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ITINERARI - IDEE - TEMPI DI CRISI

LA SCUOLA FENOMENOLOGICA

Il termine fenomenologia ha cambiato spesso di significato nel corso del tempo. Tradizionalmente indicava la teoria delle apparenze sensibili e più o meno in questo senso, ossia come scienza dell'esperienza sensibile, era stato usato anche da Kant. Hegel aveva esteso il suo valore a indicare il processo che la coscienza deve attraversare per giungere alla piena manifestazione di se stessa, ossia il passaggio dello Spirito dalla coscienza naturale (soggettiva) alla coscienza universale, che è il «vero sapere». La fenomenologia diventava cioè «la scienza dell'esperienza della coscienza». Ancora diverso è il significato oggi più diffuso del termine, legato all'opera del tedesco Edmund Husserl (1859-1938), che lo ha usato per indicare non questa o quella parte della filosofia, ma tutt'intera una filosofia, o, meglio, un metodo filosofico consistente nell'attenta descrizione dei processi psichici e di ciò che in essi si manifesta alla coscienza (Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, 1913).
Husserl era partito da un vecchio problema: è possibile una conoscenza certa? Kant, un secolo avanti, aveva indicato le scienze fisiche e matematiche come l'unico settore in cui le nostre conoscenze risultano necessarie e universali. Sul finire dell'Ottocento l'intero mondo scientifico e in particolare quello dei fisici e dei matematici, si stava interrogando sulla certezza delle proprie conoscenze. Erano uscite risposte disparate, ma tutte ispirate a grande cautela: era la nozione stessa di verità che ormai «andava stretta» (se così si può dire) al mondo scientifico.
Husserl faceva parte di questo mondo. Era stato allievo e poi assistente di uno dei più grandi matematici del tempo, Karl Weierstrass, e aveva delineato il suo programma fenomenologico proprio in relazione a una delle grandi discussioni allora in corso tra matematici, quella tra logicisti (rappresentati da Gottlob Frege) e psicologisti (rappresentati da Franz Brentano) a proposito della natura dei concetti logico-matematici. Franz Brentano (1838-1917), uno dei maestri di Husserl, assumeva come criterio di certezza l'evidenza dei dati immediati della coscienza e tendeva a ricondurre ogni sapere, compreso il sapere logico-matematico, alle operazioni psichiche elementari che ne sono alla base. Frege replicava ricordando la differenza che passa tra la genesi empirica dei concetti, che interessa la psicologia, e il loro significato universale: alla matematica, diceva Frege, non interessa affatto sapere quali meccanismi psicologici presiedano alla formazione del concetto di due; interessa definire il valore formale della dualità.
Anche Husserl, dopo una iniziale adesione, finì con il respingere lo psicologismo di Brentano, ma respingeva ugualmente il formalismo di Frege e dei logicisti e il loro ostentato disinteresse per l'origine dei significati logico-matematici. Il problema, più in generale, era quello dell'universalità del pensiero e dei suoi fondamenti. Secondo Husserl fondare i concetti logico-matematici sull'evidenza dei dati della coscienza non significava affatto rinunciare al loro carattere necessario e universale. Ciò che si esperimenta nel flusso della coscienza non è infatti soltanto la consapevolezza dei processi psichici che vi avvengono, ma la consapevolezza, anche, di oggetti, o «cose», a cui questi processi fanno riferimento. La caratteristica fondamentale di tutti i processi psichici, che Husserl chiamava «intenzionalità», è appunto questo loro essere necessariamente coscienza di qualche cosa. Questo oggetto della coscienza è irriducibile alla pura soggettività dei processi psichici, trascende il puro fatto di coscienza.
Husserl proponeva in sostanza un «ritorno alle cose» mediante una attenta descrizione fenomenologica delle cose stesse quali concretamente si manifestano alla coscienza (in un primo momento in luogo di «fenomenologia» aveva parlato di «psicologia descrittiva»). Non si può negare che l'espressione «ritorno alle cose» fosse molto equivoca (e molti infatti equivocarono). Le «cose» di Husserl avevano poco a che fare con ciò che l'uomo comune intende per cose e ancor meno con ciò che intende lo scienziato. Per coglierne il senso, anzi, era necessario, secondo Husserl, «mettere tra parentesi» tutto quello che il senso comune e la scienza assumono come ovvio, evidente o certo: a proposito di questa «messa tra parentesi» Husserl parlava di epoché, un termine dell'antico scetticismo, che, come si ricorderà, indicava la sospensione del giudizio.
Le «cose» di Husserl sono gli oggetti della coscienza. Se, ad esempio, ascoltiamo un suono, ne abbiamo coscienza sia come evento fisico particolare, ed è la «cosa» che interessa l'uomo comune o lo scienziato, sia, ed è la «cosa» che interessa il filosofo, come ciò che fa di quel suono un suono, e cioè come forma essenza, idea del suono. Husserl distingueva dunque l'intuizione empirica degli oggetti (quel suono) e l'intuizione «eidetica» (da eidos = «idea», «forma»), che è la comprensione diretta dell'essenza (ciò che fa di quel suono un suono). Dal punto di vista fenomenologico non ha nessuna importanza che l'oggetto d'esperienza esista davvero; ciò che conta è il suo modo di manifestarsi alla coscienza. In questo senso la fenomenologia si distingue nettamente dalla scienza comunemente intesa. Per la scienza è fondamentale stabilire se un certo oggetto è reale oppure no. Per la fenomenologia, invece, la cosa è del tutto indifferente ed è indifferente la stessa distinzione tra realtà e rappresentazione della realtà. Il fatto che un suono come evento fisico-acustico non esista nella realtà (nel caso di un'allucinazione, ad esempio) non impedisce né ostacola minimamente l'intuizione eidetica, cioè la comprensione intuitiva della sua essenza quale si manifesta alla coscienza. Naturalmente possiamo sempre dire che l'intuizione empirica di chi crede di aver udito quel suono è falsa, ma dal punto di vista fenomenologico la cosa è totalmente priva d'importanza.
Il metodo specifico del filosofo, la via per giungere alle «cose», era, per Husserl, la cosiddetta «riduzione fenomenologica». Benché il nome fosse nuovo, non si può dire che fosse nuova la cosa: si trattava pur sempre, infatti, di definire un'essenza universale a partire dagli oggetti dell'esperienza, ossia dai dati della coscienza. Chiacchierando con Eutifrone, molti secoli prima di Husserl, Socrate aveva operato la sua brava riduzione fenomenologica di quella particolare «cosa» che è la santità. Con la differenza che Socrate aveva concluso la chiacchierata con Eutifrone dichiarandosi - molto compiaciuto - di saperne meno di prima, mentre Husserl immaginava che la fenomenologia potesse essere costruita come una scienza rigorosa, destinata anzi ad essere la «scienza prima», diversa da tutte le altre proprio per questo suo incomparabile rigore e per la solidità delle sue basi.
La solidità di queste basi era affidata, in verità, ancora una volta, ad un'argomentazione tutt'altro che nuova. Husserl ripeteva infatti con Cartesio che nessun dubbio, per quanto radicale, può mettere in discussione la coscienza. Posso essere in dubbio sul fatto che alla mia idea del tavolo corrisponda davvero qualcosa nella realtà (e questa corrispondenza, aveva osservato Cartesio, non c'è nei sogni, e purtroppo non abbiamo nessun criterio sicuro per distinguere i sogni dalla veglia). Non posso però mettere in dubbio che ho l'idea del tavolo, cioè che l'idea del tavolo esiste in quanto idea.
È proprio per questo che possiamo fare oggetto di indagine qualsiasi cosa si presenti alla nostra coscienza, indipendentemente dalla sua esistenza effettiva. I critici hanno discusso a lungo se le cose o essenze ideali di cui parla Husserl siano affini alle idee di Platone oppure no. Parrebbe proprio di sì, perché altrimenti sarebbe arduo capire di che cosa volesse parlare. Occorre tuttavia rammentare che il chiarimento del pensiero husserliano in questo senso è stato graduale, e che è costato a Husserl la perdita di molti seguaci che, tra gli inizi del secolo e la prima guerra mondiale, gli si erano avvicinati proprio perché avevano attribuito un valore antiidealistico al suo «ritorno alle cose».
L'attività di Husserl si è chiusa con una famosa e malinconica diagnosi della crisi della civiltà europea (La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, un'opera rimasta incompiuta e pubblicata solo nel 1954) formulata dopo l'avvento del nazismo, quando Husserl, che era ebreo, era stato radiato dall'Università.
Secondo Husserl la parzialità e la frammentazione del sapere scientifico specializzato era il sintomo di una crisi generale della nozione di razionalità. Questa crisi affondava le sue radici nel fatto che la razionalità veniva intesa in modo riduttivo, limitandone il dominio al solo mondo naturale, dimenticando così il momento soggettivo, il ruolo della coscienza, che rende possibile la stessa rappresentazione del mondo naturale. La scienza, affermava Husserl, tende a concepire il mondo come insieme di realtà chiuse e definite, fissate una volta per tutte, mentre la realtà storica in cui essa è nata e in cui progredisce è in continuo sviluppo. La filosofia deve recuperare la concretezza del processo della vita, riconoscendo alla scienza e alla tecnica la loro importanza, ma sottolineando i rischi della loro feticizzazione, cioè l'illusione che la scienza possa spiegare ogni cosa. Al di fuori delle scienze della natura esiste un complesso «mondo della vita», che è appunto compito dell'analisi fenomenologica indagare in tutti i suoi aspetti.

