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AFRICA. La politica. 2006

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AFRICA. La politica. 2006

 

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AFRICA. La politica. 2006

La corruzione dilaga in Africa e ne frena lo sviluppo. A denunciarlo è un'inchiesta di Transparency International (Ti), un'organizzazione no profit che studia il fenomeno a livello internazionale. In un'indagine condotta insieme all'istituto americano Gallup su un campione di 55.000 persone in 69 Paesi, Ti ha rilevato come la corruzione sia diffusa in tutto il mondo, ma che il continente nella quale è più radicata è l'Africa. Le forme sono le più diverse e vanno dalla distrazione di fondi pubblici a uso privato all'abuso d'ufficio, dalla disonestà nelle commesse pubbliche alle più classiche "bustarelle" per ottenere servizi e pratiche burocratiche. I Paesi africani nei quali il fenomeno è più diffuso sono Camerun, Etiopia, Ghana, Nigeria e Togo. In questi Stati, tra il 30 e il 45% degli abitanti ammette di aver versato tangenti. In Kenya e Senegal questa percentuale si colloca tra l'11 e il 30% e nell'Africa meridionale tra il 5 e il 10%. Sempre secondo l'indagine, la corruzione dragherebbe ingenti risorse. In Camerun, Nigeria e Ghana i cittadini sarebbero costretti a versare in tangenti fino a un terzo del loro reddito. Tra i settori dove la corruzione è più diffusa ci sono, oltre alle forze dell'ordine, il sistema giudiziario e il settore medico-sanitario. I dati di Ti sono stati confermati dal presidente nigeriano Olusegun Obasanjo che, in una conferenza a fine febbraio, ha dichiarato che la corruzione sottrae allo sviluppo in Africa almeno 148 miliardi di dollari ogni anno (equivalenti al 25% delle entrate complessive del continente). Il 2006 si è aperto con la nomina di Denis Sassou Nguesso, capo di Stato della Repubblica del Congo, alla presidenza di turno dell'Unione africana (Ua, che comprende i Paesi dell'intero continente ad eccezione del Marocco, che il 24 gennaio ha deciso di rimanerne fuori a causa del riconoscimento da parte dell'Unione dell'indipendenza dell'ex colonia spagnola del Sahara occidentale, che Rabat rivendica invece come parte del suo territorio). Nguesso ha promesso di "impegnare il continente nella risoluta conquista della pace". Inizialmente la presidenza doveva essere assegnata al Sudan, ma decine di organizzazioni per i diritti umani hanno contestato la nomina di Ahmed Omar Hassan el-Bashir a causa dei crimini commessi in Darfur. Vediamo ora quali sono stati gli avvenimenti principali dell'anno nel continente.

In Algeria il ministro di Stato Abdelaziz Belkhadem, segretario generale del Fronte di liberazione nazionale (Fln) considerato vicino al presidente Abdelaziz Bouteflika, è stato nominato primo ministro in sostituzione di Ahmed Ouyahya, leader del Raggruppamento nazionale democratico (Rnd), contestato per aver liberalizzato l'economia, in accordo con il Fondo monetario internazionale, e per non aver aumentato gli stipendi dei funzionari pubblici (24 maggio). Il cambio della guardia alla guida del governo, secondo gli osservatori, rientrerebbe nel quadro delle manovre di avvicinamento alle elezioni politiche del 2007 e alle presidenziali del 2009. Belkhadem ha confermato in blocco la squadra del dimissionario Ouyahya e ha nominato Hachemi Djiar ministro delle Comunicazioni: questa carica era vacante dal precedente rimpasto attuato il 1° maggio 2005. Il neopremier ha detto che le sue priorità sono una riforma della Costituzione, cui il suo predecessore si opponeva, e un aumento dei salari. Belkhadem ha annunciato piani per modificare la Costituzione algerina in modo da permettere al presidente in carica di ricandidarsi indefinitamente e al fine di aumentarne i poteri.

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Il 5 marzo si sono tenute in Benin le elezioni presidenziali terminate con il passaggio al ballottaggio di Boni Yayi e Adrien Houngbé-dji, leader del Partito del rinnovamento democratico (Prd) e delfino del presidente uscente Mathieu Kérékou, con il primo in testa di circa 300.000 voti. La vigilia delle elezioni è stata caratterizzata da alcune polemiche sollevate dal presidente uscente, che per limiti d'età non si è potuto ricandidare, ma ha denunciato problemi nella preparazione delle elezioni. Al secondo turno, diversamente da quello che ci si sarebbe potuti aspettare, i tre candidati arrivati dietro i vincitori non hanno dato il loro appoggio a Houngbédji, pur appartenendo allo stesso mondo politico: Bruno Amoussou, presidente del Partito socialdemocratico (Psd) e dell'Alleanza Nuovo Benin (Abn), Léhadi Soglo, della Rinascita del Benin (Rb) e Antoine Kolawolé Idji, del Movimento africano per la democrazia e il progresso (Madep), hanno preferito appoggiare Boni, sostenendo di condividerne il programma. Le consultazioni sono terminate con la vittoria schiacciante di Boni che si è aggiudicato il 75% dei consensi del suo avversario. Ex direttore della Banca per lo sviluppo dell'Africa occidentale, Boni si era presentato come outsider, ma è riuscito a imporsi su una pletora di candidati usciti dall'entourage dell'ex presidente. La sua vittoria è indice della voglia di cambiamento di un popolo stanco della crisi economica e dell'ipoteca sulla vita politica lasciata dal gruppo di Kérékou. Contrassegnate da mille incertezze fino a poche settimane dal voto (possibilità di reperire o meno i fondi per organizzarle o la possibilità che lo stesso Kérékou decidesse di modificare la Costituzione per potersi ripresentare) le elezioni sono poi state tra le più libere e tranquille nella storia del Benin, con una partecipazione al voto vicina al 70%. Il neopresidente dovrà soddisfare i membri dell'ampia coalizione che gli ha permesso di vincere al ballottaggio, obiettivo che si scontra con le aspettative di una popolazione che da anni vive immersa nella stagnazione economica. Il mercato del cotone, una delle principali voci di esportazione per il Benin, è altalenante, cosa che non permette una facile programmazione economica. Anche il porto di Cotonou sta attraversando un momento difficile e avrà bisogno di un rilancio. In ogni caso Boni proviene dal mondo economico e dovrebbe essere avvantaggiato nell'intrattenere buoni rapporti con le istituzioni finanziarie internazionali.

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Rieletto alla presidenza del Burkina Faso il 13 novembre 2005, il presidente Blaise Compaoré ha firmato con i cittadini un nuovo piano quinquennale per la costruzione della "società della speranza". Piano che ancora non è partito, accantonato dalla preparazione per le elezioni municipali del 12 marzo. Il Burkina Faso è uno dei Paesi più poveri del mondo: la maggior parte della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno e la speranza di vita si aggira intorno ai 47 anni. L'agricoltura è ancora troppo soggetta alle condizioni meteorologiche. L'unico prodotto da esportazione è il cotone, di cui il Burkina Faso è il secondo produttore africano (dopo il Mali). Il prezzo del cotone subisce però le regole di un mercato internazionale falsato dalle sovvenzioni all'esportazione che il governo di Washington garantisce ai produttori statunitensi. La pace sociale, a lungo garantita dal governo Compaoré, ha reso il Burkina Faso ideale per interventi di aiuto allo sviluppo da parte dei Paesi ricchi, aiuti dai quali dipende di fatto l'economia. La questione dei diritti umani è stata però a lungo trascurata. Il 13 dicembre 2005, settimo anniversario dell'assassinio del giornalista investigativo Norbert Zongo e dei suoi tre compagni, il Collettivo delle organizzazioni democratiche di massa e dei partiti politici (Codmpp) è riuscito a mobilitare qualche migliaio di persone in una grande manifestazione pacifica al centro della capitale Ouagadougou. Chiamato in causa come mandante dell'omicidio di Zongo è il fratello del presidente, François Compaoré. Il Collettivo ha chiesto che si sblocchi la procedura giudiziaria sul caso Zongo e su altri famosi omicidi politici ancora impuniti. Ha protestato anche contro il carovita, il soffocamento progressivo delle libertà democratiche, sindacali e politiche, e l'impunità che favorisce malversazioni e crimini. Compaoré, abile diplomatico, è riuscito a rendere il suo Paese una pedina importante negli equilibri dell'Africa occidentale, ma non ha certo migliorato le condizioni di vita della popolazione, nonostante i finanziamenti della cooperazione internazionale. Il 12 marzo il Paese ha affrontato un'altra tappa importante della sua storia democratica. Per la prima volta si sono tenute le elezioni municipali, per formare più di 300 nuovi Consigli comunali (attualmente, tranne nei capoluoghi di provincia, il potere è gestito da prefetti a nomina governativa).

Dopo 13 anni di guerra anche le Forces Nationales de Libération (Fnl), l'ultimo gruppo ribelle ancora attivo in Burundi, ha deciso di avviare i colloqui di pace con il governo per la fine del conflitto. Dopo l'incontro tra il leader delle Fnl, Agathon Rwasa e il ministro degli Esteri della Tanzania Asha-Rose Migiro (Tanzania, 18-19 marzo), le Fnl hanno offerto una tregua unilaterale al governo burundese dopo averlo criticato fin dal suo insediamento, per essere un fantoccio mosso dalla comunità internazionale. Le autorità burundesi hanno apprezzato il gesto dei ribelli, ma hanno reso noto che l'iniziativa dovrà essere presa dal gruppo di mediatori internazionali, guidato dal presidente ugandese Yoweri Museveni. Lo schema delle trattative sarà probabilmente uguale a quello che portò alla firma degli accordi di pace nel 2003 a cui presero parte tre dei gruppi ribelli hutu che combattevano contro il governo in mano alla minoranza tutsi: sarà quindi permesso a parte dei contingenti delle Fnl di entrare nel nuovo esercito, mentre il resto dei combattenti verrà reintegrato nella società civile. Le Fnl potranno diventare un partito politico, come già le Forces Democratiques de Defence, l'ex gruppo ribelle il cui leader, Pierre Nkurunziza, è stato eletto alla presidenza dello Stato nel 2005. Forse proprio l'arrivo al potere della maggioranza hutu ha favorito l'apertura delle Fnl. Con Nkurunziza infatti gli hutu (che rappresentano circa l'85% della popolazione) hanno ottenuto un riconoscimento politico che mancava dall'indipendenza. Il 29 maggio governo e ribelli dell'Fnl si sono incontrati a Dar es Salaam, in Tanzania, dove sono cominciati i colloqui di pace sfociati nella firma di un accordo di cessate il fuoco (7 settembre).

