Anno 2010 Festival del Cinema di Berlino Cannes Premi Oscar David di Donatello Festival internazionale del Film di Roma 67a Mostra del cinema di Venezia 23° European Film Award Danza Musica classica Musica leggera e jazz Il Festival di Sanremo

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Anno 2010 Festival del Cinema di Berlino Cannes Premi Oscar David di Donatello Festival internazionale del Film di Roma 67a Mostra del cinema di Venezia 23° European Film Award Danza Musica classica Musica leggera e jazz Il Festival di Sanremo













Anno 2010 Festival del Cinema di Berlino Cannes Premi Oscar David di Donatello Festival internazionale del Film di Roma 67a Mostra del cinema di Venezia 23° European Film Award Danza Musica classica Musica leggera e jazz Il Festival di Sanremo

Anno 2010. Cinema. Il grande successo della stagione cinematografica 2010 si chiama 3D. Grazie soprattutto al battage pubblicitario e, naturalmente, al successo del film Avatar di James Cameron, la tecnologia RealD sembra ormai diventata un must per tutte le nuove produzioni, non importa se di Fantasy o storiche o altro. Eppure la tecnologia 3D non è nuova: negli anni '80 fu introdotta sul mercato senza eccessivo successo. Ora, molto più raffinata e accattivante, sembra avere incontrato il favore del pubblico. Al contrario delle precedenti tecnologie per la proiezione stereoscopica, necessita infatti di un solo proiettore digitale. Allo spettatore è richiesto di indossare un paio di occhiali con lenti a polarizzazione circolare. Il primo film distribuito nell'attuale formato RealD Cinema fu Chicken Little - Amici per le penne nel 2005. All'epoca i cinema attrezzati per RealD erano solo un centinaio, negli Stati Uniti. Attualmente la RealD 3D dichiara di aver raggiunto il numero di 1200 sale RealD in tutto il mondo. Ma non tutto è positivo nel 2010 per l'industria cinematografica: i pesanti tagli decisi dal governo hanno colpito pesantemente il settore e gli addetti ai lavori hanno più volte pesantemente contestato il ministro della cultura Bondi. Tra i film italiani menzioniamo: Io sono l'amore di Luca Guadagnino; Happy family di Gabriele Salvatores; Genitori & figli di Giovanni Veronesi; La prima cosa bella di Paolo Virzì; Baciami ancora di Gabriele Muccino; Basilicata coast to coast di Rocco Papaleo; La nostra vita di Daniele Luchetti; Sul mare di Alessandro D'Alatri; Due vite per caso di Alessandro Aronadio; Christine Cristina di Stefania Sandrelli; Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio di Isotta Toso; Benvenuti al Sud di Luca Miniero; Cosa voglio di più di Silvio Soldini; La solitudine dei numeri primi di Saverio Costanzo; Io, loro e Lara di Carlo Verdone. Tra i film stranieri ecco invece: The wolfman di Joe Johnstone; The messenger di Oren Moverman; Cella 211 di Daniel Monzon; Life during wartime di Todd Solondz; I gatti persiani di Bahman Ghobadi; Il piccolo Nicolas e i suoi genitori di Laurent Tirard; Les Beaux Gosses di Riad Sattouf; Sunshine cleaning di Christine Jeffs; Vendicami - Vengeance di Johnnie To; Inside job di Charles Ferguson; La princesse di Montpensier di Bertrand Tavernier; Humpday di Lynn Shelton; Harry Potter e i doni della morte - Parte I di David Yates; Inception di Christopher Nolan; L'ultimo dominatore dell'aria di M. Night Shyamalan; Codice Genesi di Albert Hughes; La città verrà distrutta all'alba di Breck Eisner; The Karate kid - La leggenda continua di Harald Zwart; Green zone di Paul Greengrass; The losers di Sylvain White; Buried - Sepolto di Rodrigo Cortés; Wall street - Il denaro non dorme mai di Oliver Stone; The social network di David Finch. Tra i film di animazione ricordiamo infine: Cattivissimo me di Pierre Coffin, Chris Renaud, Sergio Pablos; Toy story 3 - La grande fuga di Lee Unkrich; Shrek e vissero felici e contenti di Mike Mitchell; Dragon trainer di Dean de Blois; Il regno di Ga'Hoole - La leggenda dei guardiani di Zack Snyder; Rapunzel - L'intreccio della torre di Nathan Greno, Byron Howard. Alice in Wonderland di Tim Burton. Questo film, tratto dai libri "Alice nel paese delle meraviglie" e "Attraverso lo specchio e quello che Alice vi trovò" di Lewis Carroll vede la protagonista (Mia Wasikowska) più adulta; un' Alice che, in fuga da un improvvisa proposta di matrimonio, si ritrova nel paese delle meraviglie dopo dieci anni dal suo primo viaggio. Scopre che le cose sono cambiate dalla sua ultima visita, ma non troppo. Rincontra personaggi della sua infanzia (lo Stregatto, la Regina Rossa e la Regina Bianca, il Cappellaio Matto.) e con loro rivivrà un mix di avventure surreali. La protagonista di Burton si scosta molto dalla classica immagine di bambina sperduta nel mondo delle meraviglie; Alice è un'eroina con una vita interiore molto attiva e questo è reso più credibile proprio perché rapportato a una giovane donna di 20 anni. Non si può considerare Alice in Wonderland un sequel e nemmeno un remake ma una completa rilettura per le nuove generazioni. Girato in solo 40 giorni miscelando diversi tipi di tecnologia (attori in carne ed ossa accanto a pupazzi, personaggi deformati dal trucco, fondali ottenuti con la tecnica dello schermo verde e oggetti confezionati con i materiali più disparati) e arricchito dal 3D aggiunto solo in postproduzione. In questo caso il 3D non è un "trucchetto" per portare la gente al cinema, è piuttosto un modo per trasportare il pubblico dentro Wonderland, dove le proporzioni e il concetto di spazio cambiano improvvisamente. Burton ha potuto ancora contare sul trasformista Jhonny Deep che ha creato un cappellaio decisamente Matto, sulla moglie Helena Bonham Carter per la perfida Regina Rossa e Anne Hathaway negli insoliti panni della Regina Bianca. Avatar di James Cameron. Eccolo finalmente il film di cui tutto il mondo ha parlato fino alla noia, la pellicola che ha avuto vent'anni di gestazione e che ha lanciato in tutti i cinema del pianeta la voglia del tridimensionale. Il film, ambientato in un lontano futuro, vede l'ex-marine Jake Sully (Sam Worthington), che ha perso l'uso delle gambe, spedito sul Pianeta Pandora, dove vivono delle creature blu, i Na'vi, che vivono in mezzo ad una natura incontaminata. Il pianeta è ricco di un prezioso minerale e Jake deve collegarsi al suo avatar Na'vi per potersi infiltrare tra gli indigeni. Jake si innamora di Neytiri (Zoe Saldana), cosa che provocherà una rivolta dei pacifici alieni contro gli occupanti. Cameron inventa la lingua Na'vi e la frase "Oel ngati kamele" "ti vedo, ti riconosco, sento una connessione spirituale con te" rappresenta il significato della vita su Pandora, dove ogni creatura è parte della natura e del pianeta stesso. Poco importa se, dopo neanche mezz'ora, tutti gli spettatori sappiano come andrà a finire la storia, sorta di moderno "Pocahontas" ambientato su un lontano immaginario pianeta: non a caso le iniziali dell'eroe " J. S. " sono le stesse di John Smith, l'eroe di quel racconto. Basta ammirare la fantasia visionaria dell'ambientazione, che da sola vale il prezzo del biglietto. Il film racconta un mondo dove l'armonia primitiva è intatta, e lo reinventa, immettendo della vegetazione e della fauna sconosciuta, per il nostro ammirato stupore. Siamo invitati a penetrare in un'altra umanità, precedente la caduta dell'Eden, ma anche in fase di contemporanea contaminazione tra corporeo e virtuale. Ci fa sognare quella nuova umanità che non osiamo neppure immaginare, perché, come ci insegna la lingua Na'vi, "vedere" non è solamente "guardare", ma anche entrare in connessone spirituale con l'ignoto. Baciami ancora di Gabriele Muccino. Gettandosi in una spericolata missione ad alto rischio e riesumando dieci anni dopo i personaggi de " L'ultimo bacio ", il suo primo clamoroso successo, Gabriele Muccino confeziona una nuovo film generazionale, questa volta centrato sui quarantenni. Ciò che emerge è un universo fatto di rimpianti, di sogni infranti, di sensi di colpa, di insoddisfazioni, che mostrano un generalizzato disastro affettivo. Il tono del racconto è segnato da una crescente amarezza perché, come afferma Carlo in quella che può essere considerata la battuta riassuntiva della storia: gli errori si pagano sempre e, si potrebbe aggiungere, la vita non fa sconti. Con una struttura maggiormente corale rispetto al capitolo originale, "Baciami ancora" è, dal punto di vista sentimentale, un racconto estremamente romanzesco, segnato da complicazioni di ogni tipo, inedite ma realistiche gelosie fra nuove compagne e figli di primo letto, tradimenti segreti e palesi, gravidanze impreviste ed imprevedibili, amicizie traballanti, seconde occasioni. Molto riuscito l'intersecarsi delle vite, delle storie, che entrano ed escono compenetrandosi in un gioco molto avvincente, forse mai come questa volta ben riuscito. La recitazione "sopra le righe", nevrotica, croce e delizia di molto cinema di Muccino, appare qui funzione e trait d'union di tutto il sapore della storia. Piace il cast, non soltanto un calderone di bravi attori e bei volti, ma un racconto armonico di caratteri e corpi che ben si intrecciano e si toccano con delicatezza. Su tutti superbo Favino, sempre più uno dei più bravi del nostro cinema, e per una volta molto azzeccato Santamaria in un ruolo che gli sta addosso come un guanto, con ottimi esiti. I film che giocano in bilico tra un sorriso ed una lacrima sono in genere quelli che si chiamano riusciti. E allora Muccino, qui come sceneggiatore prima ancora che regista, può mettere in bacheca un altro successo. Discusso e discutibile quanto si vuole, ma sempre abile nel pennellare quell'epica del quotidiano di cui si nutrono i cuori di spettatori liberi dal giogo di sapori autoriali da cinefestival. Un film che racconta grandi passioni che si esauriscono in pochi giorni e amori che non finiscono mai, pronti a rifiorire e riesplodere, anche a distanza di anni. Il cinema del regista romano non ama i mezzi toni e il chiaroscuro; è un cinema di sentimenti assoluti, di scontri, dove i dialoghi sono sempre gridati, urlati. Se "L'ultimo bacio" era il film della fuga, "Baciami ancora" è il film del ritorno. Se nel primo capitolo la tentazione era la libertà, l'imprevisto, l'avventura, la ragazzina ventenne, qui ad esercitare il fascino maggiore sono il sogno della stabilità, l'utopia della famiglia perfetta, la rivincita delle prime mogli, che appaiono assai più desiderabili delle avventure di una notte. Insomma tutto è cambiato, anche se i personaggi sono, per certi versi, uguali a se stessi: immaturi, ingenui, sognatori incapaci di affrontare la realtà e, di conseguenza, condannati alla sconfitta, fino a quella più drammatica, come accade al personaggio di Paolo, interpretato da Claudio Santamaria. Il maggior pregio del film consiste nel fatto che, pur raccontando una storia per certi versi molto prevedibile - ciò che accade alle varie coppie si può intuire facilmente - riesce ad evitare banalità e superficialità. Ancora una volta diventa naturale precipitare nella trama e appassionarsi ai destini dei vari protagonisti. A cominciare da Carlo (Stefano Accorsi) e Giulia, che ritroviamo genitori ormai separati, in balia di furiosi scontri e inconfessabili attrazioni. Basilicata coast to coast di Rocco Papaleo. Dal Tirreno allo Jonio, sulle orme di alcuni scalcagnati musicisti lucani intenzionati a partecipare al Festival del teatro-canzone di Scanzano Ionico. "Basilicata coast to coast" è il titolo dell'esordio alla regia di Rocco Papaleo, volto noto del cinema nazionale nonchè appassionato interprete del teatro-canzone, da cui viene appunto l'amico cosceneggiatore, Valter Lupo, e l'idea per questa opera prima. A cui ha dato decisivo impulso Giovanna Mezzogiorno, amica di lunga data di Papaleo, qui nei panni grunge della figlia d'un onorevole, che anziché "sfruttare" l'illustre genitore fa la precaria, sia esistenzialmente che professionalmente. Pure lei finirà per seguire i magnifici quattro: lo sciupa femmine Alessandro Gassman, l'introverso cuginetto Paolo Briguglia; il "capocomico" Papaleo che fortissimamente vuole quest'avventura e Max Gazzè, al suo esordio d'attore, che suona il basso ma non spiccica neppure una parola, mutismo frutto di una delusione d'amore. Un quartetto ben assortito che regala incontri surreali e attimi fuggenti, con un grande valore terapeutico assegnato al viaggio, arrivando alla conclusione che il viaggio stesso è la meta e non il fine. Approdo non inedito, ugualmente condivisibile: vale pure per il film, che la genuinità e la passione del Papaleo regista mantengono fresco, nostrano e generoso, senza viceversa farlo scadere a "spot" della sua terra, quella Basilicata omaggiata senza piaggeria. Poi c'è la musica, ottima, curata da Rita Marcotulli e cantata dai quattro, con l'azzeccato epilogo affidato a "Mentre dormi" di Gazzè. Per il resto, la Mezzogiorno è efficacemente acida e isterica, Gassman gigioneggia con gusto e sostanza, Briguglia fa il bravo ragazzo ma si concede un triangolo in tenda e Papaleo orchestra l'ensemble con