INTENZIONALITĄ

Husserl definiva il rapporto della coscienza con i suoi oggetti mediante la nozione di «intenzionalità» che però era stata elaborata da Franz Brentano. La caratteristica fondamentale dei fenomeni psichici, secondo Brentano, era il loro necessario riferirsi (o «tendere») a un oggetto: ogni atto psichico è coscienza di un oggetto e il modo in cui la coscienza si volge ai suoi oggetti (il modo cioè in cui li «intenziona») determina il carattere degli oggetti stessi. Brentano aveva tratto la nozione di intenzionalità dalla vecchia terminologia scolastica, dove intentio indicava l'atto del conoscere (dal latino intendere = «mirare a») e dove si faceva distinzione tra intentio prima il cui oggetto è una cosa in sé (esterna alla coscienza), e intentio secunda, il cui oggetto è una rappresentazione (o uno stato della coscienza). Brentano aveva sostenuto che solo gli oggetti «di seconda intenzione» sono certi in quanto oggetti di percezioni evidenti, mentre la conoscenza degli oggetti esterni alla coscienza («di prima intenzione») ha un valore meramente probabile. Di qui la sua decisione (punto di partenza di tutto l'indirizzo fenomenologico) di rivolgere la propria ricerca alle cose non come sono, ma come appaiono nell'orizzonte intenzionale del soggetto.

L'ESISTENZIALISMO

Nel 1919, nello stesso anno in cui usciva la Psicologia delle visioni del mondo di Karl Jaspers (1883-1969), considerata la prima manifestazione significativa dell'esistenzialismo tedesco, Husserl nominava suo assistente all'università di Friburgo Martin Heidegger (1889-1976) destinato a diventare il massimo esponente dell'esistenzialismo. Per qualche anno, e cioè fino alla pubblicazione nel 1927 di L'essere e il tempo di Heidegger, la vita e la riflessione dei due parvero procedere in parallelo, poi si separarono sempre di più. L'essere e il tempo era dedicato a Husserl «con ammirazione e amicizia», ma era già frutto di questa divergenza. Nel 1931 Husserl avrebbe attaccato apertamente la filosofia dell'esistenza di Heidegger. Nel 1933 l'avvento del nazismo in Germania significò per Husserl la radiazione dai ruoli dell'Università; per Heidegger, che aderì sollecitamente al regime e al partito nazionalsocialista, significò la nomina a rettore dell'Università di Friburgo. Dopo la sconfitta della Germania nella seconda guerra mondiale, le autorità di occupazione nell'ambito della campagna di denazificazione sospesero Heidegger dall'insegnamento; nel 1951 fu definitivamente messo in pensione.
Di Husserl Heidegger aveva accettato innanzi tutto il metodo dell'analisi fenomenologica. Mentre però in Husserl l'oggetto di questa analisi era la coscienza, in Heidegger era l'esistenza dell'uomo. Heidegger cioè si serviva del metodo fenomenologico per portare alla luce le presunte «strutture fondamentali» dell'esistenza umana. Di queste strutture, sull'esempio di Kierkegaard e in aperto contrasto con le tradizioni del razionalismo, dava una connotazione eminentemente emozionale: attribuiva loro, infatti i nomi di due sentimenti, la «cura» (in tedesco Sorge = «ansietà», «preoccupazione», «affanno») e l'«angoscia» (in tedesco Angst).
L'angoscia è la condizione di chi sta (e sa di essere) sull'orlo del nulla. Il sentimento dell'angoscia non deve però essere confuso con la banale paura della morte. La paura della morte è una manifestazione di debolezza, mentre l'angoscia è semmai «presentimento di morte», e cioè è in definitiva l'atto di coraggio con cui l'uomo guarda in faccia la propria esistenza e la trova priva di significato. L'angoscia definisce così la dimensione che Heidegger chiamava «autentica» della vita perché nasce dalla considerazione della morte, che è ciò che vi è di più proprio per l'uomo: nessuno può assumere su di sé la morte di un'altro, nessuno può morire al posto di un altro, nessuno può sperimentare la sua propria morte.
Poiché la situazione in cui si manifesta il sentimento dell'angoscia è tutt'altro che gradevole, si ha solitamente la caduta nell'esistenza «inautentica», che è caratterizzata da un'ansietà inesauribile, dalla «cura» assillante per le cose di tutti i giorni, dalle infinite occupazioni e preoccupazioni della vita quotidiana. Tipico dell'esistenza inautentica, quotidiana, «banale» (come anche la chiamava Heidegger), è proprio il sentimento della paura: non potendo sopportare il peso dell'angoscia, l'uomo devia sugli oggetti del mondo esterno quella pericolosità che in realtà è l'immagine della propria solitudine nell'universo e il sentimento della mancanza di significato dell'esistenza.
Se l'esistenzialismo deve a Heidegger il contributo teorico più massiccio, la popolarità della corrente negli anni a cavallo della seconda guerra mondiale è stata principalmente opera del francese Jean Paul Sartre (1905-1980), fortunato autore di romanzi e lavori teatrali, oltre che filosofo e saggista. La sua prima grande affermazione come scrittore venne nel 1938 con il romanzo La nausea, che è il racconto dell'improvviso emergere nella coscienza di un intellettuale del sentimento di esistere, preceduto e accompagnato da una violenta ripugnanza, la «nausea», appunto, per tutto ciò che fino a quel momento aveva riempito la sua esistenza: gli oggetti familiari, i libri, le persone, il lavoro stesso.
Scoppiata la seconda guerra mondiale, nel corso della breve campagna che segnò la sconfitta della Francia, Sartre fu fatto prigioniero dai tedeschi. Liberato nel 1941 e tornato in Francia, aderì alla Resistenza. La prigionia e poi la partecipazione alla Resistenza segnarono l'inizio di una nuovo corso nella vita e nel lavoro di Sartre: mentre prima della guerra era stato soprattutto uno spettatore degli avvenimenti del suo tempo (si è detto che si limitava a «seguire dal marciapiede» i cortei del Fronte Popolare) dopo la guerra ne fu sempre, e appassionatamente, partecipe.
A differenza di quanto accadde a tanti altri intellettuali del suo tempo, l'impegno politico di Sartre non significò mai connivenza o subalternità nei confronti del potere, qualunque fosse il suo colore. Negli anni della guerra fredda, ad esempio, si trovò schierato più volte con i comunisti, il che non gli impedì di denunciare con piena lucidità le degenerazioni dello stalinismo. Nel 1962 rifiutò il premio Nobel, perché, spiegò più tardi, l'intellettuale premiato è un intellettuale imbalsamato.
Per Sartre l'esistenzialismo era prima di tutto «umanismo», nel senso che l'esistenzialismo (anche quello di Kierkegaard e di Heidegger) aveva rovesciato il tradizionale rapporto tra essenza ed esistenza, secondo il quale l'essenza precede e sta a fondamento dell'esistenza. Se fosse vera questa successione, l'uomo reale e concreto, il singolo in tutta la sua determinatezza, non sarebbe nulla se non possedesse in sé l'essenza o non partecipasse in qualche modo dell'essenza dell'uomo. Per Sartre, invece, ciò che viene prima è l'esistenza, e cioè l'uomo, mentre l'essenza, cioè l'idea che l'uomo si fa di se stesso, deriva interamente dal tipo di esistenza che egli si trova a vivere. Qui però Sartre scorgeva la paradossalità della condizione umana, e la ragione del fatto che essa si risolve sempre in fallimento e scacco: se l'esistenza precede l'essenza, ossia se non ha alcun fondamento o alcuna giustificazione, non può alla fine non essere riconosciuta per quello che effettivamente è: totalmente assurda (L'essere e il nulla, 1943).
In un secondo momento, nel dopoguerra, Sartre ha modificato notevolmente le conclusioni negative del suo esistenzialismo, largamente influenzate da Heidegger (L'essere e il nulla, si richiamava già nel titolo all'opera più nota del filosofo tedesco, L'essere e il tempo), trovando nell'impegno politico la strada per restituire un senso all'agire umano. In questa direzione Sartre non poteva non incontrare il marxismo, le cui teorie circa l'interpretazione della storia e i modi dell'azione rivoluzionaria gli sembravano perfettamente conciliabili con la concretezza dell'approccio alla realtà proprio dell'umanismo esistenzialistico. Il marxismo a cui Sartre si riferiva era però l'originario pensiero di Marx e non aveva nulla a che fare con la tetra ideologia che i partiti comunisti spacciavano sotto questo nome: nella Critica della ragione dialettica, del 1960, Sartre prese le dovute distanze dal cosiddetto «materialismo dialettico» e dallo stalinismo, definiti una «Scolastica della totalità» del tutto incapace di cogliere il valore autonomo e irriducibile dell'individuo e di costruire quella «teoria del soggetto» che al marxismo (quello vero) era sempre mancata.