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Il 22 gennaio si sono tenute le elezioni legislative a Capo Verde, terminate con la vittoria del Partito africano per l'indipendenza di Capo Verde (Paicv, sinistra). Le presidenziali di febbraio hanno visto poi la riconferma del presidente uscente Pedro Pires, candidato del Paicv che ha ottenuto il 51,21% dei consensi contro il 48,79% di Carlos Veiga, candidato del Movimento per la democrazia (Mpd, centrodestra).
In attesa delle elezioni presidenziali del 3 maggio, in Ciad la situazione politico militare si è andata progressivamente deteriorando. Il presidente Idriss Déby ha aperto l'anno lanciando una serie di accuse contro il vicino Sudan, accuse che hanno fatto salire la tensione già alta dopo che nel dicembre 2005 il governo ciadiano aveva accusato l'esercito sudanese di aver partecipato a un attacco dei ribelli del Raggruppamento per la democrazia e la libertà (Rdl) ad Adré, nell'Est del Paese. Subito dopo Déby aveva dichiarato lo stato di belligeranza con il Sudan. Il presidente sudanese Omar el-Bashir ha respinto le accuse anche se, secondo alcuni analisti, el-Bashir si servirebbe dei ribelli ciadiani per costringere N'Djamena a rompere con i ribelli sudanesi del Darfur. Nel Ciad infatti sono ospitati più di 300.000 rifugiati provenienti dalla regione dove dal 2003 è in corso una guerra civile. Benché il governo sia riuscito a firmare la pace con due gruppi ribelli, l'Arn (Armée de Résistance Nazionale) e il Mdjt (Mouvement pur la Démocratie et la Justice au Tchad), il fallito golpe del 15 marzo ha dimostrato come le tensioni in seno alla classe politica e allsiano ancora alte. Il governo ha accusato i fratelli Erdimi, parenti di Déby ed ex responsabili dei programmi petroliferi del governo che vivono fuori dal Paese, di avere organizzato il golpe. Gli Erdimi hanno risposto alle accuse prendendo le distanze dai fatti. Subito dopo il tentato golpe il governo ha lanciato una vasta offensiva contro postazioni ribelli al confine con il Sudan, ritenendo che i miliziani si stessero organizzando per rovesciare il presidente. Il fatto che i ribelli ciadiani abbiano le proprie basi operative nelle aree montagnose al confine con il Sudan ha creato tensioni nei rapporti tra i due Paesi fino a spingerli sull'orlo di una guerra civile, poi scongiurata grazie alla mediazione dell'Unione africana e agli appelli della comunità internazionale. Ma è soprattutto la ferrea volontà di Déby di rimanere al comando ad aver gettato il Paese sull'orlo della guerra civile. Arrivato al potere con un colpo di Stato nel 1990, Déby è stato già eletto due volte (1996 e 2001) alla massima carica istituzionale, ma nel 2005 è riuscito a far cambiare la Costituzione in modo da cancellare il limite dei due mandati presidenziali. Questa scelta ha esacerbato il clima politico già teso, convincendo opposizione e gruppi della società civile a opporsi con determinazione allo svolgimento delle elezioni e spingendo un numero sempre maggiore di soldati e di ufficiali (compresi alcuni suoi parenti stretti) a disertare l'esercito per andare a unirsi ai gruppi ribelli attivi nel Paese. A partire dal dicembre 2005 diversi gruppi ribelli ciadiani - tra questi molti appartenenti alla stessa comunità Zaghawa del presidente, scontenti della gestione autoritaria del potere - si sono fusi nel Fronte unito per il cambiamento (Fuc), al comando di Mahamat Nour. Mentre il coordinamento dei partiti per la difesa della Costituzione, lanciava un appello per boicottare le elezioni previste in maggio, denunciando l'incostituzionalità della candidatura del presidente uscente, in pochi giorni i ribelli conquistavano diverse città nella parte orientale del Paese.

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E si è passati alla guerra aperta, partita ancora una volta dal confine orientale dove i nemici del regime avrebbero ottenuto basi logistiche, sostegno finanziario e copertura politica dal governo di Khartoum, muovendosi poi dal Darfur per sferrare attacchi nella regione più orientale del Ciad. Dopo mesi di tensioni, il 13 aprile i ribelli del Fuc sono arrivati alle porte di N'Djamena, decisi a sferrare l'attacco finale al potere di Déby per cercare di rovesciarlo prima delle elezioni. Dopo due ore di duri combattimenti i miliziani sono stati respinti, ma sul terreno sono rimasti almeno 300 morti. Déby si è trovato isolato, senza aiuti dai Paesi vicini (ha trovato sostegno solo nella Francia di stanza in Ciad con 1.200 soldati), mentre la comunità internazionale si è limitata a condannare verbalmente gli attacchi dei ribelli e l'Unione africana ha deciso di mandare in Ciad una missione diplomatica per fare luce sulle accuse lanciate dallo stesso Déby al Sudan. Intanto il 27 aprile il governo e la Banca mondiale hanno firmato un accordo che mette fine alla disputa sull'impiego delle entrate petrolifere del Paese e permette la ripresa dei finanziamenti internazionali: il ministro delle Finanze Abbas Mahamat Tolli ha garantito che il 70% delle entrate saranno impiegate in programmi di sviluppo e lotta alla povertà. Alla fine del 2005 la Banca mondiale aveva ordinato il congelamento dei conti bancari ciadiani a Londra dopo che Déby aveva fatto votare in Parlamento una modifica alla legge sui redditi petroliferi, annunciando il riarmo dell'esercito attraverso la destinazione delle entrate petrolifere alla Difesa, contravvenendo agli impegni che prevedevano l'investimento delle entrate nei settori dell'Educazione e Sanità. Nonostante la decisione delle opposizioni di boicottare lo scrutinio e la nuova offensiva dei ribelli, l'organizzazione delle presidenziali è proseguita, benché a competere con Déby fossero rimasti solo quattro candidati, tutti conosciuti per la loro lealtà al regime. Le consultazioni sono terminate con la vittoria scontata di Déby rieletto per la terza volta (15 maggio) con il 77,53% dei voti. L'opposizione, guidata all'ex presidente Lol Mahamat Choua, non ha riconosciuto il risultato. La tensione con il Sudan, nonostante la riconciliazione di inizio agosto in occasione del Vertice della francofonia, è salita di nuovo alle stelle dopo il raid compiuto dall'Unione delle forze per la democrazia e lo sviluppo (Ufdd, alleanza guidata da Mahamat Nouri, un ciadiano di etnia Gorane che ha lasciato l'incarico di ambasciatore in Arabia Saudita per unirsi ai ribelli, e da Acheikh Ibn Oumar, un ex ministro di origine araba) nel Sud-Est del Ciad a fine ottobre e alla fine di novembre la capitale N'Djamena si preparava a un possibile nuovo attacco dei ribelli dell'Est, tornati all'offensiva. La rinnovata attività dei ribelli ha messo nuovamente in discussione la stabilità del regime. A livello diplomatico, oltre alle consuete accuse contro il Sudan, sul banco degli imputati è finita anche l'Arabia Saudita, colpevole di voler esportare la propria visione di "islamismo militante". All'inizio di novembre si sono verificati scontri anche nelle regioni di Salamat e Ouaddai, nel Sud-Est del Paese, tra tribù arabe e non arabe. Migliaia di persone sono state costrette a lasciare le loro case. Il governo ha proclamato lo stato d'emergenza e ha accusato il Sudan di voler esportare il conflitto del Darfur oltre confine: nei primi dieci giorni di novembre sono morte almeno trecento persone. La composizione etnica del Ciad orientale e del Darfur è la stessa e finora gli attacchi dei janjaweed, le milizie arabe sudanesi, hanno costretto più di cinquantamila ciadiani ad abbandonare le loro terre. Questa milizia araba attacca le popolazioni nere del Sudan e approfitta delle incursioni dei ribelli ciadiani, collegati ai janjaweed, per conquistare nuovi territori e mettere sotto pressione Déby.

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Il 14 maggio si sono tenute le elezioni presidenziali nelle isole Comore. Fino al 2002 le Comore erano una Repubblica federale islamica, poi sono diventate Unione delle Comore (che comprende le isole di Gran Comore, Anjouan e Mohéli) con governi autonomi nelle tre isole e un governo unico dell'Unione. La popolazione è di religione musulmana e solo il 2% cattolica. L'arcipelago ha conosciuto molti golpe - 18 in 25 anni di indipendenza -, l'ultimo dei quali nell'aprile del 1999 ad opera del colonnello Azali Assoumani presidente uscente dell'Unione. La guerra civile scoppiata nel 1997, che ha visto le isole di Mohéli e Anjouan tentare la via della secessione, si è conclusa solo nel 2001. Le elezioni di quest'anno erano dunque tanto più importanti per verificare la consistenza degli accordi di pace, che da cinque anni tengono insieme la federazione. Il trattato di pace prevede che ogni isola sia semiautonoma e abbia un proprio presidente. A questi va aggiunto il capo di Stato dell'Unione federale, scelto a rotazione da una delle tre isole. Al primo turno delle presidenziali federali gli abitanti dell'isola di Anjouan hanno scelto i tre candidati, che il 14 maggio sono stati votati al secondo turno da tutta l'Unione: Ibrahim Halidi, ex ministro degli Interni sostenuto da Assoumani; il leader religioso Ahmed Abdallah Sambi, soprannominato significativamente l'"Ayatollah"; e Mohammed Djaanfari, ex ufficiale dell'aeronautica francese durante il periodo coloniale. Le consultazioni che si sono svolte in un clima calmo sono terminate con la vittoria dell'islamista moderato Ahmed Abdallah Sambi che ha ottenuto il 58,27% dei voti contro il 28,08% di Halidi e il 13,72% di Djaanfari.

Inizialmente previste per il 9 aprile, le elezioni legislative e presidenziali nella Repubblica democratica del Congo (Rdc) sono state rinviate per motivi organizzativi al 18 giugno. Con il voto dovrebbe concludersi la transizione politica cominciata nel 2003, dopo la firma degli accordi di pace che hanno messo fine a cinque anni di guerra civile che aveva visto coinvolti da un lato la Namibia, l'Angola e lo Zimbabwe, alleati delle forze governative, e dall'altro il Ruanda, l'Uganda e il Burundi, schierati a fianco dei gruppi ribelli . Il periodo di transizione è stato contrassegnato da diverse crisi e soprattutto dal proseguimento delle violenze nell'Est del Paese che non hanno però impedito di arrivare all'approvazione di una nuova Costituzione e della legge elettorale. Ai primi di marzo l'esercito congolese, appoggiato dai Caschi blu dell'Onu, ha lanciato un'offensiva nel Sud Kivu contro i ribelli delle Forze democratiche di liberazione del Ruanda (Fdlr), distruggendo tre loro campi. I ribelli hutu ruandesi, presenti nel Paese da undici anni, sono accusati di aver partecipato al genocidio del 1994 in Ruanda. L'intensificazione delle operazioni militari non è stata accompagnata da un efficace sforzo diplomatico per procedere con il disarmo e il rimpatrio dei ribelli, sanciti dagli accordi di Roma. Kinshasa, dopo averli armati nel corso della guerra civile, non è più disposta a sostenere un'alleanza che, con la firma degli accordi di pace, è diventata scomoda. A peggiorare la situazione è arrivata la notizia dell'arresto, in Germania, di Ignace Murwanashyaka, ritenuto il leader delle Fdlr e firmatario degli accordi di Roma, fermato in attesa di valutare una richiesta di estradizione ruandese per crimini di guerra. Di fatto negli ultimi mesi le Fdlr si sono divise, tanto che molti contingenti vagano per la regione senza riconoscere alcun capo, dandosi ai saccheggi, tanto che neanche la Monuc riesce più a identificare un leader credibile per proseguire le trattative. A rendere più tesa la situazione all'avvicinarsi del voto, il 19 maggio, dopo indagini durate mesi, la polizia congolese ha arrestato 32 stranieri (19 sudafricani, 10 nigeriani e 3 statunitensi), ufficialmente in Congo per portare avanti diversi programmi di sicurezza, in collaborazione con le autorità locali: l'accusa è di aver preparato un colpo di Stato ai danni del presidente Joseph Kabila. Il voto è stato fatto nuovamente slittare ed è stato fissato per il 30 luglio, che sarà ricordata come la giornata delle prime elezioni libere e multipartitiche dal 1960. Durante la campagna elettorale non sono mancati scontri tra le varie fazioni politiche ma il voto, secondo la Monuc, si è svolto in modo pacifico.

