Regione storica dell'Europa balcanica. Le sue dimensioni e i suoi confini sono variati
a seconda dei momenti storici, con una massima espansione, dal 1954 al 1991,
comprendente buona parte del retroterra adriatico orientale, dall'Austria e
dall'Ungheria all'Albania e alla Grecia, dall'Italia alla Romania e alla Bulgaria. • Nel
III sec. a.C. il territorio era abitato da tribù
illiriche. A partire dal II sec. a.C. i Romani iniziarono la conquista della
regione e in età imperiale stabilirono il confine orientale dell'Impero
sul Danubio. Nel 395 d.C., alla morte dell'imperatore Teodosio, l'Impero romano
fu diviso in Impero d'Oriente e Impero d'Occidente; il confine fu posto sui
fiumi Sava e Danubio e la regione passò sotto
l'influenza bizantina. Nei secc. VI-VII d.C. si ebbe una massiccia immigrazione
di popoli slavi nella penisola balcanica; essi erano stati costretti ad
abbandonare i loro territori, compresi fra il Dnepr, il corso superiore della
Vistola e il Don, a causa delle pressioni di tribù nomadi provenienti dal
Caspio e dagli Urali. Con continue infiltrazioni gli Slavi riuscirono
gradualmente a modificare la composizione etnica del territorio che da allora
assunse il nome di Sclavenia o Sclavonia. Già alla fine dell'VIII sec.
esistevano piccoli principati vassalli di Costantinopoli; tra questi emerse il
principato di Raška (la cosiddetta Vecchia Serbia), che mantenne la propria
indipendenza sino all'XI sec., quando fu conquistata dallo Stato degli Slavoni
(Montenegro). Nel XII sec. anche quest'ultimo Regno cadde sotto i Bizantini, ma
verso la fine di quello stesso secolo il sovrano di Raška, Stefano Nemanja,
si rese indipendente, conquistò i territori dell'ex Regno degli Slavoni e
in un decennio sottomise (con l'eccezione della Bosnia) tutto il Nord-Ovest
della penisola balcanica. Nel 1217 il figlio Stefano I ottenne dal papa Onorio
III il titolo di re di Serbia e del Montenegro, fondando così la Grande
Serbia. Fino agli inizi del XIV sec. la Grande Serbia
attraversò un difficile periodo di assestamento contrassegnato da
violente lotte interne. Un rapido sviluppo economico e il sorgere di strutture
politiche unitarie permise tuttavia a Stefano VIII Uroš III
Dečanski di riconsolidare la monarchia e di sottomettere l'Impero bulgaro.
Sotto il regno di Stefano IX Uroš IV Dušan la Serbia raggiunse il
massimo della sua potenza: vennero conquistate la Macedonia, l'Albania, l'Epiro,
quasi tutta la Tessaglia e nel 1346 Stefano IX assunse a Skopje la corona
imperiale. Tale Impero ebbe però vita breve: passato nelle mani del
debole Stefano X Uroš V, cadde in preda dell'anarchia e, dopo la sconfitta
nella battaglia del fiume Maritza (1371) contro i Turchi, si disintegrò
in una miriade di staterelli, destinati a cadere poco alla volta sotto il giogo
turco. Nel 1389 i Turchi annientarono nella battaglia di Kosovo gli eserciti
coalizzati serbo-bosniaci e nel 1459, con la battaglia di Smederevo, venne
conquistato l'ultimo Principato serbo; solo il Montenegro si mantenne
indipendente. La Serbia fu ridotta a provincia ottomana e governata
dall'aristocrazia cavalleresca dei
siphai. Il risveglio nazionale serbo
iniziò solo verso la fine del XVIII sec. La prima insurrezione (1804-13),
comandata dal capo contadino Gjorgje Karagjorgje, riuscì per breve tempo a
liberare il Paese. Miloš Obrenovič, un altro capo contadino, prese la testa
di una seconda insurrezione (1815-30), assassinò Karagjorgje e costrinse
il sultano a riconoscerlo principe di Serbia e a ritirare dal Paese le truppe
ottomane. Nel 1878 i Serbi, in cambio dell'aiuto dato alla Russia in guerra con
