Termine che designa l'attività di resistenza e di
opposizione al Fascismo, promossa in Italia da diversi gruppi politici e
movimenti d'opinione - operanti in forma sia legale sia clandestina, mediante
una rete organizzativa estesa anche all'estero - dalla costituzione del regime
fascista sino alla Liberazione. ║ Per estens. - In senso più ampio,
e sul piano internazionale, opposizione a qualunque forma di Fascismo
(nell'accezione generale del termine), laddove si manifesti con i caratteri di
un regime antidemocratico e oppressivo. • St. -
Lo sviluppo storico dell'
a. è parallelo all'affermazione in Italia
del movimento fascista e alla successiva instaurazione di un vero e proprio
regime dittatoriale: l'opposizione al Fascismo ebbe infatti inizio, sia pure in
forma disorganica e inefficace, sin dal 1919, in concomitanza con la nascita del
movimento fascista, ed acquisì connotati politici e ideologici ben
precisi prima del 28 ottobre 1922, data della marcia su Roma e della formazione
del primo governo Mussolini. L'
a. coincise in un primo momento con
l'antisquadrismo; successivamente, con il graduale delinearsi degli obiettivi
politici del Fascismo, che manifestava una tenace ostilità al movimento
operaio e socialista, venne a identificarsi con l'opposizione promossa da un ben
preciso schieramento politico: quello formato dai Partiti Socialista e Comunista
(quest'ultimo sorto nel 1921 dallo "scisma" delle frange più
intransigenti del PSI). Si trattava però di un'azione politica
scarsamente incisiva, sia per la debolezza intrinseca di questo schieramento
minato da numerose incertezze e percorso da aspre conflittualità interne
(fra socialisti e comunisti, e fra riformisti e massimalisti), sia per la
sostanziale sottovalutazione della reale portata storica del nascente Fascismo
che, lungi dall'esaurirsi nella generica avversione al bolscevismo, doveva
rivelare una straordinaria capacità di insediarsi nei punti vitali dello
Stato, guadagnando larghi consensi presso i ceti della piccola e media
borghesia. Altrettanto deboli e sporadici dovevano rivelarsi i tentativi di
resistenza popolare all'avvento del Fascismo, come dimostrano gli episodi della
difesa dell'Oltretorrente di Parma, degli Arditi del popolo e dello "sciopero
legalitario" del luglio 1922. Per quanto concerne le rimanenti forze politiche -
dalla sinistra cattolica ai liberal-democratici, dai liberal-conservatori ai
repubblicani - non si può parlare di un vero e proprio antagonismo al
movimento fascista se non all'indomani della marcia su Roma. Prima di questo
evento, infatti, le forze più moderate avevano coltivato l'illusione di
poter cavalcare il potenziale antisocialista del nuovo movimento, per poi
ricondurlo agevolmente nell'alveo della legalità. Fu anzi in quest'ottica
che ministri liberali e popolari entrarono a far parte del primo Governo
Mussolini, dando un sostanziale appoggio alla sua politica. Il sostegno dei
popolari al Governo fascista fu però oggetto di un ripensamento radicale
da parte del segretario don L. Sturzo, che nel congresso di Torino si
pronunciò per l'autonomia dei popolari dalla destra clerico-fascista,
determinando l'uscita dei ministri del suo partito dalla compagine governativa.
L'opposizione antifascista assunse una configurazione più netta e
unitaria nel periodo successivo al delitto Matteotti (giugno 1924), avvenuto
all'indomani della sua presa di posizione per una svolta in senso "attivistico"
da parte del fronte antifascista e della sua denuncia delle illegalità
commesse durante le elezioni. Di fatto, però, la crisi politica che ne
scaturì non ebbe l'effetto di corroborare lo schieramento politico
impegnato nella lotta contro il regime: dopo una prima fase di sbandamento del
Fascismo, l'opposizione parlamentare sfociò nell'esperienza fallimentare
dell'Aventino. Tutte le forze politiche antifasciste, dai popolari ai comunisti,
decisero l'astensione dai lavori parlamentari fino al ripristino della
legalità costituzionale, per sensibilizzare l'opinione pubblica e porre
l'accento sulla responsabilità morale di Mussolini nel delitto Matteotti.
Nonostante la dura campagna di stampa, l'Aventino non poté esprimere
altro che riprovazione morale nei confronti dei metodi illegali adottati dal
Fascismo, senza peraltro riuscire a saldarsi con un movimento di massa. La
chiusura dei dissidenti parlamentari in un atteggiamento sostanzialmente passivo
e attendista provocò l'aspra reazione del Partito Comunista, fautore
della trasformazione dell'Aventino in Antiparlamento. Anche l'Italia Libera,
associazione di ex combattenti voluta da R. Rossetti, mirava a promuovere
un'opposizione improntata a un maggiore attivismo e una consistente
mobilitazione popolare: ma il limite di queste proteste fu di non riuscire a
coordinarsi con l'opposizione politica dell'Aventino. L'attentato a Mussolini
fornì il pretesto per la promulgazione delle leggi eccezionali del
novembre 1926, che soppressero ogni residuo di libertà formale e posero
fuori legge i partiti. Da questo momento in poi, fatta eccezione per alcune
isolate prese di posizione, l'
a. continuò a operare all'estero e
nella clandestinità, soffrendo di numerose divisioni interne e di
divergenze relative tanto alle strategie quanto agli obiettivi di lotta.