IL CIRCOLO DI VIENNA

Nei primi anni del Novecento alcuni amici, studiosi di diverse discipline, tra cui il matematico Hans Hahn (1979-1934), il fisico Philip Frank (1884-1966), il sociologo Otto Neurath (1882-1945), ecc. erano soliti ritrovarsi alla sera in un caffè di Vienna per conversare e, dati i loro interessi, il discorso cadeva per lo più sulla rivoluzione in corso nella matematica e nella fisica, sui rapporti tra scienza e filosofia e sull'opportunità di reintrodurre nell'una e nell'altra un po' di quello spirito positivo che, anche per le colpe oggettive del positivismo, era allora così poco di moda. Queste riunioni serali sono il lontano antecedente del Circolo di Vienna, fondato nel 1923 dal fisico Moritz Schlick (1882-1936), e nucleo originario della corrente nota poi come «empirismo logico» o «positivismo logico» o «neopositivismo».
Fu soprattutto Hans Hahn, che insegnava all'università di Vienna, ad adoperarsi nel 1922 perché a Schlick, allievo di Max Planck, fosse affidata la cattedra di Filosofia delle scienze induttive, che era stata di Mach e di Boltzmann. Nello stesso 1922 Hahn, che insegnava logica simbolica e fondamenti di matematica, dedicò il suo corso universitario al Tractatus logico-philosophicus che Ludwig Wittgenstein (1889-1951) aveva pubblicato l'anno precedente. Nel 1923 Schlick diede vita a un seminario cui presero parte oltre a Neurath e Hahn, Rudolf Carnap (1891-1970), che era stato allievo di Frege a Jena, Kurt Godel (1906-1978), che oggi figura tra i più grandi logici del nostro tempo, e altri.
Presto anche Carnap entrò a far parte del gruppo diventandone anzi una delle figure di maggior spicco: nell'agosto del 1929 firmò con Hahn e Neurath il manifesto del Circolo di Vienna, La concezione scientifica del mondo, e nel 1930 fondò la rivista «Erkenntnis», espressione del movimento neopositivista. Nel frattempo a Berlino era nato un circolo analogo per finalità e composizione a quello viennese; ne facevano parte, tra gli altri, Hans Reichenbach (1891-1953), che fu con Carnap direttore di «Erkenntnis», il suo allievo Carl Gustav Hempel (nato nel 1905), ed anche il non più giovane, ma sempre attivissimo, David Hilbert. Altri studiosi, pur non appartenendo al Circolo di Vienna, mantennero con esso contatti o ne influenzarono profondamente l'orientamento. Fra di loro la figura più importante è senza dubbio quella di Ludwig Wittgenstein, anche lui viennese, ma legato piuttosto all'ambiente accademico di Cambridge, dove aveva studiato e stretto amicizia con Bertrand Russell, e dove avrebbe insegnato a più riprese tra il 1930 e il 1947. Tra il 1927 e il 1932, Wittgenstein ebbe con i membri del Circolo di Vienna diversi incontri, documentati da note e appunti stesi dallo stesso Wittgenstein e da altri interlocutori. La differente formazione degli studiosi che facevano capo al Circolo di Vienna non fece ostacolo a un'attività di ricerca coordinata e diretta alla chiarificazione delle basi e del significato della conoscenza scientifica e alla realizzazione, come si afferma nel programma del 1929, di «una scienza unificata che comprenda l'intera conoscenza della realtà accessibile all'uomo». I neopositivisti condividevano la tesi fondamentale dell'empirismo, secondo cui non esiste conoscenza che non derivi dall'esperienza sensibile e che quindi non possa essere ricondotta ad essa. Ma accanto al ricordo dell'empirismo tradizionale, e più di questo, agiva in loro l'esempio di scienziati come Mach, Poincaré, Boltzmann, Einstein, che si erano soffermati a riflettere sui fondamenti, sulla natura e sulla validità della conoscenza scientifica. Determinante fu infine l'influenza della logica simbolica e dell'analisi logica del linguaggio quali erano state elaborate da Frege, e da Russell. La principale differenza che distingue il neopositivismo dal vecchio empirismo e dal positivismo è appunto l'importanza accordata all'analisi logica degli enunciati scientifici e alla conseguente proposta di un criterio di significato basato sulla nozione di verificabilità empirica. Ogni proposizione, secondo i neopositivisti, è dotata di senso soltanto se può essere dimostrata vera o falsa ricorrendo all'esperimento; il suo significato consiste nel metodo della sua possibile verifica. Se insieme con una proposizione non è dato anche un metodo per la sua verifica, allora la proposizione è priva di significato: se per esempio, diciamo che l'ippogrifo esiste e non sappiamo come dimostrarlo, la nostra affermazione non ha senso.
La filosofia, secondo il neopositivismo, non ha un suo oggetto specifico, diverso da quelli di cui si occupano le altre scienze. Essa può soltanto essere analisi logica del linguaggio scientifico: il suo compito è di analizzare le proposizioni delle altre scienze, mostrando la loro riducibilità ad esperienze immediatamente verificabili e dunque assolutamente certe. Insieme a questo la filosofia ha il compito di smascherare i non sensi della metafisica, mostrando che le proposizioni e i termini che essa contiene sfuggono ad ogni controllo dell'esperienza, e perciò non sono né veri né falsi, ma semplicemente privi di senso. È quello che aveva fatto Carnap nel suo celebre saggio Superamento della metafisica mediante l'analisi logica del linguaggio del 1931, che prendeva di mira il testo della lezione con cui Heidegger nel 1928, succedendo ad Husserl, aveva inaugurato i suoi corsi all'università di Friburgo e che si intitolava appunto Che cos'è la metafisica? Le asserzioni della metafisica hanno un senso solo come espressione di sentimenti. La proposizione «L'anima è immortale», per esempio, non comunica alcuna conoscenza (e cioè dal punto di vista conoscitivo è totalmente priva di senso), ma dà espressione al desiderio di immortalità di chi ci crede. La metafisica può dunque essere assimilata alle attività espressive e fantastiche, come la poesia o come il mito; con l'aggravante, però, che di solito i suoi prodotti non sono affatto belli. Carnap definiva i metafisici «musicisti privi di talento musicale».
L'avvento del nazismo in Germania e poi l'annessione dell'Austria alla Germania provocarono la dispersione dei neopositivisti, alcuni dei quali (Hempel, Frank, Carnap tra gli altri) trovarono rifugio negli Stati Uniti. Cade nella cosiddetta «fase americana» del neopositivismo la realizzazione, rimasta per altro incompiuta, del progetto (già formulato nei congressi internazionali organizzati in Europa dal Circolo di Vienna) di ridurre i vari linguaggi scientifici (quello della sociologia, della biologia, della psicologia, ecc.) ad un unico linguaggio in grado di utilizzare soltanto termini della fisica (da cui il nome di «linguaggio fisicalista» o «linguaggio cosale»). Questo programma si concretò, a partire dal 1938, nella pubblicazione a Chicago di un'Enciclopedia internazionale della scienza unificata, diretta da Otto Neurath, Rudolph Carnap e Charles Morris (il maggiore esponente del neopositivismo americano) e a cui collaborarono, tra gli altri, Bertrand Russell e John Dewey.

