Sociol. - Termine proprio del linguaggio socio-psicologico, indicante una
pluralità di individui legati da rapporti di reciprocità, tali da
poter essere considerati come un tutto unico. Esso è generalmente usato
in connessione con altri termini, per formare espressioni quali:
g.
sociali elementari,
g. di lavoro o lavoro di
g., dinamiche di
g., ecc. Tali concetti sono entrati nella sociologia del XX sec.,
diventando il cardine stesso dell'indagine. La denominazione di
g.
primario (
primary group), usata per la prima volta da Ch. Horton
Cooley, si lega anche alla teoria psicologica del comportamento e alla pedagogia
di J. Dewey. Oggi tutte le scienze dell'uomo fanno largo uso di concetti
relativi alla nozione di
g. per descrivere e interpretare i vari fenomeni
che interessano le rispettive sfere di indagine. Troviamo connessioni con lo
studio dei
g. anche nell'ambito della pedagogia e della psicologia
dell'età evolutiva che tende a ricercare i fattori formativi della
personalità nella socializzazione del bambino attraverso i
g. di
gioco, i
g. scolastici, le associazioni educative del tempo libero ecc.
Altrettanto interessate sono: l'antropologia culturale, particolarmente in
rapporto allo studio delle comunità primitive: la psicoanalisi e la
stessa psichiatria, con la sempre più frequente applicazione di tecniche
terapeutiche di
g.; la criminologia, soprattutto nello studio delle
"bande" minorili e dei rapporti sociali all'interno del carcere. • Mat. -
Termine matematico, corrispondente a un concetto che, per quanto implicito in
molti ordini e questioni, anche elementari, ha trovato la sua formulazione
precisa soltanto nella prima metà del secolo scorso e da allora si
è venuto evolvendo ed estendendo in vari sensi attraverso applicazioni
sempre più vaste, così da costituire ormai uno dei concetti
fondamentali e caratteristici della matematica moderna. Si chiama
g. ogni
sistema di operazioni tali che, scegliendone due ad arbitro ed eseguendole l'una
dopo l'altra, si ottenga sempre un'operazione dello stesso sistema. Così
in aritmetica, formano un
g. le addizioni, perché ad esempio,
l'aggiungere a un numero prima il 2 e poi al risultato il 3, equivale ad
aggiungere addirittura al numero di partenza il 5: e altrettanto si dica delle
moltiplicazioni, degli elevamenti a potenza, dell'insieme di tutte le operazioni
razionali. Esempi più espressivi sono forniti dalla geometria. Le figure
di un piano, pensate come rigide, sono suscettibili d'infinite traslazioni, e
queste traslazioni costituiscono un
g., perché due quali si
vogliano di esse, effettuate l'una dopo l'altra, hanno come risultante una nuova
traslazione. Storicamente, il concetto di
g. ha avuto origine nella
teoria delle equazioni algebriche; e i suoi prodromi immediati si possono
ravvisare nelle
Reflections sur la resolution algébrique des
équations (1771), di L. Lagrange. Egli riconobbe precisamente che il
successo del procedimento risolutivo dell'equazione di terzo grado dipende
dall'esistenza di una funzione razionale f(a
1, a
2,
a
3) delle tre radici a, tale che, quando vi si scambino di posto nei
sei modi possibili queste radici - o, come si suol dire, si eseguano su esse le
sei soluzioni possibili - assume soltanto due valori diversi, anziché
sei, come accadrebbe per una funzione presa ad arbitrio. Similmente nel caso
dell'equazione di 4°, esiste una funzione g (a
1, a
2,
a
3, a
4) delle quattro radici, che, quando sulle a si
eseguano le 24 soluzioni possibili, assume soltanto tre valori diversi. Tutto
dunque dipende da una proprietà dell'insieme delle terne o quaterne, che
si ottengono ordinando in tutti i modi possibili le radici; andando più a
fondo, tutto dipende in entrambi i casi dall'esigenza di un
g., quello
delle sostituzioni sulle
a, che mantengono inalterato o
invariante
il valore della funzione
f o
g, e che sono rispettivamente in
numero di 3 e di 8. Della fecondità di quest'ordine di considerazioni
ebbe piena consapevolezza Lagrange, il quale affermava che in questo calcolo di
combinazioni si doveva oramai cercare "la vera metafisica delle equazioni
algebriche"; e la previsione ebbe le più luminose conferme. • Etn.
-
G. razziale bianco: grande razza dell'
Homo sapiens,
caratterizzata da una depigmentazione cutanea che può estendersi ai
capelli e agli occhi. La pelle è chiara; i capelli presentano una sezione
ovale; la pilosità generale è assai elevata, mascelle e denti sono
ridotti. È distribuito in Europa, Asia Minore ed Africa settentrionale.
Si divide nelle razze: nordica, europea orientale, alpina, dinarica, anatolica,
mediterranea, sudorientale, indoafgana e Ainu. ║
G. razziale
giallo: grande razza dell'
Homo sapiens, detta anche
mongoloide: distribuita dall'Asia fino al Nord Europa, in Oceania ed in
America. Sovente il carattere della pelle gialla si presenta attenuato;
più stabili di questo
g. razziale sono invece i capelli dritti o
lisci a sezione arrotondata; pilosità ridotta, occhi forniti di palpebre
dalla caratteristica piega mongoloide, naso largo, zigomi salienti, cranio in
genere brachicefalo, statura media e presenza, nei neonati, della macchia
mongoloide. Comprende le razze: mongola, paleosiberiana, indonesiana,
polinesiana, eschimo, amerindiana. ║
G. razziale nero: grande razza
dell'
Homo sapiens che riunisce numerose razze delle regioni equatoriali o
dell'emisfero australe del vecchio mondo, caratterizzato principalmente da una
forte pigmentazione. La pilosità è in genere ridotta, capelli
crespi, frequenza delle ghiandole sudoripare, testa in genere dolicocefala;
questi caratteri sono tutti presenti solo in una razza nera, mentre in molte
altre vanno attenuandosi. Vi appartengono le razze: melanoafricana, etiope,
negrillo, khoison, melno-indù, negrito e melanesiana.