Rimarchevole fu il cambio della guardia al vertice del PCI che, con l'ascesa del
gruppo dirigente gravitante intorno alle personalità di A. Gramsci e di
P. Togliatti, abbandonò le posizioni settarie ed elaborò
un'interpretazione assai acuta e illuminante della realtà italiana e del
ruolo che in essa stava svolgendo il Fascismo, come movimento politico capace di
acquisire consenso presso la piccola e media borghesia e di giungere alla
sostanziale identificazione fra partito e Stato. Un'impostazione revisionistica
si fece strada anche in seno alle forze socialiste che, soprattutto con
l'impulso delle nuove leve di intellettuali, mostrarono l'intenzione di superare
i tatticismi - legati alla fallita esperienza dell'Aventino - per porre
l'accento su un'interpretazione fortemente volontaristica del Marxismo. Dopo il
varo delle leggi eccezionali del 1926, lo schieramento delle forze antifasciste
manifestò l'aspirazione a inaugurare un'azione tendenzialmente unitaria,
nonostante la diversità di impostazione ideologica e programmatica. Con
il tempo, l'azione clandestina e la vita comune nelle carceri e nelle isole di
deportazione ebbero l'effetto di dare compattezza al fronte antifascista,
facendo superare molte incomprensioni e preparando il terreno per la successiva
azione comune. Pertanto, l'impostazione che la Resistenza si diede con i
Comitati di Liberazione Nazionale (CLN), in cui erano rappresentati tutti gli
oppositori del regime, non ebbe origine improvvisa, ma era già latente e
in molti casi operante, come dimostrano i numerosi tentativi di azione
coordinata da parte degli antifascisti di varia tendenza, attivi nella
clandestinità e all'estero. ║
L'a. dei primi anni: ai suoi
esordi, il movimento fascista era espressione del clima politico e sociale
post-bellico, infiammato dalla delusione per la "vittoria mutilata" e dai non
sopiti fermenti nazionalisti. Concepito da Mussolini come centro di elaborazione
di una politica estera aggressiva e dinamica, ambiva anche a trasformarsi in
polo di aggregazione per le forze della sinistra interventista. Alle confuse
velleità nazionaliste e aggressive, si mescolava infatti un apparato
ideologico composito, venato di fermenti socialisteggianti e di accenti
rivoluzionari. Fu così che il Fascismo - frutto della guerra mondiale e
della crisi economica e sociale del dopoguerra, sorto come movimento politico
nel marzo 1919 e trasformatosi in Partito Nazionale Fascista nel 1921 -
rivelò solo in un secondo tempo il suo vero volto, assumendo il ruolo di
difensore armato degli interessi delle classi dominanti industriali e agrarie.
Ben presto, infatti, da forza pseudo-rivoluzionaria si trasformò in forza
d'ordine, impegnata a sedare nelle campagne dell'Emilia e della Bassa Padana i
fermenti del sovversivismo socialista. Pur non essendo mancati sin dal 1919 gli
episodi di violenza, fu però solo dopo l'occupazione delle fabbriche
(settembre-ottobre 1920) che il Fascismo cominciò a imporsi, allargando
il suo raggio d'azione dall'ambito sociale cittadino e operaio a quello agrario,
inaugurando l'offensiva su vasta scala nelle campagne dell'Emilia e della Valle
Padana. La resistenza al Fascismo cominciò pertanto come reazione alla
violenza squadrista e come opposizione parlamentare dopo le elezioni del marzo
1921 che avevano portato in Parlamento Mussolini, insieme ad altri 35 deputati
fascisti eletti in liste concordate con liberali e democratici giolittiani.