la Turchia, ottennero, con il Trattato di pace di Santo Stefano, ingrandimenti
territoriali. L'anno seguente il Congresso di Berlino assicurò al
principato la totale indipendenza e nel 1882 esso venne trasformato in Regno di
Serbia. In questo stesso congresso anche il Montenegro ottenne il riconoscimento
internazionale di Stato indipendente e sovrano, mentre la Bosnia-Erzegovina fu
posta sotto la protezione dell'Austria. Iniziò da questo momento una
crisi nelle relazioni tra Austria e Serbia, poiché quest'ultima
costituiva l'unico ostacolo alle mire espansionistiche dell'Impero
austro-ungarico nei Balcani. L'assassinio nel 1903 del re Alessandro I Obrenovič,
filo-austriaco, e la sua sostituzione con il filo-russo Pietro I Karagjorgjevic,
aggravò le relazioni con Vienna, che nel 1908 proclamò
l'annessione della Bosnia-Erzegovina. Dal canto suo Belgrado, partecipando alla
prima e alla seconda guerra balcanica (nel 1912 contro la Turchia, nel 1913
contro la Bulgaria) ottenne, con la Pace di Bucarest del 1913, i territori a
Ovest del fiume Struma. In seguito a questo successo il Regno di Serbia divenne
il centro di attrazione di tutti gli Slavi del Sud ancora sotto il dominio
austriaco. La tensione tra Austria e Serbia culminò con l'assassinio dell'arciduca Francesco
Ferdinando, erede al trono austriaco, il 28 giugno 1914 mentre questi era in
visita alle provincie bosniache: l'Austria prese a pretesto questo episodio per
inviare alla Serbia un ultimatum che fu respinto. Ebbe così inizio la
guerra che assunse ben presto carattere europeo e poi mondiale. Verso la fine
del 1915, dopo una strenua resistenza, la Serbia venne occupata dalle forze
austro-bulgare ma l'esercito, raggiunto l'Adriatico, venne evacuato dalle flotte
italiana e inglese e, trasportato in Grecia, continuò la lotta contro gli
Imperi centrali sino alla fine vittoriosa del conflitto nel 1918. Nel 1917 era
stata frattanto firmata una dichiarazione nella quale si esprimeva il desiderio
di costituire uno Stato che raggruppasse gli Slavi del Sud. Lo smembramento
dell'Impero asburgico fece sì che anche Croazia, Slovenia e
Bosnia-Erzegovina proclamassero il loro desiderio di unirsi alla Serbia e al
Montenegro, per formare quello che sarebbe diventato il Regno di Serbi, Croati e Sloveni,
con una popolazione di 14.000.000 di abitanti e 250.000 kmq di superficie. Al congresso
di pace di Versailles (1919) il problema delle frontiere jugoslave fu ampiamente
discusso: per quanto riguardava i confini con l'Italia l'accordo fu raggiunto
solo nel 1920 con il rattato di Rapallo, che riconobbe all'Italia Trieste,
l'Istria, Zara e alcune isole dalmate, mentre Fiume venne riconosciuta
città libera (ma nel 1924 anche quest'ultima passò all'Italia).
Tuttavia, sin dal suo nascere, il nuovo Regno fu travagliato da
gravi crisi interne: particolarmente aspro era il conflitto fra i Croati, che
richiedevano piena parità per i vari popoli del Paese, e i Serbi, che
tendevano invece all'annullamento delle autonomie locali intendendo
l'unificazione prevalentemente come ingrandimento della Serbia. La vita politica
del Regno fu contrassegnata, nel primo dopoguerra, dalla grande
instabilità dei vari Governi succedutisi; ad aggravare la situazione
contribuirono i movimenti separatisti croati e sloveni, appoggiati dal Partito
contadino croato. Nel gennaio 1929 il re Alessandro I, per sedare i contrasti, con un colpo di mano
sciolse il Parlamento e incaricò il generale Zukovic di formare un nuovo
Governo, di fatto retto dallo stesso Alessandro che cambiò il nome del Paese in Regno di
J.
