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Agostino, Aurelio, santo.

Padre della Chiesa di lingua latina. Figlio di Patrizio, un centurione di fede pagana (il quale prima di morire si convertì al Cristianesimo) e di Monica, una fervente cristiana. Studiò retorica e si perfezionò a Cartagine, dove l'Hortensius di Cicerone lo attrasse verso la filosofia. Il calore del suo temperamento lo portò a interessarsi profondamente del Manicheismo (V.), da cui si distolse solo dopo lunghi anni. Insegnò poi letteratura ed eloquenza a Tagaste, Cartagine e Roma, finché ottenne nel 384 una cattedra a Milano. Qui ascoltò la parola di S. Ambrogio: l'esegesi allegorica usata nelle omelie dal vescovo milanese lo aiutò a risolvere alcuni dubbi e a capire quelle antropomorfizzazioni che nell'Antico Testamento gli erano sembrate rozze e ingenue. La successiva lettura di Plotino e Porfirio lo aiutarono a comprendere la totale spiritualità di Dio e la natura negativa del male contro le tesi manicheiste. Dopo un periodo di preparazione a Cassiciacum si fece battezzare da Ambrogio nel 387. Nel 391 A. tornò in Africa, a Ippona, dove fu ordinato prete per acclamazione del popolo, in seguito al rapido diffondersi della sua fama di studioso e colto. La sua grande virtù lo condusse anche, nel 396, a essere consacrato coepiscopo del vescovo Valerio. Morto quest'ultimo, ne divenne il successore. Da questo momento egli divenne infaticabile nell'affrontare i problemi che turbavano la Chiesa africana. Combatté con autorità le eresie, come quelle dei donatisti e dei pelagiani, e attuò inoltre con i suoi preti una esperienza monastica. Nel 411 subì la condanna dei pelagiani (V.) per aver sostenuto la dottrina della predestinazione; ma la sua concezione della predestinazione e della grazia, poco accetta alla Chiesa cattolica, "divenne in seguito un fomite di eresie opposte al pelagismo ma ugualmente lontane dall'equilibrato giusto mezzo seguito dalla Chiesa" (De Ruggero). Morì durante l'assedio di Ippona, dove risiedeva come vescovo, mentre era impegnato strenuamente nella difesa della città, attaccata dai Vandali di re Genserico, penetrati nell'Africa settentrionale. La prima personalità a influire sull'animo di A. fu quella della madre Monica, la cui fede profonda in Cristo fu costante stimolo per il figlio, anche se a lungo egli rifiutò il pensiero cristiano e cercò altrove la verità. Secondo incontro importante fu con l'Hortensius di Cicerone che lo convertì alla filosofia. Come scrisse successivamente nelle Confessiones, egli non vi trovò però il nome di Cristo, così che si diede alla lettura della Bibbia, il cui stile lontano dalle raffinatezze della prosa ciceroniana e il modo antropomorfico con cui si parlava di Dio costituirono una sorta di blocco e di ostacolo. Alla ricerca della verità, A. aderì prima al Manicheismo, religione che si basava su un acceso razionalismo, un marcato materialismo e una decisa distinzione tra bene e male intesi anche come principi cosmici e ontologici. Ad A. il Manicheismo sembrava sia che offrisse una dottrina di salvezza a livello razionale, sia che facesse posto a Cristo. Ma il razionalismo manicheo portava di fatto alla idea della non necessità della fede, e ciò determinò seri dubbi in A. In seguito, incontratosi con il vescovo manicheo Fausto, che non riuscì a risolvere nessuno dei suoi dubbi, abbandonò il Manicheismo. Nemmeno la filosofia della Accademia Scettica lo aiutò nella sua ricerca della verità. Gli incontri fondamentali avvennero in Italia. Qui egli conobbe S. Ambrogio, lesse Plotino e i neoplatonici e soprattutto l'opera di S. Paolo. Le opere di A. furono numerosissime: nelle Retractationes troviamo notizia di 93 scritti, non considerando le innumerevoli lettere. Le opere scritte durante il periodo di Cassiciaco sono prevalentemente di carattere filosofico: Contra Accademicos (Contro gli accademici), De beata vita (La vita felice), De ordine (L'ordine), i Soliloqui, una sorta di esame di coscienza in due libri non portati a termine, De immortalitate animae (L'immortalità