All'appoggio politico di alcune forze parlamentari si univa il sostegno
economico degli agrari della Valle Padana e degli industriali che, finanziando
l'azione repressiva dello squadrismo, speravano di abbattere la struttura
sindacale e politica del movimento operaio e di stroncare la crescente protesta
delle classi contadine. Il fiancheggiamento offerto al Fascismo dalle forze
dell'ordine e il diffuso malcontento sociale facevano il resto, tanto che gli
aderenti al movimento, che nel 1919 erano 17.000, nel 1921 erano già
saliti a oltre 300.000. Dopo il congresso di Roma, che vide la trasformazione
del movimento in partito, e quello di Napoli, coincidente con l'affievolimento
dei moti operai, si giunse alla marcia su Roma (28 ottobre 1922), espressione
della volontà di rompere gli indugi e di imporre la candidatura di
Mussolini al governo dello Stato. Alla costituzione del primo Governo Mussolini
si arrivò dopo un logoramento di mesi che aveva visto la ritirata della
vecchia dirigenza liberal-democratica, "colpevole" di aver cullato l'illusione
di poter normalizzare e ricondurre nell'alveo della legalità il Fascismo,
e aveva sancito l'impotenza della sinistra drammaticamente divisa tra un neonato
Partito Comunista e un Partito Socialista scisso in due anime (massimalista e
riformista). Questa frammentazione del fronte della sinistra fu la causa prima
della sua incapacità nel definire un'adeguata strategia di lotta comune.
Assunta la direzione del Governo, il Partito Fascista, anziché
smobilitare l'organizzazione squadristica, si servì del potere per
affermare la propria volontà egemonica e per liquidare ogni opposizione e
ogni alternativa politica. Continuarono infatti le aggressioni che colpirono,
tra gli altri, uomini politici e intellettuali di spicco come l'ex presidente
del Consiglio Nitti, Amendola e don Minzoni assassinato nell'agosto 1923.
Tuttavia la tattica normalizzatrice del primo gabinetto Mussolini non
mancò di riscuotere largo successo, ottenendo, oltre all'appoggio della
monarchia e delle forze reazionarie, anche quello della grande maggioranza della
media e piccola borghesia e di una parte dell'elettorato popolare che, nelle
elezioni dell'aprile 1924, contribuì alla vittoria della lista
governativa liberal-fascista, che riuscì a insediare in Parlamento 374
deputati, di cui 275 fascisti. È infatti innegabile, come ha rilevato tra
gli altri lo storico L. Salvatorelli (
Fascismo e antifascismo, 1926) che
"in quel momento, nella maggioranza del popolo italiano ci fosse un consenso
passivo", ottenuto grazie a un'abile politica tutta giocata sul versante
legalitario. La proclamazione ufficiale dell'accettazione della monarchia, le
aperture al mondo cattolico, l'azione repressiva nei confronti del Socialismo e
del sindacalismo valsero a guadagnare consenso presso la piccola e media
borghesia cittadina, anelante al ripristino dell'ordine e al proprio riscatto
sociale dopo le vicende del "biennio rosso". È però significativo
che, nonostante le coercizioni, le pressioni, le violenze e l'emigrazione
all'estero di una parte considerevole degli intellettuali antifascisti, il 34%
dei voti fosse andato alle liste dell'opposizione, dimostrando che non proprio
tutta l'Italia aveva passivamente accettato il Fascismo. In un primo tempo
l'opposizione organizzata contro il Fascismo faceva capo innanzitutto al Partito
Socialista e al Partito Comunista. Gli altri partiti attraversarono momenti di
incertezza e di lotte intestine, sfociate in scissioni tra una maggioranza poi
allineatasi con il Fascismo, o che comunque ne accettava la collaborazione, e
una minoranza nettamente antifascista. Era il caso dei cattolici del Partito
Popolare, la maggioranza dei quali era passata al Fascismo o lo fiancheggiava,
mentre decisamente antifascista rimase il fondatore e segretario politico del
partito, don Luigi Sturzo, costretto a lasciare la segreteria centrale nel
luglio 1923 e più tardi indotto dalle autorità vaticane a lasciare
l'Italia proprio per la sua tenace difesa delle ragioni dell'autonomia dei
popolari dall'ala destra clerico-fascista. Nel campo liberale, le posizioni
erano assai discordanti e andavano dall'allineamento al Fascismo del
conservatore Salandra, alle oscillazioni di Giolitti, fino all'opposizione
decisa di Amendola. Vi era poi l'opposizione espressa dal mondo della cultura
che si andò precisando e rafforzando dopo il delitto Matteotti,
attraverso la voce di intellettuali come B. Croce, rimasti sino allora in
disparte, e poi decisamente schieratisi nel campo antifascista. Una parte della
cultura italiana, comprendente anche uomini di valore come G. Gentile e G.
