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De Sanctis, Francesco.

Critico letterario e uomo politico italiano. Di famiglia borghese, compì gli studi a Napoli, inizialmente sotto la guida di uno zio sacerdote e, a partire dal 1833, presso il purista Basilio Puoti. Nel 1839 aprì una scuola privata al Vico Bisi, dove continuò la sua attività di insegnamento anche dopo avere ottenuto la cattedra presso il Collegio militare della Nunziatella (1841). Nel 1848, sceso in campo alla vigilia dei moti per la libertà e la difesa dei diritti dell'uomo, fu costretto all'esilio in Calabria. Arrestato e rinchiuso nel Castel dell'Ovo a Napoli (1850), lesse durante la prigionia la Logica di Hegel, tradusse il Manuale di una storia generale della poesia di K. Rosenkranz e compose il dramma Torquato Tasso. Imbarcato per essere inviato in America, riuscì a sbarcare a Malta e da lì a raggiungere Torino (1852), rifugio di molti esuli napoletani. Il soggiorno torinese fu molto importante per la sua formazione: in quegli anni, infatti, collaborò intensamente con le riviste "Il cimento" e "Il Piemonte", scrisse numerosi saggi, si impegnò nella revisione critica dell'estetica hegeliana e nella lettura e interpretazione, attraverso corsi pubblici, della Divina Commedia. Trovandosi in una situazione economica difficile, per avere rifiutato l'assegno offerto dal Governo agli esuli, nel 1856 si trasferì in Svizzera dove, nominato professore di Letteratura italiana al politecnico di Zurigo, rimase sino al 1859. In quegli anni d'esilio, tenne corsi su Dante, Petrarca, il poema cavalleresco, Manzoni, Leopardi e fece incontri importanti: a Zurigo vide Mazzini, conobbe Liszt, Wagner e frequentò J. Burckhardt, Th. Vischer, A.E. Chorbuliez. Nel frattempo D. maturò il superamento dell'estetica hegeliana e mise mano a un progetto critico sul poema dantesco, di cui i due saggi famosi Dell'argomento della Divina Commedia e Carattere di Dante e sua utopia, dovevano costituire parti importanti. Dopo la liberazione del Mezzogiorno nel 1860, tornò a Napoli entrando in politica. Indipendente dai due maestri di pensiero e d'azione Mazzini e Gioberti, integrò la sua primitiva formazione storico-politica vichiano-napoletana con lo studio della storiografia e della pubblicistica liberale francese. Nel 1861 fu nominato governatore di Avellino e nello stesso anno divenne direttore della Pubblica Istruzione, incarico che gli rese possibile di riformare l'università di Napoli. Deputato al primo Parlamento italiano (1861), fu ministro della Pubblica Istruzione con Cavour e con il suo successore Ricasoli (1861-62). Nel 1862, insieme a Settembrini, fondò a Napoli il giornale "L'Italia", organo della sinistra giovane, composta in gran parte da ex mazziniani e da uomini del Partito d'Azione. Ripresa la sua attività di critico letterario, nel 1866 pubblicò i Saggi critici, raccolta di articoli pubblicati su diverse riviste. Nel 1868 iniziò a collaborare con la "Nuova Antologia" e pubblicò il Saggio critico sul Petrarca, basato sulle lezioni tenute a Zurigo. Servendosi degli appunti raccolti durante le lezioni napoletane, torinesi e svizzere D. si accinse in seguito alla composizione del suo lavoro più importante, la Storia della letteratura italiana (V.), pubblicata in due volumi tra il 1870 e il 1871. Nell'opera l'autore delineò la sua posizione critica e, alla luce della filosofia europea posthegeliana, rielaborò l'intera esperienza romantica. Costretto, tuttavia, da necessità editoriali a sacrificare la parte terminale, relativa all'Ottocento, D. pubblicò il materiale inerente a questo periodo sulla rivista "Nuova Antologia" con saggi su Foscolo, Leopardi, Manzoni, Guicciardini, raccolti in seguito nei Nuovi Saggi critici (1872). Nel 1871 D. tornò a insegnare presso l'università di Napoli, tenendo quelle lezioni Sulla letteratura italiana del secolo XIX che, pubblicate postume nel 1897 da Francesco Torraca e Benedetto Croce, sono considerate come un terzo volume della Storia della letteratura. Nel 1876 il critico fondò a Napoli il circolo filologico. Due anni più tardi, nel 1878, e negli anni 1879-81 D. tornò a essere ministro della Pubblica Istruzione chiamato dal nuovo leader della sinistra parlamentare, Benedetto Cairoli; furono anni importanti in cui D. combatté l'analfabetismo, diffuse l'istruzione elementare e l'educazione popolare, promosse contro l'ingerenza ecclesiastica agevolazioni ai Comuni per l'edilizia scolastica, istituì una direzione per la conservazione dei musei e delle antichità, istituì un fondo pensioni per i maestri elementari. Trascorse gli ultimi anni della sua vita dedicandosi al Saggio su Leopardi (1885, postumo) e a dettare le sue Memorie alla nipote (apparve in questi appunti il frammento La Giovinezza, in cui sono narrati con vivacità gli anni dell'infanzia