico serbo - dalla coalizione ODS che reggeva il Governo serbo). A Miloševic vennero formalizzate nuove e ben più gravi accuse: a quelle mossegli inizialmente (arricchimento grazie alla vendita all'estero di una parte delle riserve auree del Paese), si aggiunsero quelle relative ai crimini di guerra perpetrati in Croazia fra l'agosto 1991 e il giugno 1992. Nel frattempo Kostunica formò un nuovo Governo, retto dal primo ministro Dragisa Pesič (in base alla Costituzione se il presidente federale è serbo, il primo ministro deve essere montenegrino). Come presidente della Federazione jugoslava, Kostunica dovette affrontare le spinte autonomiste provenienti sia dal Montenegro sia dal Kosovo, dove si sviluppò un movimento di guerriglia albanese. Sempre in Kosovo, nel novembre 2001, si tennero le prime elezioni politiche dalla fine della guerra, terminate con la vittoria di Ibrahim Rugova. Per quanto riguarda il Montenegro, invece, il presidente Milo Djukanovič, fautore dell'indipendenza, si pose in un atteggiamento di aperto contrasto nei confronti di Kostunica. L'UE, che aveva sostenuto il separatismo montenegrino contro Miloševic, invitò ora Djukanovič a trovare una soluzione nell'ambito della Federazione, mentre i Paesi del Gruppo di contatto sulla ex Jugoslavia (Francia, Gran Bretagna, Germania, Italia, Stati Uniti e Russia) minacciarono la sospensione degli aiuti finanziari in caso di secessione unilaterale. Per cercare di porre rimedio alla frattura apertasi tra Federazione e Montenegro, nel marzo 2002 venne siglato un accordo di massima tra esponenti federali e nazionali di Serbia e Montenegro, promosso e sottoscritto dall'Unione europea, per la creazione di un nuovo Stato denominato Serbia e Montenegro e non più J. In aprile il Governo montenegrino, incapace di gestire il nuovo assetto politico con la Serbia, si dimise. Intanto in Serbia i 45 deputati legati al partito del presidente Kostunica abbandonarono a luglio il Parlamento serbo per protesta contro la decisione del primo ministro Djindjič di sostituire 21 membri dello stesso partito accusati di assenteismo. In un clima tesissimo si prepararono le elezioni presidenziali serbe del mese di settembre, indette anticipatamente per consentire l'estradizione del presidente uscente, Milan Milutinovič, imputato all'Aja per crimini di guerra. Al ballottaggio, previsto per il 13 ottobre, andarono il presidente federale Kostunica e il vice premier Miroljub Labus: la scarsa affluenza al voto invalidò la vittoria riportata da Kostunica e la presidente del Parlamento serbo, Nataša Mičič, si vide costretta a indire nuove elezioni. In Montenegro, intanto, le elezioni generali videro la vittoria della coalizione alleata al presidente Djukanovič, un risultato che osservatori interni e internazionali vollero interpretare come segno di fiducia nei confronti della nuova unione federale tra Serbia e Montenegro. In novembre Djukanovič si dimise da presidente del Montenegro per diventare primo ministro. In dicembre la poca affluenza alle urne determinò una nuova non validità delle elezioni presidenziali serbe: la presidente del Parlamento serbo Mičič venne allora incaricata ad interim della presidenza. Nel mese di gennaio il presidente serbo uscente Milan Milutinovič si consegnò al Tribunale dell'Aja per essere sottoposto a un processo per crimini di guerra dei quali si dichiarò però innocente. Nello stesso mese i Parlamenti serbo e montenegrino approvarono una modifica costituzionale per la definitiva creazione del nuovo Stato di Serbia e Montenegro. Con l'approvazione, nel febbraio 2003, degli stessi cambiamenti costituzionali da parte del Parlamento centrale jugoslavo nacque ufficialmente il nuovo Stato di Serbia e Montenegro, destinato a durare solo fino al maggio 2006, quando, tramite referendum, il Montenegro divenne uno Stato indipendente.
Belgrado: la chiesa ortodossa

Belgrado: veduta dalla Sava