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De Republica.

Trattato filosofico e politico in quattro libri di Marco Tullio Cicerone, composto tra il 54 e il 51 a.C. Considerato il capolavoro di Cicerone, che lo dedicò all'amico Attico, consta di una serie di dialoghi, divisi inizialmente in nove libri, che l'autore ridusse in seguito a sei. Al principio del XIX sec. si conoscevano soltanto alcuni brani dell'opera, fra i quali il Sogno di Scipione. Nel 1822 il cardinale Angelo Mai ritrovò nel palinsesto del Vaticano il primo libro, conservato quasi completamente, un lungo frammento del secondo e alcune sezioni degli altri libri. La narrazione è incentrata su una conversazione fra Scipione Emiliano, il suo amico Lelio, Rutilio Rufo, Fannio, l'augure Quinto Muzio Scevola, Lucio Furio Fillo, Manlio e altri celebri personaggi dell'epoca di Cicerone. Nella prima giornata (dal I al III libro) gli interlocutori discutono per stabilire quali siano le condizioni più idonee per un proficuo svolgimento della vita politica e quali siano i presupposti perché una Nazione si mantenga forte e potente. Partendo dalla distinzione fra diverse forme di governo (monarchia, aristocrazia, democrazia), Cicerone individua nella Repubblica romana la sintesi ideale dei tre tipi. Nel secondo giorno (libri III-IV) viene affrontato il problema della giustizia; la dissertazione si conclude con l'affermazione che questa, fondata sul diritto naturale, deve essere il fondamento dello Stato. Nella terza giornata, dopo l'esaltazione delle antiche istituzioni morali e civili, Scipione racconta un sogno avuto in Africa (il Sogno di Scipione, conservatoci da Macrobio, che costituisce il frammento più considerevole del resto dell'opera) durante un soggiorno presso Massinissa. Nel sogno il grande avo di Scipione, l'Africano, rapisce il nipote, portandolo sotto forma di spirito negli spazi celesti, facendogli avvertire l'armonia delle sfere e vedere l'ordine ammirabile che regna nel mondo. L'Africano insegna a Scipione a disprezzare le cose terrene, a elevare il pensiero al di sopra della meschine preoccupazioni terrene, a non ambire ad altra gloria che alla virtù.