RUDOLF CARNAP

Rudolf Carnap (1891-1970) è stato uno dei maggiori rappresentanti del Circolo di Vienna e del neopositivismo. Seguendo soprattutto il Wittgenstein del Tractatus, Carnap sosteneva che due soli tipi di proposizioni sono forniti di significato: quelli analitici della logica e della matematica e quelli delle scienze sperimentali, che possono essere dimostrati veri o falsi ricorrendo al controllo dell'esperienza. Prive di significato sono invece le proposizioni della metafisica, poiché la loro verità o falsità non può essere accertata in alcun modo.
Benché Carnap sia sempre rimasto sostanzialmente fedele a questa imposizione di fondo, egli è venuto via via allentando i requisiti richiesti ad una proposizione per essere considerata dotata di significato: mentre in un primo momento pretendeva che ogni termine di una proposizione scientifica potesse venir accertato mediante osservazioni dirette dello scienziato, verso la fine del suo lavoro ha sostenuto che è sufficiente che in essi vi sia la presenza di almeno qualche termine di questo tipo. In relazione ai modi di funzionamento delle regole logiche e alla loro natura, ha poi proposto un «principio di tolleranza» secondo cui non esiste una sola logica vera, ma ognuno può costruirsi la propria logica, a patto di definire con esattezza i concetti e le regole di cui si vuole servire.
Carnap si è anche occupato dell'aspetto semantico del linguaggio (rapporto tra i segni logici e ciò che essi significano) e di quello pragmatico (il linguaggio come comportamento psico-biologico).

WITTGENSTEIN

Il neopositivismo, come si è visto, è stato fortemente condizionato da Wittgenstein, ma è più che dubbio che Wittgenstein possa essere assimilato a questo indirizzo di pensiero, verso il quale, forse, non nutriva neppure eccessive simpatie. Rispetto ai neopositivisti era molto più interessato alla linguistica che alla matematica o alla fisica; la sua negazione della metafisica («su ciò di cui non si può parlare si deve tacere») aveva un che di paradossale e di provocatorio che la rendeva poco credibile come affermazione di «positivismo» o di «empirismo». Nella metafisica, poi, comprendeva buona parte di quello che tradizionalmente si considera appartenere alle scienze naturali: la nozione di causa era una «superstizione»; che le «cosiddette leggi» della scienza potessero dare una spiegazione dei fenomeni della natura era «un'illusione», ecc. La sola necessità ammissibile per Wittgenstein era quella della logica; così, però, abbandonati tutti i temi che contano, e che non erano formulabili in termini di logica simbolica, non restava che occuparsi degli altri, prossimi al nulla.
Fino al 1953, quando uscirono, postume, le Ricerche filosofiche, il nome di Wittgenstein è rimasto essenzialmente legato al Tractatus del 1921, che aveva concluso la riflessione avviata una decina di anni prima a Cambridge, a stretto contatto con Russell e Moore, e che era stato assunto dai neopositivisti come uno dei loro punti di riferimento. Tra le due opere c'è un sensibile scarto di atteggiamento e di stile che ha suggerito di suddividere l'evoluzione intellettuale di Wittgenstein in due periodi, separati dagli anni tra la pubblicazione del Tractatus e l'inizio dei rapporti con il Circolo di Vienna, quando, ritenendo di non aver più nulla da dire in filosofia, aveva abbandonato la ricerca e si era messo a fare l'insegnante elementare in sperduti villaggi delle montagne austriache.
Per il Wittgenstein del Tractatus la realtà è riconducibile a «fatti atomici», descritti da «proposizioni elementari». Caratteristica dei fatti atomici è quella di accadere l'uno indipendentemente dall'altro, senza legami reciproci, casualmente. Un fatto atomico è per esempio descritto dalla proposizione elementare «Piove», la quale è vera o falsa se il fatto che essa descrive esiste realmente o no (cioè se piove oppure se è bel tempo). La conoscenza effettiva è soltanto quella che esprime dei fatti di esperienza di questo tipo. In particolare non esiste alcuna forma di conoscenza che possa dare una risposta ai problemi che riguardano il senso e il perché della nostra vita. È questo il motivo per cui, come Wittgenstein scrive, «quando tutte le possibili questioni scientifiche hanno trovato una risposta, i nostri problemi vitali non sono stati ancora neppure sfiorati».
Nelle Ricerche filosofiche Wittgenstein non pensa più che l'unica forma di conoscenza possibile sia quella che riguarda i fatti di esperienza. Ritiene invece che esista una molteplicità di linguaggi, ognuno dei quali ha le proprie regole, che è compito della filosofia descrivere e far rispettare. La filosofia diviene quindi una «terapia» del linguaggio, nel senso che è chiamata a individuare e curare le malattie da cui è affetto l'uso di molti termini. Nelle Ricerche filosofiche Wittgenstein applica un procedimento di questo tipo: prende dapprima in esame i diversi significati che una parola ha nel linguaggio comune in rapporto ai diversi contesti e alle diverse situazioni in cui è impiegata, e poi esamina le questioni filosofiche in cui la si trova coinvolta; alla fine molte di tali questioni risultano infondate, pseudo-problemi nati dalla confusione tra significati o tra usi diversi della stessa parola. Così, per esempio, la filosofia tradizionale si è chiesta che cosa sia il tempo, ed è finita in una serie di difficoltà insuperabili. Per Wittgenstein non c'è che da riconoscere i significati della parola «tempo» nei diversi contesti (sapere per esempio che cosa significa che un evento si è verificato prima di una certa cosa e dopo un'altra, sapere che ore sono, ecc.) e da constatare come qui non esista alcun inestricabile problema filosofico, il quale sorge soltanto dall'uso improprio del termine.
Questo compito «terapeutico» assegnato alla filosofia e consistente essenzialmente nel segnare i limiti entro i quali è possibile formulare degli enunciati dotati di senso è uno dei più evidenti punti di accordo fra il Tractatus e le Ricerche filosofiche. Per il resto le differenze sono consistenti: mentre nel Tractatus l'interesse di Wittgenstein era diretto al discorso scientifico, nelle Ricerche (in accordo con l'indirizzo di Moore) si volgeva al discorso comune, e mentre nel primo le condizioni per l'uso sensato delle espressioni linguistiche venivano fissate in maniera perentoria e univoca, nelle seconde venivano problematicamente riferite alla varietà degli usi effettivi del linguaggio. Può darsi che la pubblicazione integrale dei molti manoscritti ancora inediti (oltre venticinquemila fogli) corregga in futuro l'immagine «a due tempi» del pensiero di Wittgenstein e getti qualche altra luce sulla sua effettiva affinità con il positivismo logico da un lato e l'opera dei suoi amici inglesi, Russell e Moore, dall'altro. Ma a questa pubblicazione (che già di per sé costituirebbe un'ardua impresa) si sono mostrati imprevedibilmente restii proprio alcuni tra i suoi più vicini allievi ed eredi spirituali.

VISTO DA RUSSELL

Bertrand Russell nella sua Autobiografia (pubblicata in Italia, come tutte le sue opere, da Longanesi) ha fatto un bellissimo ritratto di Wittgenstein. Ne produciamo i brani essenziali.