Nel 1931 fu concessa una nuova Costituzione, tendente a smorzare i
particolarismi, che però incontrò ugualmente opposizioni in
Croazia, dove si formò un comitato di agitatori (gli
ustascia)
propugnatore della Croazia indipendente. Il 9 ottobre 1934 il re Alessandro, in
visita ufficiale in Francia, fu assassinato a Parigi da un ustascia: la corona
passò allora a un suo giovane cugino che governò con grandi
difficoltà a causa del perdurante malcontento croato. Poco prima che
scoppiasse la seconda guerra mondiale, nel 1939, la Croazia ottenne una maggiore
autonomia per mezzo di un'assemblea eletta a suffragio universale: il Governo di
Belgrado mantenne però tutti i poteri in politica estera e in materia di
difesa e di finanze. Allo scoppio del conflitto il reggente Paolo, spinto
dall'atteggiamento aggressivo di Germania e Italia, aderì alla politica
dell'Asse ma l'immediata sommossa di Belgrado rovesciò il Governo, che
passò al principe Pietro II. Nell'aprile 1941 le truppe tedesche e
italiane invasero il Paese e lo occuparono completamente, ma dopo solo
qualche mese furono organizzate le prime formazioni di resistenza, aiutate anche
dal legittimo Governo costretto nel frattempo all'esilio. Particolarmente attive
furono le formazioni comuniste, comandate da Josip Broz, detto Tito, che diedero
vita nel 1942 a un Consiglio antifascista di liberazione nazionale, con un
programma economico, politico e sociale di impronta comunista e federalista
insieme. Frattanto il Paese era travagliato anche da una terribile guerra civile
dovuta alle discordie tra la Croazia, che mirava alla completa indipendenza, e
la Serbia. Dopo la resa italiana (8 settembre 1943) la guerriglia aumentò
di intensità; in quello stesso anno Tito fu nominato maresciallo di
J. e comandante dell'esercito di liberazione. Il 20 ottobre 1944 Belgrado
fu liberata. Nel marzo 1945 si formò un nuovo Governo sotto la presidenza
di Tito e il 29 novembre l'Assemblea costituente proclamò la Repubblica.
La Costituzione della Repubblica Federale Popolare di
J. del 15 gennaio
1946 prevedeva uno Stato federale composto da sei Repubbliche (Serbia, Croazia,
Slovenia, Macedonia, Montenegro e Bosnia-Erzegovina), ognuna con una
Costituzione autonoma, e organizzava lo Stato secondo i principi socialisti. Il
primo piano quinquennale, varato nel 1946, impostò la nazionalizzazione
dei mezzi di produzione e la pianificazione dell'economia. In politica estera
furono stretti rapporti soprattutto con i Paesi dell'Europa dell'Est. Ma dal
1948, per divergenze ideologiche e politiche con gli altri Stati del blocco
orientale, la
J. si riavvicinò all'Europa occidentale per quanto
riguardava la collaborazione economica. Nel 1954 fu risolto anche il contrasto
sorto con l'Italia per la questione del territorio libero di Trieste e la
J. ottenne, a seguito degli accordi di Londra, la Zona B del territorio
triestino. Dopo la morte di Stalin (1953) ci fu un sensibile riavvicinamento della
