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Fluorurate, Resine.

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Fluorurate, Resine.

Importante famiglia di resine sintetiche, adatte per la preparazione di materie plastiche termoplastiche dotate di caratteristiche eccezionali quanto a stabilità. Prendono anche il nome di fluorocarbonati o polifluoroolefine. La stabilità di queste resine e la loro incombustibilità deriva dal fatto che la loro catena è a base di atomi di carbonio e che non è presente idrogeno: concettualmente esse sono analoghe al polietilene ma con tutti gli atomi di idrogeno sostituiti con atomi di fluoro o con atomi di fluoro e di cloro. Questo impartisce loro anche proprietà anti-stick, cioè antiadesive: anche un comune nastro adesivo non si può appiccicare su manufatti di r.f. Anche se questo rende difficile la loro giunzione a mezzo di collanti, le rende adatte a molte applicazioni: sono anche dotate di proprietà autolubrificanti. Molte parti costruite con queste resine possono funzionare a lungo anche in condizioni di strisciamento senza danneggiarsi; anche la presenza di acqua non ha importanza: su questi materiali ha funzione di lubrificante. Queste resine si sono diffuse da poco più di un decennio: nonostante il loro costo, molto più elevato di quasi tutte le altre resine sintetiche, hanno trovato un vasto impiego in molti campi, che vanno dall'isolamento di cavi elettrici alla costruzione di ingranaggi, valvole, rivestimenti anticorrosivi o antiadesivi e così via.

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Tutte queste resine sono ottenute per polimerizzazione di olefine fluorurate o cloro-fluorurate: si hanno diverse possibilità di produrre omopolimeri o copolimeri, dotati di proprietà alquanto diverse fra loro. Prodotti di partenza per queste sintesi sono dei prodotti fluorurati, ottenuti in vario modo ma sempre derivati da idrocarburi sulla cui catena gli atomi di idrogeno sono stati sostituiti con atomi di fluoro o fluoro e cloro. Vediamo brevemente i principali. Il monomero tetrafluoroetilene o monomero TFE ha formula F2C = CF2, analoga a quella dell'etilene dal quale si può pensare derivato per sostituziooe degli H con degli F. Industrialmente però si prepara a partire da cloroformio: questo viene fatto reagire con acido fluoridrico HF per formare monocloro-difluoro-metano, secondo la reazione:

CHCl3 + 2 HF → CHClF2 + 2 HCl

che provoca la sostituzione di due atomi di cloro con due di fluoro. Il composto così ottenuto, detto anche Freon 22 (si ricordi che Freon è un marchio di fabbrica, entrato però nell'uso corrente), viene sottoposto a pirolisi termica a 700 ÷ 800 °C. La reazione, che porta alla formazione del monomero TFE, è la seguente:

2 CHClF2 → F2C = CF2 + 2 HCl

Il monomero TFE è già un prodotto alquanto costoso in quanto il cloroformio è già un proodotto abbastanza pregiato e le reazioni ora riportate sono alquanto difficili da realizzare con buone rese. Il monocloro-trifluoro-etilene o monomero CTFE si ottiene invece dallo 1,1,2-tricloro-1,2,2-trifluoro-etano (il Freon TF della Du Pont) per deidroclorurazione in presenza di zinco. secondo la reazione:

Fluoresc04

In modo simile si preparano altri monomeri, quali ad es. l'esafluoropropilene o monomero HFP:

Fluoresc05

Alcuni di questi non sono completamente fluorurati, come ad es. il fluoruro di vinilidene:

Fluoresc06.png

ma sono pure usati in qualche caso per la preparazione di particolari r.f.; queste, avendo nella molecola degli atomi di idrogeno, hanno un comportamento generalmente peggiore delle resine del tutto prive di idrogeno. I più importanti polimeri di questa classe sono il PCTFE o CTFE o poli-cloro-trifluoro-etilene, il PTFE o TFE o poli-tetrafluoro-etilene, il PFEP o FEP o poli-fluoro-etilene-fluoro-propilene ed il PVF2 o poli-fluoro-viniledene. Fra tutti questi solo l'ultimo non è completamente fluorurato o fluoro-clorurato.