energia, facendosi bacchettare, quando serve, dalla moglie (Michela Andreozzi, bravissima). Benvenuti al sud di Luca Maniero. Il film "Benvenuti al Sud" è la grande sorpresa della stagione: saldamente in testa al boxoffice fin dalla prima settimana di uscita. Nessuno forse di aspettava un successo così travolgente per un film divertente ma comunque non molto originale. Infatti Benvenuti al Sud è l'esplicito remake del più grande successo francese di tutti i tempi, "Giù al nord", che nel 2008 divenne oltralpe un caso nazionale. Nella traduzione italiana, molta della comicità transalpina andava perduta. Anzi, la decisione di tradurre in maniera maccheronica e (quasi) demenziale il dialetto provenzale ha nociuto molto all'opera originale. Ora naturalmente tutto risulta più naturale e comprensibile per noi italiani: probabilmente la stessa obiezione si potrebbe fare qualora questa nostra versione venisse tradotta in una qualsiasi altra lingua. Quella diretta da Dany Boon, comico vulcanico e pieno di sfumature al tempo stesso, era un'esaltazione della vita di provincia e del superamento dei pregiudizi nord-sud. Con la differenza che, in Francia, c'era un meridio- nale/provenzale che non aveva alcuna voglia di andare nel terribile nord dai "selvaggi" bretoni. Stavolta, com'era immaginabile, si rovescia tutto: Claudio Bisio è Alberto, direttore di un ufficio postale di Usmate Velate che per guadagnare punti e farsi trasferire a Milano si finge handicappato (esattamente come nel film francese, in una scena ricalco). Scoperto, viene "sbattuto" giù in Meridione per punizione: a Castellabate, nel Cilento, per precisione. Per un lombardo abitudinario e pieno di preconcetti sul Sud Italia come lui, la prospettiva di vivere almeno due anni in quei luoghi rappresenta un incubo, cui si prepara con un nuovo guardaroba di vestiti leggeri e giubbotto antiproiettile. La moglie razzista (ed evidentemente leghista: organizza un gruppo chiamato le "rondinelle") non lo vuole seguire, e così Alberto lascia moglie e figlio in Lombardia e se ne va mesto in Campania, paventando criminalità, rozzezza e fastidi vari. E all'inizio i rapporti con i sottoposti e cittadini del paesello non sono buoni: ma piuttosto velocemente le cose volgeranno al bello, si capiranno e lui sarà conquistato dalla solarità dei nuovi amici "terroni". Ma quando, ogni due settimane, torna per il week-end in Brianza, non ha il coraggio di dire la verità: la moglie lo vede finalmente come un eroe che resiste a mille violenze e angherie, perché disilluderla? Il problema nasce quando la consorte deciderà di venirlo a trovare. I nuovi amici partenopei inscenano una rappresentazione con tutti i peggiori stereotipi dei pregiudizi contro il Sud. Naturalmente tutto andrà per il verso giusto, a dimostrazione che, anche nell'Italia leghista di oggi, c'è spazio per il lieto fine. Cosa voglio di più di Silvio Soldini. La protagonista è Anna, una giovane donna "normale" che vive una vita semplice tra l'ufficio (è impiegata in uno studio legale) e l'appartamento appena comprato con il compagno Alessio (Beppe Battiston), con cui sta cominciando anche a progettare un figlio. È appagata? Forse non troppo - perché lui a sera non fa che leggere libri a letto - ma certo serena. Fino al giorno in cui Anna non incontra Domenico. Lo conosce che lui fa il cameriere per un catering, se lo ritrova davanti qualche giorno dopo, con la scusa di un coltello dimenticato, si scambiano i numeri, lei gli manda un sms e in breve finiscono per fare l'amore. Domenico, che lavora sottopagato ed è sempre a corto di quattrini, ha una moglie (Teresa Saponangelo), una figlia di 5 anni e un figlio più piccolo nato da poco, anche lui una vita mediamente banale che l'attrazione per Anna rende finalmente viva. Ma gli incontri tra i due amanti sono condizionati dalle restrizioni, dalle mancanze, dai contrattempi. Poco tempo e pochi soldi, brevi intermezzi durante la pausa pranzo oppure pomeriggi passati in un motel, quando lui dovrebbe essere in piscina a fare un corso di immersione (e poi gli tocca ricordarsi di bagnare la muta e l'accappatoio). Il tradimento è per molte persone l'unica forma di "eroismo" esistenziale e forse per questo è così diffuso e praticato. Silvio Soldini torna ad affrontare il tema delle relazioni uomo-donna con coerenza, anche se apparentemente ribaltando la prospettiva rispetto al precedente "Giorni e nuvole". In quel caso il contesto economico-sociale era evidenziato sin dall'inizio con la perdita del lavoro mentre qui emerge pian piano. L'amore al calor bianco che travolge Anna e Domenico (e con loro, anche se in maniere diverse, anche i reciproci contesti familiari) non interessa al regista e agli sceneggiatori di per sé (sarebbe una storia già ultra nota) ma contestualizzato in un mondo in cui le certezze di un tempo sono state messe in crisi. Tuttavia Soldini, che considera "Cosa voglio di più" un film di svolta nella sua carriera proprio perché affronta l'amore, da sempre il suo tema centrale, dal punto di vista schiettamente fisico e carnale, insiste molto sull'aspetto sociale: il suo intento è quello di raccontare, attraverso la storia di una coppia italiana, un ambiente preciso e in un momento storico determinato, in questo caso il precariato e l'insicurezza economica. I personaggi meglio tratteggiati sono quelli di contorno. Le famiglie dei due amanti, soprattutto i suoceri di Domenico, due napoletani che abitano al piano di sopra e interferiscono molto nella vita della coppia, la sorella di Anna che ha appena avuto un bambino, la tintoria dove lavorano sua madre e la zia. Ancora, la moglie tradita che sospetta e reagisce violentemente. E poi la descrizione di Milano, dal centro all'hinterland, sui treni dei pendolari e nei casermoni della periferia tutta uguale, che Soldini racconta, con la fotografia di Ramiro Civita, nei dettagli di una contemporanea geografia dell'anima che prosegue nella sua filmografia da un capitolo all'altro. Green Zone di Paul Greengrass. Green Zone non è un film sulla guerra in Iraq. E' un thriller ambientato in Iraq. Sebbene la trama ruoti intorno alla scoperta dell'assenza delle armi di distruzione di massa da parte di un soldato stanziato in Iraq, lo stesso il nuovo film della coppia Greegrass/Damon trova la sua vera ragione d'esistere nel modo in cui rivendica per se stesso lo statuto di genere. Questo nuovo film non pretende di insegnarci niente che non conosciamo già ma anzi si appoggia ad un finale già noto (le armi di distruzione di massa non ci sono mai state) per riscrivere le regole del cinema d'azione militare. Una pellicola muscolare e adrenalinica che, senza alcun condono di natura politica, utilizza gli stilemi tipici del cinema d'azione per raccontare come il governo americano, all'indomani dell'invasione per abbattere il regime di Saddam Hussein, fosse dunque pienamente consapevole che l'Iraq non avesse alcuna arma di distruzione di massa. Il punto di vista scelto per questa narrazione spettacolare, ma anche attenta al dettaglio, è quello di un'unità speciale dell'esercito guidato da Matt Damon che, anche in questa pellicola, si conferma come uno degli attori più dotati del cinema hollywoodiano, in grado di donare spessore e credibilità a personaggi altrimenti a rischio di diventare dei cliché. Un manipolo di soldati cui è stata affidata la missione di penetrare nei siti indicati dall'intelligence come luoghi deputati alla costruzione di quegli strumenti di sterminio che hanno consentito a Bush di guadagnare il consenso dell'opinione pubblica americana per la guerra in Iraq. All'ennesimo mancato ritrovamento di alcunché, l'ufficiale e i suoi uomini iniziano ad insospettirsi e, quando vengono intralciati nelle loro azioni da altri soldati americani, guidati direttamente da un burocrate di Washington, sono certi che si nasconda un segreto molto grave. Così, in una guerra privata e segreta tra membri dello stesso schieramento, entrambe le pattuglie iniziano a dare la caccia al generale Al Rawi: qualcuno per conoscere la sua verità, qualcun altro per fare in modo che, in una maniera o nell'altra, quello che è accaduto davvero nei rapporti antebellici intercorsi tra Stati Uniti e Iraq venga taciuto per sempre. "Green zone" non è un film facile, perché la sua qualità spettacolare, come le scene d'azione credibili e curate, potrebbero rappresentare paradossalmente un ostacolo per l'apprezzamento di una storia che è soprattutto un dramma psicologico dalla matrice personale e intima. Un soldato che crede nei valori del suo paese viene a contatto in maniera dolorosa e senza ombra di dubbio con le prove che il suo governo ha mentito pur di raggiungere lo scopo di invadere l'Iraq. La sceneggiatura ben congegnata dell'Oscar Brian Helgeland, che crea una sottile tensione derivante dalla consapevolezza che la verità nel mondo connesso può trapelare in un istante, e il sorprendente senso di realtà che viene dall'elaborata ambientazione fanno di Green Zone qualcosa di più di un thriller ben riuscito. Happy Family di Gabriele Salvatores. Dopo tre film drammatici, Salvatores torna alla commedia, genere già ampiamente praticato in passato, e firma la sua opera più divertente, a tratti decisamente comica. Insomma, in "Happy family" si ride molto, ma attraverso personaggi, meccanismi, trovate, atmosfere completamente diverse dalla tradizione italiana. La trama si svolge su un doppio binario narrativo, dove realtà ed immaginazione si intersecano e si sovrappongono. Perché la storia narrata non è che la sceneggiatura di un film scritta dall'aspirante sceneggiatore Ezio, il quale immagina l'incontro fra due famiglie milanesi agli antipodi: una ricca, tradizionalista e borghese, l'altra sciamannata, alternativa e caotica. I due nuclei familiari entrano in contatto perché i rispettivi figli, Filippo e Marta, compagni di scuola ed entrambi sedicenni, hanno deciso di sposarsi. Come nelle famiglie vere, anche in quelle di Ezio si delineano i problemi di sempre: dei rapporti coniugali sull'orlo della crisi, delle donne insoddisfatte, di anziane nonne un po' rintronate, di malattie che inaspettatamente e sinistramente compaiono, costringendo a rivedere stili di vita e comportamenti e a porre il problema della ricerca di una vita piena, in cui possano esistere anche gioia e trasgressione, non solo lavoro e denaro. Lo stesso Ezio è travolto dalla vicenda, e sembra quasi che talora gli sfugga il controllo delle sue creature, che premono per dare, alle storie che li riguardano, un andamento a loro più congeniale. Lo spettacolo, perciò, si interrompe più volte, prima di giungere alla conclusione che fin dall'inizio si era prospettata. Lo scrittore tornerà alla vita vera, ricordandoci con Groucho Marx, che, diversamente da quella rappresentata, non ha una trama ed è perciò unicamente affidata al caso. A noi spetta il compito di renderla un po' più gioiosa, se possibile. La vita, quindi, sembrerebbe più che altro essere legata al caso o alla fortuna: può andare bene così come potrebbe ridursi ad essere una perenne storia senza trama e senza nessuna sfumatura. Bellissimo sfondo del film è una Milano coloratissima di giorno (con la sua trasgressiva e divertente Chinatown) e soprattutto in bianco e nero di notte, con i fari luminosi delle auto che l'attraversano e con le luci che sottolineano, quasi fantasticamente, la sua vitalità. Così come il commento musicale è stato affidato alle nostalgiche canzoni di Simon & Garfunkel, un duo che ha segnato l'immaginario sonoro della generazione a cui appartiene Salvatores. Alla fine egli sceglierà un finale che possa risultare gradevole per il pubblico e che faccia felici i protagonisti della storia. Una sorta di sarcasmo sottile (e qui scatta il vero significato di quest'ultima opera di Salvatores) tra ciò che appartiene al mondo dell'arte scenica e della finzione che deve necessariamente avere una trama ed una conclusione e ciò che invece rappresenta la nostra vita reale che spesso non ha nè l'una nè l'altra. Il concerto di Radu Mihaileanu. All'epoca di Breznev, Andreï Filipov è il più grande direttore d'orchestra dell'Unione Sovietica e dirige la celebre Orchestra del Bolshoi. Ma viene licenziato all'apice della gloria quando si rifiuta di separarsi dai suoi musicisti ebrei, tra cui il suo migliore amico Sacha. Trent'anni dopo lavora ancora al Bolchoi, ma...come uomo delle pulizie. Una sera Andreï si trattiene fino a tardi per tirare a lustro l'ufficio del direttore e trova casualmente un fax indirizzato alla direzione del Bolshoi: è del Théâtre du Châtelet che invita l'orchestra ufficiale a suonare a Parigi. All'improvviso, Andreï ha un'idea folle: riunire i suoi vecchi amici musicisti, che come lui vivono facendo umili lavori, e portarli a Parigi, spacciandoli per l'orchestra del Bolshoi. E' l'occasione tanto attesa da tutti di potersi finalmente riprendere tutto ciò che il destino aveva loro tolto. Il regista Mihaileanu, rumeno, emigrato in Francia nel periodo cupo di Ceausescu, già autore di una notevole fatica cinematografica