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Tuttavia, mentre si procedeva allo spoglio, sono cominciate le prime critiche da parte di fazioni politiche dell'opposizione che hanno protestato per supposti brogli. In particolare, molti dei 33 candidati hanno accusato Kabila di aver "comprato" alcuni voti e di aver commesso delle irregolarità nel distribuire le schede elettorali. Ci sono volute ben tre settimane per terminare il conteggio e solo il 20 agosto sono stati resi noti i risultati: Kabila ha vinto il primo turno con il 44,81% delle preferenze, seguito dal vicepresidente Jean-Pierre Bemba, leader del Movimento per la liberazione del Congo (Mlc), gruppo ribelle convertitosi in partito politico, con il 20,03% dei consensi. Poco prima della proclamazione dei risultati, si è verificato uno scontro a fuoco nel centro di Kinshasa tra i due candidati al ballottaggio. Dopo i disordini, quattro televisioni, tre delle quali appartenenti a Bemba, sono state oscurate con l'accusa di incitare all'odio e alla violenza. A Kinshasa Bemba ha ricevuto molti più voti di Kabila, risultato vittorioso, invece, nell'Est. Nella città di Mbuji-Mayi, nel centro del Paese, roccaforte di Etienne Tshisekedi, leader dell'Unione per la democrazia e il progresso sociale (Udps) che ha boicottato le elezioni, si sono registrati disordini nei seggi elettorali. Bemba è tra i candidati che hanno chiesto una revisione dei risultati, lamentando irregolarità nel conteggio delle schede. Il segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan è intervenuto ricordando che le elezioni sono state una pietra miliare nel processo di pace del Congo - dopo 46 anni i cittadini hanno potuto votare liberamente il loro presidente - e ha invitato i partiti politici ad accettare i risultati finali. In vista del nuovo appuntamento elettorale, il rappresentante di Annan per la regione dei Grandi Laghi, William Lacy Swing, ha incontrato i delegati del Pprd (Partito del popolo per la ricostruzione e la democrazia) e dell'Mlc, i partiti di Kabila e Bemba: si è decisa la creazione di una commissione mista e due sottocommissioni, incaricate di far luce sulle violenze seguite al voto e definire le regole di condotta per la campagna elettorale. Il 29 ottobre si è tenuto il ballottaggio terminato con la vittoria del presidente uscente Joseph Kabila, che ha ottenuto il 58,5% dei voti contro il 41,5% del rivale Bemba, che ha subito reclamato la vittoria denunciando brogli elettorali. Mentre Bemba poteva contare solo su un sostegno localizzato in alcune province, Kabila ha invece potuto fare affidamento su un sostegno diffuso in tutto il Paese, ma soprattutto sull'appoggio del leader lumumbista Antoine Gizenga, che al primo turno aveva raccolto intorno al 13% delle preferenze. Gli osservatori internazionali hanno valutato positivamente le elezioni e affermato che eventuali brogli localizzati non avrebbero avuto influenza sul risultato finale.

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Il processo di pace in Costa d'Avorio procede, anche se lentamente. A sostenerlo è il Gruppo di lavoro internazionale (Gti), creato nel 2005 dall'Onu per seguire la transizione nel Paese in vista delle elezioni del 30 ottobre: ne fanno parte rappresentanti di Onu, Unione europea, Unione africana, Fondo monetario internazionale, Banca mondiale, Benin, Ghana, Guinea, Niger, Nigeria, Francia, Gran Bretagna e Usa. Le elezioni politiche di ottobre avrebbero dovuto porre fine alla crisi iniziata nel 2002 con un tentato golpe che ha spaccato in due il Paese. Dal settembre 2002 il Nord è controllato dalle Forze nuove (Fn), i militari ribelli che sotto la guida di Guillaume Soro hanno tentato di rovesciare il presidente Laurent Gbagbo con un colpo di Stato; il Sud è invece sotto il controllo dell'esercito governativo, e in mezzo si trovano i 10.000 soldati neutrali divisi tra i francesi dell'operazione Licorne e i Caschi blu dell'Onuci, impegnati a far rispettare il cessate il fuoco. Nel 2003 governo e ribelli hanno sottoscritto un accordo di pace a Marcoussis che ha portato alla formazione di un governo di riconciliazione nazionale. Gli accordi di pace di Accra del 2004 hanno poi stabilito un piano di disarmo per i ribelli e l'avvio di una serie di riforme sociali e politiche da parte del governo. Questi impegni non sono stati rispettati a causa degli scontri avvenuti nel novembre dello stesso anno. Uguale destino hanno avuto gli accordi di Pretoria dell'aprile 2005 che avevano fissato per l'ottobre successivo le elezioni presidenziali, mai avvenute. L'anno si è aperto con una serie di manifestazioni ad Abidjan (cinque i morti) promosse dai sostenitori del presidente Gbagbo contro la comunità internazionale. I manifestanti contestavano la decisione del Gti di non prorogare il mandato dell'Assemblea nazionale. Il Fronte popolare ivoriano (Fpi) di Gbagbo si è ritirato dal governo di transizione, in cui sono presenti anche i ribelli delle Fn, governo guidato da Charles Konan Banny e formato alla fine del 2005 per condurre il Paese alle presidenziali. Gbagbo, sfidando la decisione del Gti, ha deciso di prorogare ugualmente il mandato dell'Assemblea e il presidente nigeriano Olusegun Obasanjo ha cercato di mediare per ricucire i rapporti tra Banny e Gbagbo. Quest'ultimo non è disposto a rinunciare alle sue prerogative: si considera il presidente legittimo e accusa Banny di essere stato imposto dalla comunità internazionale. In questa situazione è diventato sempre più difficile per il premier procedere al disarmo dei ribelli, condizione indispensabile per organizzare le elezioni. Dopo una serie di incontri tra il presidente, il primo ministro, i leader dell'opposizione Alassane Ouattara (leader del Raggruppamento dei repubblicani, rientrato nel Paese dopo tre anni di esilio in Francia, è accusato da Gbagbo di essere l'ispiratore della ribellione delle Fn nel settembre 2002; la candidatura di Ouattara, musulmano del Nord, alle presidenziali del 2000 era stata esclusa per "nazionalità dubbia") e Henri Konan Bédié e il capo dei ribelli delle Forze nuove (Fn), Guillame Soro, per cercare di mettere fine alla crisi del Paese (temi dibattuti: il disarmo dei ribelli e la convocazione di nuove elezioni), è stato dato l'annuncio dell'inizio, il 18 maggio, del programma di disarmo e del processo di identificazione e registrazione degli aventi diritto al voto. Proprio attorno a questa operazione è sorto il contenzioso sui milioni di abitanti della Costa d'Avorio settentrionale che hanno genitori provenienti dai vicini Mali e Burkina Faso. Giunti nel Paese durante il periodo d'oro, per lavorare nelle piantagioni di cacao e caffè, sono considerati cittadini inferiori da buona parte degli ivoriani. E i ribelli, almeno a parole, hanno preso le armi per difenderne i diritti. Il 20 luglio i Giovani patrioti, sostenitori del presidente Gbagbo, hanno paralizzato Abidjan con dei posti di blocco per protestare contro il processo d'identificazione della popolazione, considerato "un preludio ai brogli elettorali" (3 morti). Gbagbo vuole evitare che la cittadinanza sia concessa agli "stranieri", immigrati nel Paese da decenni e ormai ivoriani a tutti gli effetti, considerati vicini ai ribelli delle Fn. Poiché i principali protagonisti della crisi ivoriana non sono riusciti a trovare un accordo sul censimento della popolazione e sul disarmo dei ribelli, le presidenziali sono state nuovamente rinviate. Alla crisi in atto si è sommata una nuova crisi quando, in settembre, sei persone sono morte e oltre 9.000 sono rimaste intossicate dall'esalazione di prodotti chimici scaricati da una nave panamense, noleggiata dal gruppo olandese Trafigura Beheer Bv (specializzata nel commercio internazionale di petrolio e metalli di base), nelle discariche pubbliche di Abidjan. Accusato di negligenza il governo di Banny ha presentato le dimissioni, ma il presidente Gbagbo ha incaricato ancora Banny di formare il nuovo esecutivo.

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Dopo le elezioni legislative del 2005, il presidente dell'Egitto Hosni Mubarak aveva promesso l'avvio di una transizione democratica che prevedeva, tra l'altro, l'abolizione dello stato d'emergenza, in vigore da più di 25 anni, cioè dal giorno dell'omicidio di Anwar Sadat, freddato da estremisti islamici. Tuttavia dopo l'attentato suicida di Dahab (24 aprile) che ha causato la morte di 19 persone, il Parlamento lo ha riconfermato per altri due anni per motivi di sicurezza (1° maggio). La debole opposizione parlamentare si è battuta con forza contro la proroga dello stato d'emergenza. Il partito Wafd ha dichiarato che è tempo di concedere più libertà ai cittadini e i Fratelli musulmani hanno sottolineato che la Costituzione prevede già le norme necessarie a combattere il terrorismo. Parallelamente alla proroga dello stato d'emergenza si è intensificata la repressione contro giornalisti, giudici e professori universitari. L'attentato di Dahab insieme a quelli di Taba del 2004 e di Sharm el-Sheik nel 2005, che causarono rispettivamente 40 e 90 vittime, hanno scosso profondamente l'opinione pubblica egiziana e minacciato quella che pare l'unica reale ricchezza del Paese: il turismo. Il vero obiettivo della rinascita del terrorismo in Egitto però sembra essere uno solo: il presidente Mubarak, salito al potere nel 1981 dopo l'omicidio di Sadat, che per la prima volta dopo 25 anni di governo è apparso davvero in difficoltà. L'Egitto, da quando è governato da Mubarak, ha sempre tenuto una linea filoccidentale, reprimendo brutalmente ogni forma di opposizione interna. In particolare quella più forte e radicata tra la popolazione: i Fratelli musulmani. Negli ultimi anni però la situazione ha cominciato a sfuggirgli di mano: i problemi sono nati quando gli Stati Uniti hanno iniziato a fare pressioni sull'alleato perché avviasse delle riforme democratiche. A quel punto, il presidente egiziano si è dovuto aprire a tenui riforme di facciata che sono sfociate in una riforma costituzionale grazie alla quale, per la prima volta, le elezioni presidenziali non sono più state con un unico candidato. A settembre 2005, le elezioni hanno confermato la vittoria di Mubarak, ma hanno mostrato al mondo il volto brutale del regime: brogli evidenti, pestaggi e assassini ai seggi elettorali e così via. Ma soprattutto hanno dimostrato come un partito ufficialmente fuorilegge (dal 1981), come i Fratelli musulmani, sia la reale prima forza politica del Paese. Il regime repressivo si regge sul pacchetto di leggi speciali che ora Mubarak vorrebbe trasformare in misure antiterrorismo in modo da presentare la decisione all'estero come la fine dello stato d'emergenza e nello stesso tempo permettere al governo di mantenere un controllo assoluto sulla situazione. In questo clima gli attentati finiscono per dar ragione al presidente egiziano. Non pochi commentatori mediorientali vedono il ritorno del terrore in Egitto come una fortuna per Mubarak, in quanto la tensione gli permette di mantenere lo stato di polizia. Diversamente è difficile spiegare perché mai il governo Mubarak abbia rilasciato (11 aprile) 950 miliziani del gruppo Jamaa Islamiya, ritenuto responsabile di aver pianificato ed eseguito l'attentato a Sadat. La legislazione di emergenza limita le libertà civili, consentendo arresti arbitrari. Secondo le organizzazioni in difesa dei diritti dell'uomo, oltre diecimila persone sarebbero detenute senza processo nelle carceri egiziane. Fortemente criticata da tutta l'opposizione, che reclama la sua abrogazione, la legge di emergenza è servita soprattutto a soffocare ogni forma di contestazione politica e sociale. Il 15 maggio la polizia egiziana è intervenuta per reprimere la manifestazione che il movimento d'opposizione Kifaya aveva indetto al Cairo per chiedere la fine dello stato d'emergenza, le dimissioni del presidente e la scarcerazione dei detenuti politici. Al fianco di Kifaya si sono schierati anche i sostenitori dei Fratelli musulmani che hanno aderito alla protesta anche per sottolineare la propria estraneità agli attentati nel Sinai. Alla protesta si sono uniti anche i magistrati, che dal luglio 2005 lottano uniti sotto la sigla del Judge's Club, per un Egitto democratico e una magistratura indipendente. Le autorità hanno tolto l'immunità ad alcuni dei loro più noti esponenti, mentre la polizia ha attaccato diversi loro raduni, arrestando 52 persone nella sola ultima settimana di aprile.