«Wittgenstein era austriaco, il padre era ricchissimo. Inizialmente voleva studiare ingegneria e si era iscritto a Manchester a quello scopo. Studiando matematica si era interessato ai principi della matematica pura e a Manchester aveva domandato dove avrebbe potuto mettersi in contatto con altri cultori della materia. Qualcuno gli fece il mio nome ed egli si stabilì a Trinity. Era, forse, l'esempio più perfetto che io abbia conosciuto di uomo di genio, così come lo si immagina per tradizione: appassionato, profondo, intenso e dominatore. Possedeva quel tipo di purezza che non ho mai riscontrato in misura uguale in nessun altro, eccettuato G.E. Moore. Ricordo di averlo una volta invitato a una riunione della Società aristotelica; fra i presenti c'erano anche degli sciocchi ma li avevo trattati con cortesia. All'uscita era furibondo con me perché secondo lui, avevo dato prova di debolezza morale nell'astenermi di dire a quei ragazzi quanto fossero stupidi. La sua vita era turbolenta inquieta, ma egli era straordinariamente forte. Si nutriva soltanto di latte e verdura e mi veniva spesso fatto di pensare, come Mrs Patrick Campbell a proposito di Shaw: - Dio ci aiuti se mai gli capitasse di mangiare una bistecca -. Soleva venirmi a trovare ogni sera a mezzanotte - si metteva a camminare su e giù per la stanza come una belva in gabbia, e durava così per tre ore di fila in silenzio agitato. Una volta gli chiesi: - Stai pensando alla logica o ai tuoi peccati? - entrambi -, rispose, e continuò il suo andirivieni. Non osavo accennare al fatto che era ora di andare a letto, perché mi sembrava probabile, a lui come a me, che se mi avesse lasciato si sarebbe ucciso. Alla fine del suo primo trimestre a Trinity venne da me dicendo: - Lei crede che io sia un perfetto idiota? - Risposi: - Perché desideri saperlo? - Replicò: - Perché, se è così, mi faccio aviatore, ma se non è così, diventerò filosofo. - Gli dissi: - Mio caro ragazzo, non so se sei o no un perfetto idiota, ma se durante le vacanze scriverai un saggio, su qualsiasi argomento filosofico che ti interessa, lo leggerò e allora potrò risponderti. - Lo scrisse e me lo portò al principio del nuovo trimestre. Fin dalla prima frase ebbi la certezza che si trattava di un uomo di grande ingegno e gli dissi che non doveva diventare aviatore. [...] Quando scoppiò la guerra, Wittgenstein, che aveva sentimenti patriottici, divenne ufficiale dell'esercito austro-ungarico. Nei primi mesi potei scrivergli e ricevere sue notizie, ma ben presto ciò fu impossibile e non seppi più nulla di lui fin quando, un mese circa dopo l'armistizio, non ricevetti una lettera da Montecassino. Mi diceva che poche settimane prime era stato fatto prigioniero dagli italiani, per fortuna insieme con il manoscritto del libro che era andato scrivendo in trincea e che desiderava farmi leggere. Egli era quel tipo d'uomo, il quale, quando pensava alla logica, riusciva a non accorgersi di cose trascurabili come gli obici che gli scoppiavano vicinissimi intorno. Mi mandò il manoscritto e potei parlarne con Nicod e Dorothy Wrinch a Lulworth. Si trattava di quel volume che fu poi pubblicato sotto il titolo di Tractatus Logico-Philosophicus. Ovviamente bisognava poter discutere di persona le sue idee: la cosa migliore ci parve fosse di incontrarci in un Paese neutrale. Scegliemmo L'Aia. A questo punto tuttavia sorse un ostacolo sorprendente: suo padre, poco prima dello scoppio della guerra, aveva trasferito tutti i suoi capitali in Olanda, così che alla fine del conflitto si era trovato non meno ricco di prima. Proprio al momento dell'armistizio il padre era morto lasciandogli quasi tutto il suo patrimonio. Nel frattempo Wittgenstein si era persuaso che il denaro è una seccatura per un filosofo e aveva lasciato tutto, fino all'ultimo centesimo, al fratello e alle sorelle. Di conseguenza non aveva di che pagarsi il viaggio da Vienna all'Aia ed era troppo orgoglioso per accettare denaro da me. Finalmente trovammo una soluzione: i mobili e i libri che aveva avuto a Cambridge erano ancora là dove li aveva lasciati in deposito e mi propose di comprarglieli. Mi consigliai col mobiliere che li aveva in custodia e li acquistai per la somma suggeritami da lui. In realtà valevano molto di più di quanto quel brav'uomo avesse immaginato; questo è il miglior affare che io abbia mai fatto in vita mia e così Wittgenstein poté recarsi all'Aia dove rimanemmo per una settimana a discutere del suo libro, riga per riga. [...] Benché logico, Wittgenstein era a un tempo patriota e pacifista. Aveva un'alta opinione dei russi con i quali aveva fraternizzato al fronte. Mi disse che una volta, in un villaggio della Galizia dove si era trovato in un momento di libertà, aveva scovato un libraio e aveva pensato che, forse, ci poteva essere qualche libro nella sua bottega. Difatti uno ce n'era, ed era di Tolstoj, sui Vangeli. Lo comprò, lo lesse e ne ricevette una vivissima impressione. Per un certo periodo fu profondamente religioso, tanto da considerare me troppo corrotto per conservarmi la sua amicizia senza danno. Per guadagnarsi da vivere divenne maestro di scuola elementare a Trattenbach, un villaggio sperduto nella campagna austriaca. Mi scrisse dicendo: - Gli abitanti di Trattenbach sono molto cattivi -; al che io risposi: - Tutti gli uomini sono malvagi -, e lui replicò: - Sì, ma gli abitanti di Trattenbach sono più malvagi degli uomini di altri luoghi -. Replicai che una tale proposizione ripugnava al mio senso logico. La sua opinione tuttavia poteva in certo qual modo giustificarsi. I contadini del luogo rifiutavano di fornirgli il latte perché egli insegnava ai loro figli a fare conti che non si riferivano al denaro. Durante tutto quel periodo deve aver patito la fame e sopportato privazioni notevoli, benché si potesse indurlo a parlarne assai di rado: era orgoglioso come Lucifero. La cosa finì quando sua sorella decise di costruire una casa e volle che l'architetto fosse lui. Questo lavoro gli procurò di che vivere per alcuni anni, al termine dei quali ritornò a Cambridge come docente. [...] Come tutti i grandi uomini aveva le sue debolezze. Nel 1922, nel pieno del suo fervore mistico, quando parlando con me affermava con grande serietà che vale assai più essere buoni che intelligenti, ebbi modo di accorgermi che aveva un vero terrore delle vespe; inoltre, per via di un paio di cimici, rifiutò tassativamente di passare un'altra notte in certe stanze che aveva trovato a Innsbruck. I viaggi in Russia e in Cina mi avevano abituato a cose del genere e non vi badavo più. Lui, invece, così convinto che le cose a questo mondo non hanno alcun valore, non era capace di sopportare con pazienza l'esistenza degli insetti. Ma, con tutte le sue debolezze, era pur sempre una persona assolutamente eccezionale.

UN METODO INESISTENTE

A partire dal 1945 Popper ha insegnato all'Università di Londra Filosofia della Scienza. «Di solito - ha scritto nel Poscritto alla logica della scoperta scientifica edito in Italia da Il Saggiatore - inizio le mie lezioni sul metodo scientifico dicendo ai miei studenti che il metodo scientifico non esiste». I fondatori del metodo scientifico (e Popper cita, tra gli altri, Platone, Aristotele, Bacone, Cartesio)

... credevano che esistesse un metodo per trovare la verità scientifica. In un periodo più recente e un po' più scettico, ci furono dei metodologi che credevano esistesse un metodo, se non per trovare una teoria vera, almeno per accertare se una data ipotesi fosse o no vera, o (in un modo ancor più scettico) se una data ipotesi fosse almeno «probabile» in qualche grado accertabile.
Io sostengo che non esiste alcun metodo scientifico in nessuno di questi tre sensi. Per esprimermi in modo più diretto:
1) Non c'è alcun metodo per scoprire una teoria scientifica.
2) Non c'è alcun metodo per accertare la verità di un'ipotesi scientifica e cioè nessun metodo di verificazione.
3) Non c'è alcun metodo per accertare se un'ipotesi è «probabile» o probabilmente vera...

A dispetto di queste dichiarazioni (che all'inizio di un corso dedicato al metodo scientifico dovevano produrre un certo sconcerto) Popper non aveva difficoltà a impegnare duramente i suoi allievi nello studio, giacché, diceva, «un anno è a mala pena sufficiente a grattare la superficie persino di una materia inesistente». Quello di Popper non era in nessun modo un atteggiamento antiscientifico o antipositivo.

