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Il Boccaccio Interprete del Nuovo Mondo Biografia e Opere di Giovanni Boccaccio.

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GIOVANNI BOCCACCIO

Scrittore (Certaldo o Firenze 1313 - Certaldo, 21 dicembre 1375). Tuttora sostenuta da alcuni la nascita a Parigi, da un'ignota francese, certo è comunque che il Boccaccio nacque da un amore illegittimo d'un mercante certaldese stabilitosi a Firenze, Boccaccio di Chelino, e che il poeta circondò sempre di riverente tenerezza la memoria della madre, e giudicò severamente suo padre. L'infanzia non dovette esser lieta, tra un padre alienissimo dalle sue inclinazioni letterarie e una matrigna, Margherita de' Mardoli. Giovanissimo (non dopo il 1328), fu mandato a Napoli, prima per impratichirsi nel commercio, probabilmente presso la casa dei Bardi, i famosi banchieri coi quali il padre era in relazione d'affari, e poi per studiare diritto canonico, ugualmente redditizio nelle speranze del padre e del pari sgradito al figlio. Questi consumò così invano, egli ci dice, circa dodici anni.

In verità non furono anni perduti; il Boccaccio si dà, appassionato autodidatta, ai congeniali studi letterari, aiutato dai letterati della corte di Roberto d'Angio; le relazioni paterne gli aprivano tutte le porte, forse anche quella della reggia; la vita era raffinata e lieta tra amori e poesia (Caccia di Diana; Filocolo; Filostrato; Teseida). La critica recente diffida a ragione della verità storica dei particolari dell'amore per Fiammetta, quale sembrava risultare dai racconti e dagli accenni del Boccaccio interpretati e integrati dagli eruditi del secolo scorso: Fiammetta sarebbe una Maria, figlia naturale di re Roberto, sposata a uno dei conti d'Aquino, dalla quale il Boccaccio sarebbe stato riamato e poi tradito; ma la stessa esistenza di questa Maria non è provata da documenti. Tuttavia, pur essendo certo che lo scrittore elaborò letterariamente le sue vicende d'amore, non meno certo è che nel fondo dell'elaborazione c'è una viva esperienza autobiografica; e che comunque Fiammetta fu la donna poetica dello scrittore, il personaggio-base della sua opera letteraria, anche quando, probabilmente nel 1340, Giovanni fu richiamato a Firenze dal padre, coinvolto nel fallimento dei Bardi. Continua, per gli anni successivi, la scarsezza di notizie certe: sono anni spesi in vani tentativi di durevole sistemazione economica, che il Boccaccio non raggiungerà mai, e soprattutto in studi di poesia che culminano con la composizione del Decameron (forse negli anni 1349-53). Aveva prima composto il Ninfale d'Ameto; l'Amorosa visione; l'Elegia di madonna Fiammetta; il Ninfale fiesolano, oltre a Rime, che il Boccaccio compose probabilmente lungo tutto il corso della vita. Nel 1346 è presso Ostasio da Polenta; nel 1347 o 1348 è a Forlì al servizio di Francesco degli Ordelaffi, al seguito del quale forse nel 1348 tornò a Napoli (ma secondo recenti studi in questo anno egli si sarebbe trovato già a Firenze dove avrebbe assistito alla peste), nel 1349 è certo, e definitivamente, a Firenze. Cresce la sua autorità presso i concittadini, che gli affidano onorevoli uffici (ambasciatore nel 1350 presso i signori di Romagna, nel 1351 uno dei camerlenghi del comune, e ambasciatore presso Ludovico marchese di Brandeburgo, ambasciatore nel 1354 ad Avignone presso papa Innocenzo VI; fa nel 1355 parte, a Firenze, dell'Ufficio della condotta), ma è del 1350 un avvenimento capitale per lui e per l'umanesimo: il suo primo incontro, a Firenze, col Petrarca, di cui poco prima aveva composta una biografia (De vita et moribus F. P.).

S'inizia così un'amicizia che onora entrambi: il Boccaccio, sempre affettuoso e riverente ammiratore dell'amico, da lui considerato maestro; questi sempre sereno consigliere e valido aiuto. Si ha in questi anni, dopo il Decameron e dopo il Corbaccio, se esso è da porsi nel 1354-55 (ma si è fatta recentemente l'ipotesi che esso sia invece del 1366), una svolta decisiva nella vita spirituale del Boccaccio, che volge le spalle agli studi sino allora seguiti.

L'umanista la vince sul poeta: d'ora in poi non più liete fantasie, ma dotte fatiche (Buccolicum carmen; Genealogia deorum gentilium; De casibus virorum illustrium; De mulieribus claris; De montibus, silvis, fontibus, lacubus, fluminibus, stagnis seu paludibus, et de nominibus maris), non più volgare ma, prevalentemente, latino: in volgare - oltre, forse, qualche lirica, e il Corbaccio, se si accetta la data del 1366 - sono i tardi scritti danteschi (Trattatello in laude di Dante; Commento alla Divina Commedia, rielaborazione ampliata delle pubbliche letture del poema che il Boccaccio tenne quotidianamente, a partire dall'ottobre 1373, nella chiesa di S. Stefano della Badia, interrotte al canto 17° dell'Inferno).

A questa svolta non fu certo estranea la sempre crescente influenza del Petrarca, e quindi un nuovo ideale di severa letteratura umanistica; ma è innegabile l'inaridirsi della ricca e lieta vena fantastica dello scrittore. Si può anche pensare a una certa decadenza fisica, e forse a delusioni da lui sofferte; certo è che il Boccaccio, il quale aveva consacrata tutta la sua opera in volgare al "servigio" e all'esaltazione della donna e d'amore, la conclude col Corbaccio, satira-invettiva di feroce, anche se superficiale, misoginismo. Ma intanto egli diventa a Firenze il centro di un circolo di letterati, che è uno dei nuclei più vivi e irradianti del primo umanesimo. Nel 1360-62 il Boccaccio ospita, con grave sacrificio, Leonzio Pilato, che fa nominare lettore di greco allo Studio; da lui egli e il Petrarca riescono finalmente ad avere la desideratissima traduzione in latino dei poemi omerici: la rinascita degli studi greci comincia da qui. Ma, proprio nel 1362, nello spirito del Boccaccio, da tempo orientato verso una vita austera, propiziatrice d'una buona morte, incide fortemente l'ammonimento di un certosino, Pietro Petroni: (recatogli da un altro certosino, Gioacchino Ciani), che poco prima di morire in odore di santità lo aveva esortato a lasciar gli studî mondani. Per un momento il Boccaccio pensò di bruciar le sue opere e vendere la biblioteca; il Petrarca lo dissuase. Tra le rinunzie e lo studio, tra le strette del bisogno e gli acciacchi dell'età, il miraggio della lieta e feconda vita napoletana torna ad allettarlo ancora due volte: nel 1362 e nel 1370, quando si reca a Napoli, ripartendone subito, deluso e accorato. Nel 1363 si ritira a Certaldo, nel 1365 e nel 1367 è di nuovo ambasciatore presso Urbano V, rispettivamente a Avignone e a Roma; nel 1373, come si è detto, è invitato a leggere pubblicamente Dante: ma s'interruppe dopo pochi mesi, ai primi del 1374, perché malato e angustiato dalle critiche di coloro che pensavano non fosse bene chiarire agli indotti gli alti concetti dell'Alighieri.