Lombardo-Radice, aderì invece al Fascismo in cui credeva di scorgere lo
specchio delle proprie idealità. Di grande rilievo fu l'opposizione del
giovanissimo Piero Gobetti (1901-1926) che condusse la propria battaglia sulle
pagine della rivista da lui fondata nel 1922, "Rivoluzione liberale", e al quale
si deve una delle più acute interpretazioni del Fascismo. Secondo
Gobetti, che confidava in una rifondazione del Liberalismo attraverso l'avvento
di una classe dirigente caratterizzata da grande rigore morale e dalla
sensibilità alle istanze emergenti dal mondo del lavoro, le lontane
origini del Fascismo andavano ricercate nel parziale fallimento del Risorgimento
che, espressione elitaria del Paese, non aveva saputo fecondare con le proprie
idealità né mobilitare concretamente il popolo. A differenza dei
vecchi liberali antifascisti, come Amendola, Gobetti non mirava alla
restaurazione dell'ordine prefascista, sostenendo invece la necessità di
una soluzione rivoluzionaria, frutto della riorganizzazione del movimento
operaio, quale unica forza sociale autenticamente antifascista e promotrice del
cambiamento. Un'altra figura di primo piano dell'
a. politico e culturale
fu G. Salvemini, presto costretto a lasciare la cattedra di Storia
all'università di Firenze e ad emigrare. Insieme con Piero Calamandrei e
con Ernesto Rossi, Salvemini aveva dato vita nel 1925 a "Non mollare", uno dei
primi giornali clandestini di opposizione. L'
a. dei primi anni non
riuscì a muoversi con efficacia neppure all'indomani del delitto
Matteotti, quando il regime sembrò avere un momento di crisi e di
smarrimento. Il 30 maggio, a pochi giorni dall'inaugurazione della nuova Camera,
Matteotti aveva preso la parola sostenendo, fra le proteste dei deputati
fascisti, che le elezioni dovevano essere invalidate a causa del clima di
sopraffazione e di negazione della libertà nel quale si erano svolte. Per
suffragare le proprie affermazioni arrivò ad elencare tutte le forme di
coazione esercitate, denunciando i brogli e le violenze squadristiche e
concludendo che gli unici ad avere legalmente diritto di sedere nel nuovo
Parlamento erano gli eletti nelle liste di opposizione. Il 7 giugno fu votata la
fiducia al Governo (360 i voti a favore e 107 contro) e tre giorni dopo
Matteotti venne ucciso. Vi fu un momento di disorientamento nella compagine di
Governo e nelle file fasciste, che sembrò dare rinnovato slancio
all'opposizione, che però si limitò a sfociare nel fallimentare
tentativo dell'Aventino; il 18 giugno 1924 i partiti e i gruppi di opposizione
si impegnarono ad astenersi dai lavori parlamentari (i comunisti, che in un
primo tempo avevano aderito all'Aventino, rientrarono poi in Parlamento,
sostenendo la necessità di una più concreta azione
rivoluzionaria); l'opposizione aventiniana fu sconfitta e dal gennaio 1925 non
vi fu più spazio in Italia per l'opposizione democratica. Nel frattempo,
però, vi fu una fioritura di stampa antifascista che agì da fulcro
per l'organizzazione della resistenza al regime: oltre a "Non mollare", si
ricordano il "Baretti" di Torino; "Pietre" di Genova; il "Caffè" di
Milano. Queste riviste nascevano su iniziativa di intellettuali appartenenti
alle nuove generazioni e ancora pressoché sconosciuti. Infatti, il grande
schieramento liberaldemocratico di "centro" era stato spazzato via nel 1922
dalla Marcia su Roma e al suo posto si erano insediate formazioni nuove che, pur
collocandosi quasi ai margini della vita politica, erano destinate a crescere e
ad acquistare con il tempo grande importanza, come gli uomini che vi facevano
capo. Basti ricordare personalità come Gramsci, Togliatti, Terracini,
Scoccimarro per i comunisti; Basso, Nenni, Pertini per i socialisti; Bauer,
Parri, Rosselli, Ernesto Rossi, La Malfa per gli altri gruppi. Con la
soppressione della libertà di stampa, anche le ultime testate libere
furono messe a tacere e, mentre la rivoluzione che Mussolini definiva
"antiparlamentare, antidemocratica e antiliberale" iniziava la costruzione di
una "nuova era nella storia dell'umanità", agli antifascisti non
rimanevano molte alternative alla prospettiva del carcere, del confino o della
fuga all'estero. Questo fenomeno doveva infatti dare luogo al fuoruscitismo
(V.), già preceduto (1922-25) da una
emigrazione popolare di massa costituita da quei lavoratori che si erano
sottratti con l'espatrio alle "spedizioni punitive" degli squadristi e alle
vessazioni di polizia e carabinieri. L'"Almanacco socialista" del 1924 valutava
tale emigrazione politica in circa un milione di unità, ma è
presumibile che nel conteggio fossero compresi anche un certo numero di emigrati
non politici (dati più attendibili valutano l'emigrazione propriamente
politica di quegli anni intorno alle quattrocentomila unità).
L'emigrazione operaia precedette quindi l'esodo delle personalità di
maggior rilievo, avvenuto tra il 1924 e il 1926. Tra i primi a espatriare furono
l'ex presidente del Consiglio F.S. Nitti e don Sturzo; seguirono poi nel 1925 G.