J. all'Unione Sovietica, sottolineato dalla visita di N. Krusciov a Belgrado
nel 1955. La ripresa delle relazioni diplomatiche con l'URSS determinò un
temporaneo irrigidimento del gruppo dirigente, ma nel 1963 gli elementi
più filo-sovietici del regime furono destituiti. In realtà la
J. perseguì in politica estera una linea di neutralità
attiva fra Washington e Mosca, fondando con India ed Egitto il movimento dei
"Paesi non allineati". Tito morì nel maggio 1980, all'età di 88
anni, lasciando vacanti le cariche di presidente della Repubblica e della Lega
dei comunisti. La scomparsa dell'anziano leader, che aveva simboleggiato
l'unità nazionale, trovò la
J. impreparata. La forma di
Governo collegiale, varata nel 1974, si rivelò inefficace e di complicata
attuazione: essa prevedeva un gruppo dirigente composto dai rappresentanti delle
sei Repubbliche e delle due province autonome di Kosovo e Vojvodina, mentre la
carica di capo dello Stato veniva assegnata a rotazione a ognuno dei diversi
rappresentanti e aveva durata annuale. Il 15 maggio 1980 venne nominato il primo
presidente della Repubblica con mandato annuale: Vijetin Mijatovic,
rappresentante della Bosnia-Erzegovina. Già l'anno seguente, però,
la minoranza albanese del Kosovo manifestò violentemente contro il
Governo centrale, che represse duramente la protesta, partita
dall'Università di Pristina. Il 1983 fece registrare ancora tensioni nel
Kosovo, dove i nazionalisti albanesi costrinsero all'esodo parte della minoranza
serba, e anche in altre regioni come la Bosnia-Erzegovina, la Vojvodina e la
Macedonia. Ai contrasti nazionalistici si aggiunsero ben presto una dura crisi
economica e il dissenso degli intellettuali. Il Governo reagì decurtando
i salari, bloccando le tariffe e i prezzi di alcuni generi di prima
necessità e svalutando il dinaro. Tali misure non riuscirono però
a frenare la discesa dell'economia nazionale né l'aumento
dell'inflazione. Per quanto riguardava i problemi etnici prevalse la linea dura
nei confronti delle minoranze. Capofila di questa tendenza fu il comunista serbo
Slobodan Miloševic, che nel 1987 assunse la presidenza della Lega dei
comunisti serba dopo aver costretto alle dimissioni il precedente presidente,
Ivan Stambolič. Nel maggio 1988 la Lega dei comunisti respinse le richieste
slovene e croate in favore del pluralismo e della ristrutturazione del sistema
politico. L'impronta socialista dello Stato venne riconfermata ma, nel 1989,
anche la
J. fu interessata dal vento di rinnovamento che stava investendo
tutti i Paesi dell'Est europeo. L'anno seguente il Partito comunista della
Slovenia abbandonò la Lega nazionale dei comunisti, che si sciolse dopo
aver bandito libere elezioni: in Slovenia e Croazia i partiti di ispirazione
comunista furono sconfitti, mentre la popolazione palesò con un
referendum la volontà di completa autonomia rispetto al Governo federale.