Tornato a Certaldo, vi morì poco più di un anno dopo che aveva ricevuta la notizia della morte del Petrarca. Franco Sacchetti interpretò la comune impressione quando scrisse che per la duplice perdita fosse ormai "mancata ogni poesia". Il Boccaccio fu sepolto nella chiesa dei SS. Michele e Iacopo di Certaldo; le ossa sono andate forse tutte disperse nel 1783. Il Boccaccio segna, col Petrarca, le vie lungo le quali si svolgerà la letteratura del Rinascimento: non solo quelle dell'umanesimo filologico tre-quattrocentesco, ma anche quelle dell'umanesimo in volgare che avrà nel Bembo il suo sistematico teorizzatore. Il Boccaccio, figlio di mercante, formatosi in ambienti socialmente raffinati e di alta cultura, si sforza, sin dai poemi e romanzi giovanili, di rendere illustre, secondo la lezione dei latini e degli aristocratici stilnovisti, la materia della letteratura popolare cavalleresca e d'amore. Ciò fa mediante uno sfoggio di erudizione e d'ingegnosità retorica che riesce pesante ai moderni, i quali si fermano a preferenza su singole pagine, soprattutto là dove il Boccaccio coglie particolari dal vero o penetra con acuta spregiudicatezza o delicatezza nel cuore umano.

Il Ninfale d'Ameto (o meglio Ameto, che è forse il titolo più esatto se non si voglia accogliere quello di Comedia delle ninfe fiorentine come è stato recentemente proposto) è, per concorde giudizio, tra le opere antecedenti al Decameron, la più poeticamente viva.

Comunque, quale che sia il risultato d'arte, a determinare le opere attraverso le quali il Boccaccio si prepara al suo capolavoro c'è quell'esigenza che, dominando segretamente l'umanesimo, lo portò a sboccare appunto in scritture in volgare che fossero degne di gareggiare con le latine per dignità e "regolarità". Così, la sciatta ottava dei cantari popolari è per la prima volta nel Filostrato innalzata a un tono d'arte: quell'ottava che tanta fortuna avrà nei due secoli successivi. Ma dignità e regolarità presuppongono qualcosa di assai più importante: lo scrittore non deve abbandonarsi incontrollatamente al suo estro personale, ma deve governarlo con assidua e sapiente cura, incanalandolo nella tradizione, dalla quale soltanto esso trae legittimità di poesia; deve, cioè, staccarsi dall'urgenza e virulenza delle passioni in atto, mediante il dominio intellettuale di esse e la conseguente cura formale. Carattere che domina tutta la letteratura italiana, informando di sé, e rendendola perciò singolare tra quella degli altri paesi, la stessa poesia romantica. Non per nulla il Decameron, che letterati solenni come il Petrarca, nonostante l'amicizia, ignorarono sino a tardi, si diffuse subito in ambienti mercantili. Il Boccaccio vi crea, per così dire, l'epoca borghese moderna della cavalleria: nel senso che attribuisce ai suoi personaggi popolani o borghesi le doti caratteristiche della cavalleria: la discrezione, la liberalità, la fedeltà, la schiettezza, il senso di responsabilità, il dominio di sé, e anche alcune possibilità: di costruirsi una vita raffinata, persino di correre l'avventura, anche se avversari dei suoi eroi saranno gli eventi strani o i mariti gelosi e non più gli eserciti e i mostri.

La critica romantica vide nel Boccaccio essenzialmente uno scrittore ridanciano, sensuale, spesso osceno, un uomo indifferente ai valori profondi della vita, inteso a cogliere in questa solo il fiore del godimento passeggero e superficiale. La critica odierna tende invece a sottolineare, più o meno decisamente, il significato positivo dell'opera boccaccesca. Questa è fondata sulla fede nella capacità dell'uomo a dominare gli eventi e sé stesso: la felicità è dunque possibilità individuale. Ma perché questa possibilità si abbia, occorre restare nel campo dell'azione umana, rinunziare a tutto ciò su cui l'uomo non ha potere effettivo; non cercare - pur senza ripudiarlo - l'assoluto di una morale che abbia nel trascendente il suo imperativo, ma sostituire a esso una norma morale umana ma non meno ferma, della quale l'accettazione della vita così com'è, il ripudio d'ogni infingimento e ipocrisia costituiscono la base essenziale. Ancora per Dante la fortuna è "general ministra" di Dio; per il Petrarca essa ancora s'identifica con la Provvidenza: col Boccaccio, invece, l'uomo comincia a lottare con la fortuna, impara a vincerla e anzi, quando è possibile, a sfruttarla. La contrapposizione virtù-fortuna, impostata dal Boccaccio, sarà alla base del sentire e del pensiero del Rinascimento. Il Decameron non è solo una raccolta di cento novelle legate l'una all'altra, come nelle raccolte moderne, solo dalla personalità poetica dell'autore. Esse, pur essendo ciascuna un piccolo mondo artistico, più o meno perfetto, in sé conchiuso, costituiscono nell'insieme un organismo unitario, come una supernovella, nella quale la finzione dei dieci novellatori rispecchia un ideale di vita raffinata e intelligente, in cui tutto è consentito, anche la maggiore spregiudicatezza nei discorsi e nei racconti (non nei costumi), ma tutto anche obbedisce a una norma precisa, cioè tutto è frutto di un assoluto dominio di sé, di una viva esigenza di ordinati rapporti sociali. Affiora nella letteratura l'ideale di vita che sarà particolareggiato dal Castiglione e dal Della Casa.

Circa la metà del grande libro non è "boccaccesca" nel significato comune del termine: nel senso che essa non ha per oggetto beffe coniugali o simili, ma esalta l'intelligenza, il senso della misura, la "saviezza" con cui spiriti alacri riescono a superare e a controllare impensate e difficili situazioni, o celebra con estrema delicatezza la fedeltà e la dignità femminile sino al sacrificio o all'eroismo, o si abbandona al divertimento di un estroso immaginare di tono spesso fiabesco, che è parte integrante e caratterizzante dello stesso realismo del Boccaccio. Il quale guarda la realtà con occhio lucidissimo e attentissimo; ma ciò è per lui essenzialmente un mezzo, anzi il mezzo principe, per impartirci l'insegnamento che più gli sta a cuore: quello della schiettezza verso noi stessi e quindi verso gli altri. Ci sono tendenze e appetiti naturali che restano tali, e quindi insopprimibili, anche se ci sforziamo di comprimerli in noi o dissimularli ipocritamente agli occhi degli altri: molto meglio rendersene conto, accettarli, cercare quindi di dar loro appagamento, nei limiti di quella morale umana e di quell'esigenza sociale alle quali si è accennato. Il Boccaccio è essenzialmente il poeta dell'uomo: dell'uomo di questa terra, di cui egli celebra nella concretezza dell'arte il senso di responsabilità. Nelle pagine del Boccaccio l'approfondimento psicologico diventa azione, dialogo, gesto di suprema evidenza. Dice egli stesso che il suo è un libro per "persone mature e non pieghevoli per novelle": cioè per lettori che sappiano superare il senso di disagio che indubbiamente può sorgere dall'indifferenza del Boccaccio per la morale sancita, e penetrare l'altra riposta sua "moralità"; e soprattutto sappiano abbandonarsi con lui alla gioia della ricreazione di tutto un mondo, coi suoi vizi, i suoi eroismi e la sua dignità. Il "Decameron": architettura razionale.