e della prima giovinezza). Nel 1877 inoltre affrontò alcuni studi su Zola mostrando la sua continua volontà di aggiornamento; nel 1883, anno della sua morte, tenne una conferenza sul Darwinismo nell'arte. D. non ordinò il suo pensiero in un discorso sistematico. Quasi tutte le sue opere ebbero origine dalle esperienze di insegnamento, libere quindi da ogni preoccupazione di erudizione, anche se sostenute da un ricco patrimonio di cultura. Dagli inizi retorici della scuola napoletana del Puoti, allo studio degli Illuministi italiani e stranieri, alle meditazioni sull'opera di Vico, agli entusiasmi per l'Idealismo hegeliano, al successivo distacco per una visione più concreta del fatto artistico, l'itinerario storico-filosofico-estetico lungo il quale si sviluppò il pensiero di D. fu accompagnato da una conoscenza sempre più approfondita degli scrittori antichi e moderni e da una vigile attenzione ai nuovi orientamenti della cultura e del gusto. In tal modo D. insegnò, come critico, il gusto della poesia non disgiunto dal contesto storico politico, ritenendo che la poesia e la letteratura fossero espressione della società. In un primo tempo riprese l'insegnamento dell'estetica dell'Idealismo e in particolare di quella hegeliana (considerata come norma nell'insegnamento napoletano); successivamente lo rielaborò giungendo a rifiutare la tesi hegeliana della morte dell'arte e del tramonto della poesia conseguente allo sviluppo dialettico dell'Idea (che da pensiero non cosciente nell'arte diventa coscienza razionale nella religione e nella filosofia). Sostenendo al contrario che non l'arte ma solo le sue forme in continua evoluzione erano moriture, durante gli anni zurighesi, D., con le lezioni sul Petrarca e sulla poesia cavalleresca, passò dall'Idealismo al Realismo e, rifiutando la vecchia poetica grammaticale, moralistica e retorica, sostenne il principio dell'autonomia dell'arte, che gli consentiva di penetrare nella psicologia e nell'anima dello scrittore. L'incontro con il Verismo e con il Naturalismo di Zola svilupparono il pensiero del critico in senso positivistico. D. concepì la poesia come momento autonomo ed essenziale della vita dello spirito, fondato sulla fantasia e sul sentimento; superando la critica romantica e quella retorico-grammaticale, rifiutando da un lato il formalismo e dall'altro il contenutismo spesso moralistico, egli passò dall'estetica dell'Idea, all'estetica della forma. La poesia infatti, secondo D., si realizzava in un'unità detta forma, da intendersi non come l'aspetto formale ma come sintesi di contenuto e di espressione. Il contenuto di idee e di sentimenti doveva, per divenire poesia, essere calato in una situazione concreta, individuale, trasformarsi in un fantasma poetico, immagine palpitante, in cui si manifestasse la vita della coscienza. La forma, per il D., era il livello di generalizzazione più profondo, più comprensivo, più alto; l'espressione perfetta di tutto ciò che può esistere nell'uomo come indeterminato, caotico, informe, generale, particolare, astratto, concettuoso o allegorico. In questa concezione della forma, l'Idealismo diventava Realismo, cioè aspirazione e ideali compiutamente realizzati. L'essenza specifica dell'arte non andava confusa con la morale o la filosofia ma aveva come scopo la creazione della bellezza. Pur sentendo il nesso inscindibile tra arte e vita, fra valori estetici e valori etici e morali, D. riteneva infatti che la poesia, anche se specchio della civiltà da cui proveniva, costituisse di per sé un valore nella storia. In tal modo superava da un lato la critica classicista fondata sull'adesione alle regole o fondata su un astratto purismo e dall'altro ogni forma di contenutismo che valutasse l'opera secondo le idee in essa contenute. Il pensiero critico di D. fu osteggiato fortemente dalla scuola storica più attenta alle ricerche minute e filologicamente esatte e contraria alle grandi sintesi storiche operate da D. Successivamente il pensiero di D. venne dimenticato dalla critica neoumanistica di Carducci e dalle tendenze estetizzanti del primo Novecento. Fu solo a cavallo dei due secoli, con B. Croce, che la critica di D. venne rivalutata contro il determinismo e l'erudizione della critica positivistica. B. Croce, che promosse anche una recupero editoriale del critico, interpretò tuttavia il pensiero di D. facendone il precursore della sua estetica. Fuorviante fu del resto anche il ricorso a D. operato dalla critica storica di E.G. Parodi e di R. Renier. La necessità di una rivalutazione corretta del pensiero di D. venne sentita in occasione della commemorazione del critico nel 1937 ad opera di M. Valgimilgi e di G. Contini (autore di un saggio introduttivo ai Saggi critici desanctiani del 1949) (Morra Irpino, od. Morra De Sanctis, Avellino 1817 - Napoli 1883).