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L'11-12 marzo i rappresentanti di Etiopia ed Eritrea si sono incontrati a Londra, sbloccando la delimitazione del confine da parte della Commissione internazionale (ferma dal 2003), principale ostacolo alla firma degli accordi di pace. L'accordo giunto dopo mesi di tensioni tra i due vicini ha riaperto la porta alla firma di un trattato per mettere fine allo stato di guerra che dura ormai dal 1998. Nonostante il conflitto vero e proprio sia durato fino al 2000 (provocando più di 70.000 morti), le trattative si sono arenate nel 2003 perché i lavori della Commissione internazionale, che avrebbe dovuto tracciare la nuova frontiera, non furono riconosciuti dal governo etiope, che si oppose alla decisione di assegnare il conteso Triangolo di Badme all'Eritrea. Da allora le trattative si sono bloccate a causa dell'ostruzionismo di Addis Abeba e della rigida posizione del governo eritreo, che ha rifiutato ulteriori trattative e preteso invece il rispetto totale delle conclusioni della Commissione. Dal canto suo l'Eritrea (nel frattempo ritenuta responsabile, da una commissione istituita all'Aja, di violazione del diritto internazionale per l'attacco all'Etiopia del 1998, non riconducibile ad azioni di difesa) ha ordinato l'espulsione dei peacekeepers dell'Onu di nazionalità, europea, russa e americana. Quest'estate Asmara ha ordinato inoltre l'espulsione di numerose Ong presenti sul territorio e di membri delle Nazioni Unite accusati di aver facilitato la fuga di giovani eritrei dal Paese. E questo nonostante l'Eritrea sia un Paese ormai allo stremo, sconvolto dalla siccità come tutto il Corno d'Africa e da una ormai endemica mancanza di cibo, cui si aggiungono una totale assenza di democrazia e libertà di stampa e la deriva ormai del tutto autoritaria del regime al potere. Pur in questo contesto, il governo ha proseguito nell'opera dell'autoisolamento internazionale: così ad esempio l'8 marzo il governo eritreo ha espulso il numero due dell'ambasciata italiana all'Asmara Ludovico Serra, dopo averlo fermato e trattenuto a lungo a Massaua, dove il diplomatico si era recato per assicurare la tutela di alcuni connazionali ai quali erano stati espropriati beni ed immobili. Le tensioni con l'Etiopia sono cresciute di pari passo con il coinvolgimento di Addis Abeba nel conflitto somalo. Dall'Etiopia infatti è in corso una vera e propria battaglia contro i gruppi islamici della Somalia. Causa della tensione fra i due Paesi è il controllo della regione etiope dell'Ogaden, a maggioranza somala. Benché lo abbia ripetutamente smentito, non si può escludere la possibilità che l'Eritrea stia finanziando invece le Corti islamiche, principali nemiche del governo etiope di Meles Zenawi. Intanto l'Etiopia continua ad essere uno dei Paesi più poveri al mondo e le inondazioni che l'hanno colpita nel corso dell'estate non hanno fatto altro che peggiorare uno stato di cose già molto critico. Anche sotto il profilo dei diritti umani la situazione è preoccupante. Molti giornalisti e leader dell'opposizione sono stati tratti in arresto senza un processo. Si sospetta, inoltre, che alle ultime elezioni ci siano stati brogli che avrebbero assicurato la vittoria a Zenawi. A gennaio ad Addis Abeba si sono verificati numerosi attacchi dinamitardi a hotel ed edifici pubblici, mentre il 7 marzo quattro persone sono rimaste ferite in seguito a un'esplosione avvenuta nella parte Sud della capitale, seguita poco dopo da un'altra esplosione. Dal maggio 2005, quando in Etiopia si tennero elezioni politiche, che gli oppositori hanno sempre bollato come truccate, scontri e disordini hanno causato oltre ottanta morti in tutto il Paese, specie nella capitale. Per quelle proteste sono state incriminate per alto tradimento e genocidio 131 persone, tra cui i dirigenti della Coalizione per l'unità e la democrazia, principale forza di opposizione. Agli inizi di marzo è ripreso il processo contro un centinaio di persone accusate di alto tradimento per aver cercato di rovesciare il governo di Zenawi dopo le elezioni del 2005. Il Partito della coalizione per l'unità e la democrazia (Cudp), principale partito dell'opposizione (i cui leader ora si trovano in carcere accusati di alto tradimento, insurrezione armata e tentato genocidio contro i tigrini, l'etnia del primo ministro), e la comunità internazionale hanno accusato il governo di aver messo in piedi un processo politico e di aver vinto le elezioni grazie a brogli e irregolarità (tra giugno e novembre 2005 un centinaio di persone erano morte durante le manifestazioni di protesta). Il 27 marzo un bus che stava viaggiando su una delle arterie principali che uniscono la periferia Sud al centro di Addis Abeba è esploso e contemporaneamente, nel quartiere popolare di Kera, un'esplosione ha colpito un taxi collettivo, senza provocare feriti gravi. Nel pomeriggio altre tre esplosioni hanno sconvolto la capitale. Il governo etiope ha accusato l'Eritrea di supportare i gruppi armati indipendentisti (in particolare l'Ormia Liberation Front, Olf) nella preparazione degli attentati effettuati, secondo Zenawi, coordinando e mobilitando esponenti della Cudp e dell'Olf. Dal canto suo l'Olf ha ribadito di "rifiutare il terrorismo come mezzo di lotta", mentre la Cudp che da sempre dichiara di perseguire l'obiettivo di un cambio di governo pacifico, continua a contestare la vittoria elettorale governativa del 15 maggio 2005 e accusa Zenawi di strumentalizzare queste esplosioni per dimostrare la pericolosità dell'opposizione, giustificando così agli occhi della comunità internazionale la repressione del dissenso politico e la soppressione di parte della stampa indipendente nel Paese. A metà novembre Zenawi ha comunicato al Parlamento che l'esercito era pronto a un eventuale conflitto con le Corti islamiche somale. Se da una parte Zenawi ha accusato le Corti di destabilizzare la regione e di voler abbattere il governo somalo, legalmente riconosciuto, di stanza a Baidoa, le Corti hanno risposto accusando l'Etiopia di essere il principale ostacolo al raggiungimento di un accordo con le istituzioni somale. Zenawi ha anche chiesto al Parlamento di pronunciarsi sulla crisi, chiedendo nello stesso tempo per il governo una delega in bianco per gestire la questione. Una richiesta che i parlamentari dell'opposizione hanno subito denunciato come una sorta di dichiarazione di guerra mascherata alla Somalia. Zenawi ha anche attaccato l'Eritrea, accusandola di fornire illegalmente armi alle Corti. Un'accusa confermata da un rapporto dell'Onu, il quale ha però evidenziato come Addis Abeba si comporti allo stesso modo quando si tratta di sostenere il governo di Baidoa.

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Il governo del Gambia ha annunciato di aver sventato un colpo di Stato militare, guidato dal capo dell'esercito Mbure Cam, mentre il presidente Yayah Jammeh si trovava in Mauritania (22 marzo). Il presidente Jammeh, leader dell'Alleanza patriottica per il riorientamento e la costruzione (Aprc), è stato riconfermato nel suo incarico aggiudicandosi il 67,33% dei consensi contro il 26,60% del suo principale rivale, Ousaimou Darboe (22 settembre).

In Guinea il presidente Lansana Conté, da tempo malato, a seguito dell'aggravarsi delle sue condizioni di salute, è stato trasferito in un ospedale di Ginevra per essere curato (17 marzo). Salito al potere con un colpo di Stato nell'aprile 1984, Conté è stato poi eletto per tre volte alla presidenza della Guinea, l'ultima delle quali nel 2003, con una percentuale di consensi del 95,25%. Negli ultimi mesi, sindacati e partiti di opposizione hanno lanciato campagne di mobilitazione per un cambiamento di regime e la destituzione del presidente giudicato incapace di guidare il Paese. Intanto tra i suoi ministri e collaboratori si è aperta una lotta per il potere, soprattutto tra tre esponenti dell'esercito: il capo di Stato maggiore Kerfalla Camara, il suo vice Arafan Camara e il ministro della Difesa Kandet Touré. L'esecutivo è diviso in clan che si fronteggiano mentre, accanto ai politici, stanno emergendo anche figure di uomini d'affari, un ex giocatore di calcio e il direttore della lotteria nazionale, pronti a contendersi il potere. L'8 giugno uno sciopero generale ha paralizzato Conakry e le principali città del Paese: gli studenti sono scesi in piazza per protestare contro la chiusura delle scuole e il rinvio degli esami di maturità; negli scontri con la polizia sono morte 18 persone.

La Liberia ha ottenuto l'estradizione di Charles Taylor dalla Nigeria (29 marzo), Stato in cui l'ex dittatore viveva in esilio dal 2003, in base all'accordo di pace che nel suo Paese pose fine a una guerra civile durata quattordici anni. La presidente liberiana Ellen Johnson Sirleaf, eletta nell'ottobre 2005 nelle prime elezioni presidenziali del dopoguerra, ha annunciato che Taylor sarà consegnato al Tribunale speciale per i crimini di guerra di Freetown, in Sierra Leone, dove sarà processato per i crimini commessi durante la guerra civile in Liberia e Sierra Leone. Nel 1989 Taylor, a capo dei ribelli del Fronte patriottico nazionale, lanciò un attacco per rovesciare il governo dell'allora presidente Samuel Doe. La guerra civile provocò migliaia di morti. L'avvento al potere di Taylor (1997) significò per la Liberia l'inizio di un nuovo regime del terrore, utilizzato per mettere a tacere gli oppositori, e di un'altra guerra civile, questa volta contro il Lurd (Liberiani uniti per la riconciliazione e la democrazia). Per combattere i ribelli del Lurd, Taylor non esitò a reclutare bambini; inoltre, appoggiò nella vicina Sierra Leone il Ruf, il Fronte rivoluzionario unito, in cambio di diamanti. Di quest'ultima accusa dovrà rispondere di fronte alla Corte internazionale per i crimini di guerra istituita appunto in Sierra Leone. Taylor fu infine sconfitto dal Lurd, ma riuscì a negoziare con l'Onu il proprio esilio.