Francesco Bruni, Boccaccio.

L'invenzione della letteratura mezzana, Il Mulino, Bologna 1990. La costruzione del primo grande capolavoro in prosa della letteratura italiana risponde a una struttura coerente e razionale. Una cornice narrativa lega tra loro le cento novelle, ordina rimandi e corrispondenze e consente che gli eventi abbiano una varietà di situazioni e toni, dal tragico al comico, dal solenne al popolare. La narrazione sviluppa quindi una progressione morale che dal vizio dominante nella prima giornata conduce all'ultima con il trionfo della virtù e degli spiriti magnanimi. Fine metaforico di questa struttura razionale è fornire un'organizzazione civile al disordine sociale provocato dalla peste. La cronologia esatta del Decameron è ignota: la peste del 1348 descritta nell'Introduzione offre un ovvio termine di riferimento per l'inizio della composizione, avviata probabilmente l'anno dopo e conclusa nel 1351 secondo alcuni, secondo altri un paio d'anni più tardi. Si tratta in ogni caso di indicazioni congetturali; e a maggior ragione non si ha alcun indizio di un'ideazione dell'opera anteriore alla peste, e di una sua redazione parziale (come pure, in astratto, non si può escludere). Come si sa, sotto il titolo grecizzante di Decameron, sette donne e tre giovani narrano per dieci giorni dieci novelle; perciò già il Proemio annuncia "cento novelle o favole o parabole o istorie che dire le vogliamo", un modo volutamente evasivo per allineare come sinonimi termini quali "favola" e "istoria", che possono avere significato opposto. Forse lo scrittore ha inteso suggerire il carattere composito delle sue narrazioni, ora dotate di un'ambientazione storica, ora inquadrate in modo assai vago. Ma i racconti dei novellatori, dei quali Boccaccio si finge puro trascrittore, sono chiamati subito dopo "novelle", e così nel corso dell'opera. Ancora il Proemio annuncia "piacevoli e aspri casi d'amore e altri fortunati avvenimenti", indica dunque la coppia di amore e fortuna, dalla quale si snodano gli argomenti proposti ai novellatori, tranne che nella prima e nella nona giornata, a tema libero. Nella seconda giornata la "materia" tocca esplicitamente i "diversi casi della fortuna" e propone l'elemento dell'inatteso o, per usare un termine cinquecentesco che verrà in auge con la riscoperta della Poetica aristotelica, della peripezia. Nella terza giornata si mette in rilievo "uno de' molti fatti della fortuna", e ci si aggira su "chi alcuna cosa molto disiderata con industria acquistasse o la perduta recuperasse"; dunque l'insistenza cade ancora su eventi imprevisti, sul rovesciamento delle situazioni. Della brigata fa parte Filostrato, e Boccaccio non ha dimenticato di averlo battezzato così, nel poemetto omonimo, a significare che chi porta quel nome è "abbattuto d'amore": perciò, in coerenza col prototipo dell'amante infelice, Filostrato, re della quarta giornata, comanda "che si ragioni (...) di coloro li cui amori ebbero infelice fine" e poiché il Decameron è ispirato alla ricerca della varietà, l'argomento della giornata seguente è opposto e concerne gli amori felici. Il "leggiadro motto" è protagonista della sesta mentre merita una considerazione particolare l'argomento della settima, che nasce da un alterco volutamente agli antipodi delle questioni di marca cortese del Filocolo. La brigata dei novellatori è accompagnata da alcuni servi, sempre obbedienti e discreti, pronti a rendere il più possibile piacevole il soggiorno extracittadino dei padroni. Ma un giorno giunge alle orecchie di questi ultimi "un gran romore", proveniente dalle "fanti e' famigliari": Elissa, regina di turno, convoca i contendenti, Tindaro e Licisca. Quest'ultima sostiene, non creduta dall'altro, di non aver "vicina che pulcella ne sia andata a marito"; e aggiunge: "e anche delle maritate so io ben quante e quali beffe elle fanno a' mariti".

Dioneo, designato da Elissa, per via della sua predilezione per gli argomenti scabrosi, a dirimere la controversia, dà prontamente ragione a Licisca e, eletto re della giornata seguente, propone come argomento del novellare la seconda delle tesi di Licisca: Valorose donne, in diverse maniere ci s'è della umana industria e de' casi varii ragionato tanto, che, se donna Licisca non fosse poco avanti qui venuta, la quale con le sue parole m'ha trovata materia a' futuri ragionamenti di domane, io dubito che io non avessi gran pezza penato a trovar tema da ragionare. Ella, come voi udiste, disse che vicina non aveva che pulcella ne fosse andata a marito e sogiunse che ben sapeva quante e quali beffe le maritate ancora facessero a mariti. Ma lasciando stare la prima parte, che è opera fanciullesca, reputo che la seconda debbia esser piacevole a ragionarne, e perciò voglio che domane si dica, poi che donna Licisca data ce n'ha cagione, delle beffe le quali o per amore o per salvamento di loro le donne hanno già fatte a' lor mariti, senza essersene essi o avveduti o no. Qui il ruolo trasgressivo di Dioneo si traduce in mediazione tra i due mondi, altrimenti separati (secondo la rappresentazione di varie commedie elegiache), dei padroni e dei servi, e porta alla luce una tematica che poteva apparire sconveniente all'onestà e al raffinato decoro dei novellatori. Ma una volta che Dioneo ha messo in circolazione questa materia e l'ha in qualche modo legittimata, i novellatori la fanno propria confermandola nella giornata seguente e solo correggendone la prospettiva unilaterale: "ciascun pensi di dire di quelle beffe che tutto il giorno o donna a uomo o uomo a donna o l'uno uomo all'altro si fanno". Analogamente, gli amori infelici della quarta erano stati bilanciati dagli amori a lieto fine della quinta giornata, mentre la terza aveva ripreso un aspetto particolare del tema della fortuna, proposto nella precedente. Dopo tante indicazioni, ora più ora meno precise, si torna a un libero novellare nella penultima giornata, in modo che meglio si possa affrontare l'incarico impegnativo proposto dall'ultima, concentrata sulle azioni liberali e magnifiche. Non solo per il critico, ma già per l'autore non era facile ridurre a categorie numerate la ricca tipologia delle cento novelle: nei due poli di amore e fortuna (spesso compresenti per via del ruolo della fortuna in tante novelle amorose) non si esaurisce la tematica del libro, e all'interno delle giornate è forte la varietà dei contenuti e delle forme narrative. Eppure il robusto filo della cornice non vuole solo legare le novelle in raggruppamenti talora un po' estrinseci, ma risponde a un'esigenza più profonda, ed essenziale, dell'arte del Boccaccio: questi cerca il massimo della varietà per la sua raccolta, e d'altra parte contempera il molteplice con la ricerca dell'unità, vuole ricondurre a un centro novelle che si disperdono in tante direzioni. Si consideri del resto con quanta precisione funzioni la vita dentro il microcosmo dei dieci giovani della brigata. È una società in miniatura nella quale si evitano le simmetrie banali a vantaggio di rispondenze più sottili: infatti, Boccaccio ha preferito che le donne della brigata fossero sette, contro tre maschi, perché l'opera è dedicata al pubblico femminile, e per evitare che si formassero cinque coppie che avrebbero frantumato l'unità del gruppo. Lo scrittore si limita ad accennare, con molta discrezione, all'esistenza di legami sentimentali fra i giovani e alcune novellatrici, ma evita di disseminare indizi tali da scoprire questi amori segreti. La cornice assolve poi diverse funzioni, una delle quali è certo il proposito di fornire un modello di razionale organizzazione civile, in alternativa al caos sociale e al disordine dei valori indotto dalla peste. Il gruppo dei novellieri adotta un ordinamento monarchico perché ogni giornata è regolata da un re che stabilisce l'argomento del narrare e si preoccupa di risolvere i problemi pratici, impartisce gli ordini opportuni alla servitù e così via. È forse un riflesso delle simpatie monarchiche maturate dal Boccaccio negli anni napoletani; peraltro quella del Decameron è una forma monarchica coincidente con il reggimento repubblicano (oligarchico, ovviamente, perché i servi ne sono esclusi): la corona, infatti, si posa a turno sulla testa di tutti i componenti del gruppo, con un'inedita applicazione del principio, osservato dalle costituzioni del comune fiorentino, della rotazione delle cariche.