dell'anima). Del 388 è La quantità dell'anima, mentre a Roma nel 389 scrisse il De magistro (Il maestro) e il De musica. Il capolavoro dogmatico-flosofico è il De Trinitate (La Trinità), in 15 libri, dove egli insiste sulla unità di Dio e esorta a ricercare la Trinità nel mondo e nella nostra anima (399-419); il capolavoro apologetico è invece il De civitate Dei. Tra gli scritti esegetici si ricordano il De doctrina christiana (396-426); i Commenti letterali al Genesi (401-414); i Commenti a Giovanni (414-417) e i Commenti ai Salmi. Numerose furono inoltre le opere composte a confutazione di varie eresie: contro i manichei scrisse Sui costumi della Chiesa cattolica e sui costumi dei manichei (388-390); il De libero arbitrio (388 e 394/395); il De vera religione, terminata nel 390, nella quale l'idea centrale si riassume nel concetto secondo il quale la vera religione non va cercata né tra i libri dei filosofi, né nella cecità del giudaismo, bensì nella religione cristiana e nella comunione della Chiesa cattolica: fondamento primo sono la storia e la profezia, le quali rivelano l'opera secolare della divina provvidenza; il fondamento secondo riguarda i precetti divini, i quali devono regolare e purificare lo spirito umano. Contro i donatisti A. compose invece Contro la lettera di Parmenione (400); Sul battesimo contro i donatisti (401); Contro Gaudenzio vescovo dei donatisti (419-420). Tra gli scritti antipelagiani si ricordano infine Lo spirito e la lettera (412); Sulle gesta di Pelagio (417); La grazia di Cristo e il peccato originale (418). Le Confessiones, scritte negli anni 397-398, sono in 13 libri e costituiscono un capolavoro anche in senso letterario: in esse A. intese il concetto di confessione come confessio laudantis (cioè come esaltazione della misericordia divina) e come confessio poenitentis (pentimento di colui che si confessa). L'opera è concepita quale preghiera di ringraziamento al Signore, mentre al tempo stesso si afferma come atto di umiltà e di edificazione morale. La riflessione di A. si concentra dopo la conversione su alcuni temi fondamentali riguardanti Dio e l'anima: l' assoluta loro spiritualità; la concezione del male visto come carenza di bene; la separazione tra mondo delle idee e natura. Se fu importante la lettura di Plotino, la conoscenza del cui pensiero aprì a A. nuovi schemi di pensiero e gli fece abbandonare la concezione materialistica, la conversione mutò radicalmente il suo modo di vita e di pensare. La fede divenne sostanza, oltre che di vita, di pensiero: si può dire che nasceva il filosofare nella fede, nasceva la Filosofia cristiana. È da notare che A. non fece professione di fideismo, e rimase comunque estraneo a ogni forma di irrazionalismo. Per lui la fede non annullava l'intelligenza; anzi la stimolava e la promuoveva, secondo la formula credo ut intellegam e intellego ut credam. Un altro tema a lui caro era quello dell'uomo e della sua interiorità. A. poneva il problema non dell'uomo inteso come entità astratta, ma quello dell'individuo come singolo, come persona; allontanandosi dall'intellettualismo greco, A. mise al centro della sua riflessione la volontà del singolo: e fu proprio la problematica religiosa, ossia il confronto tra la volontà divina e quella umana, a determinare la scoperta dell'io. Nell'uomo interiore inoltre A. scopriva l'immagine di Dio e della Trinità. Se nell'anima si rispecchia Dio, allora la conoscenza dell'anima è conoscenza di Dio: si risolveva quindi in chiave cristiana il conosci te stesso di Socrate. Un altro aspetto che assunse importanza in A. fu il problema della Trinità. Già in gioventù egli aveva cercato di inquadrare la Trinità divina nelle triadi trovate nelle opere di Plotino e Porfirio: misura, numero, peso. Successivamente, nel De Trinitate egli passò dal piano esegetico a quello anagogico e analogico, ritenendo che le triadi avessero come scopo quello di aiutare l'uomo a scoprire in se stesso e nel mondo le analogie con la triade divina. In particolar modo egli accentuò l'interpretazione unitaria, in sintonia con la tradizione