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Nella seconda metà di febbraio la Libia è stata scenario di duri scontri, soprattutto a Bengasi, innescati dalla vicenda delle vignette satiriche su Maometto pubblicate in Europa. Le manifestazioni di protesta sono sfociate prima in atti di vandalismo e poi in un vero e proprio assalto contro gli uffici del Consolato italiano. La polizia libica ha represso la rivolta provocando la morte di 14 persone. È poi risultato che tra i manifestanti un largo numero erano immigrati palestinesi, egiziani e sudanesi. Nei giorni successivi il presidente libico Muhammar al-Gheddafi ha attribuito la colpa degli scontri a un diffuso odio contro l'Italia risalente ai tempi del colonialismo e delle conseguenti questioni irrisolte. In realtà la vicenda, costata peraltro il posto ai responsabili degli Interni e della Sicurezza, si è innestata su fattori di politica interna. Prima di tutto al centro della contesa c'è il regime stesso di Gheddafi, che cerca equilibri rinnovati per mantenere il controllo su un Paese comunque complesso, alternando aperture occidentali anche piuttosto radicali (come la rinuncia totale e quasi improvvisa alle armi di distruzione di massa), a scelte africane ad atteggiamenti panarabi e islamisti. In questo contesto è probabile che le manifestazioni di febbraio abbiano avuto il via libera dallo stesso regime, con l'intenzione di dare una valvola di sfogo alla rabbia popolare, di fare pressione sulle nazioni occidentali, ergendosi a difensore della religione islamica. Allo stesso tempo il fatto che gli scontri siano avvenuti a Bengasi, dove sono tradizionalmente più forti le opposizioni sia realista sia islamista, fa pensare ad azioni sviluppatesi in opposizione al regime. È proprio nei confronti degli islamisti che Gheddafi nutre i maggiori timori e deve essere più prudente, e segno di tale situazione sono sia le scelte di compromesso, come l'amnistia per detenuti legati ai Fratelli musulmani e comunque agli islamisti, sia il tentativo di spostare le ragioni della protesta antioccidentale e del contenzioso con l'Italia su posizioni nazionaliste. In particolare Gheddafi ha chiesto all'Italia la realizzazione di alcune grandi infrastrutture che sarebbero il naturale risarcimento per i danni subiti durante l'occupazione coloniale italiana. I veri problemi del regime libico restano tuttavia di natura interna. Nel tentativo di smorzare i toni dell'opposizione, alimentata in particolare dall'ideologia dei Fratelli musulmani, oltre un'ottantina di detenuti, accusati di aderire al movimento, sono stati liberati e in marzo si è attuato un consistente rimpasto di governo con la creazione di sette nuovi ministeri: Agricoltura, Trasporti, Istruzione, Patrimonio abitativo, Affari sociali, Industria ed Elettricità. Gheddafi ha nominato primo ministro Baghdadi Mahmudi, dopo che il Congresso generale dei comitati del popolo (il Parlamento) ha sfiduciato il premier riformatore Shukri Ghanem, criticato per il suo programma di liberalizzazioni economiche. Ghanem ha quindi assunto la direzione della Compagnia nazionale del petrolio. L'immagine che il leader libico vuole dare al mondo esterno è quella di un leader che intende portare il proprio Paese ad integrarsi nuovamente nello scenario internazionale. A metà marzo è stato siglato un accordo con la Francia per una collaborazione nelle ricerche sul nucleare a scopi civili.

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Il 3 dicembre si sono tenute le elezioni presidenziali in Madagascar. Marc Ravalomanana, il presidente uscente, ha cercato con ogni mezzo di farsi rieleggere. Nel 2002 si era candidato grazie al consenso ottenuto dalle Chiese, da sempre molto influenti sull'isola, e alla notevole disponibilità finanziaria proveniente dal suo monopolio dell'industria alimentare (per potersi candidare alla presidenza occorre infatti versare una cauzione di oltre 9.300 euro, una cifra enorme se si pensa che il Pil pro capite ammonta a circa 240 euro). Da quando è in carica, Ravalomanana ha rafforzato sempre più i legami con le autorità religiose ed è stato nominato vicepresidente della Chiesa riformata di Gesù Cristo, uno dei 4 elementi costitutivi del Consiglio delle Chiese cristiane, legando in modo significativo i pubblici poteri alle Chiese e garantendosi così la loro fedeltà. Ravalomanana, dunque, oltre a essere il capo di Stato, è in pratica capo della Chiesa, nonché imprenditore dal momento che dirige il gruppo agroalimentare Tiko, in espansione continua dal 1981, grazie a un ingente prestito finanziario elargito dalla Banca mondiale. Ha fatto in modo che i quadri del gruppo diventassero anche esponenti politici, facendone dei deputati o degli agenti amministrativi. Ha procurato ulteriori vantaggi al suo gruppo con l'adozione di provvedimenti legislativi da lui stesso emanati in qualità di presidente della Repubblica. Infine Ravalomanana, che è anche proprietario di una radio, di alcune emittenti televisive e di un quotidiano, ha usato la sua posizione per allargare ulteriormente il giro d'affari delle sue società diversificandone le attività. L'economia del Paese continua ad essere arretrata perché lo sviluppo promosso dal presidente ha giovato solo al suo entourage. Appena iniziata la campagna elettorale 11 dei 14 candidati alle presidenziali hanno denunciato, durante una riunione con i rappresentanti dei Paesi donatori e diplomatici stranieri, irregolarità nel processo elettorale: ritardi nella consegna dei certificati elettorali, anomalie procedurali e intimidazioni. Dal canto suo Ravalomanana ha minacciato apertamente gli oppositori e la stampa, sia locale che straniera. Il clima si è fatto sempre più teso. Di qui lo scontro che ha avuto luogo il 18 novembre nella base militare di Ivato, dove alcuni soldati delle truppe regolari si sono ammutinati sotto la guida del generale Andrianafidisoa, noto come "Fidy", chiedendo le dimissioni di Ravalomanana (un soldato è morto). Le consultazioni sono terminate con la vittoria di Ravalomanana che ha ottenuto il 61,23% dei consensi contro il 9,20% di Roland Ratsiraka, nipote dell'ex presidente Didier.

Dal 19 al 24 gennaio la capitale del Mali, Bamako, ha ospitato il VI Forum sociale mondiale, il primo ospitato in Africa, cui hanno partecipato i rappresentanti di 213 Paesi e più di 300 associazioni della società civile maliana. La nota positiva riguarda la presenza massiccia di africani, divenuti la maggioranza dei partecipanti per la prima volta dal 2001, e l'arrivo a Bamako di numerose associazioni provenienti da tutti i Paesi dell'Africa occidentale. Tema centrale dell'incontro, che si è concluso però senza una dichiarazione finale, è stata la cancellazione del debito estero dei Paesi in via di sviluppo. Nell'anno si è tenuto un secondo incontro in Kenya, a Nairobi. L'evento è nato nel 1999 come risposta al Forum economico mondiale, la riunione dei Paesi più ricchi del mondo che si svolge ogni anno a Davos (25 gennaio).

Il 25 giugno in Mauritania gli elettori hanno approvato con un referendum la nuova Costituzione del Paese che dovrebbe porre fine alla transizione e ripristinare la democrazia. Il colonnello Ely Ould Mohammed Vall, leader della giunta militare che nell'agosto 2005 ha deposto il presidente Maaouiya Ould Taya, ha promesso di restituire il potere ai civili e di organizzare elezioni presidenziali nel marzo 2007. Intanto il 19 novembre si sono tenute le elezioni parlamentari, a cui si sono presentati 28 partiti politici. La campagna elettorale si è svolta senza incidenti e le consultazioni sono terminate con la vittoria della Coalizione delle forze per il cambiamento democratico (Cfcd), un'alleanza di otto ex partiti dell'opposizione che ha ottenuto la maggioranza relativa dei seggi, 41 su 95 (3 dicembre). Sono stati quindi avviati i negoziati per formare un governo di coalizione. Se tutto andrà come previsto, a marzo 2007 si terranno le presidenziali, e la giunta militare potrà cedere il potere, come più volte promesso da Vall che, per rendere la transizione ancora più trasparente, ha garantito che nessun membro dell'attuale giunta si candiderà alle elezioni. Per la prima volta nessun candidato è stato sostenuto con fondi statali anche se alcuni aspiranti deputati hanno denunciato la presenza di troppi candidati indipendenti su cui punterebbero i militari per far arrivare al potere uomini a loro fedeli. D'altronde, la scoperta di giacimenti petroliferi nell'oasi di Chinguetti ha dato una forte accelerata anche alla competizione politica, perché controllare il Parlamento significherà anche controllare buona parte dei proventi derivanti dall'oro nero.

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In Marocco continua il trend positivo della politica di apertura, riforma e pacificazione del sovrano marocchino Mohammed VI. Di qui una serie di scarcerazioni: la prima nel mese di gennaio quando in occasione della festività religiosa del sacrificio dell'agnello, il re ha firmato la grazia per 1.059 persone recluse nelle carceri marocchine; la seconda con cui ha liberato 200 detenuti saharawi accusati in prevalenza di manifestazioni non autorizzate e violenze contro pubblici ufficiali (26 marzo). Nel suo discorso alla nazione del 10 gennaio il sovrano ha chiesto ufficialmente scusa per i quarant'anni di abusi dei diritti umani compiuti nel suo Paese e denunciati in un dossier della Commissione per la riconciliazione e la verità (Ier, l'"Istanza equità e riconciliazione", istituita dal re nel novembre 2003 per indagare sui crimini commessi durante il regno di Hassan II). Secondo il documento diffuso dalla Commissione, dal 1956, anno dell'indipendenza, fino al 1999, furono iscritte nella lista degli scomparsi 592 persone e di queste 322 furono uccise da esponenti delle forze dell'ordine in scontri e manifestazioni di protesta. Altre 174 morirono mentre erano in stato di detenzione arbitraria. La Commissione ha anche confermato almeno 9.779 casi di abusi dei diritti umani perpetrati negli ultimi decenni. Secondo le associazioni di diritti umani i casi di morte e di violazione sono molto più numerosi, ma le scelte di re Mohammed VI sono un segnale più che positivo. Resta in sospeso la questione del Sahara occidentale, l'autoproclamata Repubblica Saharawi. Rabat ha compiuto gesti di apertura verso il riconoscimento della violazione dei diritti umani negli anni passati e con interventi a favore degli attuali detenuti politici, ma non mancano anche nuove chiusure e azioni repressive. Ad agosto il ministero dell'Interno ha annunciato di aver smantellato una rete terroristica, Ansar el Mehdi, attiva in diverse città del Paese. Secondo le autorità i suoi membri stavano preparando un attentato ancora più grave di quello del 16 maggio 2003 che causò 45 morti a Casablanca, un attentato che mirava a lanciare la jihad nel regno, attaccando interessi stranieri e personalità di spicco marocchine. Tra gli arrestati nell'operazione antiterrorismo ci sono stati anche alcuni soldati, poliziotti e gendarmi. D'altro canto è facile che i discorsi estremisti possano trovare terreno fertile anche tra i soldati che vivono con salari da fame e sottomessi a una disciplina spesso ingiusta.