come "Train de vie", dimostra una capacità di sintesi tra il registro drammatico e quello comico e riesce ad esprimere la sua doppia anima culturale, l'una slava e l'altra occidentale, dimostrando che proprio dalla disarmonia e dalla contraddizione può nascere una nuova comprensione e una diversa armonia. La dissacrante e vorticosa comicità della prima parte, vera e propria avventura picaresca di un'esuberante armata Brancaleone, finisce per valorizzare al massimo, proprio per contrasto, la sorpresa finale, che non è tanto narrativa ma puramente emozionale. Stupenda la trama ma veramente stupefacente la sceneggiatura del secondo tempo. Il regista su una base musicale è riuscito con le sole immagini a fare provare emozioni uniche, commoventi e brillanti allo stesso tempo. Nell'indimenticabile finale, la musica "parla", racconta, spiega senza bisogno di parole. Ed è questo che rende il film unico e sublime. Inception di Christopher Nolan. In un mondo dove la tecnologia permette di entrare nella mente degli uomini attraverso i loro sogni, Dom Cobb è un ladro esperto, il migliore in assoluto nell'arte pericolosa di estrazione, furto di segreti preziosi dal profondo del subconscio durante il sogno, quando la mente è più vulnerabile. La rara capacità di Cobb ha fatto di lui un giocatore ambito, in questo mondo infido, di moderno spionaggio industriale, ma lo ha anche reso un latitante internazionale e gli è costato tutto ciò che ha mai amato. Ora a Cobb viene offerta una possibilità di redenzione. Un ultimo lavoro potrebbe ridargli indietro la sua vita, ma solo se riesce a compiere l'impossibile. Al posto della rapina perfetta, Cobb e il suo team di specialisti devono realizzare il contrario: il loro compito non è quello di rubare un'idea, ma di impiantarne una. Se ci riusciranno, potrebbe essere il delitto perfetto. Ma nessuna attenta pianificazione e nessuna capacità o competenza è in grado di preparare la squadra alla presenza di un pericoloso nemico che sembra prevedere ogni loro mossa. In realtà il nemico è Cobb stesso: infatti le sue paure ed impressioni si mischieranno alla realtà, mettendo in pericolo la sua intera squadra, preda dall'inappagabile e violento rimorso dei suoi ricordi. Anche se il film rischia a tratti il cerebralismo autoreferenziale, è però indubbio che il triplice salto mortale (tre sono i livelli da esplorare nell'inconscio onirico) è perfettamente riuscito. I personaggi infatti si perdono negli abissi del sogno nel sogno del sogno, lo spettatore si vede saltare da un livello temporale all'altro. Inception è al contempo una riflessione sul funzionamento della psiche, un melodramma, un film d'azione. Il tutto inserito nell'ambigua cornice di quella incapacità di distinguere tra apparenza e realtà che è propria di ogni essere umano quando, nel sonno, crea mondi tanto inesistenti quanto assolutamente reali. Il finale è la ciliegina sulla torta di una pellicola che tiene incollati in ansia dall'inizio alla fine. Si può sognare di sognare? Tutto sembra finire per il meglio ma, una volta a casa, Cobb fa girare la sua trottola come d'abitudine, per controllare di non essere all'interno di un sogno, ma viene distratto dai suoi due figli, che può finalmente riabbracciare, e vi corre incontro prima che si riesca a scoprire se questa cadrà o meno. Quindi lo spettatore non saprà mai se Cobb ha finalmente risolto i suoi problemi o se sta ancora sognando. Invictus di Clint Eastwood. Invictus è un omaggio ad un uomo, ad uno sport, ad una nazione. Il film è sostanzialmente diviso in 2 parti. La prima è la parte più politica, la seconda quella sportiva. Non un film sullo sport e nemmeno una biografia di Nelson Mandela, bensì il racconto emozionante di come i Campionati del mondo di rugby del Sudafrica del 1995 siano diventati una tappa fondamentale del percorso di riconciliazione e perdono immaginato dal presidente sudafricano per riunire, per la prima volta, una nazione divisa e lacerata da odi e rancori secolari. "Invictus" è un omaggio alla lungimiranza e al fiuto politico di Nelson Mandela per capire quanto un evento sportivo mondiale potesse diventare una sorta di occasione per rilanciare l'immagine e l'economia di una nazione in ginocchio. Un momento cruciale per riavvicinare le etnìe presenti nel paese e fare della locale squadra di rugby un simbolo, nei cui variopinti colori far riconoscere, per la prima volta, un'intera e "unica" nazione. Mentre a Damon è affidato l'elemento più fisico della storia, attraverso il personaggio del capitano della squadra di rugby che Mandela responsabilizza in prima persona, facendogli comprendere il valore e l'importanza della posta in gioco, Morgan Freeman interpreta Nelson Mandela cogliendo, del leader del movimento dei diritti civili e della lotta l'apartheid, quell'intelligenza superiore che permette ad alcune persone di guardare più lontano di altre. Il Mandela di Freeman è un grande politico, ma anche un uomo con debolezze e fragilità in grado di soverchiarlo. Una persona che non si è mai arresa e che, come dice il titolo del film, è invincibile. "Invictus" però, non è solo il titolo perfetto per un film che parla di politica, progresso umano e sport, bensì anche quello della poesia composta nel 1875 da William Ernest Henley. Una breve serie di liriche che Mandela dice lo abbiano aiutato a sopravvivere ai quasi trent'anni di reclusione in prigione e in seguito consegnate al capitano della squadra di rugby in un toccante "scambio di saggezza". Un film da vedere, per imparare cosa sia lo sguardo di un grande autore e capire dove e come nasca la politica in grado di rendere migliori le singole persone e popoli. La nostra vita di Daniele Luchetti. Come già "La prima cosa bella" di Virzì, anche "La nostra vita" è un film che non ha paura dei sentimenti: anche in questo caso tutto ruota attorno ad una morte, quanto mai tragica, quella di una giovane donna mentre dà alla luce il terzo figlio, e non mancano scene di forte commozione. La storia racconta il dolore di Claudio, il quale decide di reagire al lutto gettandosi in una forsennata corsa all'arricchimento, come se accumulare denaro fosse l'unico antidoto alla sofferenza. Con un mezzo ricatto, Claudio riesce ad ottenere il subappalto per la costruzione di una palazzina, si trasforma in piccolo imprenditore e si lancia in un'impresa azzardata, dimenticando ogni senso etico e morale, comportandosi come un qualunque padroncino, sfruttatore e inconsciamente razzista. Il personaggio diventa l'emblema e il simbolo dell'Italia di oggi: un paese privo di etica e di morale. Una nazione, esattamente come Claudio, illusa e sprovveduta, che crede di poter risolvere ogni problema con il denaro. I soldi, l'apparenza, lo status della vacanza in Costa Smeralda, i beni materiali e la frenesia dell'acquisto sono la febbre che anima Claudio e i molti come lui. Ma, ed è proprio questa una delle migliori qualità del film, Luchetti non dipinge il suo protagonista come un personaggio negativo. Anche se le scelte che Claudio compie sono risibili e a volte decisamente immorali e condannabili, emotivamente si continua a stare dalla sua parte, ammirandone la vitalità, la generosità, l'ingenuità. Luchetti costruisce un film intorno al personaggio interpretato da Elio Germano, e viene ricambiato dall'attore, che sforna un'interpretazione che gli ha fatto vincere la palma d'oro come miglior attore al Festival di Cannes. La vita di Claudio sembra perfetta, inizia a crollare quando decide di non denunciare la morte bianca che avviene nel cantiere dove lavora. Non è colpa sua se quella guardia rumena, irregolare, ubriaca, è caduta in un fosso del cantiere. Denunciare la morte di quell'uomo vorrebbe dire sospensione dei lavori, controlli della polizia e ritardi nella consegna della palazzina. Nella pellicola nessuno è punito per le colpe commesse, lo Stato è assente, le leggi in vigore non sono scritte. Il regista ci mostra tutto quello che c'è dietro "l'ufficio vendite" dei palazzi che spuntano come funghi nelle periferie delle grandi città italiane. La periferia romana era lo scenario perfetto per portare sullo schermo l'Italia degli stranieri invisibili, delle morti bianche, dei centri commerciali che sostituiscono le piazze, degli immobiliaristi improvvisati, "gli spietati" del far west italiano. Rinnegare l'anima per apparire, la ricerca della felicità si riduce all'ostentazione del benessere, correndo anche il rischio di andare oltre le proprie possibilità economiche. La sola ricetta per poter guarire questa società malata data da Luchetti è il calore e l'amore della famiglia. La pecora nera di Ascanio Celestini. La pecora nera è un film che fa male. S'inizia con un pizzico di fiducia. Ci si illude che la battuta, la parola di Ascanio Celestini, sia riuscita ad aprire un varco nella pazzia del suo personaggio. Invece più si va avanti nella vicenda, più tutto si sgretola, palesandosi allo spettatore. Nicola non lavora nel manicomio. Nicola è rinchiuso nel manicomio. Nicola sembrerebbe poter vivere un amore. Ma Nicola non è in grado di gestire nessuna passione. Nicola, in qualche modo, sembra essersi fatto carico della sua famiglia. Ma non si è accorto che la sua famiglia era solo un cumulo di macerie. E lui tra quelle macerie ci è rimasto. Ripetendo sempre ed ossessivamente le stesse cose. Le stesse battute. Le stesse parole. Nicola ha sublimato la sua pazzia nella forma di un amico immaginario: ma questo lo ha reso ancora più solo. La sua unica occasione di libertà è rappresentata dalla spesa al supermercato con la superiora, occasione per vedere Marinella, interpretata da Maya Sansa, di cui è innamorato sin dall'infanzia. Celestini si inoltra nel mondo della follia, o meglio di come veniva trattata in altri tempi a base di elettroshock e abbandono dei pazienti; ricrea una dimensione sospesa, dove grazie all'interpretazione di Giorgio Tirabassi riesce ad appassionare alle stravaganti vicende di Nicola, ragazzo di periferia marchiato sin dall'infanzia. E chissà se Nicola è così perché internato o internato perché è così. Un piccolo appunto al regista: ci sarebbe piaciuto sapere almeno qualcosa degli altri esseri chiusi in un luogo come il manicomio e non solo vedere delle ombre stagliate sul fondo. La prima cosa bella di Paolo Virzì. Paolo Virzi si conferma regista talentuoso ed encomiabile creando, in questa sua opera, una trama caratterizzata da una pregevole rifinitura stilistica nella sceneggiatura e in un perfetto livello interpretativo degli attori. Anna, che da anziana è la Sandrelli e da giovane è la sempre più brava Micaela Ramazzotti, è la grande madre da cui non si riesce mai a liberarsi: troppo bella, troppo solare, troppo provinciale. Proprio come Livorno, l'altra "madre" del film, città chioccia e spietata nel suo bisogno di incasellare ogni persona in un personaggio su cui poter ridere. Bruno (Valerio Mastrandea) cerca di lasciarsi tutto questo alle spalle, fuggendo a Milano, per coltivare i suoi bisogni di scrittore scapigliato. In realtà riesce a diventare solo un frustrato professore di italiano, infelice consumatore occasionale di droghe. Quando la sorella Valeria (Claudia Pandolfi) viene a cercarlo per avvertirlo che la madre sta morendo, non può sottrarsi al dovere di tornare a Livorno dopo tanti anni di assenza, per affrontare un passato che ha tentato inutilmente di dimenticare. Ecco allora che lo investono i ricordi dell'infanzia e della giovinezza, raccontati su un piano parallelo agli ultimi giorni di vita della madre, che ha conservato intatta, anche nella più dura malattia, quella ingenua voglia di vivere che l'aveva sempre contraddistinta, facendola "intrappolare" in un mare di guai. "La prima cosa bella" di Nicola di Bari, che Anna canta con i suoi bambini e con i figli adulti nel commovente finale, è la canzone simbolo di questa pacificazione e del riconoscimento, da adulti, di tutto ciò che abbiamo odiato e cercato di allontanare e che invece è parte della nostra identità: una famiglia sbagliata, la discriminazione a scuola, una provincia soffocante. La musica accompagna i protagonisti per tutta la durata del film, diventa il punto di unione nei momenti di maggior sconforto, quando per distrarsi dalle "pallonate in faccia" che gli arrivano nella vita, si fanno forza l'un l'altro cantando insieme dei classici della musica italiana, modo originale per metabolizzare il dolore. La prima cosa bella è un film che scuote anche gli animi più insensibili e scettici. Lo segui col fiato sospeso, pronto a sorridere o a struggerti il cuore, per le sorti dei suoi buffi, dolenti, patetici, umanissimi adorabili personaggi. Alla fine ti lascia esausto e appagato e ti vien voglia di applaudire. Le ultime 56 ore di Claudio Fracasso. La storia è quella di un colonnello che, di ritorno da una missione di pace nel Kosovo, scopre che la gran parte dei suoi commilitoni è affetta da tumori dovuti al contatto con l'uranio impoverito, senza avere a disposizione l'attrezzatura adatta. Dinanzi al silenzio colpevole delle