Salvemini, P. Gobetti, il cattolico G. Donati e, più tardi, G. Amendola,
già seriamente malato per le ferite riportate nelle quattro aggressioni
fasciste subite, poi Saragat, Nenni e il vecchio Turati la cui fuga era stata
preparata da C. Rosselli, F. Parri e S. Pertini. In un primo tempo l'emigrazione
degli uomini politici antifascisti fu dovuta soprattutto a motivi di sicurezza,
ma poi si inserì in un programma di trasferimento all'estero dei quadri
direttivi e dell'organizzazione dei partiti democratici messi fuori legge in
Italia. Ciò avvenne in seguito alle leggi eccezionali promulgate nel
novembre 1926, all'indomani del misterioso attentato contro Mussolini del 31
ottobre a Bologna, che secondo alcuni fu una messinscena del regime per
cancellare anche le ultime libertà democratiche che ancora formalmente
sopravvivevano dopo la sconfitta dell'Aventino. Furono dichiarati decaduti i
deputati dell'opposizione, fu abolita la libertà di stampa e vennero
soppressi i giornali di opposizione; furono sciolti i partiti e le
organizzazioni ostili al regime e istituiti il Tribunale speciale e il confino
di polizia. Le leggi eccezionali colpirono duramente le opposizioni proprio
mentre stavano cercando nuove strategie organizzative, dopo la sconfitta
dell'Aventino. La resistenza al Fascismo sembrava definitivamente stroncata,
quando - a partire dal 1926-27 - cominciò a delinearsi la nuova forza che
sarebbe poi giunta a maturo sviluppo nel 1943. A partire dal 1926 la storia
dell'
a. si differenzia articolandosi in due principali tronconi, quello
dell'
a. esterno e quello dell'
a. interno, a sua volta distinto in
opposizione clandestina e opposizione passiva. L'
a. all'estero si
incaricò di tenere viva la questione italiana dinanzi all'opinione
pubblica internazionale, cercando nello stesso tempo di mantenere attiva una
fitta rete di contatti con gli oppositori rimasti in Italia. Tuttavia,
nonostante alcuni tentativi in tal senso, non svolse un'opera davvero unitaria
dato che nel primo periodo dell'emigrazione conservò e spesso
accentuò all'estero le precedenti divisioni e i contrasti tra i vari
gruppi e partiti. Così la Concentrazione antifascista, sorta nel 1927,
apparve sin dall'inizio profondamente minata dalla diffidenza di ciascun gruppo
nei confronti degli altri e soprattutto verso il settore comunista. L'
a.
degli oppositori interni è soprattutto segnato dal sacrificio di coloro
che, condannati dal Tribunale speciale, furono mandati in carcere e nei luoghi
di confino. Si trattava in massima parte di esponenti comunisti, dato che il
Partito Comunista fu l'unico che, nonostante il trasferimento a Parigi dei
quadri dirigenti sottrattisi agli arresti dopo l'entrata in vigore delle leggi
eccezionali, riuscì a mantenere in Italia un'organizzazione clandestina,
mentre gli altri partiti non furono in grado di conservare stretti contatti con
il fronte interno. Buona parte dei componenti del Comitato centrale del Partito
Comunista e della segreteria eletti al congresso di Lione del gennaio 1926 erano
stati arrestati: fra loro, uomini come Gramsci, morto nel 1937 senza aver
riacquistato la libertà, e Terracini, condannato a ventitré anni e
liberato solo nel 1943. Le leggi eccezionali rappresentarono un ostacolo
insormontabile ai vari tentativi di riorganizzazione antifascista. Ai primi
processi, che videro sul banco degli imputati esponenti del Partito Comunista
tra cui A. Gramsci, M. Scoccimarro, U. Terracini, G. Roveda, si aggiunsero nuove
ondate di arresti e di condanne. ║
Fuoruscitismo, carcere e
confino: le varie correnti dell'
a. ebbero un iter politico e vicende
nettamente diversificate, non riconducibili a una matrice unitaria. Come ha
rilevato Giorgio Amendola in una relazione sul Tribunale speciale e
sull'
a. all'interno (
Fascismo e antifascismo, lezioni e
testimonianze, 1962), l'esperienza del carcere e del confino
rappresentò paradossalmente l'unica sede per lo sviluppo di un fervido
dibattito politico, malgrado le continue vessazioni e punizioni: infatti gli
antifascisti condannati dal Tribunale speciale avevano saputo trasformare la
loro permanenza in carcere nell'occasione per creare un centro di irradiazione
del pensiero e delle idealità antifasciste. Sopravvisse comunque un
a. interno, non illegale, costituito in particolare dall'opposizione di
marca cattolica e liberale e dall'azione di singoli dissidenti non legati a
forze politiche, che continuarono a operare entro i limiti posti dal regime
fascista, non accettando di muoversi nell'illegalità. L'opposizione