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Per le differenze che intercorrono fra queste resine, anche se appartenenti alla stessa classe, occorre trattarne separatamente. A) CTFE: il CTFE o poli-cloro-trifluoro-etilene si ottiene per polimerizzazione del suo monomero, il monocloro-trifluoro-etilene sopra citato. La reazione è una poliaddizione, condotta in sospensione acquosa con un meccanismo di tipo redox, in presenza di catalizzatori che generano radicali. Le sue proprietà sono abbastanza simili a quelle del PTFE, ma la presenza di atomi di cloro ne diminuisce leggermente la stabilità al calore e l'inerzia chimica. Per contro anche il prezzo è leggermente inferiore a quello del PTFE. Nonostante questo presenta un campo di impiego che va dai -240 °C ai +200 °C; è resistente a quasi tutti i comuni solventi e prodotti chimici, eccezion fatta per alcuni solventi clorurati ed ossigenati che ne provocano un rammollimento. La sua permeabilità ai gas od ai liquidi è bassissima: anche l'assorbimento di umidità è praticamente nullo. È incombustibile e perfettamente stabile agli agenti atmosferici. Normalmente è utilizzato come omopolimero: in alcuni casi se ne fanno copolimeri con altri monomeri (ad es. fluoruro di viniledene) per migliorarne la lavorabilità a caldo. Si presenta trasparente o chiaro; dopo un ciclo di rapido raffreddamento la sua trasparenza è quasi completa. In tal caso esso conserva anche una certa flessibilità, che può essere resa molto più grande con l'addizione di plastificanti (fino al 25%). Da un punto di vista elettrico presenta un'elevata resistività di volume sia a caldo che a freddo, accompagnata da una costante dielettrica alquanto bassa (2,3 ÷ 2,5 a 106 Hz). Dal punto di vista meccanico esso presenta una buona resistenza a trazione (carico di rottura sui 300 ÷ 400 kg/cm²) ed una buona resilienza; la sua densità è di 2,1 ÷ 2,2 g/cm3. Possiede una lavorabilità eccezionale all'utensile: ottimo anche il comportamento allo stampaggio che viene effettuato ad una temperatura di 240 ÷ 280 °C sotto una pressione di 35÷ 50 atmosfere almeno: per lo stampaggio ad iniezione sono invece necessarie pressioni molto elevate, dell'ordine dei 1.000÷ 4.000 kg/cm² e temperature dell'ordine dei 300 °C.

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Il CTFE può essere saldato a se stesso a caldo: non si può invece incollare per le sue proprietà antiadesive. È impiegato sia come rivestimento sia in forma massiccia in vari campi: guaine per cavi, corpi e anime di trasformatori, interruttori e bobine, valvole e tubi, soprattutto per basse temperature, contenitori per sostanze chimiche aggressive, compreso l'acido solforico, diaframmi elettrolitici per dialisi del sangue, e così via. Può essere utilizzato sia nella forma trasparente o traslucida che colorato mediante l'addizione di coloranti di comune impiego per materie plastiche. B) PTFE: il poli-tetrafluoro-etilene si produce per polimerizzazione del monomero TFE in sospensione acquosa, sotto pressione ed in presenza di iniziatori della reazione di poliaddizione. Il polimero si può ottenere sia in forma solida o granulare; commercialmente sono molto impiegati semilavorati quali lastre, barre e tubi o guaine. Da un punto di vista strutturale, il PTFE si presenta diverso dal polietilene (oltre che per la presenza di atomi di fluoro in luogo degli atomi di idrogeno) anche per la struttura delle catene, che è del tutto lineare, pressoché assolutamente priva di ramificazioni. Le lunghe catene di unità -CF2- sono avvolte a spirale, con gli atomi di carbonio all'interno e gli atomi di fluoro tutto attorno. Questo permette alle diverse macromolecole, sempre molto lunghe, di accostarsi perfettamente l'una all'altra, generando un solido altamente cristallino fino a temperature superiori ai 300 °C. In questa sua costituzione è la ragione della sua grande stabilità termica: il PTFE non fonde ma solo rammollisce a circa 327 °C, acquistando uno stato di gel molto viscoso. Da questo punto di vista non può quindi essere considerato e trattato con una resina termoplastica vera e propria ed utilizzato ad es. per stampaggio ad iniezione. Si usa un procedimento speciale, simile ad una sinterizzazione: il materiale viene utilizzato in polvere, stampata a caldo (370 ÷ 380 °C) a 100 ÷ 300 atmosfere; il raffreddamento deve essere compiuto almeno per una parte sotto pressione, ad es. nello stampo stesso. La polvere di PTFE può anche essere soggetta ad estrusione, con addizione di un agente lubrificante volatile. L'inerzia chimica del PTFE è legata essenzialmente al fatto che le sue molecole contengono solo legami C-C e legami C-F. Benché il fluoro sia un elemento molto reattivo, e proprio per questo motivo, esso ha tendenza a formare legami molto stabili: il legame C-F è uno dei più forti legami esistenti in tutte le sostanze organiche. La sua presenza inoltre ha anche la funzione di stabilizzare gli stessi legami C-C. Dal punto di vista meccanico il PTFE si presenta bianco opaco, con peso specifico 2,14 ÷ 2,20 cm2 il carico di rottura a trazione è alquanto elevato (150 ÷ 350kg/ cm) come pure l'allungamento percentuale a rottura (200 ÷ 400%). Ottima è anche la resilienza. Il campo di temperatura nel quale può essere impiegato in servizio continuo va dai -268 °C ai +290 °C. Le sue caratteristiche di resistenza chimica a qualsiasi mezzo e solvente, di resistenza alla temperatura, di resistenza meccanica e di lavorabilità alle macchine utensili, oltre alle proprietà autolubrificanti e antiadesive rendono assai diffuso l'impiego del PTFE in moltissimi campi.