... Io sono un razionalista. Con il termine razionalista intendo dire un uomo che desidera comprendere il mondo e imparare discutendo con gli altri. (Si noti che non dico che un razionalista sia un sostenitore dell'errata teoria che gli uomini sono completamente o prevalentemente razionali). Con «discutendo con gli altri» intendo più specificamente criticandoli, provocando la loro critica e cercando di trarne insegnamento. L'arte di discutere è una forma particolare di quella di combattere, ma con parole anziché con spade, e ispirata dall'interesse di avvicinarsi alla verità sul mondo...

Si dice di solito che perché una discussione risulti feconda è necessario che i partecipanti abbiano un terreno su cui incontrarsi: delle convinzioni o quanto meno un linguaggio comune. Per Popper, invece, quanto più distanti sono i punti di vista tanto più fecondo può risultare il confronto. Almeno per iniziare a discutere, non c'è bisogno neppure di un linguaggio comune: «se non ci fosse stata la Torre di Babele - scrive - avremmo dovuto costruirne una».

...La differenza rende feconda una discussione critica. Le sole cose che devono avere in comune i partecipanti a una discussione sono il desiderio di sapere e la buona volontà di imparare dall'altro, criticando severamente le sue idee nella versione più forte che se ne può dare, e ascoltando ciò che ha da dire in risposta.
Credo che il cosiddetto metodo della scienza consista in questo genere di critica. Le teorie scientifiche si distinguono dai miti solo in quanto criticabili e suscettibili di modifiche alla luce della critica. Non possono essere però né verificate, né rese più probabili...

Come ha vissuto Popper questo suo atteggiamento critico e discorsivo nella «comunità del sapere» (come la chiamava) ossia nei confronti dei suoi colleghi filosofi e scienziati?

... Voi tutti conoscete certamente la storia del soldato che scoprì che tutto il suo battaglione (tranne lui, naturalmente) non marciava al passo. Io mi trovo costantemente in questa piacevole posizione. E sono molto fortunato, perché di regola, alcuni altri membri del battaglione sono alquanto disponibili a rimettersi al passo. Questo aumenta la confusione, e siccome non sono un ammiratore della disciplina filosofica, sono contento finché ci sono abbastanza membri del battaglione che sono sufficientemente fuori passo l'uno rispetto all'altro...

Pur non avendovi mai aderito, Popper si è formato a stretto contatto con il Circolo di Vienna, e il suo pensiero ha influito sulla formulazione delle dottrine neopositiviste. La sua prima opera, La logica della scoperta scientifica, del 1934, aveva un taglio nettamente polemico nei confronti dei neopositivisti, di cui per altro condivideva gli interessi. La sua critica era diretta essenzialmente contro il criterio di verificazione, quello cioè secondo il quale le proposizioni hanno un senso solo se sono verificabili. Secondo Popper le proposizioni scientifiche possono essere falsificate, ma non verificate, e ciò per il carattere stesso del procedimento induttivo in base al quale esse vengono formulate. Se abbiamo incontrato sempre e soltanto corvi neri, per induzione diciamo che «tutti i corvi sono neri». Questa proposizione però, non può dirsi verificata dal continuo ritrovamento di altri corvi neri perché non si può escludere che in futuro ci si imbatta davvero in corvi che non sono neri. Popper parla a questo proposito di asimmetria tra verificabilità e falsificabilità: mentre nessuna serie finita di conferme può garantire la verità di una proposizione che si pretende universale, un solo esempio contrario (un corvo bianco) la rende falsa.
Il metodo della scienza è insomma, secondo Popper, l'esatto opposto di quel che si crede correntemente. La scienza non parte dall'esperienza per arrivare a formulare delle ipotesi la cui verifica consente di costruire teorie generali. Essa, piuttosto, propone delle teorie generali e tenta in un secondo momento di falsificarle.
Il metodo della scienza - scrive Popper - è il metodo «del tentativo e dell'errore», applicabile, per altro, anche alla politica (La società aperta e i suoi nemici, 1945). Il solo modo sensato di modificare la società in cui viviamo è di procedere cautamente per tentativi, cercando di imparare dagli errori che inevitabilmente si commettono.
Popper traeva dal metodo «del tentativo e dell'errore» argomenti a favore del gradualismo e contro la pratica rivoluzionaria. Un intervento massiccio e violento di trasformazione sociale potrebbe avere effetti incontrollabili e tali comunque da rendere molto difficili, se non impossibili, l'individuazione e la correzione degli errori.

LA SCUOLA DI FRANCOFORTE

Nel 1931 Max Horkheimer (1895-1973), uno dei massimi esponenti assieme a Theodor W. Adorno, Friedrich Pollok, Herbert Marcuse della cosiddetta «teoria critica della società», assunse la direzione dell'Institut fur Sozialforschung (Istituto per la Ricerca sociale) di Francoforte, che era stato fondato nel 1924. Da quel momento l'Istituto avrebbe rappresentato, insieme alla sua rivista, «Zeitschrift fur Sozialforschung», lo strumento organizzativo del gruppo noto come «scuola di Francoforte», di cui hanno fatto parte, oltre i nominati, anche Walter Benjamin e Erich Fromm, e che ha poi avuto un continuatore in Jürgen Habermas. A Francoforte, però, l'Istituto restò pochissimo: nel 1933, all'avvento del nazismo, fu trasferito a Parigi e poi a New York. Solo nel 1950 tornò nella sua sede originaria.
La teoria critica non si presentava come una dottrina specificamente «filosofica»: Pollok era un economista, Fromm uno psicanalista, Adorno un musicologo e, come Benjamin, un critico letterario, ecc. Non si presentava neppure, propriamente, come «dottrina»: voleva essere piuttosto un ripensamento dell'analisi marxista della società in un momento in cui era definitivamente tramontata la prospettiva di una rivoluzione socialista mondiale, verso la quale negli anni immediatamente successivi alla Grande Guerra si erano convogliate tutte le energie degli intellettuali marxisti. Al posto della rivoluzione, si assisteva, in Europa (e, quello che è peggio, nell'allora URSS, che era il solo Paese in cui la rivoluzione avesse avuto successo), all'affermazione di regimi totalitari che, per quanto detestabili, mostravano di aver capito, interpretato e sfruttato con ammirevole tempestività quelle caratteristiche della nuova società di massa uscita dalla Grande Guerra, che gli intellettuali rivoluzionari non erano stati capaci, invece, né di prevedere, né, tanto meno, di controllare. Si trattava, dunque, prima di tutto di capire dove i marxisti avessero sbagliato e poi di fare i conti da un lato con l'approccio tradizionale delle scienze sociali di derivazione più o meno direttamente positivistica, dall'altro con le suggestioni allora dilaganti della fenomenologia e dell'esistenzialismo.
Trattandosi di marxisti, una complicazione in più era rappresentata dall'ambigua natura del comunismo dell'età staliniana, depositario in tutto il mondo delle aspettative di liberazione di grandi masse popolari (e come tale principale antagonista del fascismo), ma insieme responsabile della forma forse più sofisticata di totalitarismo. Di questo totalitarismo era parte integrante una versione caricaturale e dogmatica del marxismo, che, fondata sulle scalcinate teorie di Lenin e sulle poco felici fantasie «dialettiche» del vecchio Engels, venne codificata da Stalin in persona in un opuscolo del 1938 intitolato Materialismo dialettico e materialismo storico. Il disorientamento era inevitabile e poteva accadere, per esempio, che il «reazionario» Wittgenstein tornasse entusiasta dall'URSS, mentre il «marxista» Benjamin scopriva con sorpresa e disgusto quanto fosse stupido il mondo dei burocrati moscoviti.
Uno dei grandi meriti della scuola di Francoforte è di aver preservato un'immagine critica del marxismo in un momento in cui, a parte le schiere degli opportunisti, anche alcuni grandi intellettuali, come Gyorgy Lukacs, nel timore di essere esclusi da quelle che bene o male erano pur sempre le organizzazioni politiche del proletariato, facevano mostra di accettare le dottrine ufficiali dei partiti comunisti, magari tentando di reinterpretarla in qualche modo o di portarle, all'insaputa dei burocrati del partito (e cioè nascondendole sotto uno spesso strato di citazioni di Marx e di Engels, e soprattutto di Lenin e di Stalin), correzioni tali da renderla presentabile. Toccò principalmente ad Horkheimer definire l'indirizzo del gruppo di Francoforte, sia direttamente in una serie di saggi scritti per la «Zeitschrift fur Sozialforschung» (raccolti in volume nel 1968 col titolo di Teoria critica), sia indirettamente, attraverso la linea redazionale impressa alla rivista di cui era direttore. In sostanza Horkheimer collegava l'analisi marxista della società alla psicoanalisi, e non tanto per un ennesimo tentativo di «integrazione», quanto perché era interessato a rilevare l'affinità di fondo tra l'opera di Marx e quella di Freud: entrambi avevano smascherato il carattere falsamente «oggettivo», «necessario» di realtà quali la struttura economica della società e l'inconscio, riconducendole ai processi effettivi (anche se inconsci) dell'alienazione economica in un caso e della rimozione delle pulsioni istintuali nell'altro.
Veniva di qui il tema, ricorrente nelle opere del gruppo, dell'analogia tra i sistemi che nella società garantiscono il dominio di una classe sulle altre e i meccanismi psicologici che presiedono alla repressione degli istinti. Ma di qui, soprattutto, veniva la possibilità di identificare ragione e felicità e quindi di riproporre il razionalismo come teoria di liberazione e strumento di emancipazione nei confronti tanto dei feticci della società capitalistica (Horkheimer-Adorno, Dialettica dell'Illuminismo, 1947; Adorno, Minima moralia, 1951; Marcuse, Eros e civiltà, 1955) quanto delle mistificazioni dello stalinismo (Marcuse, Marxismo sovietico, 1958).

