Gulag
Il termine
gulag
è formato dalle iniziali di
parole russe
che significano Direzione principale dei campi
di lavoro correttivi. Erano stati immaginati
infatti come campi dove coloro che avevano commesso
dei reati avrebbero lavorato per espiare le loro
colpe. In realtà furono invece dei veri e propri
campi di concentramento dove i detenuti erano
costretti a lavorare in condizioni così difficili
che ne provocavano spesso la morte. Nei gulag furono
rinchiusi non solo i colpevoli di reati comuni ma
anche gli oppositori politici. Secondo lo storico
Nicolas Werh nel 1930 lavoravano nei campi circa
140.000 detenuti. In seguito il loro numero aumentò
progressivamente e nel 1941 era salito a 1.930.000.
Oltre ai campi di concentramento i gulag
comprendevano anche colonie dove i deportati erano
costretti – come avveniva, del resto, anche nei
campi -
a compiere lavori forzati (AA.VV., Il libro nero
del comunismo, Mondadori, Milano 1997).
Il più efficace documento sulla durezza della vita
nei gulag resta il romanzo Una giornata di Ivan
Denisovic di
Alexandr Solzenicyn. Fu pubblicato nell’Unione
Sovietica nel 1962, durante la «destalinizzazione»
voluta da
Chrušcëv, e
rappresentò la prima aperta ammissione da parte
sovietica dell’esistenza dei gulag. Lo stesso
Solzenicyn nel 1973 dovette far pubblicare
all’estero (poiché intanto
era
stato allontanato dal potere) un’opera in tre
volumi, intitolata Arcipelago gulag,
in cui documentava l’ampiezza e la gravità del
fenomeno.
Riportiamo un documento in cui un funzionario del
partito comunista descriveva a Stalin, nel maggio
del 1933, le condizioni di vita nella colonia
dell’isola di Nazino, in Siberia, dove erano stati
deportati su due treni 6114 uomini ai quali, per il
loro comportamento giudicato «antisociale» era stato
rifiutato il permesso di residenza nelle città di
Mosca e di Leningrado:
«Le condizioni di trasporto erano spaventose: cibo
insufficiente e disgustoso, mancanza d’aria e di
spazio, vessazioni subite dai più deboli [...].
Risultato: una mortalità di circa 35-40 persone al
giorno. Tuttavia queste condizioni di vita si sono
dimostrate un vero e proprio lusso rispetto a quello
che aspettava i deportati sull’isola di Nazino
[...]. Niente attrezzi, niente sementi, niente cibo.
Il giorno dopo l’arrivo del primo convoglio, il 19
maggio, ha cominciato a nevicare e si è alzato il
vento, seguito dal gelo. Affamati, esausti, senza
rifugio, incapaci di affrontare questa situazione, i
deportati si sono trovati in un limbo. L’unica cosa
che potevano fare era sdraiarsi e dormire accanto ai
fuochi, o – visto che non ricevettero cibo per tre
giorni – girare per l’isola mangiando corteccia,
muschio e radici marce. I fuochi cominciarono a
sfuggire al controllo, il fumo intossicò persone che
cominciarono a morire. Alcuni morirono bruciati vivi
mentre dormivano, altri di fame e freddo [....]. Il
primo giorno si riuscì a seppellire 295 cadaveri.
Gli altri vennero lasciati per l’indomani [....].
Solo il quarto o il quinto giorno è arrivata un poi’
di farina senza recipienti [...]. Moltissimi
deportati tentarono d’ingoiarla così com’era, e
spesso morirono soffocati [...]. Se il cannibalismo
divenne il più estremo indice di degradazione,
l’evento più comune fu la formazione di bande
violente che presto esercitarono il potere
sull’isola [...]. Si aprì una vera caccia all’uomo
nei confronti di chi aveva denaro o denti d’oro. I
loro possessori sparirono, e i becchini si trovarono
a seppellire gente con la bocca fatta a pezzi [...].
Il 20 agosto restavano in vita soltanto 2200 persone
circa.
Fonte: Andrea Graziosi, L’Unione Sovietica in 209 citazioni, il Mulino, Bologna 2006, pp. 76-77