Entro queste simmetrie si prevede anche la violazione dell'ordine, perché Dioneo ottiene la libertà di non rispettare gli argomenti assegnati ai novellatori (e per la verità in alcuni casi ci sarebbe da discutere per stabilire se Dioneo si allontani effettivamente dal tema proposto). In secondo luogo, la cornice funziona da filtro che si frappone tra lo scrittore e le novelle, e gli consente di prendere le distanze dalla materia narrata; e talvolta la separazione è di secondo grado se chi narra si appoggia a sua volta ad altra fonte. È quanto avviene nella novella di Federigo degli Alberighi, narrata da Fiammetta sulla base di un racconto orale ricevuto da Coppo di Borghese Domenichi. Come si sa, le questioni d'amore del Filocolo e le novelle delle ninfe nell'Ameto sono un precedente importante della cornice decameroniana. Meno è stata avvertita la differenza funzionale: nel Filocolo e nell'Ameto quegli episodi danno luogo a un complesso gioco di rimandi reciproci tra il contenuto del narrare e l'io scrivente, nel Decameron la cornice separa, al contrario, l'io dell'autore dalla materia raccontata. Più in generale, il Decameron si tiene lontano dalla sfuggente allusività autobiografica che aveva un ruolo così notevole nella maggior parte delle opere precedenti. Inoltre, i commenti della brigata alle novelle anticipano idealmente le reazioni che Boccaccio si attendeva dai lettori effettivi, e anche le prefigurano e le orientano; giudizi e discussioni inquadrano la tematica umana e ne offrono talora un conciso giudizio critico. La cornice riflette dunque la preoccupazione di dare un ordinamento a una materia eterogenea, funge da giunzione e separazione insieme tra novella e novella, si distende più ampiamente all'inizio e alla fine di ogni giornata (dove pure si includono i versi di una ballata), e funziona da filtro tra lo scrittore e la materia narrata. Ma la razionalità si coglie anche nell'architettura delle singole novelle, non si limita dunque all'organizzazione della cornice. Basti pensare alla chiara distribuzione degli episodi nel complesso della narrazione: ne è un esempio la novella di Andreuccio da Perugia, ritmata in due sequenze fondamentali. Nella prima il protagonista, "da diverse cose infestato" (per ripetere le parole del tema generale assegnato alla seconda giornata), è ingannato e derubato del suo denaro, nella seconda guadagna un anello di valore equivalente alla somma perduta. Un andamento identico è nella novella di Salabaetto, senza che questa somiglianza astratta elimini divergenze di contenuto e centri narrativi diversi. Ispirato a un gusto razionale molto evidente è il geometrico contrappasso con cui lo scolare lasciato per una notte al freddo nell'inverno si vendica a usura della beffa inflittagli dalla donna amata, esponendola nuda ai calori di una giornata estiva, mentre un superamento di segno inverso, a base cioè di azioni generose, non di beffe o vendette, è nelle novelle di Tito e Gisippo, del Saladino e di messer Torello. Ma gli esempi si potrebbero moltiplicare facilmente: fra le trame romanzesche impostate sulla dispersione e poi, dopo lunghe avventure, sulla riunificazione di un nucleo familiare Boccaccio si muove a proprio agio fin dagli anni del Filocolo (Decameron II 6 e II 8). Oppure si pensi, su un altro piano, alla coerenza tra il carattere dei personaggi e le loro azioni: una dote d'impostazione della novella che si riscontra, senza inoltrarsi troppo nell'opera, già nel ritratto morale di ser Ciappelletto, poi travasato, con coerenza di comportamento, nella celebre confessione. Allo stesso modo Guccio Imbratta, definito dal suo padrone, fra Cipolla, con tre terne di aggettivi in rima: egli è tardo, sugliardo e bugiardo; negligente, disubidente e maldicente; trascutato, smemorato e scostumato, trascura di custodire le reliquie affidategli da fra Cipolla per corteggiare, in cucina, la serva Nuta; con il risultato che fra Cipolla troverà manomessa la cassetta delle reliquie: La quale come piena di carboni vide, non sospicò che ciò Guccio Balena gli avesse fatto (...), ma bestemmiò tacitamente sé, che a lui la guardia delle sue cose aveva commessa, conoscendol, come faceva, negligente, disubidente, trascutato e smemorato. Le due coppie estraggono, dalle tre terne che definiscono la personalità di Guccio Imbratta nel suo insieme, le qualità negative più direttamente connesse alla circostanza della cassetta manomessa.

[(Certaldo 1313 - 1375) Figlio illegittimo del mercante Boccaccio di Chelino, fu inviato giovanissimo a far pratica mercantile a Napoli, dove subì il fascino della vita gioiosa ed elegante della corte angioina, dando il via a un'intensa attività letteraria, soprattutto in volgare. Di ritorno a Firenze, assistette alla terribile peste che provocò la morte del padre e della matrigna. Subito dopo iniziò la stesura del Decameron, che terminò nel 1351. L'anno precedente incontrò, a Firenze, Petrarca, con il quale instaurò un affettuoso rapporto che durò fino alla morte. Gli anni maturi dello scrittore furono segnati dal profondo dolore per la morte, nel 1355, della figlioletta Violante, da malattie e dalla miseria.]