THEODOR ADORNO

Il W. di Theodor W. Adorno sta per Wiesengrund, che era il cognome, non particolarmente elegante, del padre di Theodor e quindi dello stesso Theodor, che infatti si chiamò così per un bel po'. Poi, per una civetteria che in un grande intellettuale e in un grande razionalista come lui ha il sapore impagabile dell'autoironia, Theodor volle adottare il nobile ed esotico cognome della madre, una cantante lirica, lontanissima discendente di un'antica e aristocratica famiglia genovese (gli Adorno, appunto); di quello del padre, un vinaio ebreo di Francoforte, non conservò che l'iniziale.
Da giovane Theodor Adorno (1903-1969) aveva seguito a Vienna i corsi di composizione di Alban Berg. Nel 1931 si era laureato in filosofia con una tesi sulla fenomenologia di Husserl ed aveva ottenuto la libera docenza all'Università di Francoforte. Coordinatore, insieme ad Horkheimer, della «Rivista per la ricerca sociale», dopo l'avvento del nazismo fu costretto, per le sue origini ebraiche e per le sue convinzioni politiche, ad emigrare in America. Alla fine della seconda guerra mondiale rientrò in Europa dedicandosi alla ricerca e alla docenza universitaria.
Come critico musicale aveva aderito ai movimenti artistici di avanguardia degli anni Venti, sostenendo la ricerca compositiva di Schonberg che condurrà alla dissoluzione del tradizionale campo tonale e alla musica dodecafonica. Nella sua analisi sulla situazione della musica nel mondo contemporaneo Adorno ha ripreso esplicitamente le riflessioni di Karl Marx sul fenomeno della mercificazione che, nelle società industrializzate, domina ogni aspetto della produzione: i rapporti fra le persone assumono il carattere reificato (di «cosa») dei rapporti fra oggetti inanimati. Adorno estendeva però l'analisi di Marx dal campo dell'economia a quello della cultura. La produzione artistica (e quella musicale in particolare) non si sottrae al destino della mercificazione: nella società capitalistica lo scopo è in ogni caso di accumulare denaro. La musica è una merce prodotta dall'industria culturale e si adegua alla logica della vendibilità. Anche la sensibilità e il gusto degli spettatori, manipolato dall'industria culturale, si deforma, regredisce ad un livello rozzo ed infantile.
Acuto critico delle false libertà borghesi, Adorno ha denunciato gli elementi di totalitarismo presenti anche nelle moderne democrazie di massa. Se nel mondo capitalistico l'oppressione non si presenta più con il volto dello sfruttamento brutale, della fame e della miseria, il prezzo del benessere è l'alienazione: la manipolazione attuata dal sistema attraverso i canali di diffusione di massa (cinema, televisione, pubblicità) riduce l'individuo ad ubbidiente ed ottuso consumatore privo di autonomia di giudizio e di senso critico.
Adorno ha abbandonato alla fine la speranza in una rivoluzione sociale; anche il proletariato, tradizionale classe antagonista al «sistema», ha accolto i falsi valori della società consumistica. L'unica alternativa è il rifiuto radicale opposto dall'intellettuale ad ogni forma di integrazione sociale. Questa analisi, che escludeva ogni dimensione sociale dell'emancipazione, ha prodotto profonde incomprensioni fra Adorno e gli studenti universitari tedeschi nel Sessantotto, al tempo della contestazione giovanile.

HERBERT MARCUSE

Herbert Marcuse (1898-1979) ha avuto un largo seguito fra gli studenti all'epoca della contestazione giovanile. L'aspra critica al mondo contemporaneo espressa con L'uomo a una dimensione (1964) ha influito notevolmente sul modo di pensare e sulle parole d'ordine di quella generazione che nel Sessantotto è scesa nelle piazze, ha occupato le università, contestando la cultura, la mentalità, i modi di vita, i rapporti di potere del «sistema» borghese. Secondo Marcuse il livello tecnologico raggiunto dal mondo tardo capitalistico, ben lungi dal soddisfare le aspirazioni sociali alla libertà e alla felicità, ha creato falsi bisogni, riducendo l'uomo ad una sorta di automa spersonalizzato, schiavo di un consumismo ottuso. Anche le forze tradizionalmente antagoniste al sistema(il proletariato) hanno perso, nel mondo industriale contemporaneo, la loro volontà eversiva, attirate dal miraggio di un benessere pagato col duro prezzo della alienazione. Gusti, tempo libero, cultura: tutto si uniforma ad un modello di comportamento imposto attraverso la sottile persuasione delle immagini televisive, dei rotocalchi, della pubblicità. Nella sua folle corsa dietro prodotti sempre più inutili e sofisticati, l'uomo perde se stesso, consuma in una vita opaca e insoddisfatta. Al margine di questa società opulenta e infelice, Marcuse ha individuato però negli emarginati, nei giovani, nelle donne i nuovi soggetti rivoluzionari capaci di esprimere l'aspirazione ad una esistenza non repressa in cui il principio di piacere possa esplicarsi liberamente (Eros e civiltà, 1955).
Herbert Marcuse


JÜRGEN HABERMAS

Secondo Jürgen Habermas, nato nel 1929, e allievo negli anni Cinquanta dell'Istituto per la ricerca sociale di Francoforte, il maggior merito del marxismo è di aver intimamente collegato la conoscenza all'interesse (Conoscenza e interesse, 1968), di aver cioè finalizzato l'analisi teorica all'obiettivo pratico-rivoluzionario della liberazione della società. Oggi però una teoria interessata all'emancipazione sociale deve tener conto dei fenomeni nuovi che caratterizzano il tardo-capitalismo rispetto al mondo ottocentesco analizzato da Karl Marx.
Per poter di nuovo ispirare una strategia rivoluzionaria, il materialismo storico va ricostruito (Per la ricostruzione del materialismo storico, 1976). All'attuazione di una società veramente libera dal dominio non è sufficiente che l'uomo estenda il proprio controllo sulla natura attraverso il lavoro e la tecnica, né che instauri nuovi rapporti produttivi, sganciando le forze della produzione dagli interessi padronali; è anche necessario che si creino nuovi rapporti fra gli uomini basati non sulla violenza e sulla coercizione, ma sul consenso razionale, maturato attraverso la riflessione e il dialogo collettivo.
Contro l'apparente nazionalizzazione del mondo rappresentata dalla tecnocrazia Habermas ha rilanciato i valori e gli strumenti dell'Illuminismo: la libertà, l'eguaglianza, il cosmopolitismo, il buonsenso come mezzo di convivenza e di comprensione reciproca, l'intelligenza come strumento per rivelare e ridicolizzare le mistificazione e le imposture con cui il potere, anche nelle democrazie, delude o vanifica il diritto dei cittadini a decidere e ad autogovernarsi. Certo, oggi è impossibile riprodurre l'ingenua fiducia settecentesca nel trionfo finale della ragione. La superstizione, il fanatismo, l'odio scervellato per chi è diverso, l'ammirazione altrettanto scervellata per la forza e per il potere, l'adorazione delirante delle masse per quei mediocri attori che nello scenario del potere interpretano il ruolo di capi carismatici sono troppo presenti per consentire facili speranze. Ma, come dicevano i vecchi illuministi, la ragione è come la lampada del viandante che di notte si trova ad attraversare una foresta: non può illuminare la foresta, ma serve a fare un passo dopo l'altro e in ogni caso è l'unica luce disponibile. La cosa più stupida sarebbe lasciarla spegnere come vorrebbero gli irrazionalisti di ogni genere, fede e scuola.