cattolica, fatta eccezione per il Movimento di parte guelfa che dovette subire
la condanna da parte del Tribunale speciale di alcuni suoi esponenti di spicco
(Malavasi, Malvestiti, Rolfi, Ortodossi), si coagulò nelle organizzazioni
rimaste attive e fiorenti, ossia nell'Azione cattolica e nella FUCI. Questi due
organismi avevano mantenuto durante il Fascismo, grazie ai Patti Lateranensi,
una propria autonomia, riuscendo anche a conservare gran parte dei loro vecchi
quadri, pur in un parziale rinnovamento (De Gasperi, Gronchi, Gonella, Piccioni,
Zoll). L'opposizione liberale si organizzò attorno a uomini illustri come
B. Croce, L. Albertini, A. Casati che, tra l'altro, erano rimasti membri del
Senato. L'opposizione dei "Senza partito" era costituita da tutti coloro che,
pur avversando il regime, evitavano di esporsi e di aderire a una qualunque
delle formazioni dichiaratamente antifasciste. La loro ostilità al regime
si esprimeva nel tentativo di astenersi dall'iscrizione al PF, mantenendo una
certa autonomia di pensiero, che in molti casi, tuttavia, non veniva manifestata
pubblicamente. Accanto a questo
a. interno, non militante, non
organizzato e propenso a una strategia attendista, operava l'
a. militante
che, come s'è visto, cercò a qualunque costo di mantenere in vita
una propria organizzazione al di fuori della legalità. Fu questo il caso
del Partito Comunista che, sulla base delle direttive del congresso di Lione
(gennaio 1926) e nonostante l'arresto di Gramsci e di centinaia di militanti,
mantenne fede alla parola d'ordine: "la lotta continua come prima". Per
mantenere il centro d'azione all'interno del Paese fu necessaria la conversione
alla clandestinità, anche con l'apporto delle forze sindacali, come la
ricostituita CGL che dal canto suo ribadì la volontà di operare in
Italia. ║
Dall'a. alla Resistenza: mentre il Fascismo, da fenomeno
italiano, si apprestava - con l'avvicinamento alla Germania di Hitler - ad
assumere rilievo europeo, si aggiunse al fronte dell'
a. italiano una
formazione del tutto nuova, Giustizia e Libertà che avrebbe annoverato,
insieme al Partito Comunista, il maggior numero di uomini mandati in carcere e
al confino: su 4.671 condannati dal Tribunale speciale, 4.030 furono i
comunisti, 42 gli appartenenti a Giustizia e Libertà, 22 gli anarchici,
12 i socialisti, 6 i repubblicani, cui si aggiunsero dissidenti di varia
provenienza ed estrazione. Fra i condannati al confino, risultava sempre
preponderante la percentuale di comunisti (ottomila su diecimila), benché
vi fosse una maggiore differenziazione politica e una quota sensibilmente
più alta di appartenenti agli altri gruppi. Che si trattasse in massima
parte di giovani lo dimostra il fatto che l'età media dei condannati dal
Tribunale speciale era di 26 anni. Giustizia e Libertà era sorta nel
1929, dopo l'audace fuga da Lipari di tre confinati politici: Carlo Rosselli,
Emilio Lussu e Francesco Saverio Nitti. La formula del nuovo movimento era
quella del "Socialismo liberale", come sintesi delle idealità socialiste
e proletarie con la tradizione democratico-repubblicana. Nel programma politico
di Giustizia e Libertà confluivano le idee dei fratelli Rosselli, di
Salvemini e del gruppo gobettiano: la composita matrice politica dei suoi
fondatori fece sì che la nuova formazione ponesse soprattutto l'accento
sulla necessità dell'azione diretta contro il Fascismo, esprimendo grande
insofferenza per i temporeggiamenti e per gli eccessi di cautela. Pertanto,
Giustizia e Libertà privilegiava il momento dell'azione insurrezionale
condotta attraverso la lotta armata e caldeggiava lo spostamento all'interno del
centro di irradiazione dell'iniziativa politica. Per tutti questi motivi si
differenziava profondamente dai partiti riuniti nella Concentrazione
antifascista, la cui azione era improntata alla prudenza, mentre condivideva con
i comunisti il proposito di un maggiore impegno in Italia, sia pure sganciato da
logiche di schieramento e da radicalismi ideologici. Seguendo il suo esempio,
anche gli appartenenti ad altre formazioni antifasciste promossero azioni
dimostrative che avrebbero dovuto contribuire a far scoppiare la scintilla della
rivolta. Nell'ottobre del 1929 il socialista Ferdinando De Rosa compì a
Bruxelles un attentato contro la vita del principe ereditario Umberto; nel
luglio del 1930 Giovanni Bassanesi, appartenente a Giustizia e Libertà,
compì un volo su Milano lanciando dei manifestini antifascisti;
nell'ottobre del 1931, Lauro de Bosis, che nel 1930 aveva dato vita all'Alleanza