OPERE DI GIOVANNI BOCCACCIO

L'amorosa visione

Poemetto di 50 canti in terza rima composto verso il 1342-43 In questa visione si narra come una gentile donna sia inviata al poeta da Cupido e lo inviti a staccarsi dai "van diletti" per seguirla nella via che porta alla felicità. Giunti presso un nobile castello munito di due porte, il poeta rifiuta di imboccare quella stretta, che è la porta della Virtù, e si lascia convincere da due giovani a imboccare quella spaziosa. Entra così in un palazzo, dove si trovano affreschi allegorici, disposti in due sale, che parlano dei trionfi delle Scienze, della Gloria, della Ricchezza e dell'Amore: ci sfilano così avanti nella prima sala i più famosi protagonisti della letteratura e della storia, autori e personaggi biblici, mitologici, antichi e moderni; la seconda sala è dedicata completamente al trionfo della Fortuna, che tutto distrugge. Il poeta non si lascia persuadere dalla sua guida e si inoltra nel giardino del castello; qui si imbatte in altre donne, fra cui la misteriosa "bella lombarda" e, in disparte, Fiammetta; a lei promette di cantare in altra occasione quello che vide, obbedendo al suo consiglio di seguire la guida della donna gentile sulla via della virtù. L'opera, tutta allegorica, chiaramente si ispira al poema dantesco, perciò non è affatto originale, ma - secondo C. Muscetta - "l'interesse ideologico di questo singolare poema allegorico-didattico è nel fascino che la vita mondana esercita sullo scrittore, ed egli non fa nulla per nasconderlo. Solo gli eroi dell'avarizia (Mida, Crasso, Attila e Roberto d'Angiò) suscitano la sua aspra polemica, cui si aggiungono le considerazioni dottrinali della guida, che non sono certo improntate a un ideale ascetico ... significativo è l'omaggio a Dante (fortemente polemico nei confronti degli "ingrati" fiorentini), celebrato col rilievo di sovrano poeta moderno tra gli scrittori del nobile castello, che qui si arricchisce di altre presenze rispetto al catalogo del Limbo (Inferno, IV) ". Tra i sapienti fanno particolare spicco i filosofi artisti (Pitagora, Boezio) o i maestri di morale e di retorica (Seneca, Cicerone); con i poeti vengono anche ricordati gli storiografi da Sallustio a Valerio Massimo.

Filostrato

Poemetto in ottave, diviso in nove parti,composto verso il 1338 In quest'opera, il cui titolo etimologicamente significa "abbattuto dall'amore", il Boccaccio narra l'infelice amore di Troilo, figlio di Priamo, per Griseida (o Griselda), figlia dell'indovino Calcante: in uno scambio fra prigionieri Griseida viene resa al padre, fuggito tra i Greci, che assediano Troia e cede all'amore del greco Diomede, pur avendo promesso fede a Troilo; questi allora, preso da disperazione, cerca la morte e viene ucciso in combattimento da Achille. L'episodio centrale si trovava già nei romanzi medievali di materia troiana e particolarmente nel Romanzo di Troia di Benoit di Sainte Maure. Ma tutto il poema ha un fondo autobiografico (l'abbandono di Fiammetta) e "pur nella vivacità di alcuni tratti, rivela il peso dell'autobiografismo, e la fatica di uno stile ancora artificioso e di scuola" (Sansone). Il Momigliano considera questo poemetto "il più notevole precorrimento del Decameron": infatti lo stile è rapido, senza retorica, "l'andamento non lirico ma psicologico, non cavalleresco, ma quotidiano, borghese, reale: il tono è da commedia, non da poema". Bellissima la figura di Pandaro, che fa da mezzano a Griseida per Troilo; beffarde e piene di ipocrita verecondia le risposte di Griseida alle lettere di Troilo, mentre la passione dell'infelice Troilo è cantata in accenti di schietta efficacia: "Io guardo i monti che d'intorno stanno / et il luogo che a me ti tien nascosa, / e sospirando dico: coloro hanno, / senza sentirla, la vista amorosa / degli occhi vaghi, per la quale i' affanno, / lontan da essi, in vita assai noiosa: / or foss'io un di loro, o sopra un d'essi, / or dimorass'io, sì ch'io la vedessi!". Per la prima volta compare in un'opera letteraria l'ottava, il metro tipico narrativo di tanta parte della nostra letteratura. L'opera del Boccaccio fu imitata da Chaucer nel suo Troilo e Criseide e ripresa più tardi da Shakespeare.

Filocolo

Romanzo in prosa italiana, in cinque libri. L'opera, che significa con errata derivazione dal greco "fatica d'amore", fu composta a quanto pare su richiesta di Fiammetta verso il 1336 a Napoli. Vi si raccontano le avventure di Florio e Biancofiore (o Biancifiore), arricchite di divagazioni, allusioni autobiografiche e anticipazioni narrative del Decameron: il romanzo inizia con l'innamoramento dei protagonisti, educati insieme sin dalla loro fanciullezza, sotto la guida del maestro Ascalione; poi, per intervento dei genitori di Florio, i due giovani sono costretti a separarsi e la stessa Biancofiore, accusata di aver voluto avvelenare il re, è condannata al rogo, ma viene salvata da Florio. Successivamente è accusata di nutrire particolare simpatia verso il cavaliere Fileno, ma il tranello è sventato; infine è venduta a certi mercanti, che la portano in Oriente e la cedono all'ammiraglio di Alessandria. Nel frattempo Florio, che viene a sapere ogni cosa dalla madre, va alla ricerca della sua amata, assumendo per l'occasione il nome di Filocolo: giunge in Egitto e riesce a nascondersi in una cesta di rose, penetrando così di nascosto nella torre, dove Biancofiore è rinchiusa con altre donne. Lì i due giovani si amano: sorpresi, vengono condannati al rogo, ma li salva Venere; lo stesso ammiraglio scopre infine che Florio è suo nipote e che anche Biancofiore discende da nobile famiglia. Il romanzo si conclude con le loro nozze e la conversione dei personaggi pagani alla fede cristiana. Questa celebre leggenda di origine bizantina, scritta in francese verso il sec. XII, si traduce nel Boccaccio in un racconto pesante, per quanto ricco della forza psicologica di certi discorsi e di scene fa-stose o cavalleresche, soprattutto dotato di delicatezza ora idillica ora elegiaca nella rap-presentazione dell'amore. Notevole il quadro anacronisticamente immaginato di vita napoletana, nel quale assieme a Fiammetta appaiono donne gentili e cavalieri della città, mentre è trattato con vivacità realistica il capitolo delle Questioni d'amore.