istituzioni, il militare e un pugno di fedelissimi decidono di sequestrare il reparto di un ospedale nel quale, però, il caso ha voluto si trovino anche la moglie e la figlia di un negoziatore della polizia, disposto a tutto pur di salvare la sua famiglia. Sarà lui a dover evitare che l'ultimatum, cui fa riferimento il titolo del film, termini in un bagno di sangue, dato che i Nocs circondano già l'ospedale e sono pronti ad irrompere pur di salvare gli ostaggi. Il fatto è che in questo film di uno dei più produttivi artigiani del nostro cinema di genere c'è un po' di tutto: un budget medio-alto, ottimi momenti di azione (la rapina col successivo inseguimento tra autobus e forze dell'ordine) che poco o nulla hanno da invidiare ai loro omologhi d'oltreoceano, attori che si impegnano e che sono effettivamente capaci di dare al loro personaggio uno spessore umano (su tutti Gian Marco Tognazzi che riesce a conferire carisma al suo colonnello), al fianco di altri capaci solo di rappresentare "fisicamente" un alter ego senza dimensioni. Ci sono nel copione battute involontariamente divertenti, altre che suonano troppo scritte e poco spontanee. E c'è un sottotesto ideologico fortemente ambiguo se non apertamente schierato, evidenziato soprattutto nel finale "eroico", anche se il tema dell'uranio impoverito è sicuramente drammatico, interessante, e ancora attuale e controverso. Lungi dall'essere perfetto e soffrendo, per una stentata coralità, per la disomogeneità delle interpretazioni dei numerosi attori, "Le ultime 56 ore" segna comunque un ritorno importante del cinema italiano al thriller e al genere d'azione, con un'apertura significativa ed encomiabile ai film di denuncia. Un film non privo di difetti, di momenti di stanca e con qualche situazione francamente ridondante cui, alla fine, si può perdonare tutto grazie ad un finale sorprendente e inaspettato che dona tutta una nuova prospettiva alla trama e alla storia, commuovendo lo spettatore e, soprattutto, obbligandolo a riflettere sui temi tutt'altro che facili o scontati affrontati dalla trama. L'uomo nell'ombra di Roman Polanski. "L'uomo nell'ombra", grande successo e Orso d'argento per la migliore regia all'ultimo Festival di Berlino, si apre con una scena innocua, l'attracco di un traghetto, che già pervasa di tale assurda tensione da sembrare il perfetto preludio a due ore in cui ci ritroviamo, insieme all'ingenuo protagonista destinato a rimanere senza nome, il "ghostwriter", sempre più invischiati in questo intrigo internazionale che evoca anche la Cia. Piove, il cielo è perennemente grigio, le acque del mare limacciose e il razionalismo dello scenario, una villa-fortezza sull'isola di Martha's Vineyard, non contribuiscono certo al trionfo del bene sul male. L'adattamento cinematografico del best seller di Robert Harris (qui anche collaboratore alla sceneggiatura), con il quale Roman Polanski torna alle consuete atmosfere del thriller dopo una pausa di oltre vent'anni, è quasi una manifestazione del potere intrinseco della scrittura (e quindi della sceneggiatura cinematografica), che finisce per attirare a sé e per catturare l'incauto protagonista (e di riflesso lo spettatore). Il film di Roman Polanski tuttavia mantiene per certi versi un'impostazione maggiormente ancorata al genere di appartenenza, giocando in maniera più tradizionale con le consuetudini del thriller. Non è di certo un approccio innovativo alla materia trattata; eppure rappresenta lo stesso un gradito ritorno ai toni delle origini. Proprio come nel caso dell'ultimo Scorsese, anche Polanski con L'uomo nell'ombra riesce a confezionare un blockbuster rivolto in prevalenza al pubblico mainstream, senza però rinunciare a instillare gocce della sua poetica personale. "Nel momento in cui seppi come era morto Mac Ara avrei dovuto alzare i tacchi e andarmene" esordisce così il romanzo di Robert Harris che ha ispirato la sceneggiatura, scritta da Polanski insieme allo scrittore e giornalista britannico. Mac Ara, che almeno ha un nome, è morto annegato apparentemente caduto dal traghetto che lo riportava, a bordo di un'automobile per gli ospiti che si rivelerà una trappola, sulla terraferma. Stava scrivendo le memorie di un ex primo ministro inglese, nell'esilio mica tanto dorato di Martha's Vineyard, prigione di lusso assediata dalla pessima realtà politica contemporanea dove vivono anche la moglie dell'ex premier, donna affascinante e algida, e la sua bionda segretaria e, forse, amante. Ecco un bel quadretto, a cui si devono aggiungere dei servitori silenziosi quanto inquietanti. Ma il dramma non si consuma solo in interni, perché il ghost si lascia trascinare - e come potrebbe evitarlo - in un'indagine in cui già si intuisce chi sarà a rimetterci. Ewan McGregor e Pierce Brosnan, Olivia Williams e Kim Catrall sono i sapienti interpreti del concerto da camera, che ha un prologo e un epilogo (con un fuoricampo rivelatore) londinesi. L'ex primo ministro inglese Alan Lang vuole scrivere le sue memorie imbottite di bugie per consacrare la sua fama, il giovane ghostwriter, scrittore nell'ombra avido di verità, è forse stufo di stare anonimo. Mine vaganti di Ferzan Ozpetek. Film bello e intenso; diverte e al tempo stesso fa pensare. La sua cifra complessiva é un sovrano equilibrio, senza scivoloni o derive espressionistiche. La recitazione è convincente e controllata, e i personaggi entrano nel cuore. All'interno di una agiata famiglia meridionale il regista immette un elemento di rottura e poi sembra ritrarsi ad osservare le reazioni che, ovviamente, sconvolgono l'ipocrita routine borghese. Il rientro a casa del rampollo più giovane Tommaso, trasferitosi a Roma per studiare economia e commercio, è il momento per la famiglia di sancire ufficialmente il passaggio della gestione aziendale ai due figli maschi. Tommaso è pronto a sconvolgere i piani del pater familias dichiarando apertamente la propria omosessualità e il desiderio di seguire aspirazioni letterarie, ma durante la cena ufficiale per festeggiare il nuovo corso aziendale, viene anticipato dal fratello maggiore Antonio che, dopo tanti anni di fedele servizio agli affari di famiglia, si dichiara omosessuale prima di lui e viene per questo espulso dalla casa e dalla direzione dell'azienda. Per non distruggere definitivamente l'orgoglio del padre, già colto da un collasso al momento della rivelazione, a Tommaso non resta altro che dissimulare le proprie preferenze sessuali e assecondare momentaneamente gli oneri familiari. Ozpetec gioca sulla forza del sentimento, rendendo palese, ancor più che negli altri film, la sua filosofia sull'immortalità degli affetti, dei legami; nulla finisce, tutto ritorna se c'è amore. Un amore che elude gli schemi classici, un amore che va oltre l'esclusività e la possessività e che, finalmente, rende liberi. Prince of Persia di Mike Newell. A Hollywood la chiamano la maledizione dei videogame: nonostante la loro popolarità crescente, nessuno è riuscito a trasformarli in successi, come avvenuto invece per i fumetti. Con questo film si cerca di superare questa maledizione affidando la produzione di "Prince of Persia: Le sabbie del tempo" a Jerry Bruckheimer (l'uomo che era riuscito a trasformare un'attrazione di un parco divertimenti nella saga Pirata dei Caraibi). Il tentativo è quello di rinverdire i fasti anni '40 de "Il ladro di Bagdad" e "Le mille e una notte", reinterpretati a ritmo della playstation. Il principe Dastan si allea suo malgrado con la misteriosa Tamina per impedire che le forze del male si impossessino di un pugnale che dà il potere di riavvolgere il tempo e dominare così il mondo. Il film si basa sui personaggi e gli elementi chiave del videogioco, ma ovviamente la storia è differente, perché non è scritta per essere sviluppata da una persona con in mano un joypad. Però rimane intatto il senso di avventura e la storia d'amore tra i protagonisti, compresa quella tensione romantica e i conseguenti battibecchi tra due caratteri forti. E poi c'è il marchio distintivo di tutti i videogame della serie, ovvero i volteggi, le corse sui muri, i salti nel vuoto e le capriole di Dastan, che Mechner tentò di inserire fin dal primo gioco del 1989 ispirato dalla visione di Indiana Jones, ricalcando al computer i movimenti eseguiti dal fratello in un parco. Per eseguire le incredibili acrobazie Gyllenhaal ha messo 5 chili di muscoli e si è allenato con David Belle, l'inventore del parkour, ovvero "l'arte di superare qualsiasi ostacolo" (a mani nude), eseguendo poi sul set in prima persona quasi tutti gli stunt. A volte c'erano i cavi di protezione a sorreggerlo, poi rimossi al computer, mentre nei campi lunghi ci hanno pensato gli esperti degli effetti visivi, con l'utilizzo di una controfigura virtuale. La spettacolarità del film è garantita da un ampio utilizzo di effetti visivi, che come racconta Tom Wood "si sono concentrati nello sforzo di trasportare al cinema i panorami mastodontici del gioco, estendendo i set reali in Marocco e realizzando per intero alcune inquadrature, come quelle del tempio sotterraneo di sabbia che chiude il film. Senza dimenticare l'incredibile effetto di riavvolgimento del tempo, che Dastan userà per riparare ai propri errori, per cui è stato creato un apposito effetto digitale da Double Negativa, più avanzato del "bullet time" e in grado di ricreare una specie di scia virtuale degli attori, simile a quelle che lascia una fonte luminosa Robin Hood di Ridley Scott. "Robin Hood" presentato in pompa magna quale film d'apertura di Cannes 2010, rappresenta una variazione interessante e originale sul tema delle gesta del ribelle che ruba ai ricchi per donare ai poveri: un prequel alla sua intera storia, rivisitata però sempre in chiave leggendaria, lasciando solo uno spazio minimo alla storicità e, ovviamente, al realismo. Una pellicola dalla vocazione molto classica che percorre, a suo modo, il solco della lunga tradizione cinematografica dell'eroe portato diverse volte sullo schermo, da Errol Flynn passando per Sean Connery, fino ad arrivare a Kevin Costner. Robin Longstride è un arciere al seguito di Riccardo Cuor di Leone, che prima di tornare a casa a Londra dalla Terza Crociata, sta riconquistando alcuni castelli che gli erano stati sottratti dal Re di Francia. Robin, dopo un zuffa, sollecitato dal sovrano inglese gli comunica pubblicamente il proprio disagio per alcune gesta poco onorevoli cui è stato costretto l'esercito in Terrasanta. Messo alla gogna insieme a dei commilitoni, l'uomo di umile estrazione approfitta della morte di Riccardo per fuggire. Intercettata una pattuglia di spie francesi che hanno teso una trappola fatale al corteo che sta riportando la corona in Inghilterra, Robin è costretto a fingersi un nobile e a mantenere una promessa fatta ad un cavaliere in punto di morte. È in quel momento che il soldato inizierà, suo malgrado, ad incamminarsi verso quel destino che lo porterà a diventare Robin Hood. Impreziosito dalla presenza di Cate Blanchett e da un cast di grandi talenti eterogenei, che vanno da William Hurt a Max Von Sydow, "Robin Hood" è un film gradevole ed intelligente, animato da quella cura del dettaglio, dell'elegante gusto per il virtuosismo e il senso dell'humour caratteristiche del cinema di Ridley Scott. Pienamente apprezzabile per la sua qualità e il suo stile, "Robin Hood" lascia un unico rammarico nella possibile aspettativa nei confronti di una trama di maggiore sostanza e introspezione, radicalmente differente da quanto visto e raccontato fino ad oggi. Il ricongiungimento della coppia Ridley Scott - Russell Crowe in un contesto epico dà comunque vita ad un film d'azione spettacolare e ricco di humour, qualità ampiamente consentite dai personaggi dell'eroe incappucciato. La mano di Scott si vede chiaramente nell'uso della fotografia e nella cura della ricostruzione, ma il regista è aiutato anche dall'ottimo montaggio di Pietro Scalia che valorizza soprattutto le scene d'azione. Insomma, volevano creare qualcosa di diverso e ci sono riusciti in buona misura. E anche se la vera Leggenda inizierà dopo, basta anche solo la bella immagine alla fine della battaglia in cui vediamo, con forte controcampo, Robin con una freccia incoccata pronto a lanciare, a ricordarci il fascino leggendario dell' arciere più famoso e amato di sempre. Shutter Island di Martin Scorsese. Shutter Island è un film il cui valore sta più nelle atmosfere che sa restituire che nella coerenza e nel rigore dell'intreccio narrativo. Più nella tensione che suscita nello spettatore che negli inevitabili colpi di scena, più catartici che rivelatori. Che le cose non siano come sembra è chiaro sin dall'inizio, ma Scorsese tiene troppo occupato lo spettatore perché questi riesca a mettere subito a posto i pezzi dell'infernale puzzle. Il film è ambientato nel Masachussetts 1954 dove l'agente Teddy Daniels (Di Caprio), ancora traumatizzato dalla morte della moglie e dagli orrori visti a Dachau durante la guerra, arriva sull'isola di Shutter, al largo di Boston, sede di una