Poco dopo anche la Bosnia proclamò la propria sovranità, mentre le
prime elezioni libere serbe premiarono lo sciovinismo e il nazionalismo di
Miloševic, già presidente della Serbia dal 1989. Vojvodina e Kosovo
vennero privati di ogni autonomia e le autorità serbe repressero nel
sangue le proteste di quest'ultima regione. Dopo mesi di disordini sanguinosi,
il 25 giugno 1991 il Parlamento sloveno e quello croato proclamarono quasi
contemporaneamente l'indipendenza delle due Repubbliche. La reazione
dell'esercito federale, allineato sulle posizioni della Serbia, non si fece
attendere ma esso andò incontro a una sconfitta in Slovenia, la cui
indipendenza venne riconosciuta in luglio dagli Accordi di Brioni. In Croazia,
invece, la comunità serba insorse e, appoggiata dalle Forze armate
serbo-federali, si impadronì di ampi territori. In ottobre anche
Macedonia, Bosnia-Erzegovina e Kosovo proclamarono l'indipendenza, ponendo
virtualmente fine alla Federazione jugoslava. Il 27 aprile 1992 venne fondata la
nuova Repubblica federale di
J., di cui facevano parte solo le
Repubbliche di Serbia (con le regioni del Kosovo e della Vojvodina private di
ogni autonomia) e di Montenegro. La guerra civile nelle Repubbliche ex
jugoslave, però, continuò e anzi si intensificò
estendendosi alla Bosnia-Erzegovina dove, come in Croazia, la comunità
serba insorse con lo scopo di impadronirsi delle regioni da essa abitate, in
vista di una futura annessione di queste alla Serbia. Gli anni seguenti videro
l'intensificarsi degli scontri tra Serbi, Bosniaci e Croati che le pur numerose
trattative di pace, condotte grazie alla mediazione di diplomatici occidentali,
non riuscirono a bloccare. La Serbia, dopo la riconferma di Miloševic come
presidente della Repubblica (1992) e nonostante le severe sanzioni economiche da
parte dei Paesi europei, continuò la sua offensiva contro la
Bosnia-Erzegovina, ponendo l'assedio alla città di Sarajevo. Mentre nel
giugno 1993 nella Kraijna, regione croata a popolazione serba, si effettuava un
referendum che decretava l'annessione del territorio alla Serbia, la
comunità internazionale decise di dichiarare la città di Sarajevo
sotto l'amministrazione e la protezione dell'ONU per un periodo di due anni.
Alla fine del 1993 le elezioni per il rinnovamento del Parlamento serbo videro
una nuova vittoria del Partito socialista di Miloševic; nella primavera
seguente, nell'impossibilità di giungere a un accordo di pace, fu deciso
il primo intervento di aerei NATO nei cieli della Bosnia. Il 1994 segnò
un deciso rivolgimento delle sorti, con il prevalere sempre più netto dei
musulmani di Bosnia sulle milizie serbo-bosniache. Con l'intervento della
Croazia, impegnata nella riconquista della Kraijna (posta anch'essa
ufficialmente sotto la protezione dell'ONU) e nella creazione di un asse
croato-bosniaco in funzione antiserba, il conflitto conobbe un nuovo
inasprimento. Solo nel settembre del 1995 si poté giungere ad un accordo
di pace e al conseguente ritiro delle truppe serbo-bosniache da Sarajevo. La
conclusione del conflitto bosniaco fu decretata ufficialmente dalla firma degli
Accordi di Dayton (14 dicembre 1995) che, tuttavia, ottennero un equilibrio
piuttosto instabile e precario. Tali accordi prevedevano infatti la divisione
della Bosnia in due entità dotate ciascuna di un proprio Governo, ma
costituenti lo Stato unitario della Bosnia-Erzegovina, avente come capitale la
città di Sarajevo: la Federazione croato-musulmana, con il 51% del
territorio, e la Repubblica serba di Bosnia, con il 49%. I rapporti con la
Croazia vennero faticosamente ristabiliti ma rimasero più tesi con la
Bosnia-Erzegovina per gli stretti legami tenuti dalla
J. con la
comunità serba di Bosnia. La repressione delle spinte autonomiste della
minoranza albanese nel Kosovo (1998) provocarono l'intervento militare