nazionale insieme con M. Vinciguerra, lanciò dei manifestini nel centro
di Roma, pur sapendo che quell'audace impresa gli sarebbe costata la vita. Si
trattava di gesti plateali improntati a un concetto di pragmatismo e di
attivismo "romantico" che, secondo lo storico Salvatorelli, dimostra come "negli
anni '30 l'aereo lanciatore di manifestini sia apparso come lo strumento
preparatore delle rivoluzioni interne". All'iniziativa di piccole frange
dissidenti e alla temerarietà delle azioni individuali, ossia
all'
a. di élite, si contrapponeva l'esigenza di formare un
movimento antifascista di massa, capace di coalizzare tutte le forze popolari,
raccogliendo le avanguardie della classe operaia per l'instaurazione di un
ordine nuovo. I comunisti perseguivano in solitudine questo disegno politico, a
causa del perdurante antagonismo con i socialisti e della profonda
incompatibilità ideale con i gruppi "liberali", i quali peraltro temevano
di essere assimilati ai "sovversivi" di fronte all'opinione pubblica. Secondo i
liberali, anzi, l'identificazione dell'
a. con il Comunismo avrebbe potuto
ingenerare l'effetto opposto a quello auspicato dagli oppositori del regime,
tanto da configurare il rischio che "chiunque avesse interessi da difendere,
avrebbe preferito in ultima analisi rassegnarsi al Fascismo" (circolare n. 1,
luglio 1930, dell'"Alleanza nazionale"). Con l'assenza del Partito Socialista in
questa prima fase dell'organizzazione clandestina nel Paese, Giustizia e
Libertà e Partito Comunista furono i due schieramenti che si assunsero
l'onere di orchestrare in quel periodo il movimento antifascista interno. Nel
1931 Rodolfo Morandi, staccatosi da Giustizia e Libertà, costituì
a Milano, insieme con L. Basso, un nucleo interno clandestino del Partito
Socialista, impegnato in un'importante revisione del Marxismo, di cui veniva
privilegiato l'elemento "volontaristico", e del ruolo della classe operaia,
anteposto a quello del partito in vista di un traguardo politico improntato a
principi e ideali libertari. Fu proprio questa esperienza uno dei principali
moventi per la riorganizzazione delle forze socialiste e per l'instaurazione di
un clima di collaborazione tra i movimenti antifascisti, preludio
all'unità realizzatasi ufficialmente nel 1934. Tuttavia l'arresto degli
attivisti del centro (Rossi, Bauer, Facello) nell'ottobre 1930 e del
ricostituito centro interno comunista (C. Ravera, poi P. Secchia e centinaia di
militanti) provocarono un affievolimento dell'attività clandestina. Dopo
l'avvento di Hitler al potere, si produssero nel fronte antifascista numerose
trasformazioni interne determinate dall'inasprimento dei caratteri dittatoriali
e dall'affacciarsi del Fascismo sullo scenario politico europeo. Allora fu del
tutto chiaro che l'era dei colpi di mano e delle iniziative isolate, per quanto
spettacolari e audaci (e in questo senso il sacrificio di De Bosis chiuse
storicamente un periodo), non avrebbero scalfito il grande apparato dello Stato
totalitario. Per questo, data la situazione interna, i comunisti sostennero la
necessità di operare infiltrazioni nelle organizzazioni di massa fasciste
per minarle dall'interno e soprattutto per non perdere il contatto con le masse
lavoratrici e con i giovani. Questa strategia di penetrazione ebbe come
obiettivi privilegiati le organizzazioni sindacali e le università
attraverso il GUF, nel tentativo di instillare nella stessa gioventù
militante fascista il fermento delle idealità antifasciste. Si ricorda a
questo proposito l'azione svolta all'università di Roma dove passarono
nelle file comuniste giovani come M. Alicata, A. Trombadori, G. Sotgiu, L.
Lombardo Radice, A. Natoli. Si ricorda inoltre Eugenio Curiel, assistente
all'università di Padova e direttore del giornale dei GUF, che, dopo aver
subito la condanna del Tribunale speciale, partecipò alla lotta
partigiana e fu una delle ultime vittime del Fascismo. Fu in quegli anni che il
Partito Comunista acquistò nel movimento antifascista una posizione di
primo piano, abbandonando il ruolo marginale di formazione politica minoritaria
e gettando le basi per quella trasformazione in partito di massa, destinato a
svolgere una funzione essenziale nel Paese fin dall'immediato dopoguerra. La
guida dei gruppi antifascisti all'estero era nel frattempo passata dalla vecchia
generazione prefascista alla nuova generazione di fuorusciti, e ciò aveva
contribuito a far cadere molti risentimenti personali e a istituire nuovi
rapporti di collaborazione tra le varie componenti ideologiche dell'
a..