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In Nigeria proseguono le azioni di protesta del Movimento per l'emancipazione del Delta del Niger (Mend). I ribelli chiedono che i proventi delle risorse petrolifere siano meglio utilizzati per promuovere lo sviluppo locale e non vengano più dirottati verso altre regioni o verso i conti correnti privati di leader politici. Il Mend, composto da membri di etnia ijaws, ha il forte sostegno della popolazione locale e anche di alcuni politici. Il timore è che la violenza nel Delta possa crescere in vista delle elezioni presidenziali del 2007. A metà gennaio un dipendente della compagnia anglo-olandese Shell è morto in un attacco a Benisede e il 24 gennaio sono morte altre nove persone nell'attacco di un commando armato a uno stabilimento dell'azienda petrolifera Agip a Port Harcourt, nel Sud del Paese. Si sono moltiplicati anche i rapimenti degli stranieri che lavorano per le multinazionali impegnate nello sfruttamento delle risorse petrolifere. Per il loro rilascio i ribelli chiedono che le società per cui lavorano gli ostaggi aiutino finanziariamente le comunità rurali della zona. Senza contare il susseguirsi delle tragedie che vedono centinaia di persone morire nelle esplosioni degli oleodotti bucati per cercare di trafugare il greggio. Sul piano strettamente politico, l'11 aprile il Partito democratico del popolo (Pdp) del presidente Olusegun Obasanjo ha presentato un emendamento alla Costituzione che permetterebbe al capo dello Stato di concorrere a un terzo mandato. La mossa ha suscitato molte proteste in varie città del Paese e in Parlamento. Molti, soprattutto settentrionali, gli preferirebbero il suo vice, Atiku Abubakar, un musulmano, che si è detto contrario all'emendamento perché si aprirebbe la strada alla dittatura. La questione è già all'ordine del giorno del dibattito politico della Federazione con effetti destabilizzanti che spiegano in parte i fatti quali rapimenti, attacchi alle installazioni petrolifere nel Sud e scontri tra cristiani e musulmani negli Stati del Nord. Anche nel Sud-Est, a Onitsha, alla fine di febbraio quasi 80 persone sono morte negli scontri religiosi: bande di cristiani hanno attaccato i musulmani per vendicare le violenze e l'incendio di alcune chiese nel Nord del Paese durante le proteste contro le vignette satiriche sul profeta Maometto. La destabilizzazione politica ed economica della Nigeria potrebbe avere conseguenze estremamente gravi non solo all'interno del Paese e della regione ma anche a livello globale, vista l'importanza strategica della produzione petrolifera nigeriana (due milioni di barili al giorno). Il Senato ha poi bocciato la modifica costituzionale (16 maggio). Pare risolta, infine, la di-sputa decennale con il Camerun per il controllo della penisola di Bakassi, ricca di giacimenti petroliferi: il governo di Abuja ha accettato di ritirare le sue truppe dopo che nel 2002 la Corte internazionale dell'Aja aveva stabilito che la penisola appartiene al Camerun.

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A 12 anni dal genocidio il Ruanda ha ritrovato la pace, ma non è certo un esempio di democrazia. La nuova Costituzione approvata nel 2003 ha istituito la Commissione nazionale per i diritti umani e la Commissione nazionale di unità e riconciliazione (Nurc), entrambe teoricamente indipendenti dal governo. La Nurc ha l'obiettivo di combattere le divisioni e promuovere l'unità tra i ruandesi, ma non ha lo scopo di far luce sul genocidio e la guerra civile. Ufficialmente il regime del presidente Paul Kagame si impegna su tutti i fronti per combattere la discriminazione ed il razzismo che condussero al genocidio, ma la violazione della libertà d'espressione non fa che alimentare la rabbia, il rancore e la frustrazione della società civile. Non mancano casi di persone sparite misteriosamente dopo aver osato opporsi al regime, e di processi orchestrati per sbarazzarsi di persone scomode. Promuovere la riconciliazione comporta il divieto di parlare di tutsi e di hutu, perché questo potrebbe alimentare nuove tensioni, secondo la logica ufficiale del governo dominato dai collaboratori tutsi di Kagame. A questo scopo diverse leggi limitano la libertà di espressione e di associazione, per lottare contro l'ideologia genocidaria, la discriminazione e il divisionismo. La persecuzione della Lega ruandese per la promozione dei diritti umani, accusata di divisionismo, ne è un esempio. La Lega, i cui membri erano in maggioranza hutu, dava fastidio al governo perché troppo critica nei suoi confronti.

Da 15 anni la Somalia è sprofondata in uno stato di anarchia. Con la nomina, nel 2004, di un governo e di un Parlamento di transizione, gli osservatori internazionali pensavano che la situazione stesse per stabilizzarsi. Invece tutto è nuovamente precipitato. Alla fine di gennaio, il presidente di transizione Abdallahi Yusuf Ahmed ha annunciato che, dopo mesi di discussioni, le fazioni rivali all'interno del governo avevano raggiunto un accordo per convocare la prima sessione del Parlamento, che si è così riunito per la prima volta il 26 febbraio a Baidoa. La situazione a Mogadiscio infatti, dove proseguivano gli scontri tra fazioni rivali, era considerata ancora troppo pericolosa. In febbraio, nella capitale, un gruppo di signori della guerra e alcuni ministri si sono uniti a formare l'Alleanza per la restaurazione della pace e contro il terrorismo (Arpct), costituita per fronteggiare la crescente influenza delle Corti islamiche, accusate di essere finanziate da Al Qaeda e di dare rifugio a integralisti islamici provenienti da altri Paesi. Dal canto loro gli islamici tre anni fa si sono organizzati nell'Unione delle Corti islamiche (poi ribattezzata Somali Islamic Courts Congress, Sicc), una rete di 11 Corti creata da alcuni uomini d'affari somali stanchi di vivere e lavorare in un Paese dove regna l'anarchia. Ufficialmente le Corti hanno come obiettivo la restaurazione dell'ordine attraverso l'imposizione della legge islamica. Ciò ha messo in allarme gli Stati Uniti, che non vedono di buon occhio la possibile nascita di uno Stato islamico governato dai fondamentalisti e da possibili infiltrazioni di guerriglieri di Al Qaeda e che quindi hanno deciso di sostenere l'Arpct. D'altro canto dopo l'11 settembre e dopo il rovesciamento dei talebani in Afghanistan, l'attenzione degli Usa si è spostata sulla Somalia, considerata una delle principali basi per il reclutamento e l'addestramento di terroristi islamici. Dal 2003 è attiva a Gibuti la Combined Joint Task Force, una missione militare americana che conta 1.800 unità, e che opera in sette Paesi africani circostanti, Somalia compresa. Compito principale della missione è proprio la lotta al terrorismo, sia tramite operazioni militari che attraverso l'assistenza alla popolazione civile. Sul campo si sono moltiplicati gli scontri tra l'Arpct e le milizie delle Corti islamiche. In marzo i combattimenti a Mogadiscio, i peggiori degli ultimi dieci anni, hanno causato decine di vittime e si sono concentrati intorno al piccolo scalo aereo di Easley e al porto di El Maan, i due centri attraverso i quali arrivano merci, armi e persone. Molti somali sono inoltre fuggiti verso il Kenya, dove sono stati ospitati nel campo delle Nazioni Unite di Dadaab.

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Paradossalmente gli scontri più pesanti nella storia recente della città sono avvenuti poco dopo la riunificazione delle istituzioni di transizione, riunitesi per la prima volta in territorio somalo alla fine di febbraio. Le trattative tra l'Arpct e le Corti islamiche non sono mai decollate, mentre il presidente somalo Yusuf ha accusato apertamente gli Usa di sostenere l'Arpct, contribuendo così a destabilizzare il già fragile quadro politico somalo. Il quadro si è ulteriormente complicato con l'intervento dell'Etiopia, tradizionale nemico della Somalia e alleato degli Usa, che mal tollererebbe uno Stato islamico alle porte di casa. Il 5 giugno, dopo quattro mesi di combattimenti contro l'Arpct e più di 300 morti, le milizie dei tribunali islamici hanno ottenuto il controllo di Mogadiscio, dirigendosi poi verso la città di Jowhar, 90 km a nord della capitale, punto strategicamente importante per il controllo del Paese, che hanno conquistato il 14 giugno. Con la conquista di Mogadiscio, gli islamisti si sono imposti come una forza politica nazionale di primo piano e quindi è diventato chiaro che il successo o il fallimento di ogni iniziativa di pace appoggiata dall'Europa e dal Kenya non poteva prescindere dal coinvolgimento delle Corti sempre rifiutato dai sostenitori dell'iniziativa di pace. D'altro canto negli ultimi anni gli islamisti si sono dimostrati l'unico movimento politico somalo ad avere un progetto per la ricostruzione dello Stato. Così come Hamas in Palestina gli islamisti hanno conquistato legittimità e crescenti consensi tra la popolazione perché sono stati gli unici in grado di fornire servizi sociali e un minimo di sicurezza in assenza di un governo. Gli altri movimenti politici danno voce solo a interessi ristretti e corrotti e sono stati screditati dal comportamento violento dei loro leader. La conquista di Mogadiscio ha evidenziato ancora una volta il fallimento della politica antiterrorismo degli Usa che con la guerra ha contribuito a rafforzare proprio i movimenti islamici più radicali che avrebbe voluto annientare. La popolazione di Mogadiscio stremata da 15 anni di anarchia, desiderosa di vedere ritornare legge e ordine nelle strade, ha appoggiato il movimento islamico. La vittoria delle Corti è stata riconosciuta anche dal primo ministro Ali Mohamed Ghedi che ha fatto sapere di voler intavolare trattative con le Corti (paradossalmente, infatti, la sconfitta dei signori della guerra potrebbe favorire le istituzioni somale perché le Corti potrebbero riportare l'ordine nella capitale) e ha destituito quattro signori della guerra dal suo governo. Tra loro, due figure di primo piano negli equilibri politico-militari di Mogadiscio: il ministro della Sicurezza Mohammed Qanyare Afrah, e il ministro del Commercio, Muse Sudi Yalahow, che durante gli scontri hanno perso il controllo delle proprie roccaforti. Dopo la presa di Mogadiscio le milizie islamiche hanno esteso il loro controllo al Nord del Paese concludendo una serie di accordi con i capi tradizionali locali. Di fronte a questo stato di cose, l'Etiopia ha schierato l'esercito lungo il confine: subito dopo il leader degli islamisti, Sheikh Sharif Sheikh Ahmed, ha accusato Addis Abeba di aver condotto operazioni in territorio somalo mentre migliaia di persone hanno partecipato a una manifestazione a Mogadiscio contro il possibile invio nel Paese di una missione delle Nazioni Unite (16 giugno). Il 22 giugno in un vertice a Khartoum il presidente Yusuf e le Corti islamiche hanno concluso un accordo di cessate il fuoco e riconoscimento reciproco. L'accordo però non è stato rispettato e gli islamisti hanno proseguito il loro attacco, conquistando un distretto dopo l'altro. Il 25 giugno lo sceicco estremista Hassan Dahir Aweys, ricercato dagli Usa, è stato nominato a dirigere l'Unione delle Shura delle Corti islamiche, un organismo consultativo. Gli Stati Uniti lo hanno inserito nella lista dei ricercati per terrorismo perché secondo l'intelligence americana negli anni Novanta dirigeva Al-Itihaad Al-Islamiya, un gruppo islamico che operava in Etiopia e che gli Usa ritengono avere collegamenti con Al Qaeda.