prigione di massima sicurezza per criminali psicopatici, affiancato dal nuovo collega Chuck Aule. L'agente deve indagare sulla sparizione di una pericolosa paziente. Di Caprio si muove e costringe anche lo spettatore a seguirlo negli oscuri meandri del manicomio, costretto a mettere continuamente in discussione ciò che vede, in quanto i misteriosi pazienti e i sospetti esperimenti medici nei reparti segreti lo depistano e lo portano a delle improvvise tempeste dell'anima. Teddy Daniels usa la follia per negare a se stesso tutti i peccati fatti e i traumi subiti dalla vita, inscenando nella sua contorta mente un film nel film che lo vede vittima di tutto e tutti; i direttori del centro psichiatrico considerano Teddy il paziente piu pericoloso e importante dell'intera struttura subordinando la riuscita del loro progetto alla sua guarigione totale... ecco allora che ricreano intorno a lui la scenografia che si era creato e che raccontava da anni al fine di guarirlo totalmente dato che tutte le precedenti cure hanno avuto esito negativo. Geniale il finale che vede il protagonista tornato lucido dopo la cura e quindi consapevole dei reati che cercava di nascondere a se stesso,il quale però finge a questo punto la pazzia costringendo il dottor Cawley a lobotomizzarlo preferendo quindi la morte mentale, una sorta di purificazione dai peccati sotto forma di intervento alla testa. Scorsese mostra un'altra faccia della violenza: la follia. Riprendendo alcuni precedenti (The Aviator) mette lo spettatore nella condizione di accettare la realtà per quanto brutale ed orrenda possa essere o di rifiutarla e nascondersi per sempre indossando la maschera perbenista e mite, che la società e le regole impongono. Così facendo, offre una verità scomoda ed amara, eppure unica da accettare. Più cerebrale che viscerale, Shutter Island non sarà un capolavoro del regista Scorsese, ma 138 minuti di puro godimento. Toy story 3. La grande fuga di Lee Unkrich. Giunto al terzo film, la serie di Toy story invece che afflosciarsi si dimostra ancora vitale. La Pixar si sta dimostrando una fucina di menti brillanti, e i risultati si vedono, proprio in virtù della maturità sempre maggiore dello studio di produzione. Al di là della spettacolarità del 3D ai livelli (se non migliore) di Avatar, dove infatti non sono stati usati i soliti trucchetti del formato (per esempio una cascata di frecce che punta verso il pubblico) ma come se fosse una finestra sulla storia (si può comunque vedere tranquillamente in 2D), i personaggi non perdono un colpo, i sentimenti sono preponderanti, l'azione è perfetta e le dinamiche dei flashback mai così efficaci! Andy deve andare al college e i giocattoli devono trovare una sistemazione all'asilo mentre Woody è stato scelto in quanto è stato da sempre il suo giocattolo preferito, e lui sempre lo sarà. Indipendentemente dall'età. E Woody saprà fare la scelta giusta, per sè, per Andy, per i suoi amici. Perchè lui è la star di Toy Story, lui sa sempre cosa fare, lui sa scegliere ciò che è meglio per sè e per gli altri. A questo punto niente è quel che sembra: il cowboy, che ha sempre ragione, non abbandonerà mai i suoi amici e la trama non tira le fila perchè ha ancora molto da raccontare! Woody e compagni già erano tornati a casa per ben due volte attraversando distanze impensabili per un giocattolo, questa volta devono anche evadere da un asilo che di notte diventa un carcere. Potendosi permettere il lusso di non dover introdurre dei personaggi già noti il film si concentra sui nuovi comprimari, tutti dotati di personalità in linea con il genere carcerario (tranne Ken e Barbie straordinari outsider a modo loro), e affronta con più complessità la mitologia della serie, cioè quale sia il rapporto dei giocattoli con i propri padroni. I piccoli protagonisti non sono mai stati così coraggiosi, dolci, espressivi e coinvolti nelle vicende umane... in questo terzo capitolo c'è proprio ogni carta per giocare sul tavolo del capolavoro, tra tradizione e innovazione: gli umani sono più protagonisti e soprattutto lo è Andy alla fine, Buzz è sempre il coraggioso ranger spaziale pronto a essere l'espediente di svolta nella storia, Mr. Potato "collauda" nuovi spassosi corpi, ci sono nuovi giocattoli interessanti e divertenti, Woody è trascinato in azioni mirabolanti ed è sempre il capo buono pronto al sacrificio e finalmente i tanto amati giocattoli riflettono sul proprio ruolo, tra nuovi e vecchi amici, regalando momenti di tristezza e gioia...la realizzazione stilistica e grafica del film è eccelsa e in questo è meglio del primo The wolfman di Joe Johnston. Anche co-produttore, Del Toro è protagonista nei panni del nobile Lawrence Talbot, attore di fama internazionale che ha tagliato ogni contatto con la famiglia di stanza a Blackmoor e si è trasferito in America. Durante una tournee londinese, viene spinto a tornare a casa dalla lettera della fidanzata del fratello, Gwen Conliffe (Emily Blunt), che lo prega di mettersi sulle tracce del suo amato, misteriosamente scomparso. Arriva tardi: il cadavere del fratello è stato rinvenuto, brutalmente sfigurato. Ma ci sono altri motivi perché il ritorno del "figlio prodigo" non sia indolore: la sua infanzia fu tragicamente segnata dal "suicidio" della madre e con il padre (Anthony Hopkins) non sono mai state rose e fiori, anzi il caro genitore lo fece pure internare in manicomio per un anno, prima di spedirlo da una zia oltreoceano. Comunque, Lawrence si unisce alla ricerca degli abitanti del villaggio, o meglio indaga per proprio conto, chiedendo lumi ai gitani, quegli stessi che tramandarono di generazione in generazione versi strappati al terrore e resi leggenda: "Anche un uomo puro di cuore che recita le sue preghiere la sera può diventare un lupo quando fiorisce la luparia e risplende la luna d'autunno". Scoprirà che qualcosa o qualcuno dalla forza sovrumana e dall'insaziabile sete di sangue sta facendo a pezzi i compaesani, e ce n'è anche per lui: un sospettoso ispettore di Scotland Yard, Aberline (Hugo Weaving), è venuto a interrogarlo. Nonostante il prodotto sia di buona fattura, Benicio Del Toro e Anthony Hopkins, rispettivamente padre e figlio, non affrontano lo sdoppiamento della coscienza, perché il film resta intrappolato negli effetti speciali. La trama, sebbene con l'innegabile merito di far spaventare, non fa paura. Troppo presto scopre le sue carte, troppo presto si tratteggiano i ruoli sulla scacchiera, perché possa scattare una qualsivoglia suspense.

Anno 2010: Cinema Premi Oscar David di Donatello Festival del Cinema di Berlino Festival del cinema di Cannes Festival internazionale del Film di Roma 67a Mostra del cinema di Venezia 23° European Film Award Danza Musica classica Musica leggera e jazz Il Festival di Sanremo

Anno 2010.

Premi Oscar. Miglior film: The Hurt Locker Miglior regia: Kathryn Bigelow per The Hurt Locker Miglior attore protagonista: Jeff Bridges per Crazy Heart Miglior attrice protagonista: Sandra Bullock per The Blind Side Miglior attore non protagonista: Christoph Waltz per Inglorious Basterds - Bastardi senza gloria Miglior attrice non protagonista: Mo'Nique per Precious Miglior sceneggiatura originale: Mark Boal per Hurt Locker Miglior sceneggiatura non originale: Geoffrey Fletcher per Precious Miglior film straniero: Il segreto dei suoi occhi di José Campanella (Argentina) Miglior film d'animazione: Up di Pete Docter e Bob Peterson Miglior fotografia: Mauro Fiore per Avatar Miglior montaggio: Chris Innis e Bob Murawski per The Hurt Locker Miglior scenografia: Rick Carter, Robert Stromberg e Kim Sinclair per Avatar Migliori costumi: Sandy Powell per The Young Victoria Miglior trucco: Barney Burman, Mindy Hall e Joel Harlow per Star Trek Migliori effetti speciali: Joe Letteri, Stephen Rosenbaum, Richard Baneham e Andrew R. Jones per Avatar Miglior colonna sonora: Michael Giacchino per Up Miglior canzone: The weary Kind per Crazy Heart Miglior sonoro: Paul N.J. Ottosson e Ray Beckett per The Hurt Locker Miglior montaggio sonoro: Paul N.J. Ottosson per The Hurt Locker Miglior documentario: The Cove di James Marsh Miglior cortometraggio: The New Tenants di Joachim Back e Tivi Magnusson Miglior cortometraggio documentario: Music by Prudence di Roger Ross Williams e Elinor Burkett Miglior cortometraggio d'animazione: Logorama di Nicolas Schmerkin David di Donatello. Miglior Film: L'uomo che verrà di Giorgio Diritti Miglior Regista: Marco Bellocchio per Vincere Miglior Regista Esordiente: Valerio Mieli per Dieci inverni Miglior Sceneggiatura: Francesco Bruni, Francesco Piccolo, Paolo Virzì, Giorgio Diritti, Giovanni Gavalotti per La prima cosa bella Miglior Produttore: RAI Cinema per L'uomo che verrà Miglior Attrice Protagonista: Micaela Ramazzotti per La prima cosa bella Miglior Attore Protagonista: Valerio Mastandrea per La prima cosa bella Miglior Attore non Protagonista: Ennio Fantastichini per Mine vaganti Miglior Attrice non Protagonista: Ilaria Occhini per Mine vaganti Miglior Direttore della Fotografia: Daniele Ciprì per Vincere Miglior Musicista: Ennio Morricone per Baarìa Miglior Canzone Originale: Baciami ancora di Jovanotti per Baciami ancora Miglior Scenografo: Marco Dentici per Vincere Miglior Costumista: Sergio Ballo per Vincere Miglior Truccatore: Franco Corridoni per Vincere Miglior Acconciatore: Alberta Giuliani per Vincere Miglior Montatore: Francesca Calvelli per Vincere Miglior Fonico di Presa Diretta: Carlo Missidenti per L'uomo che verrà Migliori Effetti Speciali Visivi: Paola Trisoglio e Stefano Marinoni di Visualogie per Vincere Miglior Film dell'Unione Europea: Il concerto di Radu Mihaileanu Miglior Film Straniero: Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino Miglior documentario lungometraggio: La bocca del lupo di Pietro Marcello Miglior cortometraggio: Passing Time di Laura Bispuri David Giovani: Baarìa di Giuseppe Tornatore David Speciali assegnati: Tonino Guerra, Bud Spencer e Terence Hill Festival del Cinema di Berlino. Orso d'oro - Miglior film: Miele di Semih Kaplanoglu Gran premio della giuria: Se voglio fischiare, fischio di Florin Serban Orso d'argento per la miglior regia: The ghost Writer di Roman Polanski Orso d'argento per la migliore attrice: Shinobu Terajima per Caterpillar Orso d'argento per il miglior attore: Grigoriy Dobrygin e Sergei Puskepalis (ex aequo) per "How I ended this summer" Orso d'argento per la sceneggiatura: Wang Quan'an e Na Jin per Apart Together Orso d'argento per lo straordinario contributo artistico: Pavel Kostomarov per la fotografia di "How I ended this summer" Miglior film d'esordio: Sebbe di Babak Najafi Orso d'oro per il miglior cortometraggio: Händelse Vid Bank di Ruben Östlund Festival del cinema di Cannes. Palma d'oro: On Uncle Boonmee who can recall his past lives di Apichatpong Weerasethaku Gran premio della giuria: Octubre di Daniel e Diego Vega Miglior regia: Mathieu Amalric con Tournée Miglior attore: Javier Bardem ed Elio Germano ex-aequo Miglior attrice: Juliette Binoche Miglior sceneggiatura: Lee Changdong per Poetry Premio della giuria: Des hommes et des dieux di Xavier Beauvois Premio Un Certain Regard: Hahaha di Hong Sangsoo Premio Cinéma Europa: Le Quattro volte di Michelangelo Frammartino Festival internazionale del Film di Roma. - Premio Marc'Aurelio della Giuria al miglior film: Kill Me Please di Olias Barco - Gran Premio della Giuria Marc'Aurelio: Hævnen - In a Better World di Susanne Bier - Premio Speciale della Giuria Marc'Aurelio: Poll di Chris Kraus - Premio Marc'Aurelio della Giuria al miglior attore: Toni Servillo per Una Vita Tranquilla - Premio Marc'Aurelio della Giuria alla migliore attrice: tutto il cast femminile di Las Buenas hierbas - Targa Speciale del Presidente della Repubblica Italiana al film che meglio mette in rilievo i valori umani e sociali: Dog Sweat di Hossein Keshavarz - Premio Marc'Aurelio del Pubblico al miglior film - BNL: Hævnen - In a Better World di Susanne Bier - Premio Marc'Aurelio al miglior documentario per la sezione L'Altro Cinema | Extra: De Regenmakers di Floris-Jan Van Luyn - Premio Marc'Aurelio Esordienti: Kaspar Munk per Hold Om Mig - Premio Marc'Aurelio Alice nella città sotto i 12 anni: I Want To Be a Soldier di Christian Molina - Premio Marc'Aurelio Alice nella città sopra i 12 anni: Adem di Hans Van Nuffel - Il Festival ha assegnato il Premio Marc'Aurelio all'attore a Julianne Moore Il Festival internazionale del cinema di Roma è gemellato con il TriBeCa Film Festival di New York, fondato nel 2002 da Jane Rosenthal e Robert De Niro in risposta agli attentati dell'11 settembre 2001 al World Trade Center e alla conseguente perdita di vitalità dell'area vicina di TriBeCa a Manhattan, quartiere nel quale lo stesso De Niro abita da anni. A Roma vengono presentati alcuni dei film scelti per la precedente edizione del festival newyorkese, mentre alcuni film proiettati nella capitale sono poi riproposti nella successiva edizione del TriBeCa Film Fest. De Niro è stato ospite della prima edizione della rassegna, durante la quale l'allora sindaco di Roma Walter Veltroni gli ha consegnato il passaporto italiano. 