Sulle geneologie degli dei pagani

Opera latina in 15 libri, iniziata prima del 1350, condotta a termine verso il 1360, ma stesa definitivamente verso il 1366 Dedicata a Ugo IV di Lusignano, re di Cipro, è una raccolta o meglio un dizionario mitologico con notizie attinte da varie fonti, presentate con ordine e metodo e con indicate sempre le fonti stesse; l'autore non si limita a riprodurre o classificare il contenuto delle favole antiche, ma ne spiega o ne indica il velo allegorico e "là dove questi manchino ovvero sembrino a suo giudizio insufficienti, dichiarando la propria sentenza": i miti sono quindi interpretati nel loro senso letterale o storico, o allegorico, o morale, o anagogico, o cristiano, ad arbitrio dell'autore, quando anche i vari miti non siano mescolati o sovrapposti. Per questo motivo l'opera fu molto lodata da Coluccio Salutati e da Filippo Villani, anche se il Boccaccio dovette difendersi dall'accusa di coloro che la ritenevano non necessaria. "Quanto a me, io non negherò che sono avido di gloria; ... è l'approvazione degli uomini illustri, non già l'aggiunta di un nome reale quella che assicura ad un'opera onore e gloria": così dice il Boccaccio nel libro XV (13) . Il dizionario non si limita soltanto a uno studio approfondito della mitologia, ma presenta argomenti di un certo interesse sul piano letterario. Nel capitolo 17 del libro XIV l'autore non solo nega che i poeti siano "scimmie dei filosofi", ma si dichiara disposto a sopportare l'accusa di chi vorrebbe chiamarli symias naturae perchè in effetti si sforzano di cantare "tutto quello che essa opera e tutto quello che per operazione sua perpetua si opra". Nel IV libro viene celebrato Epimeteo "il primo che finse una statua di uomo di fango" e mitico simbolo degli "uomini ingeniosi e nelle sue opere imitanti la natura"; nel X libro polemizza contro coloro che mal conobbero il pensiero di Quintiliano, mentre nel XIV enumera i quattro generi di espressione della favola: quello esopico, di cui si servì il volgo agreste e quello civile; il mitico, dalla corteccia simile al vero; quello più simile alla storia che alla favola (potius historiae quam fabulae similis) e che comprende poeti eroici come Virgilio e Omero, comici onesti come Plauto e Terenzio, e le storie del Vecchio e Nuovo Testamento; il quarto, che ha difetto di verità sia nella forma che nel contenuto, e che è la povera fiaba delle vecchiette svagate (delirantium vetularum inventio). L'opera fu usata nelle scuole fino al Rinascimento e testimonia un'erudizione per quei tempi straordinaria.

Decameron

Opera di Giovanni Boccaccio (1313-1375), composta tra il 1348 e il 1353 Il capolavoro del Boccaccio comprende una serie di novelle collegate tra loro da una narrazione, che fa da cornice; il titolo grecizzante significa "dieci giornate". Nello sfondo della famosa peste che infierì a Firenze nel 1348, l'autore immagina che sette giovani donne nobili, sagge e oneste e tre giovani "assai piacevoli e costumati" s'incontrino nella chiesa di santa Maria Novella e concordino di ritirarsi in una villa ai piedi della collina di Fiesole per fuggire il pericolo del contagio e l'orribile spettacolo della morte: in questo felice ritiro passano il tempo fra suoni, danze, passeggiate, conviti, mentre nelle ore calde del pomeriggio, per dieci giorni, tranne il venerdì e il sabato, la giovane brigata dedica il suo tempo a raccontare novelle. Un "re" o una "regina" nominati a turno governano autorevolmente la gaia brigata, prescrivono le diverse occupazioni della giornata e scelgono il tema del novellare. Così in dieci giornate lo scettro passa per le mani di tutti, e poichè ciascuno racconta ogni giorno la sua novella, si hanno complessivamente cento novelle. Il libro così inizia: "Comincia il libro chiamato Decameron, cognominato Prencipe Galeotto, nel quale si contengono cento novelle, in diece d dette da sette donne e da tre giovani uomini". Segue il proemio e quindi la prima giornata, che si apre con un invito alle donne: "Quantemque volte, graziosissime donne, meco pensando riguardo quanto voi naturalmente tutte siete pietose, tante conosco che la presente opera, al vostro iudicio, avrà grave e noioso principio, sì come è la dolorosa ricordazione della pestifera mortalità trapassata ..."; segue la descrizione tragica e fosca della peste, poi l'inizio vero e proprio della narrazione: "A me medesimo incresce andarmi tanto fra tante miserie ravvolgendo; per che, volendo omai lasciare star quella parte di quelle che io acconciamente posso lasciare, dico che ... addivenne ... che nella venerabile chiesa di santa Maria Novella, un Martedì mattina, non essendovi quasi alcuna altra persona, uditi gli divini ufici in abito lugubre, quale a siffatta stagione si richiedea, si ritrovarono sette giovani donne tutte l'una all'altra o per amistà o per vicinanza o per parentado congiunte, delle quali niuna il venti e ottesimo anno passato avea, ne era minor di diciotto, savia ciascuna e di sangue nobile e bella di forma e ornata di costumi e di leggiadria onesta". L'autore non riferisce i nomi delle donne, ma le nomina "per nomi alle qualità di ciascuna convenienti o in tutto o in parte": ecco Pampinea "che di più età era", Fiammetta, Filomena, Emilia, Lauretta, Neifile ed Elissa. E' Pampinea quella che propone di rifugiarsi nel contado, ma è Elissa che ritiene necessaria anche la presenza maschile: "Veramente gli uomini sono delle femine capo e senza l'ordine loro rade volte riesce alcuna nostra opera a laudevole fine". Entrano nella chiesa tre giovani, Panfilo, Filostrato e Dioneo (l'amante fortunato, l'amante tradito, il lascivo), che trovano "tra le predette sette" le loro donne: si discute e si decide. Viene eletta regina Pampinea, la quale propone che ognuno racconti quello che vuole: inizia Panfilo con la novella di ser Ciappelletto, "un capolavoro che anche per elaborazione stilistica fa stacco sulle altre" (Muscetta).