della NATO (1999). Dopo una campagna di attacchi aerei sulla
J., che
danneggiarono pesantemente le infrastrutture del Paese, e il dispiegamento di un
contingente multinazionale nella provincia, il Kosovo passò sotto il
controllo di un'amministrazione civile dell'ONU. A conclusione della
guerra si registrarono in tutto il Paese numerose manifestazioni popolari
contro il regime di Miloševic: elemento propulsore della protesta fu il
movimento degli studenti Otpor (in serbo "resistenza"), con al fianco L'Alleanza per il
cambiamento, di Zoran Djindjič e il Partito del rinnovamento serbo, di
Zoran Draskovič. Per bloccare questo movimento d'opposizione il
Governo sospese in tutta la Serbia le lezioni universitarie e mise fuori legge
l'Otpor. Una riforma istituzionale, che prevedeva l'elezione diretta
del presidente della Repubblica, venne approvata nel 2000 dal Parlamento di
Belgrado: secondo le nuove direttive Miloševic avrebbe potuto essere
rieletto e gli sarebbero stati attribuiti maggiori poteri sia sul Governo sia
sulle Forze armate. Dopo una fase di esitazione circa l'atteggiamento da
tenere di fronte alla decisione di Miloševic di andare al più presto
alle elezioni, l'opposizione decise, a settembre, di raccogliere la sfida
e, cercando di accantonare per quanto possibile le divisioni, presentò un
unico candidato: Vojislav Kostunica, giurista esponente del Partito democratico
serbo. Dopo il voto si aprì un duro scontro sui risultati elettorali; la
Commissione elettorale federale ammise la sconfitta di Miloševic ma
sostenne la necessità del ballottaggio tra Miloševic e Kostunica per
il raggiungimento del quorum. L'opposizione fece ricorso e nello stesso
tempo organizzò una serie di marce di protesta. L'esito del ricorso
confermò il giudizio della Commissione circa la necessità di
andare al ballottaggio. L'ultimo passo compiuto dall'opposizione,
che cercò in ogni modo di mantenersi nella legalità, fu il ricorso
alla Corte costituzionale (ultimo grado del giudizio). Nell'attesa del
verdetto venne proclamato uno sciopero generale (2-5 ottobre) che vide una
partecipazione massiccia di tutte le categorie sociali. Con una mossa a
sorpresa, il 5 ottobre la Corte dichiarò nulle le elezioni. Subito dopo
migliaia di persone scesero in piazza, a Belgrado e nelle altre città
serbe, per chiedere il riconoscimento della vittoria di Kostunica. I
manifestanti invasero il Parlamento federale e la televisione pubblica,
decretando la caduta del regime. A questo punto Miloševic riconobbe
pubblicamente la vittoria dell'avversario (6 ottobre) e l'Unione
europea decise di revocare le sanzioni economiche applicate dallo scoppio della
guerra. Dopo la vittoria di Kostunica, in Serbia venne nominato un Governo di transizione,
che guidò il Paese fino alle elezioni del 23 dicembre. Queste terminarono con la
vittoria schiacciante della coalizione riformista ODS (Opposizione democratica serba);
nel gennaio 2001 si formò dunque un nuovo Governo, guidato da Zoran Djindjič,
leader del Partito democratico, non amato da molti perché considerato troppo
filo-occidentale. A questo punto si aprì un conflitto tra le autorità
federali (Kostunica) e il Governo serbo (Djindjič), in relazione all'atteggiamento
da tenere verso Miloševic. Il premier serbo Djindjič si era schierato dalla
parte dell'Occidente e degli Stati Uniti nel sostenere l'arresto dell'ex leader serbo,
mentre Kostunica aveva assicurato allo stesso Miloševic che non avrebbe concesso
la sua estradizione al Tribunale dell'Aja. Il 28 giugno il Governo serbo consegnò
Miloševic al Tribunale dell'Aja; la sua consegna aprì una grave crisi
politica in seno alla Federazione (il Partito socialista popolare si ritirò
dalla coalizione del Governo federale e Kostunica ritirò il suo partito -
il Partito democratico serbo - dalla coalizione ODS che reggeva il Governo serbo). A