67a Mostra del cinema di Venezia. Leone d'oro per il miglior film: Somewhere di Sofia Coppola Leone d'argento per la migliore regia: Alex de la Iglesia per Zanan Balada triste de trompeta Coppa Volpi per il miglior attore: Vincent Gallo per Essential killing Coppa Volpi per la migliore attrice: Ariane Lebed per Attenberg Osella per la miglior sceneggiatura: Alex de la Iglesia per Balada triste de trompeta Osella per la migliore fotografia: Mikhail Krichman per Silent souls Premio speciale della Giuria: Essential killing di Jerzy Skolimowski Premio Venezia Opera Prima "Luigi De Laurentiis": Cogunluk (Majority) di Seren Yuce Premio "Marcello Mastroianni" a un giovane attore o attrice emergente: Mila Kunis per Black swan Leone d'oro all'insieme dell'opera: Monte Hellman 23° European Film Award. Premio Migliore Film Europeo THE GHOST WRITER di Roman Polanski (Francia/Germania/UK) Premio Migliore Regista Europeo Roman Polanski per la regia del film THE GHOST WRITER Premio Migliore Attrice Sylvie Testud per la sua intepretazione nel film LOURDES Premio Migliore Attore Ewan McGregor per la sua intepretazione nel film THE GHOST WRITER Premio Migliore Sceneggiatura Robert Harris e Roman Polanski per la sceneggiatura di THE GHOST WRITER Premio "Carlo di Palma" Migliore Fotografia Giora Bejach per la fotografia del film LEBANON Premio Migliore Montaggio Luc Barnier e Marion Monnier per il montaggio del film CARLOS Premio Migliore Produttore Albrecht Konrad per il film THE GHOST WRITER Premio Migliore Compositore Alexandre Desplat per le musiche del film THE GHOST WRITER Premio FIPRESCI - European Discovery LEBANON di Samuel Maoz (Israele/Germania/Francia) Premio Migliore Documentario - Premio ARTE NOSTALGIA DE LA LUZ di Patricio Guzmán (Francia/Germania/Cile) Premio Migliore Film di Animazione THE ILLUSIONIST di Sylvain Chomet Premio Migliore Cortometraggio HANOI - WARSZAWA di Katarzyna Klimkiewicz (Polonia) Premio EURIMAGES Zeynep Özbatur Atakan (produttore) Premio alla Carriera Bruno Ganz (attore) Premio alla Carriera Internazionale Gabriel Yared (compositore) Premio del Pubblico Migliore Film Europeo MR. NOBODY di Jaco van Dormael Nell'anno 2010 ... Gian Fabio Bosco, detto Gian, è morto il 16 febbraio. La coppia "Ric e Gian" perde il suo Gian. All'età di 73 anni Gian Fabio Bosco si è spento all'ospedale di Lavagna, in Liguria, dove era stato ricoverato qualche tempo fa per un aneurisma. Nato a Firenze il 30 luglio 1936, la sua carriera è stata lunga, da solo o in coppia con Ric, più di 60 anni. Figlio d'arte (i genitori erano entrambi attori nella celebre compagnia di Gilberto Govi), ebbe le prime esperienze come attore all'età di 8 anni nella stessa compagnia dei genitori. Giovanissimo entrò nella compagnia di Gino Bramieri e poi con il comico Mario Ferrero. È appunto lavorando con il comico che alla fine degli anni '50 conobbe il ballerino fantasista Riccardo Miniggio. Comincia un duo, inizialmente chiamato Jerry e Fabio che riscosse successo persino in Francia. Nel 1965 il produttore cinematografico Angelo Rizzoli, che li ingaggia per girare il film "Ischia operazione amore" (1966) decide di cambiare il loro nome d'arte in Ric e Gian. I due stanno insieme nel mondo dello spettacolo per 20 anni e solo nel 1987 decidono di separarsi. Gian Fabio Bosco diversificò la sua attività, privilegiando il teatro e il cinema. Ha girato con Adriano Celentano Joan Lui, con Neri Parenti e nel 1988 in Libero Burro di Sergio Castellitto che andò anche alla mostra del cinema di Venezia. Nel 2002 recita nel film di Vincenzo Salemme Ho visto le stelle. Per la televisione qualche fiction tra cui "Anni '60" e "Angelo il custode" con Lino Banfi. Claude Chabrol, è morto a Parigi il 12 settembre 2010. Figlio di un farmacista, Claude Chabrol nacque a Parigi il 24 giugno 1930. Il suo debutto nel cinema avvenne a dodici anni, come proiezionista, in un garage di un piccolo villaggio della Creuse. Dopo la scuola secondaria, Chabrol studiò legge e, già burlone, scrisse false dediche di Hemingway e di Faulkner, che riusciva a vendere ad un buon prezzo. Molto giovane, si sposò con una ricca ereditiera, cosa che gli consentì di realizzare i suoi primi film: Le beau Serge (1958) e I cugini (1958), con Jean-Claude Brialy. L'anno dopo, Chabrol girò Donne facili (1959), con Stéphane Audran, che sarà una delle attrici preferite e che diventerà poi sua moglie. Il film è accolto molto male dal pubblico e il successivo Les godelureaux (1960) lo fece cadere completamente in disgrazia; neppure un film come Landru (1962), ispirato al celebre fatto di cronaca e sceneggiato da Françoise Sagan, fece uscire Chabrol da quella difficile situazione. Allora il regista francese iniziò a realizzare dei film di spionaggio pieni di humour, nel tentativo di sfruttare il successo di James Bond. Il favore del pubblico torna nel 1968, con il film Les Biches-Le cerbiatte, seguito l'anno successivo da Stéphane una moglie infedele, Ucciderò un uomo e Il tagliagole, con cui Chabrol definì lo stile che lo ha reso famoso, inserendo il giallo alla Hitchcock nella quotidianità della piccola borghesia di provincia. Poi, realizzò film come Gli innocenti (1975), Violette Nozière (1978), I fantasmi del cappellaio (1982), L'inferno (1993) e Il buio nella mente (1995). Dopo Il colore della menzogna (1999), con Jacques Gamblin e Sandrine Bonnaire, Claude Chabrol ha diretto Grazie per la cioccolata (2000), interpretato da Isabelle Huppert. Nel 2003 ha presentato al Festival di Berlino Il fiore del male, tratto da "Qui est criminelle?", romanzo di Caroline Eliacheff, che ha come tema centrale la colpa quale malattia ereditaria. Ha presentato fuori concorso a Venezia La damigella d'onore (2004) e L'innocenza del peccato (2007). I suoi film raccontavano, spesso basandosi sui romanzi di Georges Simenon, una provincia il cui apparente conformismo borghese serve a coprire un vaso di Pandora, colmo di vizi e odi. Gary Coleman, il bimbo prodigio della serie televisiva Arnold, è morto il 28 maggio in un ospedale dello Utah per emorragia cerebrale. Aveva 42 anni. Era caduto in precedenza ferendosi gravemente alla testa. Portato in ospedale, gli era stata diagnosticata una emorragia cerebrale ed era tenuto in vita dalle apparecchiature ospedaliere. Con il consenso della moglie Shanon, si è deciso di staccare la spina. Nato con una grave malattia renale congenita, che aveva bloccato da adulto la sua crescita a 142 centimetri, il bimbo prodigio aveva dovuto sottoporsi durante la sua vita a due trapianti di reni e, nonostante questo, a trattamento quotidiano di dialisi. In onda negli Stati Uniti dal 1978 al 1986, la serie Il mio amico Arnold arrivò al pubblico italiano negli anni Ottanta, quando Canale 5, ormai rete nazionale, ne fece un punto fermo della sua programmazione pomeridiana. Il segreto del successo era tutto concentrato nelle fattezze del protagonista assoluto dello show: un bambino afroamericano, piccolo e grassottello, dalla battuta fulminante e dall'irresistibile senso dell'umorismo. Nessuno, all'epoca, avrebbe mai sospettato che Arnold non fosse un attore-bambino dal talento straordinario. Ma pian piano la verità venne a galla. Gary Coleman, nato a Zion, Illinois, nel 1968, non era un piccolo e grassottello ragazzino nero, ma un uomo, adulto e minato nel fisico. La serie aveva dato grande popolarità all'attore che all'epoca guadagnava 100 mila dollari a puntata. Ma i suoi risparmi erano stati dilapidati dai genitori e dal manager. Coleman aveva fatto causa, ma nel 1999 aveva dovuto dichiarare bancarotta. Infatti, quando per l'uomo Gary divenne insostenibile mantenere le sembianze del bambino Arnold, la tv lo aveva abbandonato. Nel 1996 era apparso in un episodio della serie Willy, il principe di Bel Air, protagonista la futura superstar Will Smith. Nel passato di Gary vi è anche una brutta storia di violenza domestica, quella che Coleman usò contro Shannon Price, la donna che aveva sposato nel 2007. Coleman aveva tentato anche la carta della politica. Nel 2003 annunciò la sua candidatura a governatore della California. Ma, ironia della sorte, fu battuto da un altro "Arnold": Schwarzenegger, l'ex culturista inventatosi attore e reso popolarissimo dai ruoli interpretati in " Terminator ". Tony Curtis è morto a Los Angeles (California) il 30 settembre. Era nato a New York nel 1925. Cresciuto nelle strade del Bronx, fra le bande del suo quartiere, figlio di un sarto ungherese, ha partecipato alla seconda guerra mondiale entrando nei Marines e al suo rientro, con il solo obiettivo di diventare attore, ha cominciato a studiare arte drammatica. Nel 1949, inizia la sua carriera teatrale con il nome di James Curtis, cambiandolo poi in Anthony Curtis (diventato poi Tony). Il suo debutto al cinema è con il film di Jerry Lewis (inedito in Italia) How to Smuggle a Hernia Across the Border (1949), dove recita accanto a colei che diverrà la sua prima moglie, Janet Leigh. Una volta sposata la Leigh, il 4 giugno 1951, e una volta avute da lei le sue prime due figlie - la nota attrice Jamie Lee Curtis e la caratterista Kelly Curtis - divorzierà da questa nel 1962, per sposarsi con l'attrice Christine Kaufmann (1963-1967) dalla quale avrà due figlie (una di queste è l'attrice Allegra Curtis). Dopo la Kaufmann è la volta di Leslie Allen (1968-1982), due figli e un divorzio, poi l'attrice Andrea Savio (1984-1992) un divorzio, ma nessuno figlio. Stessa sorte per Lisa Deutsch (1993-1994), a cui va il primato del matrimonio più breve con Curtis, ed infine l'ultima moglie, di 45 anni più giovane di lui, Jill Vandenberg Curtis, sposata nel 1998. Ebbe anche una chiacchierata "Love story" con Marylin Monroe, dopo il film "A qualcuno piace caldo". Marilyn, avrebbe poi raccontato l'attore, sarebbe rimasta incinta ma, malgrado lei sognasse da anni la maternità, perse il bambino. Forse anche per questo, il film divenne oggetto di un culto che travalicava il mondo del cinema. Tanto che il Guardian, nel dare la notizia della sua morte, titola: "La stella di A qualcuno piace caldo è morta a ottantacinque anni". Tornando agli aspetti professionali di Curtis, i suoi esordi nel cinema hanno grandi nomi. Come quello di Robert Siodmack, per esempio, che gli offre la parte di un gigolò in Doppio Gioco (1949) accanto a Burt Lancaster (che sarà suo partner in numerosi film) e Yvonne De Carlo. Una pellicola di grande successo, che divenne famosa negli Studios per l'eccessiva violenza usata. Da lì in poi, il contratto con la Universal a 100 dollari la settimana e una marea di film dove però il suo nome fatica a brillare, eccezione fatta per Non c'è posto per lo sposo (1952) di Douglas Sirk. Il suo primo film da protagonista è per l'anno successivo, con Il Mago Houdini, film biografico dove recita, accanto alla moglie Janet Leigh, la vita del grande illusionista e prestigiatore. In Italia, Tony Curtis diventa celebre grazie a Trapezio (1956) di Carol Reed, dove volteggia in aria accanto a Gina Lollobrigida e un ritrovato Burt Lancaster. Mentre, in America, convince tutti nel ruolo di un infido portaborse nel mondo del giornalismo statunitense corrotto in Piombo rovente (1957) di Alexander Mackendrick. Ma c'è da dire che la carriera di Tony Curtis non sarebbe quella che è senza la sua ribellione agli Studios che, a quel tempo, facevano il bello e il cattivo tempo (decidendo loro per gli attori, indirizzando le loro carriere, ripetendo all'eccesso un personaggio stereotipato quando questo funzionava), stringendo una profonda collaborazione artistica con il regista controcorrente Blake Edwards che lo utilizzò in molte delle sue commedie: da Le avventure di Mister Cory (1957) a Licenza a Parigi (1958), da Operazione Sottoveste dove duetta con Cary Grant dentro un sommergibile rosa a La grande corsa (1965) che è quasi un cartone animato. Tralasciando la commedia - in cui è maestro - Tony Curtis è talentuoso anche nei ruoli drammatici. La parete di fango (1958) di Stanley Kramer, dove è il contraltare bianco di Sidney Poitier, gli fa strappare, infatti, le nominations al Golden Globe come miglior attore in un film drammatico e all'Oscar come miglior attore non protagonista. Ma noi, ricorderemo per sempre Tony Curtis per il capolavoro di Billy Wilder A qualcuno piace caldo (1959) con una Marilyn Monroe in stato di grazia e uno spassoso Jack Lemmon in abiti femminili. La storia è quella di due musicisti del 1929 che, a Chicago, sono testimoni di un massacro gangsteriano e, braccati dai killer della mafia, riescono a trovare la salvezza travestendosi da ragazze e aggregandosi ad un'orchestra femminile. E anche se nessuno è perfetto, Tony Curtis in quel film lo è. Da qui in poi seguono Kubrick, Huston, Minnelli e ancora Mackendrick che lo inserisce in un film con Claudia Cardinale, Piano, piano non t'agitare (1967), che comunque non sarà l'unico contatto italiano nella sua carriera. Fra i suoi ruoli più difficili come non citare Lo