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Concupiscenza.

Desiderio smodato, inclinazione verso un oggetto piacevole. La voce ha una genesi storica sul terreno filosofico e teologico. Nella tricotomia platonica la c. ha il terzo posto. Aristotele fa della c. una facoltà dell'appetito sensitivo insieme con l'ira, distinguendo dall'una e dall'altra l'appetito razionale o volontà. • Psicol. e Filos. - Nella struttura psicologica dell'uomo la c. è una forma naturale dell'appetito sensitivo e perciò non ha in se stessa valore morale, ma lo può avere in quanto può influire sulla sfera razionale propria dell'intelletto e della volontà. San Tommaso ammette questa possibilità per la c. come per tutte le passioni dell'appetito sensitivo e lo dimostra dal fatto dell'unità dell'anima, che concentrando le sue energie in una delle sue facoltà, per es. nella c., causa l'indebolimento delle altre (ragione, volontà) oppure dal fatto che l'intelletto attinge il suo oggetto solo attraverso la sensazione, la quale perciò condiziona la conoscenza razionale e per essa anche l'attività volitiva. La c. dunque influisce indirettamente sulla volontà prevenendone e accompagnandone la funzione e quindi concorrendo all'atto umano eticamente inteso, sia per il bene sia per il male. Pertanto dal punto di vista filosofico la c. non è un male in se stessa, ma sul terreno teologico la c. subisce un altro sviluppo di significato, specialmente per le esigenze della dottrina intorno al peccato originale. Gli scolastici traducono i dati della filosofia greca in uno schema ben determinato: alla conoscenza dei sensi corrisponde l'appetito sensitivo distinto in concupiscibile (di fronte al bene e al male facile) e irascibile (di fronte al bene e al male difficile); alla conoscenza intellettiva corrisponde l'appetito razionale che è la volontà libera. • Rel. - Nella Sacra Scrittura il termine c. in senso generico è ogni desiderio, carnale o spirituale, contrario alla retta ragione e alla volontà di Dio: San Paolo parla d'una c. della carne e d'una c. dello spirito e San Giovanni attribuisce la c. perfino al diavolo. Ma in senso più specifico la c. è il complesso delle passioni della carne fatta ribelle alla legge dello spirito, principalmente in seguito e in forza del peccato originale. Al concilio di Trento nella preparazione del decreto sul peccato originale contro le aberrazioni luterane, si discusse molto sulla natura della c., che Seripando e altri agostinisti si ostinavano a considerare come peccato in se stessa anche nei battezzati. Ma il concilio, ricollegandosi al vero pensiero di Sant'Agostino e a quello più chiaro di San Tommaso, definì che il battesimo toglie radicalmente il peccato originale, ma lascia la c., la quale si dice peccato perché fu effetto del peccato originale e ora è occasione e stimolo al peccato attuale; il battezzato però può resistere e acquistarne meriti per la vita eterna.