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Hassan nega tali supposizioni americane e sostiene di essere solo un erudito musulmano, che crede nella sharia islamica, perché questa offrirebbe la soluzione ai problemi della Somalia. Il 10 luglio l'ultimo signore della guerra ancor attivo a Mogadiscio, Abdi Hassan Awal Qeydiid, si è arreso alle Corti islamiche dopo due giorni di combattimenti in cui sono morte almeno cento persone. Il 20 luglio il governo etiope, a cui il governo di transizione somalo ha chiesto aiuto, ha inviato almeno 5.000 soldati a Baidoa e il leader degli islamisti Dahir Aweys, ha invitato la popolazione alla guerra santa contro l'Etiopia. Il 21 agosto il primo ministro Ali Mohamed Ghedi ha presentato il nuovo governo, mettendo fine a una crisi che aveva portato alle dimissioni di molti ministri contrari alla linea dura con gli islamisti e all'ingresso delle truppe etiopiche nel Paese. Il 5 settembre il governo di transizione e le Corti islamiche hanno firmato a Khartoum un accordo di pace provvisorio che prevede la creazione di una forza di polizia e un esercito nazionale. Le parti si sono anche impegnate a non sostenere i signori della guerra e a non combattersi né a riarmarsi accettando di "coesistere pacificamente con i Paesi vicini e di chiedere agli Stati della regione di rispettare l'integrità territoriale della Somalia". Proprio nel momento in cui i colloqui di pace tra autorità e Corti islamiche facevano pensare a una soluzione pacifica delle divergenze, due autobomba sono esplose a Baidoa al passaggio del convoglio presidenziale provocando la morte di undici persone, tra cui un fratello del presidente (18 settembre). Il portavoce della presidenza somala ha attribuito la paternità dell'attentato all'Unione delle Corti islamiche. A fine settembre gli islamisti hanno assunto il controllo anche di Chisimaio, nel Sud del Paese. Intanto si sono fatti sempre più tesi i rapporti con l'Etiopia finché il 21 dicembre Dahir Aweys ha dichiarato che la Somalia è "in stato di guerra", incitando tutta la popolazione a lottare contro l'Etiopia. Si sono moltiplicati gli scontri armati a sud di Baidoa dove, insieme all'esercito etiope, le truppe governative si sono opposte alle forze dei tribunali islamici. Nuovi scontri sono scoppiati anche nella città di Dinsoor, circa 120 km a sud di Baidoa, controllata dagli islamisti dall'inizio di dicembre. Gli scontri di Dinsoor sarebbero la prova che le forze regolari della Somalia starebbero riconquistando terreno dopo i rovesci inflitti negli ultimi mesi. Ma la battaglia tra i due campi è proseguita anche su due altri fronti: il primo a Idale (60 km a sud di Baidoa) e a Deynunay (una trentina di km dalla capitale transitoria).

La Sierra Leone emerge da una guerra civile protrattasi per oltre 10 anni, il cui impatto sulle condizioni di vita della popolazione è risultato devastante. La guerra ha lasciato il segno soprattutto per le gravissime atrocità perpetrate contro i civili, vere vittime del conflitto. Donne e bambini sono stati oggetto di orribili violenze e abusi, migliaia di giovanissimi sono stati arruolati come bambini-soldato, drogati e costretti a uccidere, a mutilare e a commettere abusi sessuali. Il 90% delle bambine rapite dai ribelli sono state violentate, molte di esse sono poi state uccise o ridotte in schiavitù. La guerra civile ha distrutto le infrastrutture sanitarie del Paese: il tasso di mortalità infantile, fino al 2005 il più alto al mondo, è determinato principalmente dalla diffusione di malaria, diarrea e infezioni. Oggi, nonostante i progressi in termini di stabilità politica interna e di assistenza umanitaria, le condizioni di vita restano molto gravi e la popolazione non ha accesso ai servizi di base. In attesa delle elezioni presidenziali previste per il 2007, il regime di Ahmad Tejan Kabbah è ormai logorato dalle difficoltà di risollevare un Paese allo stremo, mentre la mancanza di prospettive economiche sta spostando buona parte dell'elettorato verso l'Apc (All People's Congress), che nelle elezioni locali del 2004 ha recuperato sensibilmente sul Slpp (Sierra Leone People's Party), il partito del presidente. Un brutto colpo per Kabbah, che nel 2002 era stato eletto con il 70% delle preferenze. L'Apc rimane l'unico partito di opposizione degno di tale nome, visto che il braccio politico del Ruf (Revolutionary United Front) si è sfaldato dopo aver ricevuto alle elezioni del 2002 appena l'1% dei voti. È necessario anche risolvere la questione dei criminali di guerra: dopo che i vertici del Ruf sono morti in circostanze più o meno sospette, restano da processare alcuni ministri in servizio a Freetown durante il conflitto, che però vengono visti come eroi nazionali dalla popolazione, per il solo fatto di essere riusciti a piegare la ribellione del Ruf.

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Nel discorso alla nazione di febbraio, il presidente del Sudafrica Thabo Mbeki ha annunciato un cambiamento nella questione della redistribuzione delle terre in mano alla minoranza bianca. Finora si è seguito il principio del "venditore volontario, compratore volontario", principio che non ha funzionato: nel 1994 l'obiettivo era di restituire ai neri il 30% delle terre, ma solo il 3% dei terreni ha cambiato destinazione. Il presidente dunque ha proposto l'esproprio forzato in cambio di indennizzi. Tuttavia l'Alleanza democratica, principale partito dell'opposizione, e il sindacato degli agricoltori si sono dichiarati contrari a questo principio. D'altro canto se la riforma agraria non sarà attuata il rischio è che anche il Sudafrica si trasformi in un nuovo Zimbabwe, Paese in cui i contadini hanno scelto l'occupazione violenta delle terre. Intanto benché i reati violenti, toccato il culmine negli anni Novanta, siano ora in costante declino, il rischio di essere uccisi rimane comunque 12 volte più alto che negli Usa e 50 volte più alto che in Europa occidentale. Resta poi il problema dell'Aids. Su 47 milioni di abitanti più di 5 milioni sono sieropositivi. Qualche anno fa il presidente Mbeki aveva messo in discussione l'esistenza dell'Hiv oltre all'efficacia dei farmaci antiretrovirali, con il risultato che l'unico Paese dell'Africa subsahariana dotato delle risorse necessarie per combattere la malattia non ha fatto quasi nulla. Ora fortunatamente il Sudafrica può vantare uno dei più vasti programmi terapeutici del mondo, con la distribuzione di antiretrovirali a centinaia di migliaia di persone: una vittoria per Nelson Mandela e per le associazioni di volontariato che hanno costretto il governo a cambiare direzione. Ciononostante il presidente Mbeki non ha ritrattato le sue idee sull'Aids e, invece di mettersi a capo del movimento, ha scelto il silenzio sull'argomento mentre nessun membro del governo e nessun esponente dell'Anc (African National Congress) ha osato contrastarlo apertamente. Sotto il profilo economico, pur avendo ereditato uno Stato sull'orlo della bancarotta, l'Anc dal 1994 ha registrato indubbi successi riuscendo a stabilizzare le entrate fiscali e ad attirare gli investitori. Ma la crescita non è ancora sufficiente a far calare il tasso di disoccupazione (attualmente al 40%). E soprattutto si allarga il divario tra ricchi e poveri. Benché il governo abbia in programma di fornire elettricità, acqua pulita e una casa a milioni di persone, all'inizio dell'anno il malcontento è sfociato in sommosse in alcune township. Tuttavia dopo 12 anni di governo, l'Anc gode ancora di un ampio sostegno e controlla i due terzi dei seggi in Parlamento, le nove province del Paese e tutte le grandi città, fatta eccezione per Città del Capo, in mano all'opposizione. L'Anc deve fare i conti con un deficit di democrazia. Le commissioni parlamentari non discutono mai le decisioni del governo, limitandosi a ratificarle; la televisione pubblica ha messo al bando alcuni commentatori politici dalle sue trasmissioni mentre i giudici lamentano che le riforme proposte ridurranno la loro indipendenza. Intanto all'interno del partito, la pretesa del vicepresidente dell'Anc Jacob Zuma di succedere a Mbeki, che secondo la Costituzione deve dimettersi dopo il secondo mandato, ha scatenato una feroce lotta per il potere.

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Il 5 maggio il governo e la fazione di maggioranza del Movimento per la liberazione del Sudan (Sla), il principale gruppo ribelle del Darfur, hanno firmato ad Abuja, in Nigeria, un accordo di pace proposto dall'Unione africana. La fazione di minoranza guidata da Mohammed al-Nur e i ribelli del Movimento per la giustizia e l'uguaglianza (Justice and Equality Movement, Jem) hanno invece respinto l'intesa, considerata insufficiente, e hanno chiesto la mediazione delle Nazioni Unite. Troppe secondo i non firmatari le questioni irrisolte, a cominciare dalla destinazione degli introiti petroliferi, che il governo di Khartoum non è intenzionato a cedere. Per proseguire con lo status del Darfur, che i ribelli vorrebbero modificare unificando le tre regioni in cui è attualmente diviso. L'accordo prevede un referendum sulla suddivisione amministrativa del Darfur, il disarmo delle milizie filo-governative janjaweed e l'integrazione dei ribelli nell'esercito e l'entrata in Parlamento dei rappresentanti del Sudan Liberation Movement, il braccio politico del gruppo ribelle. L'ultimo punto è stato quello più controverso. Il 15 giugno il procuratore generale della Corte penale internazionale (Cpi) Luis Moreno-Ocampo, ha presentato al Consiglio di sicurezza dell'Onu il terzo rapporto sul Darfur in cui conclude che nella regione sono stati commessi stupri e massacri su vasta scala. Il procuratore ha anche evidenziato che i meccanismi giudiziari messi in atto in Sudan per perseguire questi crimini sono inadeguati. Intanto il governo di unità nazionale nato nel 2005 non sembra godere di buona salute. In base all'accordo di pace Nord-Sud del gennaio 2005, il Congresso nazionale (Ncp), il partito islamista del presidente e capo del governo Ahmed Omar Hassan el-Bashir, e l'Splm (Movimento per la liberazione popolare del Sudan) devono convivere all'interno di un governo centrale di unità nazionale e in tutti i rami dell'amministrazione pubblica per almeno sei anni di transizione, tempo previsto per restaurare le istituzioni del Paese e permettere al Sud di scegliere liberamente, attraverso un referendum, se rimanere parte del Sudan o se andare per la propria strada. A un anno dalla formazione del governo, però, il bilancio è deludente: manca innanzitutto la volontà politica del partito del presidente di far funzionare davvero le cose. L'accordo di pace è molto dettagliato per tutto ciò che riguarda le modalità e i tempi di attuazione dei singoli protocolli che lo compongono. Ad esempio, nei primi sei mesi dalla firma avrebbero dovuto essere formate diverse commissioni, previste per adattare le istituzioni esistenti allo spirito del trattato: solo poche hanno visto la luce. Il governo di unità nazionale poi si è nettamente spaccato sulla questione dell'invio o meno di Caschi blu in Darfur. Una questione irrisolta nonostante una risoluzione del Consiglio di sicurezza che il 31 agosto ha approvato la missione. Il presidente el-Bashir ha ripetutamente ribadito che il Sudan non accetterà i peacekeepers Onu nella sua regione occidentale. Una posizione non condivisa dall'Splm, gli ex ribelli meridionali ora partner nel governo di unità nazionale. Una spaccatura netta che si è evidenziata in settembre quando l'Splm ha annunciato ufficialmente il suo appoggio alla missione Onu in Darfur. Ma al di là del Darfur, tutto il quadro politico appare instabile. All'inizio di settembre le opposizioni sono scese in piazza per protestare contro un aumento improvviso nei prezzi di benzina, farina e altri beni primari. Il rincaro dei prezzi è stato deciso senza nessuna consultazione, non solo con l'opposizione, ma neanche con l'Splm. Sebbene autorizzati, i manifestanti sono stati caricati dalla polizia e in molti sono stati arrestati. I problemi aperti sono ancora molti: la spartizione dei proventi del petrolio meridionale, ad esempio, oppure lo status dell'area di Abyei, territorio ricco di greggio al confine tra Nord e Sud, il cui problema aveva richiesto in sede negoziale un protocollo a parte. Nulla è stato fatto finora e il rapporto finale della commissione confinaria, presentato parecchi mesi fa, è rimasto lettera morta. È poi necessario approvare al più presto la legge per il multipartitismo e la legge elettorale per dar tempo ai partiti di prepararsi per le elezioni generali che, secondo il trattato, dovrebbero tenersi durante il terzo anno del periodo transitorio.