A questa novella di esordio seguono le novelle della prima giornata, come quella di Abraam giudeo, che va a Roma, stimolato da Giannotto di Civign, e vedendo la malvagità dei chierici, torna a Parigi e si volge al cristianesimo, ritenendola un'ottima religione perchè capace di diffondersi malgrado il malcostume dei suoi pastori; o di Melchisedech giudeo; o di un monaco, che, caduto in peccato degno di gravissima punizione, rimproverando al suo abate quella medesima colpa, si libera dalla pena; o del re di Cipro che "trafitto da una donna di Guascogna, di cattivo divenne valoroso". Nella seconda giornata, sotto la guida di Filomena si ragiona di chi "da diverse cose infestato, sia oltre alla sua speranza riuscito a lieto fine": qui si annoverano famose novelle, come quella di Martellino, che gioca su sentimenti sacri, divenendo personaggio dominante sopra lo sfondo della folla ammirata e poi furibonda; o di Andreuccio da Perugia, che venuto a Napoli a comperar cavalli, "in una notte da tre gravi accidenti colpito e da tutti scampato, con un rubino torna a casa sua"; o di Madonna Beritola; o di Paganino da Monaco che "ruba la moglie a messer Ricciardo da Chinzica e questi sapendo dove è, si fa amico di Paganino e gli chiede la moglie, ma questa non vuol tornare con il marito e dopo la morte di messer Ricciardo, sposa Paganino". La terza giornata trova come regina Neifile, la quale stabilisce che si ragioni "di chi alcuna cosa molto da lui desiderata con industria acquistasse e la perduta ricoverasse": sono celebri le novelle di Masetto di Camporecchio che si fa "mutolo" e diviene ortolano di un monastero in cui le suore "tutte concorrono a giacersi con lui"; o di una donna gentile, che, innamoratasi di un giovine, sotto specie di confessione, induce un "solenne frate" senza avvedersene, a dar modo che il piacer di lei abbia intero effetto; o di Ferondo, che mangiata certa polvere è "sotterrato per morto e dall'abate, che la moglie di lui si gode, tratto dalla sepoltura è messo in prigione; e fattogli credere che egli è in purgatorio, e poi risuscitato, per suo deve allevare un figlio dell'abate, nella moglie di lui generato"; o di Alibech, che diviene "romita" e a lei Rustico insegna rimettere il diavolo nell'inferno: e questa è la novella più audace e oscena del "motteggevole Dioneo". Nella quarta giornata comanda Filostrato e si conversa di coloro i cui amori ebbero infelice fine: è il tema che più si addice a Filostrato, schiavo d'amore e sfortunato: la più celebre è la quinta novella, in cui rapidamente fiorisce e sfiorisce l'idillio di Lisabetta da Messina con Lorenzo, il fattore dei suoi fratelli mercanti; scoperta la tresca, i fratelli di Lisabetta uccidono il suo amante Lorenzo, il quale le appare in sogno e le indica dove sia sotterrato: allora essa occultamente dissotterra la testa, la mette in un vaso contenente basilico e "quivi piangendo ogni dì per una grande ora, i fratelli gliela tolgono ed essa se ne muore di dolore poco dopo". Nella quinta giornata per decisione di Fiammetta si narra "di ciò che ad alcuno amante, dopo alcuni fieri e sventurati accidenti, felicemente avvenisse": ma la cornice è molto tenue, e le novelle più ricordate sono quella di Nastagio degli Onesti narrata da Filomena, e dedicata espressamente alle donne, sia per dimostrare come la divina giustizia castighi la crudeltà delle amate, sia per offrire loro materia di "cacciarla del tutto" dal proprio cuore: Nastagio degli Onesti infatti ama una de' Traversari e per lei spende tutte le sue ricchezze, senza essere amato; va a Chiassi e qui "vede cacciare ad un cavaliere una giovane, ucciderla e divorarla da due cani; invita i parenti suoi e quella donna amata da lui ad un desinare, e questa vede la medesima giovane sbranare, e temendo di simile avvenimento, prende per marito Nastagio". L'altra famosa novella è quella di Federigo degli Alberighi, che si riduce in miseria per la donna amata, senza essere amato; non gli rimane che un falcone, che dà a mangiare alla sua "donna venutagli a casa"; ma questa "ciò sappiendo mutata d'animo, il prende per marito e fllo ricco": il dramma di questo caso sfortunato non è solo secondo il Muscetta "in quel che la donna ora domanda e Federigo "servir non le potea": è nell'impareggiabile confronto tra chi ama e chi non ama, tra la ricchezza dei sentimenti di Federigo e la miseria di questa donna". Inizia così la sesta giornata, nella quale per volere di Elisa si scambiano racconti su chi "con alcuno leggiadro motto tentato si riscotesse e con pronta risposta o avvedimento fuggì perdita o pericolo o scorno": è qui che si trovano famose novelle come quella di Madonna Oretta o di Cisti fornaio, sorprendente per la prontezza della risposta, o di Chichibio, cuoco, la più popolare di questa giornata, o di frate Cipolla, una tra le più famose del Boccaccio: frate grezzo, ma dalla parola maliziosa, capace di scommettere contro l'ingenuità e l'ignoranza dei suoi ascoltatori.

Segue la giornata settima, in cui è re Dioneo e si parla "delle beffe le quali o per amore o per salvamento di loro, le donne hanno già fatte ai loro mariti, senza essersene avveduti, o sì": è il tema che ha dato l'allegra fama di "prencipe galeotto" al Decameron: liberate ormai da ogni soggezione conformistica, le donne non meno degli uomini si attengono al "proposto" di Dioneo, con disinvoltura di linguaggio, di argomento e di spregiudicatezza: notissima è rimasta la novella di Frate Rinaldo, che "si giace con la comare; lo trova il marito in camera con lei e gli fanno credere che egli incantava i vermini al figlioccio". Sono tutte novelle artisticamente tenui, che molto spesso si riducono alla "trovata" e quasi mai ne viene fuori un carattere. La giornata ottava, diretta da Lauretta, è dedicata a "quelle beffe che tutto il giorno, o donna ad uomo o uomo a donna o l'uno all'altro si fanno": e il meccanismo della beffa scatta sempre a causa di un dislivello sociale o intellettuale tra il beffatore e il beffato; è in questa giornata che si leggono le famose novelle del prete di Varlungo "che si giace con monna Belcolore", o di Calandrino e l'elitropia, o del preposto di Fiesole, che ama non riamato una donna vedova, o di Bruno e Buffalmacco che "imbolano un porco" a Calandrino, o della "ciciliana" che magistralmente toglie a un mercante ciò che in Palermo ha portato, ma poi ne è beffata: siamo quasi alle porte della commedia degli inganni. La nona giornata ha come regina Emilia la quale libera i novellatori dall'obbligo del tema: sembra quasi un commiato festoso dal mondo comico; torna ancora Calandrino e si presentano personaggi nuovi come quello della badessa, che trova una sua monaca con il suo amante nel letto, mentre lei porta in testa le "brache" del prete, con il quale era giaciuta "credendosi il saltero dei veli aver posto in capo", o di Cecco Angiolieri, o di Biondello che fa una beffa a Ciacco. La decima e ultima giornata è diretta da Panfilo: si racconta di chi "liberalmente ovvero magnificamente alcuna cosa operasse intorno a' fatti di amore o d'altra cosa": sono racconti più meditati "nelle loro possibili conseguenze esemplari e in vista di una morale affatto umanistica e borghese, e di un futuro che non è il futuro dell'anima e dell'eterno, ma dei giorni che attendono la brigata a Firenze libera dalla peste. Lo stesso Panfilo è ben consapevole che i fini del Decameron non sono più quelli di una divina "commedia" educatrice, e non si può persistere su questa via". Forse la novella migliore è la nona: "il Saladino in forma di mercatante è onorato da messer Torello: fassi il passaggio: messer Torello dà un termine alla donna sua a rimaritarsi: è preso e per acconciare uccelli viene in notizia del Soldano, il quale riconosciutolo e sè fatto riconoscere, sommamente l'onora; messer Torello inferma e per arte magica in una notte si è recato a Pavia, et alle nozze, che della rimaritata sua moglie si facevano, da lei riconosciuto, con lei a casa sua se ne ritorna". Alla fine della decima giornata segue la conclusione dell'opera, secondo un disegno retorico, caratteristico del Decameron: sono pagine ricche di spirito e veramente rappresentative della modernit artistica dell'autore: non manca un pizzico di prudenza e di morale: "Tuttavia chi va tra queste leggendo, lasci stare quelle che pungono, e quelle che dilettano legga ...; e come che molto tempo passato sia da noi che io a scriver cominciai, infino a quest'ora che io al fine vengo della mia fatica, non m'è per ciò uscito di mente me avere questo mio affanno offerto alle oziose e non all'altre: ... le cose brievi si convengon molto agli studianti che a voi donne, alle quali tanto del tempo avanza, quanto negli amorosi piaceri non ispendete ... E lasciando omai a ciascheduna e dire e credere come le pare, tempo è da por fine alle parole. Colui umilmente ringraziando, che dopo s lunga fatica col suo aiuto, si ha al desiderato fine condotto. E voi, piacevoli donne, con la sua grazia in pace vi rimanete, di me ricordandovi, se ad alcuna forse alcuna cosa giova l'averle lette.