ERNST BLOCH

Ernst Bloch (1885-1977) non appartiene propriamente alla scuola di Francoforte, su cui però ha esercitato un notevole influsso. Più anziano dei fondatori della teoria critica, li aveva preceduti sia nell'adesione al marxismo, sia nell'accentuazione del carattere utopico e anticipatore del pensiero: la ragione ha per Bloch essenzialmente la funzione di organizzare desideri e aspirazioni in progetti di azione, per la costruzione di un mondo conforme ai bisogni e alle speranze dell'uomo. Il suo marxismo, in verità, era alquanto superficiale: quel che gli stava a cuore era dire e ribadire che la razionalità della storia non significa (come pretendeva Hegel) razionalità di ciò che esiste, non è cioè giustificazione e apologia del «già fatto», ma è (come avevano suggerito Marx e la sinistra hegeliana) una razionalità tutta da realizzare, la razionalità del «non ancora esistente» e cioè del futuro da inventare e da costruire.
Per il resto, il «materialismo» di Bloch era un singolare impasto di materialismo dialettico e di naturalismo rinascimentale, non privo di un pizzico di panteismo e di esoterismo. Sopravvalutava il ruolo avuto dal pensiero magico e alchemico nella formazione della coscienza moderna e ne condivideva in sostanza alcune concezioni: quella della materia, per esempio intesa come principio dinamico, attivo, che (per dirla con Aristotele) non «riceve» la forma, ma la «ricerca» con avidità, con bramosia, ne ha fame. Su tutti agivano poi le vecchie suggestioni dell'ebraismo: la connessione di natura e storia in un'unica vicenda cosmica, e soprattutto la centralità della nozione di speranza. Questa forte presenza della religiosità ebraica spiega come il «marxista» Bloch abbia potuto influenzare, oltre ai pensatori della scuola di Francoforte, anche alcuni teologi (in particolare protestanti).
All'avvento del nazismo, Bloch, comunista ed ebreo, fu costretto ad abbandonare la Germania. Vi rientrò al termine della guerra, scegliendo di stabilirsi nella Germania Orientale. Insegnò per diversi anni all'Università di Lipsia. Ma Bloch era troppo intelligente per essere tollerato dal regime comunista e per tollerarlo. Sospeso dall'insegnamento, nel 1961 è passato dalla Germania Occidentale ed ha insegnato all'Università di Tubinga.

RICORDANDO FRANCOFORTE

Negli anni Sessanta, gli anni della Grande Contestazione, Furio Cerutti studiava a Francoforte. Sul «Manifesto» del 27 agosto 1979, nel decennale della morte di Adorno, ha rievocato l'atmosfera di quello straordinario momento che vide, tra l'altro, il progressivo distacco tra i fondatori della teoria critica e i Movimenti giovanili (l'SdS è l'organizzazione degli studenti tedeschi) la cui azione contestatrice voleva essere la pratica attuazione di quella stessa teoria.

... Vidi la prima volta [Adorno] a Heidelberg nel 1964, compassato presidente della società tedesca di sociologia al congresso su Max Weber in cui la relazione di Marcuse, l'unico temperamento irrispettoso e ribelle del gruppo, suscitò indignazione e plateali proteste in quel pubblico che riuniva il fior fiore della sociologia accademica mondiale, da Talcott Parsons a Raymond Aron.
Lo rivedevo spesso se usciva di casa nel primo pomeriggio - abitavo allora vicino all'Istituto per la ricerca sociale la casa madre della teoria critica - quando la sua figura bassa e rotondetta trotterellava in istituto a braccetto della moglie Gretel, anche lei un pezzo di storia esoterica della scuola: e la scappellata con cui rispondeva al saluto avveniva, se si era d'estate, agitando un panama o una paglietta, non ricordo bene, che non era l'unica cosa deliziosamente demodé in questo teorico delle avanguardie. E capitava non di rado di sentirne la voce ben modulata aprendo la radio negli orari delle trasmissioni culturali: ricordo di aver ascoltato così la conversazione sulle sue esperienze scientifiche in America, e quella sul tempo libero, ora entrambe in Parole chiave. E una volta trasmisero anche i suoi lieder del 1927, un breve ciclo scritto poco dopo aver frequentato a Vienna il corso di composizione di Alban Berg; e in realtà c'è in tutto Adorno un forte influsso viennese, di Vienna - voglio dire - come categoria dello spirito. Ma naturalmente l'Adorno più presente e più influente era quello dell'Università. Ricordo le sue lezioni affollatissime sulla terminologia filosofica, protrattesi per più semestri. Ricordo appena il suo seminario di sociologia, che frequentai pochissimo perché ripercorreva la ricerca sulla authoritarian personality, che mi sembrava più utile leggersi per conto proprio (Adorno e Horkheimer avevano cattedre doppie, di sociologia e filosofia). Ricordo bene invece il seminario filosofico, nominalmente condotto insieme con Horkheimer, il quale però lasciava di rado il suon buen retiro ticinese e quando c'era si limitava per lo più ad ascoltare con aria sorniona, da gran signore annoiato. C'era tutta la corte: gli assistenti, verso cui si diceva, i due vecchi non avevano mancato di esibire le loro tentazioni professorali ed autoritarie; i laureandi e gli studenti preferiti e buona parte della crema intellettuale dell'SdS (ci passò anche Angela Davis, che studiò un anno o due a Francoforte. Appartata in un angolo, c'era non di rado anche una giovane signora bionda, l'amica ufficiale di Teddi, il nome familiare di Adorno, comune anche fra gli studenti, mentre nessuno si sognava di dire Max per riferirsi a Horkheimer). Più era viva la discussione, più numerosi gli interventi dei prediletti, più Adorno si scaldava e sprizzava contentezza. Il suo seminario gli sembrava manifestamente divenuto il centro del mondo, almeno di quello dello spirito: si veniva a parlare, che so, di Sartre, e allora la sua frase preferita era «peccato che Sartre non sia qui, altrimenti potremmo discuterne con lui». Quando poi gli riusciva finalmente di far emergere il senso che gli sembrava più denso e significativo, si alzava addirittura in piedi e ci annunciava con voce vibrata «meine Damen und Herre questo è altamente dialettico», muovendo intorno quegli occhi straordinari che cambiavano di segno a quella che era altrimenti la faccia del vinaio o del droghiere Wiesengrund. Confesso di non aver seguito con molto impegno i seminari di Adorno. Ne frequentai uno sulla Scienza della logica di Hegel, in cui - come sempre capita - non si andò oltre l'analisi delle prime 30 pagine; e poi quello che Adorno tenne sulla sua Dialettica negativa allora (1967) appena uscita. Mi irritava quel tanto di incontrollata vanità che c'è nel tenere un seminario su di un'opera propria; forse oggi sarei meno severo, ma pedagogicamente mi pare tuttora un errore. Soprattutto avevo da ridire sul taglio filosofico e speculativo preso dal pensiero di Adorno in cui le categorie astratte sì, ma analiticamente fondate e moderne della critica dell'economia politica rischiano di divenire larve concettuali buone a tutto. Lavoravo allora con Habermas e preferivo nettamente l'atmosfera più scientifica e più politica nonché più scanzonata del suo gruppo. Solo più tardi in Italia ho riletto con maggiore disponibilità la Dialettica negativa, ma non ho mai condiviso la ricezione prevalentemente o esclusivamente filosofica che dei francofortesi si è instaurata da noi e ho continuato a preferire l'Adorno saggista - quello di Prisma, per intenderci, più che dei Minima moralia - e sociologo...