latina e contro quella greca propensa piuttosto ad affermare la distinzione tra le tre figure. Per A. esse diventano in un certo senso dei momenti dell'agire di Dio. Se, come detto, condizione imprescindibile della vita umana è il credere, il cristiano crede nelle Scritture e nella Chiesa che hanno titoli sufficienti per pretendere fede nelle loro affermazioni. È chiaro quindi che A. dovette affrontare il problema dell'autorità. Anzi è da notare che col passare del tempo si accentuò nel suo pensiero questo concetto. Fu soprattutto la polemica con i donatisti a fare aumentare la sua concezione di autorità, quando contro questa setta, che non riconosceva alcuna gerarchia ecclesiastica, giunse addirittura a giustificare certi interventi con la forza contro persone sorde a qualsiasi discussione razionale. Contro la dottrina di Donato egli affermò inoltre che la validità dei Sacramenti era indipendente dalla moralità del ministro che li somministrava. Contro i Pelagiani egli radicalizzò il suo concetto di predestinazione. A. rifletté a lungo sul problema del male. Egli osservò che Dio è Essere e che tutto ciò che proviene da Dio non può non essere bene che sia: ma proprio perché ogni creatura ha avuto essere ma non è L'Essere, presa singolarmente manca di essere ed è perciò imperfetta, è prope nihil, quasi nulla. Ora quando l'anima, presa dall'amore di sé si allontana dall'essere e si avvicina al molteplice, cade nell'errore: da qui la radice del male morale. Affrontando il problema anche su un piano antropologico, egli in un primo tempo pose l'accento sulla capacità dell'uomo di fare il bene e in gioventù, aderendo al Manicheismo, esaltò la libertà dell'uomo. In seguito si convinse sempre più della impossibilità da parte dell'umanità di bene operare. E in particolare egli condannò la tesi di Pelagio. Questi sosteneva che anche dopo il peccato l'uomo era rimasto ciò che Dio aveva voluto che fosse, cioè libero. Per questo la colpa di Adamo non poteva ricadere sui suoi figli: tutti gli uomini potevano quindi ricevere la grazia, attraverso una vita improntata al sacrificio. Le tesi pelagiane fecero sorgere alcuni dubbi in A. Egli in particolar modo osservò che Dio è libero e non può essere in alcun modo condizionato. Se la grazia fosse un dono fatto da Dio in cambio di buone azioni, allora Dio risulterebbe debitore di qualcosa all'uomo. A. accentuò quindi la condizione negativa degli uomini, da lui considerati una massa damnationis, destinati all'inferno e la cui salvezza dipendeva esclusivamente dalla grazia, concessa da Dio liberamente e al di là di ogni calcolo umano. Nell'opera De civitate Dei, iniziata nel 413 e terminata soltanto dieci anni dopo, egli contrappose alla città terrena la città divina; la prima è fondata sull'orgoglio e la superbia, mentre la seconda si basa sull'amore di Dio. Quest'opera venne considerata la base di tutta la politica sociale della Chiesa, nonché delle sue relazioni con il potere politico e civile. L'opera nacque come confutazione delle accuse dei pagani, che imputavano ai cristiani di essere la causa delle invasioni dei vandali. A. contrappose i buoni (la città di Dio, impersonata dai presagi dell'Antico Testamento e dalla Chiesa) ai malvagi (la città terrena, ossia gli imperi succedutisi nei secoli). Il contrasto si sarebbe protratto fino alla esaltazione, alla vittoria finale della città di Dio. Mentre nel De vera religione il dramma della salvezza si risolve precipuamente nell'ambito dell'individuo, nel De civitate Dei esso si dilata a tutta la storia. L'influenza di A. non si è manifestata solamente nella teologia, ma ha investito diversi altri campi quali la pedagogia (con l'opera De magistro, in particolare, dove il compito di ogni educatore, primo fra tutti Cristo, è quello di portare in luce la verità interiore di ogni animo umano) e la musica (con il trattato De musica, sulla musica liturgica). Indirettamente ha influenzato anche l'arte, dove l'iconografia del santo ha origini antiche e riappare intensa durante il Rinascimento (Tagaste, Numidia 354 - Ippona 430).