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Nell'industria elettrotecnica ed elettronica è impiegato per guaine e rivestimenti di cavi, anche termorestringenti, isolanti vari, supporti per lampade ad elevata potenza, connettori e così via. Esso è il materiale ideale per tutte le applicazioni che richiedono una certa resistenza alle temperature elevate; si deve però porre attenzione che, anche se ininfiammabile ed autoestinguente il PTFE, se scaldato a temperature elevate (sopra i 400 °C circa) libera dei vapori fluorurati alquanto tossici. In compenso anche a temperature elevate non dà origine a prodotti carboniosi. Per la sua inerzia chimica il PTFE è ampiemente impiegato nell'industria chimica per valvole, tubi, raccordi, flange, pompe e così via. Esso resiste ugualmente bene all'acido solforico concentrato come a tutti i solventi sia a freddo che a caldo: sopporta la temperatura dell'elio liquido e temperature alquanto alte senza infragilirsi e perdere la sua flessibilità. Guarnizioni e giunti filettati in PTFE sono impiegati anche perché facilmente smontabili: anche dopo un lungo impiego le proprietà autolubrificanti del PTFE ne rendono facile la rimozione. Se ne fanno anche soffietti e raccordi sia per permettere espansioni e contrazioni di parti metalliche sia per evitare la trasmissione di vibrazioni. Oltre a questo si usa per ripiani di banchi da laboratorio, bottiglie per fluidi corrosivi e così via. In forma di sottili fili può essere usato per migliorare la tenuta di giunzioni avvitate. Nelle costruzioni meccaniche il PTFE è stato impiegato da tempo per le sue proprietà autolubrificanti, sia come resina pura sia con addizione di cariche come carbone, polveri metalliche, prodotti vari inorganici. La sua combinazione di resistenza all'usura, rigidità e bassa dilatazione termica lo rende prezioso in molti casi. Parti in movimento impiegate o alle temperature bassissime (sotto i -100 °C) o nelle condizioni di vuoto (ad es. su un satellite artificiale) non possono essere lubrificate con mezzi tradizionali; è quindi abitudine sfruttare il PTFE per questi casi. Questo materiale è di uso diffusissimo in areonautica ed in missilistica in quanto il suo prezzo relativamente elevato è ampiamente compensato dalle sue caratteristiche. Nelle macchine che sono sottoposte a frequenti cicli di avvio sono spesso adottati cuscinetti a strisciamento in PTFE: anche all'avvio, quando la lubrificazione convenzionale è molto scarsa, il comportamento è molto buono.

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Il PTFE è già diffusissimo per la fabbricazione di anelli per pistoni di pompe alternative e di compressori; in via di sperimentazione è la sua introduzione in luogo delle comuni fasce elastiche metalliche anche nei motori a scoppio, al fine di migliorare la tenuta e diminuire gli attriti. Polimeri del tipo PTFE od il PTFE stesso sono spesso impiegati nella costruzione di macchine destinate alla trasformazione di alimenti per la loro igienicità (stabilità chimica e facilità di pulizia), sia allo stato massiccio che in forma di rivestimenti su parti metalliche ottenuti ad es. con la tecnica elettrostatica in letto fluido. A questo proposito ricordiamo il PTFE fabbricato e commerciato dalla società italiana Montecatini-Edison S.p.A. con il nome registrato Algoflon. Fra gli altri marchi di fabbrica alquanto noti ricordiamo il Teflon TFE (prodotto dalla Du Pont de Nemours) e l'Halon TFE (prodotto dalla Allied Chemicals). C) PFEP: il poli-fluoro-etilene-propilene è un copolimero ottenuto per copolimerizzazione di quantità variabili di monomero TFE e monomero HPF. La sua struttura è simile a quella del PTFE, se non che nella catena si hanno ad intervalli variabili, dipendenti dalla percentuale di monomero HFP, dei gruppi -CF3 laterali. Questi riducono la regolarità della molecola, ancora lineare e a forma di spirale: le macromolecole hanno quindi una minore possibilità di impaccamento rispetto a quelle del PTFE. Ne consegue un polimero avente minore resistenza al calore: può essere impiegato in servizio continuo solo fino a temperature di 200 ÷ 210 °C. A circa 285 ÷ 295 °C il PFEP perde la sua struttura cristallina come la maggior parte delle resine termoplastiche; può quindi essere lavorato per stampaggio o iniezione, dato che la sua viscosità è molto minore di quella del PTFE. Tipiche condizioni di stampaggio sono 320 ÷ 400 °C e 70 ÷ 150 atmosfere; condizioni tipiche di iniezione sono invece 340 ÷ 400 °C e almeno 350 atmosfere. Le sue caratteristiche meccaniche a freddo sono simili a quelle del PTFE per quanto riguarda il carico di rottura a trazione (190 ÷ 220 kg/cm2) e l'allungamento a trazione (250 ÷ 350%); è invece migliore la resilienza. Il suo aspetto va dal trasparente al traslucido; può essere naturalmente caricato con vari coloranti.