Miloševic vennero formalizzate nuove e ben più gravi accuse: a quelle
mossegli inizialmente (arricchimento grazie alla vendita all'estero di una parte
delle riserve auree del Paese), si aggiunsero quelle relative ai crimini di guerra
perpetrati in Croazia fra l'agosto 1991 e il giugno 1992. Nel frattempo Kostunica
formò un nuovo Governo, retto dal primo ministro Dragisa Pesič (in base
alla Costituzione se il presidente federale è serbo, il primo ministro deve
essere montenegrino). Come presidente della Federazione jugoslava, Kostunica dovette
affrontare le spinte autonomiste provenienti sia dal Montenegro sia dal Kosovo, dove
si sviluppò un movimento di guerriglia albanese. Sempre in Kosovo, nel novembre
2001, si tennero le prime elezioni politiche dalla fine della guerra, terminate con la
vittoria di Ibrahim Rugova. Per quanto riguarda il Montenegro, invece, il presidente
Milo Djukanovič, fautore dell'indipendenza, si pose in un atteggiamento di aperto
contrasto nei confronti di Kostunica. L'UE, che aveva sostenuto il separatismo
montenegrino contro Miloševic, invitò ora Djukanovič a trovare
una soluzione nell'ambito della Federazione, mentre i Paesi del Gruppo di
contatto sulla ex Jugoslavia (Francia, Gran Bretagna, Germania, Italia, Stati
Uniti e Russia) minacciarono la sospensione degli aiuti finanziari in caso di
secessione unilaterale. Per cercare di porre rimedio alla frattura apertasi tra
Federazione e Montenegro, nel marzo 2002 venne siglato un accordo di massima tra
esponenti federali e nazionali di Serbia e Montenegro, promosso e sottoscritto
dall'Unione europea, per la creazione di un nuovo Stato denominato
Serbia e
Montenegro e non più
J. In aprile il Governo montenegrino,
incapace di gestire il nuovo assetto politico con la Serbia, si dimise. Intanto in Serbia i 45
deputati legati al partito del presidente Kostunica abbandonarono a luglio il
Parlamento serbo per protesta contro la decisione del primo ministro Djindjič
di sostituire 21 membri dello stesso partito accusati di assenteismo. In un clima
tesissimo si prepararono le elezioni presidenziali serbe del mese di settembre,
indette anticipatamente per consentire l'estradizione del presidente uscente,
Milan Milutinovič, imputato all'Aja per crimini di guerra. Al ballottaggio, previsto
per il 13 ottobre, andarono il presidente federale Kostunica e il vice premier
Miroljub Labus: la scarsa affluenza al voto invalidò la vittoria riportata
da Kostunica e la presidente del Parlamento serbo, Nataša Mičič, si vide costretta
a indire nuove elezioni. In Montenegro, intanto, le elezioni generali videro la vittoria
della coalizione alleata al presidente Djukanovič, un risultato che osservatori interni
e internazionali vollero interpretare come segno di fiducia nei confronti della nuova unione
federale tra Serbia e Montenegro. In novembre Djukanovič si dimise da presidente del
Montenegro per diventare primo ministro. In dicembre la poca affluenza alle urne
determinò una nuova non validità delle elezioni presidenziali serbe:
la presidente del Parlamento serbo Mičič venne allora incaricata ad interim della presidenza.
Nel mese di gennaio il presidente serbo uscente Milan Milutinovič si consegnò
al Tribunale dell'Aja per essere sottoposto a un processo per crimini di guerra dei quali
si dichiarò però innocente. Nello stesso mese i Parlamenti serbo e
montenegrino approvarono una modifica costituzionale per la definitiva creazione del nuovo
Stato di
Serbia e Montenegro. Con l'approvazione, nel febbraio 2003, degli stessi
cambiamenti costituzionali da parte del Parlamento centrale jugoslavo nacque ufficialmente il
nuovo Stato di
Serbia e Montenegro, destinato a durare solo fino al maggio 2006, quando,
tramite referendum, il Montenegro divenne uno Stato indipendente.
Belgrado: la chiesa ortodossa
Belgrado: veduta dalla Sava