Qui finisce la decima et ultima giornata del libro chiamato Decameron cognominato Prencipe Galeotto". All'unità delle novelle, oltre al fatto che il re o la regina di turno scelgono il tema generale, sul quale ciascuno dei narratori tesse il proprio racconto, contribuiscono lo sfondo della società aristocratica, nel quale le varie storie sono inquadrate, e il fatto che ogni giornata ha un'"introduzione idillica" ed è chiusa da una "ballata"; gli stessi piccoli commenti alla fine di ogni novella e i lieti conversari e le arguzie e i canti servono come osserva il Sansone a dare a tutto il libro un accento di realismo quotidiano e idillico. Ciò che poi unisce come sentimento tutte le novelle e le fa poesia è l'amore della vita nella pienezza del suo essere e svolgersi; la vita, guardata con il cuore sgombro da presupposti morali e religiosi, la vita che è soprattutto amore e intelligenza. Vengono così eliminati il meraviglioso, il fiabesco, il sublime e con molta obiettività sono rappresentati personaggi concreti, sciocchi e furbi, assassini e cavalieri, imbroglioni e beffeggiati, timorati di Dio e privi di scrupoli, creature gentili o ciniche, che vivono tutti la loro vita e che sono il frutto di un modo di sentire del Boccaccio: "Vita come naturalità ed istintività, e quindi prevalentemente la forza d'amore come obbedienza ai sensi e come passione incoercibile; e la forza costruttiva dell'umana intelligenza abile a creare intorno a sè brevi o vasti circoli di realtà" (Sansone). Non c'è spazio nel Decameron per ironia o satira o deformazione dei personaggi fuori dei limiti del realismo: se mai tutto è pervaso da un senso di comicità, che esprime l'atteggiamento positivo del poeta di fronte alla libera umanità nella pienezza della sua vitalità e creatività. Da qui nasce un Boccaccio cavaliere e cortigiano, che ama le raffinatezze, di cui sono prove costanti l'eloquenza, i paesaggi, le figure, le azioni del Decameron; cortesia e cavalleria, che preannunciano il Rinascimento e obbligano a ritenere falsa la concezione che limita la poesia del Boccaccio alla licenza e alla burla. A tanta ricchezza di fantasia corrisponde altrettanta duttilità di stile: la prosa è foggiata sul modello ciceroniano e in genere degli scrittori classici, il periodo è sempre architettato sapientemente, con qualche accenno alla nativa parlata toscana. Le fonti del libro sono varie, classiche e medievali, ma ciò non toglie nulla al pregio dell'opera, che non è nella invenzione, ma nella sua altezza poetica. Immensa la fortuna del Decameron in Italia e fuori, straordinaria l'influenza del Boccaccio, considerata uno dei motivi fondamentali della storia non solo della novellistica, ma in genere della prosa italiana. Il De Sanctis definì il Decameron "commedia umana".

Il Boccaccio in un dipinto di Andrea del Castagno

Il Decamerone Le Giornate e Le Novelle

Prima giornata Proemio

Prima giornata Introduzione

Prima giornata Novella 1

Prima giornata Novella 2

Prima giornata Novella 3

Prima giornata Novella 4

Prima giornata Novella 5

Prima giornata Novella 6

Prima giornata Novella 7

Prima giornata Novella 8

Prima giornata Novella 9

Prima giornata Novella 10

Prima giornata Conclusione

Seconda giornata Introduzione

Seconda giornata Novella 1

Seconda giornata Novella 2

Seconda giornata Novella 3

Seconda giornata Novella 5

Seconda giornata Novella 6

Seconda giornata Novella 7

Seconda giornata Novella 8

Seconda giornata Novella 9

Seconda giornata Novella 10

Seconda giornata Conclusione

Terza giornata Introduzione

Terza giornata Novella 1

Terza giornata Novella 2

Terza giornata Novella 3

Terza giornata Novella 4

Terza giornata Novella 5

Terza giornata Novella 6

Terza giornata Novella 7

Terza giornata Novella 8

Terza giornata Novella 9

Terza giornata Novella 10

Terza giornata Conclusione

Quarta giornata Introduzione

Quarta giornata Novella 1

Quarta giornata Novella 2

Quarta giornata Novella 3

Quarta giornata Novella 4

Quarta giornata Novella 5

Quarta giornata Novella 6

Quarta giornata Novella 7

Quarta giornata Novella 8

Quarta giornata Novella 9

Quarta giornata Novella 10

Quarta giornata Conclusione

Quinta giornata Introduzione

Quinta giornata Novella 1

Quinta giornata  Novella 2

Quinta giornata Novella 3

Quinta giornata Novella 4

Quinta giornata Novella 5

Quinta giornata Novella 6

Quinta giornata Novella 7

Quinta giornata Novella 8

Quinta giornata Novella 9

Quinta giornata Novella 10

Quinta giornata Conclusione

Sesta giornata Introduzione

Sesta giornata Novella 1

Sesta giornata Novella 2

Sesta giornata Novella 3

Sesta giornata Novella 4

Sesta giornata Novella 5

Sesta giornata Novella 6

Sesta giornata Novella 7

Sesta giornata Novella 8

Sesta giornata Novella 9

Sesta giornata Novella 10

Sesta giornata Conclusione

Settima giornata Introduzione

Settima giornata Novella 1

Settima giornata Novella 2

Settima giornata Novella 3

Settima giornata Novella 4

Settima giornata Novella 5

Settima giornata Novella 6

Settima giornata Novella 7

Settima giornata Novella 8

Settima giornata Novella 9

Settima giornata Novella 10

Settima giornata Conclusione

Ottava giornata Introduzione

Ottava giornata Novella 1

Ottava giornata Novella 2

Ottava giornata Novella 3

Ottava giornata Novella 4

Ottava giornata Novella 5

Ottava giornata Novella 6

Ottava giornata Novella 7

Ottava giornata Novella 8

Ottava giornata Novella 9

Ottava giornata Novella 10

Ottava giornata Conclusione

Nona giornata Introduzione

Nona giornata Novella 1

Nona giornata Novella 2

Nona giornata Novella 3

Nona giornata Novella 4

Nona giornata Novella 5

Nona giornata Novella 6

Nona giornata Novella 7

Nona giornata Novella 8

Nona giornata Novella 9

Nona giornata Novella 10

Nona giornata Conclusione

Decima giornata  Introduzione

Decima giornata Novella 1

Decima giornata Novella 2

Decima giornata Novella 3

Decima giornata Novella 4

Decima giornata Novella 5

Decima giornata Novella 6

Decima giornata Novella 7

Decima giornata Novella 8

Decima giornata Novella 9

Decima giornata Novella 10

Decima giornata Conclusione

Conclusione dell'autore

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