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La Tanzania è considerata uno dei rari esempi di successo dell'Africa orientale. Un successo pur relativo, se si considera che il Paese è ancora povero e disorganizzato, con un'assistenza sanitaria quasi inesistente nelle regioni più remote e una rete stradale limitata. Ma i finanziatori internazionali, alle prese con la corruzione e la violenza che regnano in molte parti dell'Africa, sono invogliati ad aiutare uno Stato stabile e pacifico. Il presidente Jakaya Kikwete, eletto nel dicembre 2005 con l'80% dei voti, si è impegnato a ridurre la povertà. Quest'anno il Pil dovrebbe crescere del 5,8% mentre l'inflazione è sotto controllo già da tempo. Considerata la relativa assenza di corruzione alcuni donatori forniscono ormai i loro aiuti senza porre troppe condizioni. Il Chama Cha Mapinduzi (Ccm), il partito del presidente che domina la scena politica dall'indipendenza, si è impegnato a rispondere alle principali esigenze della popolazione (scuole, università, strade, ospedali), oltre a raddoppiare le forniture idriche entro il 2010 e a occuparsi della riorganizzazione dell'agricoltura, ancora prevalentemente di sussistenza.

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Un anno fa, il Togo era un Paese sull'orlo del caos. Uscito da mesi di scontri e lotte interne, seguite alla morte del presidente Gnassingbé Eyadéma e all'elezione a presidente del figlio Faure, il Paese aveva rischiato di precipitare nella guerra civile: secondo la commissione d'inchiesta locale i morti che accompagnarono la campagna elettorale e le elezioni furono quasi 200, circa 500 per l'Onu, addirittura 800 stando all'opposizione. Salito alla guida di un Paese dilaniato, prima grazie ad un blitz incostituzionale delle Forze armate e successivamente tramite elezioni, Faure Gnassingbé si era impegnato al dialogo con l'opposizione. Tuttavia, a parte la nomina a primo ministro del moderato Edem Kodjo, è stato fatto poco: i colloqui tra il Rassemblement du Peuple Togolais del presidente e l'Union des Forces du Changement, il principale partito di opposizione, sono ancora in alto mare e le modifiche unilaterali alla Costituzione, approvate subito dopo la morte di Eyadéma, non sono ancora state revocate. Qualche passo in avanti la nuova presidenza l'ha comunque fatto: dopo gli scontri dello scorso anno, gli abusi delle Forze armate sono diminuiti e le libertà politiche e di stampa hanno conosciuto un miglioramento, tuttavia non sufficiente a convincere i 37.000 rifugiati in Ghana e Benin a fare ritorno a casa. A livello economico, la situazione è ancora più drammatica: dopo un anno, l'amministrazione ha cominciato a pagare gli stipendi arretrati ai dipendenti pubblici, ma ci vorrà tempo per risanare i conti e riavviare l'economia. L'unica attività fiorente è quella del porto di Lomé, che continua a prosperare grazie soprattutto alla crisi di Abidjan. La produzione di caffè e cacao si è ridotta di un terzo rispetto al 1997, anno in cui iniziò la recessione che non si è ancora conclusa. Ugualmente, la produzione di cotone e fosfati è più che dimezzata. La ripresa del dialogo con l'Ue per lo scongelamento degli aiuti è fondamentale, ma la precondizione da soddisfare è la riconciliazione interna. No-nostante tutte le difficoltà, qualche segnale positivo c'è: il dialogo tra le parti continua e nella mediazione sono state coinvolte le autorità ecclesiastiche, le uniche ritenute imparziali. Il 20 agosto il governo, i partiti politici e i rappresentanti della società civile hanno quindi firmato a Lomé un accordo politico globale per mettere fine alla crisi seguita alle elezioni presidenziali del 2005, vinte da Faure Gnassingbé tra le polemiche. L'accordo prevede la formazione di un governo di unità nazionale e la convocazione delle legislative entro l'ottobre 2007. Gnassingbé, resosi conto che per rompere l'isolamento internazionale è necessario riformare il vecchio regime militare, ha nominato primo ministro un esponente dell'opposizione, Yawovi Agboyibo, un avvocato che si è battuto a lungo contro il regime di Eyadéma. Tuttavia Gilchrist Olimpio, leader del principale partito dell'opposizione, l'Unione delle forze del cambiamento (Ufc), si è rifiutato di entrare nel governo di unità nazionale perché aspirava alla carica di primo ministro.

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Il 23 febbraio il presidente dell'Uganda Yoweri Museveni, al potere dal 1986, è stato riconfermato alla guida del Paese per un terzo mandato dopo essere riuscito nell'intento di modificare la Costituzione (giugno 2005) che limitava a due i mandati presidenziali. La campagna elettorale è stata caratterizzata da alcuni gravi episodi di violenza mentre una folla immensa si è recate alle urne, tanto che, per votare, i cittadini hanno dovuto fare la fila per ore. Museveni, leader del Movimento di resistenza nazionale (Mrn), si è aggiudicato il 58,28% dei consensi contro il 37,36% del suo principale avversario, Kizza Besigye, leader del Forum per il cambiamento democratico (Fdc). Besigye, arrestato nell'ottobre 2005 e rinviato a giudizio con l'accusa di alto tradimento e stupro ha potuto partecipare al voto perché la sentenza era prevista per il 6 marzo. Gli altri tre candidati, John Ssebaana Kizito del Partito democratico, Miria Obote del partito Uganda People's Congress e l'unico indipendente Abed Bwanika, hanno ottenuto meno del 2%. I forti timori che la vittoria di Museveni, al potere già da vent'anni e ora riconfermato per altri cinque, potesse scatenare disordini anche sanguinosi nel Paese sono stati smentiti dai fatti ma l'opposizione ha denunciato una serie di brogli e intimidazioni confermate dagli osservatori dell'Ue. D'altro canto la revisione costituzionale e una campagna elettorale viziata dalla vicenda giudiziaria che ha coinvolto Besigye non appena questi aveva rimesso piede in Uganda, dopo quattro anni di esilio autoimposto, non depongono certo a favore della maturità democratica del sistema politico ugandese. Il 19 dicembre, la Corte internazionale di giustizia dell'Aja ha accusato l'esercito ugandese di crimini contro popolazioni civili durante la guerra nella Repubblica democratica del Congo (1998-2003) e ha stabilito che Kampala deve pagare una compensazione per le risorse naturali rubate. Kinshasa ha chiesto tra i 6 e i 10 miliardi di dollari. Infine dopo vent'anni di conflitto, il governo ugandese ha siglato un cessate il fuoco con i ribelli del Lra (Lord's Resistance Army) di Joseph Kony, un leader visionario che proclama di voler governare in nome di Dio e secondo i Dieci comandamenti (29 agosto). I morti causati dalla guerra con i ribelli dell'Lra sono 20.000, mentre l'80% della popolazione dei distretti settentrionali del Paese vive nei campi profughi e l'economia della regione è al collasso. L'accordo di Juba, nel Sud del Sudan, prevede il raduno dei ribelli (attivi in Uganda, Sudan e Repubblica democratica del Congo) in due località del Sudan meridionale, dove saranno protetti dal governo sudanese della regione meridionale. A quel punto, potranno continuare i colloqui di pace per giungere a una trattativa definitiva. Intanto Museveni è intervenuto per ordinare ai soldati dell'Updf (Uganda People's Defence Forces) di cessare le operazioni contro i ribelli. I membri dell'Lra sono famosi per le atrocità compiute. Secondo le Nazioni Unite circa 25.000 minori sono stati rapiti in questi anni, trasformati in bambini-soldato o in schiavi sessuali, mentre gli sfollati sarebbero almeno 1,7 milioni. Il cammino verso la definitiva pacificazione è però ancora lungo. Oltre ai problemi del disarmo e del ricollocamento dei ribelli, rimane la questione dell'immunità dei comandanti dell'Lra. Il Tribunale dell'Aja ha emesso un mandato di cattura per Kony e per quattro suoi luogotenenti (uno nel frattempo è morto). Il presidente Museveni, invece, per non rischiare che questi mandati di cattura possano arrestare il processo di pace, ha offerto un'amnistia agli uomini di Kony e ha loro assicurato che non saranno consegnati al Tribunale internazionale.

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Il 28 settembre si sono tenute nello Zambia le elezioni presidenziali terminate con la riconferma del presidente Levy Mwanawasa che si è aggiudicato il 43% dei voti contro il 27% di Michael Sata, suo principale avversario. Gli osservatori internazionali hanno dichiarato l'elezione in gran parte regolare e trasparente. Sata, tuttavia, ha accusato il presidente uscente di essere ricorso a brogli. Il Movimento per la democrazia multipartitica (Mmd) di Mwanawasa ha ottenuto 72 deputati, che in aggiunta agli otto di nomina presidenziale garantiranno la maggioranza assoluta senza necessità di coalizioni. Alla cerimonia di insediamento per il suo secondo mandato quinquennale, il capo di Stato ha invitato i suoi connazionali a "lavorare insieme" per migliorare le condizioni di vita. Lo Zambia è uno dei Paesi più poveri al mondo, al 166° posto tra i 177 Paesi dell'indice di sviluppo umano dell'Onu 2005.

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Lo Zimbabwe sta attraversando la peggiore crisi umanitaria dai tempi della sua indipendenza (1965). È qui che si registra il più drastico aumento della mortalità infantile al mondo: quasi il 50% di decessi annui in più rispetto ai livelli dei primi anni Novanta. Le radici della crisi odierna stanno in un'ampia serie di cause: l'epidemia di Hiv-Aids (il tasso di diffusione del virus nella popolazione adulta è il quarto più alto al mondo), il declino economico, siccità e inondazioni e soprattutto il regime autocratico del presidente Robert Mugabe, le cui riforme sociali hanno acuito le tensioni interne e allontanato gli investitori stranieri. Uno Stato che fino a pochi anni fa era un modello di dinamismo economico per l'intera Africa, sta attraversando una crisi che comporta il degrado dei più elementari servizi sociali. A metà maggio l'inflazione ha toccato il 1.000% e lo Stato si è visto costretto ad aumentare gli stipendi dei dipendenti pubblici del 200% per far fronte alla crisi. Gli esperti di economia concordano nell'attribuire la crisi alla politica miope portata avanti dalle autorità, unita a un embargo, imposto da Unione europea e Usa, che ha contribuito a peggiorare una situazione già disastrosa, portando l'economia sull'orlo del collasso. Di fronte alla crisi economica e all'autoritarismo del presidente Robert Mugabe, lo Zanu-Pf, la formazione politica che lo sostiene, risulta sempre più diviso, con alcune frange moderate in contatto con il Movimento per il cambiamento democratico (Mdc) di Morgan Tsvangirai.

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