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Le sue caratteristiche elettriche e di resistenza agli agenti chimici sono pressoché identiche a quelle del PTFE: anche il suo peso specifico è circa uguale. Le sue applicazioni sono del tutto simili a quelle del PTFE: nei vari casi la prefenza è accordata all'uno o all'altro polimero in funzione sia delle condizioni di lavoro (soprattutto per quanto riguarda la temperatura) sia delle difficoltà di fabbricazione. Si userà quindi il PTFE allorché la sollecitazione termica è alquanto gravosa mentre laddove è possibile si userà generalmente il PFEP per la maggior facilità di fabbricazione. Il più grande fabbricante di PFEP del mondo è la Du Pont de Nemours che lo commercia col marchio Teflon FEP. D) PVF2: il poli-fluorovinilidene, noto anche con il nome commerciale Kynar (marchio della Pennwalt Co., USA), è stato introdotto sul mercato solo nel 1961; in Italia questo prodotto non è fabbricato ed è poco conosciuto. Si ottiene per polimerizzazione del fluoruro di vinilidene (V. sopra) ottenuto per pirolisi dell'1,1-difluoro-1-cloro-etano CH3-CF2Cl il quale è prodotto per fluorurazione del metil-cloroformio. Dal punto di vista della resistenza al calore esso è inferiore ai precedenti polimeri: non ne è consigliato l'impiego in servizio continuo sopra i 150 °C. La sua resistenza a trazione è molto elevata: il carico di rottura è di 400÷520 kg/cm2.

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L'allungamento a rottura è del 100 ÷ 300%; il peso specifico si aggira su 1,76. Buona la resilienza e la durezza; ottima la lavorabilità all'utensile e a caldo per stampaggio e iniezione. La resistenza agli agenti atmosferici è buona, come pure alla maggior parte degli agenti chimici (acidi deboli, alcali, alogeni, agenti ossidanti anche energici, ecc.); non è adatto all'impiego in presenza di solventi organici molto polari quali etere etilico ed acetone. La presenza di atomi di idrogeno nella sua molecola lo rende infatti più sensibile a questi agenti. Ottima la resistenza all'abrasione ed al creep a temperatura ambiente. Dal punto di vista elettrico è un ottimo isolante: la sua costante dielettrica ed il fattore di perdita sono molto superiori a quelle del PTFE e del PFEP. Per queste sue caratteristiche se ne fa un uso assai vasto in elettrotecnica ed elettronica, come isolante per fili e cavi e per guaine termorestringenti. Opportunamente lavorato, questo polimero ha infatti la proprietà di restringersi anche del 50% e più per un semplice riscaldamento con aria calda condotto ad es. con un fon adatto, simile a quelli impiegati per asciugare i capelli. Nella fabbricazione di cablaggi e simili è spesso necessario proteggere delle zone scoperte o delle saldature con un isolante al fine di evitare corti circuiti indesiderati. Si usa quindi inserire sul cavo o sui fili un piccolo tratto di guaina di PVF2 che viene fatta scorrere fino al punto da proteggere: quando è posizionata viene riscaldata ed essa si restringe, formando sulla zona da proteggere una fascia isolante e aderente strettamente.

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Con lo stesso sistema si usa rivestire con una guaina isolante certi componenti elettronici come condensatori, diodi, transistori, ecc. Ugualmente si possono incapsulare strettamente altri manufatti, ad esempio un intero circuito stampato con i suoi componenti, oppure dei manufatti che devono essere protetti ad es. contro certi agenti chimici o semplicemente all'abrasione. Oltre a questo ed alla costruzione di parti per l'industria chimica, il PVF2 trova un altro grande mercato nella finitura superficiale di parti metalliche. La resina, sia come tale che opportunamente addizionata di coloranti, viene applicata ad es. a spruzzo sulla parte da proteggere e forma su questa un sottile film molto tenace e del tutto impermeabile agli agenti atmosferici. Per questo tipo di applicazione la resina è disponibile in forma di dispersione in un solvente costituito da dimetilftalato e diisobutilchetone. L'impiego del PVF2 è esplicitamente richiesto da enti governativi degli USA per l'isolamento di parti elettriche ed elettroniche di aerei militari, missili e satelliti.

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