Il 17 agosto 1934 fu sottoscritto a Parigi il primo Patto di unità
d'azione tra il Partito Socialista e il Partito Comunista che, pur limitato a
obiettivi precisi e ferme restando le divergenze ideologiche, pose termine a un
annoso dissidio che non poco aveva pesato sull'inefficacia del fronte
antifascista; inoltre, in seguito alle nuove direttive della Terza
Internazionale, lo schieramento marxista cessò di opporre un rifiuto
pregiudiziale ai contatti con le formazioni "borghesi" e cominciò ad
operare per la costruzione di un largo fronte popolare antifascista.
Contemporaneamente, Giustizia e Libertà, sotto la guida di C. Rosselli,
abbandonava il velleitario attivismo dei primi tempi e iniziava un più
solido lavoro di preparazione rivoluzionaria in vista della guerra che era ormai
nell'aria. Il nuovo clima unitario instauratosi nelle file del fronte
antifascista dette i suoi frutti con lo scoppio della guerra civile di Spagna
quando, contro i franchisti e contro le truppe mussoliniane, si verificò
una massiccia mobilitazione del volontariato in appoggio al popolo spagnolo.
Anche gli antifascisti italiani intervennero uniti, consapevoli che la minaccia
fascista stava dilagando nel cuore dell'Europa e che il fronte antifascista
veniva acquisendo un respiro internazionale. Tuttavia, le profonde differenze
ideologiche, accresciute dai molti anni di separazione e di accese polemiche,
non mancarono di farsi sentire anche tra i combattenti. Contrasti e lotte
intestine si produssero tra gli antifascisti accorsi da tutto il mondo in difesa
della Repubblica spagnola, e analoghi episodi di dissidio si registrarono tra i
combattenti italiani a capo dei quali si trovavano, tra gli altri, C. Rosselli,
R. Pacciardi, F. Leone, L. Longo. I volontari italiani in Spagna furono
complessivamente 3.354. Al di là dei contrasti, rimaneva il fatto
essenziale della ritrovata unità antifascista: la guerra di Spagna
segnò la fine di una fase dell'
a. e l'inizio di un nuovo periodo
di lotta, quello della Resistenza europea e italiana. Carlo Rosselli, che aveva
coniato il motto "Oggi in Spagna, domani in Italia", all'insegna del quale si
svolse la partecipazione militare dei volontari italiani in difesa della
Repubblica spagnola, non poté prendere parte alla Resistenza
perché fu assassinato in Francia, insieme col fratello Nello, nel 1937. A
Torino nel settembre 1942 si formò per la prima volta un organismo in cui
erano rappresentati tutti i partiti clandestini antifascisti, ossia il Partito
Comunista, il Partito d'Azione (erede di Giustizia e Libertà), il Partito
Liberale e il Movimento di unità proletaria. Tale organismo, con il nome
di Comitato del fronte nazionale d'azione, lanciò un manifesto politico
clandestino articolato in quattro punti programmatici: 1) denuncia dell'alleanza
con la Germania; 2) richiesta di pace separata con gli Alleati; 3) ritiro delle
truppe italiane dai fronti; 4) cacciata dei Tedeschi dall'Italia. Cominciava
l'offensiva antifascista: il 5 marzo 1943 in una delle maggiori fabbriche
torinesi iniziava uno sciopero generale, poi estesosi agli altri stabilimenti.
Nonostante l'arresto di molti operai e il loro deferimento al Tribunale
speciale, il 24 marzo lo sciopero approdava a Milano, divenendo un evento di
respiro nazionale. Questi scioperi segnarono il passaggio della lotta
antifascista da fenomeno di élite ad azione di massa. Frattanto si erano
andati ricostituendo nella clandestinità i partiti antifascisti: nel 1942
un gruppo formato, tra gli altri, da Parri, La Malfa e Salvatorelli, costituiva
a Milano il Partito d'Azione; le varie componenti socialiste venivano
ricostituite da L. Basso, Romita e Buozzi; l'organizzazione comunista interna
era affidata ad Amendola e Negarville; i capi dell'Azione Cattolica, De Gasperi,
Gronchi e Gonella, fondavano la Democrazia Cristiana, erede del partito
popolare; uomini come Bonomi, Cattani, Carandini, Brosio rianimavano i valori
della democrazia liberale. Dopo l'unione di questi partiti in un fronte comune,
il 9 settembre 1943, all'indomani dell'armistizio e della fuga del sovrano a
Pescara, fu fondato a Roma il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) che
lanciava un appello agli Italiani, incitandoli alla "lotta e alla
resistenza".
Antonio Gramsci
Sandro Pertini
Giancarlo Pajetta
Carlo Giulio Argan
"Antifascismo: testimonianza sulla Resistenza" di Ettore Serafino