strangolatore di Boston (1968) di Richard per il quale è nominato ai Golden Globe come Miglior attore in un film drammatico. Ma a cavallo fra gli anni '60 e '70, Tony Curtis si dà alla produzione cinematografica e a piccoli ruoli da guest star in numerosi serial televisivi, per tornare sul grande schermo nel 1976, con Gli Ultimi Fuochi di Elia Kazan, accanto a Robert De Niro, Robert Mitchum e Jeanne Moreau. Negli anni Ottanta, si concede solo per piccole parti e nel 1994, in seguito ad un attacco di cuore, subisce un intervento con bypass. Lo stesso anno, uno dei suoi figli, Nicholas, muore il 2 luglio per un'overdose di eroina. Appare sano e rinvigorito l'anno successivo, nel flop di Arnold Schwarzenegger Eroe per famiglie e torna a recitare perfino nella versione musical di "A qualcuno piace caldo", con il ruolo del milionario Osgood Fielding III, che nel film era interpretato da Joe E. Brown. Si trasferisce poi a Las Vegas, in Nevada, e si dedica alla pittura (i suoi quadri sono stati esposti al Museum of Modern Art di New York), senza mai lasciare la sua passione per la recitazione, concedendosi qualche piccola parte ogni tanto in qualche serial tv. Oltre a quella cinematografica, di un certo rilievo anche la sua attività televisiva, in particolare come co-protagonista nei primi anni settanta di una serie di telefilm di successo: "Attenti a quei due", in cui impersona il ricco playboy americano Danny Wilde, contrapposto all'elegante e raffinato lord inglese Brett Sinclair (Roger Moore), entrambi impegnati a fronteggiare malviventi e belle donne in scanzonate avventure di intrighi e mistero. Suso Cecchi D'Amico è morta il 10 luglio. Era nata a Roma nel 1914. Giovanna Cecchi, questo il suo vero nome, ha origini toscane: suo padre Emilio Cecchi, scrittore e critico letterario, era di Firenze. Il suo primo vero contatto con il cinema avviene negli anni '30 quando suo padre viene nominato direttore di produzione cinematografica per la Cines. Moglie del critico musicale Fedele D'Amico, a sua volta figlio del fondatore dell'Accademia d'arte drammatica D'Amico di Roma, esordisce come sceneggiatrice nel 1946 per il film Mio figlio professore di Renato Castellani. Nella sua lunghissima carriera partecipa alla stesura di numerosi capolavori, stringendo in particolare un forte e duraturo sodalizio con Luchino Visconti, Michelangelo Antonioni e Mario Monicelli. Tra le sue sceneggiature sono da ricordare quelle di Ladri di biciclette e Miracolo a Milano di Vittorio De Sica, I vinti, Le amiche e La signora senza camelie di Michelangelo Antonioni, Salvatore Giuliano di Francesco Rosi, I soliti ignoti, e Speriamo che sia femmina. Nella sua trentennale collaborazione con Visconti, Suso Cecchi D'Amico scrive le sceneggiature di Bellissima, Senso, Rocco e i suoi fratelli, Il Gattopardo, Vaghe stelle dell'Orsa, Ludwig, Gruppo di famiglia in un interno e Le notti bianche. La sua vita è ricca di aneddoti che sono raccolti in varie pubblicazioni dedicate alla signora del cinema italiano. Tra i tanti sono celebri l'intesa perfetta con Visconti, da lei definito, nonostante le apparenze, "il regista più facile con cui lavorare"; poi Moravia, conosciuto agli esordi e definito un pessimo sceneggiatore; le risate e la rottura con Zavattini, dopo che lui addossò a lei la colpa dell'insuccesso di un film di Brancati. Nel 1994 la Mostra di Venezia le ha assegnato il Leone d'Oro alla carriera. Dino De Laurentiis è morto l' 11 novembre a Los Angeles, all'età di 91 anni. Era nato a Torre Annunziata nel 1919. Il suo vero nome era Agostino De Laurentiis. Giovanissimo si trasferisce a Roma e nel biennio 1937-38 intraprende la carriera di attore iscrivendosi al Centro Sperimentale di Cinematografia. Inizia a fare la comparsa all'età di 17 anni, recitando in Orologio a cucù (1938) di Camillo Mastrocinque, accanto a Vittorio De Sica; Batticuore (1939) e Grandi magazzini (1939) di Mario Camerini. Intanto comincia a muovere i suoi primi passi nella produzione: è il 1941 e lui finanzia L'amore canta di Ferdinando Maria Poggioli. L'anno successivo, viene convocato da Guido Maggiorino Gatti, direttore della Lux Film di Roma, che lo assume come produttore esecutivo. Dopo la guerra, rientrato nella capitale nel 1944, conosce Bianca Maria De Paolis, figlia di un direttore di banca, che sposa l'anno successivo e da cui divorzierà nel 1966. Con lei si trasferisce a Torino dove, con Luigi Rovere, produce Il bandito (1946) di Alberto Lattuada (che era stato suo testimone di nozze). Separatosi poi da Rovere, fonda la Dino De Laurentiis, che si accosterà alla LUX. Nel 1948 con Carlo Ponti costituisce la Ponti-De Laurentiis con studi propri, e producono il primo film a colori realizzato in Italia, "Totò a colori" (1952) per la regia di Steno. Importantissima nella sua vita la produzione della pellicola drammatica Riso Amaro (1949) di Giuseppe De Santis, che gli farà conoscere la sua seconda moglie: l'attrice Silvana Mangano. La Mangano, sposata civilmente, darà al consorte quattro figli. Ma quella che all'apparenza sembra una famiglia felice non lo è affatto. Nel 1987 Dino chiede il divorzio, e nel 1989, a Madrid, Silvana muore. Insieme, i due hanno condiviso il successo di grandi pellicole come: Napoli milionaria (1950) di Eduardo De Filippo, Guardie e ladri (1951) di Mario Monicelli e Steno, Anna (1951) di Lattuada, Europa '51 (1952) di Roberto Rossellini, L'oro di Napoli (1954) di Vittorio De Sica, Guerra e pace (1955) di King Vidor, ma soprattutto due film di Federico Fellini: La strada (1954) che gli fece aggiudicare il Nastro d'Argento per il miglior produttore assieme a Carlo Ponti (con il quale lavorava) e Le notti di Cabiria (1957), ancora Nastro d'Argento e David di Donatello sempre per la migliore produzione. Nel 1962 ha un ambizioso progetto: Dinocittà. Un luogo dove si possano creare kolossal, ma anche film d'autore, dove associare alla produzione cinematografica le capacità imprenditoriali. L'impresa resta in piedi dal gennaio 1964 al giugno 1972, poi chiude i battenti e nel 1978 inaugura il Luxury Hotel Complez a Bora Bora. Dopo La grande guerra (1959) di Mario Monicelli e Tutti a casa (1960) di Luigi Comencini (che gli portò il secondo David), De Laurentiis continuò a lavorare per fare grande il cinema italiano finanziando artisti come Salce, Blasetti, Lizzani, Corbucci, Risi, Petri, Brass, Antonioni, Visconti e Bava, ma anche cercando di esportare il suo nome all'estero producendo opere di Martin Ritt, Richard Fleischer, Claude Chabrol, Edward Dmytryk e Roger Vadim. Enorme fu il boom de La Bibbia (1966) diretto da John Huston (terzo David) che sancì definitivamente la sua carriera in America e Russia, ancora strette dalla morsa della guerra fredda. Se all'est finanziava pellicole come Waterloo (1970) di Sergei Bondarchuk ad ovest era impegnato con Serpico (1973) di Lumet e I tre giorni del Condor (1975) di Pollack. Senza De Laurentiis non avremmo mai visto L'uovo del serpente (1977) di Ingmar Bergman, ma anche flop incredibili come King Kong (1976) e Flash Gordon (1980). Negli anni '70 quando il cinema italiano viene penalizzato dalla legge che concede i sussidi solo ai film con il 100% di produzione italiana, si trasferisce negli Stati Uniti. Diventò cittadino americano nel 1986, e continuò ad alternare insuccessi a pietre miliari della storia del cinema: Ragtime (1980), Conan il barbaro (1982), La zona morta (1983), Dune (1984), L'anno del dragone (1985) e Velluto blu (1986). Trovata una degna partner nella figlia Raffaella, Dino, negli anni Novanta, dopo la morte di Silvana, trova anche una nuova moglie, la produttrice americana Martha Schumacher che darà alla luce Carolyna e Dina. Il Leone d'Oro alla carriera arriva nel 2003. In 60 anni di carriera ha prodotto oltre 600 film in varie vesti produttive; ha ricevuto 33 candidature e più di 59 premi internazionali. Il 25 marzo 2001 gli è stato consegnato l'Oscar alla carriera. Dennis Hopper è morto nella sua casa di Venice, in California, il 29 maggio. Era nato a Dodge City, Kansas, il 17 maggio del 1936. Il film al quale la sua immagine rimane più legata è Easy Rider, considerato uno dei film più importanti della storia del cinema americano, con Peter Fonda e un allora sconosciuto Jack Nicholson. Un inno al mito "on the road" divenuto manifesto dell'epoca, firmato - Hopper ne fu interprete e anche regista - da un personaggio che divenne simbolo dell'anticonformismo e della cultura "contro" dell'America degli anni Settanta. Capace di instaurare rapporti di amicizia con le persone più diverse, aveva frequentato il gotha dell'arte, dello spettacolo, della politica. Suoi amici erano stati James Dean e Andy Warhol, Roy Lichtenstein e Martin Luther King, Marlon Brando e John Wayne, Miles Davis e decine di altri nomi leggendari. Cinque mogli, quattro figli, aveva divorziato da Victoria Duffy appena qualche mese fa. Come regista, si ricordano Out of the Blue (1981), Colors (1987), The Hot Spot - Il posto caldo (1990); come attore: L'amico americano (1977) di Wim Wenders, Apocalypse Now (1979) di Francis Ford Coppola, Velluto blu (1986) di David Lynch, Il cuore nero di Paris Trout (1991) di Stephen Gyllenhaal, Una vita al massimo (1993) di Tony Scott, Speed (1994) di Jan de Bont, Waterworld (1995) di Kevin Reynolds, Basquiat (1996) di Julian Schnabel, Space Truckers (1996) di Stuart Gordon, Blackout (1997) di Abel Ferrara, La terra dei morti viventi (2005) di George A. Romero, Palermo Shooting (2008) di Wim Wenders, Lezioni d'amore (2008) di Isabel Coixet. Nell'ottobre 2009 il suo manager aveva dichiarato che l'attore soffriva di cancro alla prostata e aveva cancellato tutti gli impegni lavorativi per concentrarsi sulle cure mediche, mentre nel marzo 2010, pesando appena 45 chilogrammi, era stato dichiarato malato in fase terminale dal suo avvocato, ma non era voluto mancare alla consegna della stella con il suo nome sulla "Hollywood walk of fame". Tiberio Murgia è morto a Roma il 20 Agosto 2010. È nato a Oristano nel 1929. Lavora in miniera e in acciaieria ed è poi cameriere in un ristorante romano quando viene notato da Mario Monicelli, alla ricerca di un tipico siciliano-macchietta per interpretare Ferribotte, il ladruncolo fratello di Carmelina (il ruolo di Claudia Cardinale) ne I soliti ignoti (1958). Continua collezionando parti molto simili tra loro in film d'eccezione: viene diretto nuovamente da Monicelli ne La grande guerra (1959) e da Giorgio Simonelli ne I baccanali di Tiberio (1959) e, pur affrontando generi variegati resta legato indissolubilmente allo stereotipo del meridionale solenne dal fisico magro e asciutto. Visto il fortunato esordio nelle vicende dei "soliti ignoti", è protagonista anche del seguito firmato da Nanni Loy Audace colpo dei soliti ignoti e nel 1961 è per l'ennesima volta il personaggio di una storia di ladruncoli un po' imbranati, inesorabilmente comici, de I soliti rapinatori di Milano. Spesso al fianco di Walter Chiari, Ugo Tognazzi, Raimondo Vianello e altri interpreti della sua generazione, conferma la sua bravura di attore comico con la partecipazione al film Il giorno più corto (1962) di Sergio Corbucci con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, piccolo capolavoro del riso che risponde con una parodia a Il giorno più lungo americano. Nel 1964 è in Tre notti d'amore di Luigi Comencini, Franco Rossi e Renato Castellani, nel 1966 fa parte del cast del film francese Il santo prende la mira e L'uomo di Casablanca e nello stesso anno viene chiamato da Vittorio De Sica per Caccia alla volpe. Due anni dopo è scritturato da Monicelli per La ragazza con la pistola al fianco di Monica Vitti, Carlo Giuffrè e Stanley Baker. Cambia genere con il lavoro di Pipolo e Franco Castellano Innamorato pazzo (1981) dove affianca la coppia Adriano Celentano e Ornella Muti in vicende amorose tutte sentimentali e poco sessuali. All'inizio degli anni Ottanta è anche nel demenziale Attila, flagello di Dio dove Diego Abatantuono è il protagonista di un film trash divenuto un cult della nostra cinematografia. Si ritaglia un'interpretazione memorabile in Paulo Roberto Cotechiño, centravanti di sfondamento (1983) di Nando Cicero e ritorna alla commedia del molleggiato Celentano in Segni particolari: bellissimo (1983). In pausa creativa durante gli anni Novanta, ritorna al cinema nel 2001 con la divertente commedia Ribelli per caso di Vincenzo Terracciano e in Una milanese a Roma con Nino Manfredi; nel 2008 lo troviamo come protagonista in Chi nasce tondo... al fianco di Valerio Mastrandrea e Raffaele Cannoli. Leslie William Nielsen è morto il 28 Novembre 2010 a Fort Lauderdale (Florida). Era nato nel 1926 a Regina (Canada). Gli esordi di Nielsen sono stati tutt'altro che felici. I primi tempi infatti ha collezionato numerosissimi ruoli marginali. Diventa protagonista in Una calda notte d'estate (1957), con Shirley Mac Laine e in La legge del più forte (1958). Gli altri film che formano la sua scalata verso il successo sono piccoli lavori che vanno da Sinfonia di guerra (1968), Amore extraterrestre (1970) a risultati più interessanti come L'avventura del Poseidon fino al thriller Non entrate in quella casa, entrambi della seconda metà degli anni Settanta. Con gli anni Ottanta arriva la svolta: entrato a far parte del cast de L'aereo più pazzo del mondo, riesce a crescere artisticamente al punto da non fermare più la sua vena comica innata. Affianca Sean Connery nello sbeffeggiante Obiettivo mortale di Richard Brooks ed è il motore della serie televisiva Quelli della pallottola spuntata 1 e 2, che darà il via all'omonima trasposizione cinematografica in cui parodizza il genere poliziesco in un mix di gag e strambi comportamenti irresistibili. È di qualche anno dopo infatti Una pallottola spuntata (1988), Una pallottola spuntata 2 1/2 - L'odore della paura (1991) e Una pallottola spuntata 33 1/3 - L'insulto finale (1994), buffi ritratti delle avventure investigative del poliziotto più imbranato del mondo. Prosegue con la parodia de L'esorcista dal titolo Riposseduta (1990), poi si fa trasportare dalla commedia di buoni sentimenti Caro Babbo Natale (1991) per poi finire in Italia ad affiancare Christian De Sica e Massimo Boldi in S.P.Q.R. - 2000 e 1/2 anni fa di Enrico Vanzina. A metà degli anni Novanta, lavora con Mel Brooks in un film cult, Dracula morto e contento che prende in giro la diavoleria di un personaggio negativo come Dracula per renderlo simpatico e impacciato protagonista di avventure comiche senza fine. Muore in Florida, a 84 anni, per complicazioni legate ad una polmonite. Arthur Penn è morto il 28 settembre a Manhattan, il giorno dopo il suo ottantottesimo compleanno, per un'insufficienza cardiaca congestizia. Era nato a Philadelphia il 27 settembre del 1922. Durante la seconda guerra mondiale, mentre era stazionato a Fort Jackson, formò un piccolo circolo teatrale con gli altri membri della fanteria, e alla fine del conflitto, continuò i suoi studi teatrali in Italia. Negli anni cinquanta, sebbene avesse studiato con Michael Chechov all'Actors Studios di Los Angeles, iniziò a lavorare nel 1951 alla NBC TV. Due anni dopo Penn scriveva e produceva produzioni in diretta televisiva per la Philco Playhouse e la Playhouse 90. Il suo primo lungometraggio fu la pellicola western The Left Handed Gun (1958), in cui Penn combinò il method acting sulla psicologia del personaggio con la storia leggendaria del fuorilegge Billy the Kid interpretato da Paul Newman. Il film fu ben accolto in Europa ma non ebbe la stessa fortuna in America. Nel '62 Penn decise di adattare per il grande schermo la storia di Anne Sullivan, l'insegnante che insegnò alla cieca e sorda Hellen Keller a parlare, Anna dei miracoli - Al di là del silenzio. Penn rifiutò di assumere, nonostante le pressioni, Elisabeth Taylor e fece ricoprire i ruoli della Sullivan e della Keller rispettivamente ad Anne Bancroft e Patty Duke, le protagoniste della sua opera teatrale scritta da Wlliam Gibson. Le due protagoniste ottennero l'Oscar mentre Penn guadagnò una nomination. Nel 1964 Burt Lancaster lo licenziò dopo i primi due giorni di riprese di Il treno. Nel 1966 diresse La caccia, ma il produttore Sam Spiegel non contento del prodotto finale licenziò il regista e rimontò la pellicola. Penn decise così di lasciare nuovamente il cinema. Un anno dopo Penn fu convinto a tornare a dirigere film da Warren Beatty con la direzione della pellicola Gangster Story. Penn assunse sconosciuti provenienti dalla televisione e dai teatri newyorchesi e filmò e montò la pellicola senza alcuna interferenza da parte degli studios. Grazie al supporto di Beatty, Penn cercò di realizzare una pellicola brutale. Nonostante i critici provassero avversione per lo spargimento di sangue e la nozione dei criminali come degli eroi belli e dannati, il pubblico accolse positivamente la pellicola, una combinazione tra il genere americano e lo stile della Nouvelle Vague. Il film di Bonny e Clyde divenne un fenomeno della cultura pop che ispirò una revisione sui film dei gangster. Seguirono Alice's Restaurant (1969), per cui Penn ottenne una terza nomination all'Oscar e Piccolo grande uomo (1970). Nel 1975 diresse Gene Hackman nel thriller Bersaglio di notte, mentre l'anno dopo fu il turno di Jack Nicholson e Marlon Brando, protagonisti della commedia western Missouri. Negli anni '80 il film-manifesto, il più bello e sfortunato, il più libero e struggente: Gli amici di Georgia, vero e proprio Grande Romanzo Americano su un immigrato albanese e i suoi tre amici per la vita, epica proletaria per varcare l'ultima delle frontiere: la perdita dell'innocenza, la conquista dell'amore paterno. La pellicola Con la morte non si scherza (1990) segnò la fine della sua carriera cinematografica. Nonostante si fosse ritirato da anni, fu convinto dal figlio Matthew a diventare produttore esecutivo della serie televisiva Law & Order. Eric Rohmer (pseudonimo di Jean-Marie Maurice Schérer) è morto l'11 Gennaio a Parigi. Era nato nel 1920 a Nancy. Quando era ancora professore di lettere a Vierzon, ha pubblicato nel '46 un romanzo sotto lo pseudonimo di Gilbert Cordier, Elisabeth. Con Godard, Rivette, Truffaut e Chabrol fonderà La Gazzette du cinèma (di cui diverrà direttore) oltre ad essere assiduo frequentatore del mitico cinè-club del Quartiere Latino a Parigi. Con loro pubblicò un libro su Hitchcock nel '55 mentre più tardi scrisse un saggio sull'espressionista Murnau. Sarà caporedattore dei Cahiers du cinèma dal '57 al '63, proprio gli anni in cui prende decisamente vita la Nouvelle Vague. Rohmer, il più anziano del gruppo, era stato d'altronde il primo a fare il passo nella regia con il corto Journal d'un scélérat nel '50. È del '59 il suo primo lungometraggio, Il segno del leone. Nel '62 fonda la società Les films du Losange con cui produrrà la gran parte delle sue pellicole. Con La collezionista nel '66 ma soprattutto La mia notte con Maud (1969), il suo capolavoro, otterrà anche una nomination agli Oscar come miglior sceneggiatura. Nel '65 firma l'episodio su Place de l'Etoile di Parigi di notte, accanto a Chabrol, Godard, Douchet e Jean Rouch. Ultimo dei racconti morali è L'Amore il pomeriggio (1972), forse il più ironico ma anche il più spietato verso il mondo piccolo borghese che descrive. Con La Marchesa von... (1976) mette in scena quasi ricalcandolo un racconto storico di von Kleist. Nel 1980 sarà la volta della serie Comédies et proverbes, dal tono più scanzonato e beffardo. Il raggio verde (1986) otterrà il Leone d'oro a Venezia. Rohmer regala opere mai deludenti, garbate e attente alle sfumature, pur con certi eccessi di verbosità: ne sono conferma L'amico della mia amica (1987) e Reinette e Mirabelle (1987). Gli anni '90 sono segnati dai Contes des quatre saisons: in Racconto di primavera (1990) sempre teatrale e molto parlato, tra la musica di Schumann e Beethoven si narra dell'incertezza dei sentimenti, in Racconto d'inverno (1991) per il classico e rohmeriano caso del destino Félicie resta incinta senza poter contattare il padre a cui, nel loro amore estivo, aveva dato un indirizzo sbagliato. Nel successivo Racconto d'estate (1996) si affronta un'altra, leggera, avventura balneare per un insolito tombeur des femmes, mentre Racconto d'autunno (1998) ritrova l'eleganza espressiva dei Contes. Leone d'Oro alla carriera nel 2001, sempre coerente e vitale, a 80 anni, Rohmer firma un'altra trilogia, questa volta storica. Il primo è La nobildonna e il duca (2001) dove narra la rivoluzione francese dalla parte dell'aristocrazia e dove gli attori recitano su fondali dipinti. Triple Agent - Agente speciale (2004) sarà invece un film di spionaggio ambientato negli anni '30 e ne Gli amori di Astrea e Celadon (2007) mette in scena un romanzo pastorale di Honoré d'Urfé ambientato nel V secolo. Jean Simmons è morta il 22 Gennaio, all'età di 81 anni, a Santa Monica (California). Era nata nel 1929 a Londra. Interpretò Cesare e Cleopatra (1946), Grandi speranze (1946), Narciso nero (1947) prima di affermarsi come Ofelia in Amleto (1948, per cui ottenne il premio come miglior attrice a Venezia) di L. Olivier. A Hollywood esordì in Androclo e il leone (1952) da Shaw e fu impiegata in una serie di colossal in costume (da La tunica, 1953, a Spartacus, 1960), ma provò la propria versatilità in commedie (anche musicali come Bulli e pupe, 1955) e in ruoli fortemente drammatici (Il figlio di Giuda, 1960, del marito R. Brooks, che l'ha diretta nel 1969 in The Happy Ending). In seguito ha molto diradato l'attività, ritirandosi dopo Dominique (1978) e tornando solo recentemente in How to make an american Quilt (1995). Ha lavorato anche per la televisione. Nel 1988 le è stato consegnato il premio alla carriera al Festival di Cannes. Mario Monicelli Viareggio, 16 maggio 1915 Roma, 29 novembre 2010. Figlio di Tomaso Monicelli, giornalista e drammaturgo, cresce a Viareggio, frequentando il liceo e l'università a Milano, dove sviluppa la sua passione per il cinema, condivisa insieme ai cugini Mondadori, con i quali inizia a scrivere sulla rivista "Camminare", che ha fra i suoi collaboratori anche altri futuri registi: Alberto Lattuada, Riccardo Freda e Renato Castellani. Nel 1934, con Alberto Mondadori, realizza un cortometraggio muto in 16 mm, Il cuore rivelatore, tratto dal racconto di Poe. L'anno successivo i due affrontano il lungometraggio, girando I ragazzi della via Paal, utilizzando come attori amici e parenti e vincendo a Venezia il premio per il miglior film a passo ridotto. Fa quindi da aiuto regista per Gustav Machaty, Genina, Camerini, Gentilomo, Bonnard, Mattoli, Germi e insieme a Steno dà vita a un felice sodalizio che li vede prima collaboratori al giornale satirico "Marc'Aurelio" e poi prolifici sceneggiatori. Con Steno fa il suo vero esordio alla regia nel 1949 con Totò cerca casa e dopo otto film in coppia prosegue da solo a partire da Proibito (1954) con Lea Massari. Comincia a delinearsi un autore "nazional-popolare", ma irrispettoso di ogni retorica, pessimista, feroce, demistificatore di sacralità e continuamente alla ricerca delle umane debolezze dei suoi personaggi, mettendone in evidenza anche i connotati cialtroneschi e il loro lato ridicolo. L'opera più riuscita e più godibile è senza dubbio I soliti ignoti (1958), che ha avuto il merito di recuperare al cinema un attore allora mal sfruttato come Vittorio Gassman. Fra trovate irresistibili che descrivono un sottobosco criminale dei più sgangherati, Monicelli (grazie anche ai suoi più grandi collaboratori Suso Cecchi D'Amico, Age e Scarpelli) testimonia ancora una volta questa sua innata capacità di fondere insieme attenzione ai personaggi e alle storie raccontate, valutazione critica e notazione ironica, che si fa più sapiente col passare degli anni. Allo stesso modo film come La grande guerra (1959), con Vittorio Gassman e Alberto Sordi in versione soldati lavativi e sfaticati, e I compagni (1963), ingiustamente poco considerato, ma senza dubbio uno dei più intensi film da lui diretti - tanto che ebbe perfino una nomination agli Oscar per soggetto e sceneggiatura - trasportano sullo schermo pagine di storia e fatti di costume riuscendo spesso a porre l'accento sui problemi con intensità maggiore rispetto a giornali o libri. L'armata Brancaleone (1966), rivisita in chiave grottesca il Medioevo, senza dimenticare La ragazza con la pistola (1968), Amici miei (1975), Un borghese piccolo piccolo (1977), Speriamo che sia femmina (1986). Tra i riconoscimenti alla sua produzione vanno ricordate le quattro nomination all'Oscar come film straniero per I soliti ignoti, La grande guerra, La ragazza con la pistola e I nuovi mostri (1977) e per le due per soggetto e sceneggiatura originali per I compagni e Casanova 70 (1965). Svariati i David di Donatello. Miglior regia per Un borghese piccolo piccolo, Speriamo che sia femmina e per Il male oscuro (1990), Nastri d'Argento e due Leoni d'Oro, uno per miglior film con La grande guerra e l'altro alla carriera nel 1991. Nel 1990, periodo di crisi del cinema italiano, riesce a rimanere a galla dirigendo Alessandro Haber, Cinzia Leone, Marina Confalone e Paolo Panelli nella commedia anti-familiare Parenti Serpenti (1992), poi passa a Villaggio, Troisi, Melato e Placido in Cari fottutissimi amici (1994), Facciamo Paradiso (1995) e Panni Sporchi (1999) e nel nuovo millennio si presenta al pubblico e alla critica, parlando della bestia nera che più di ogni altro l'ha ossessionato nella sua vita: la guerra, con il film Le rose del deserto (2006) che ancora una volta mette in luce una visione antieroica dell'esercito italiano. Il grande regista muore suicida la notte del 29 novembre 2010, lanciandosi dal quinto piano dell'ospedale San Giovanni di Roma dove era ricoverato per un tumore alla prostata in fase terminale.

Anno 2010. Danza. Calendario Italia. Teatro Comunale di Ferrara. La presenza di artisti di rilievo internazionale che affrontano i temi della contemporaneità, mettendo in discussione i codici acquisiti e senza disconoscere le relazioni con autori all'apparenza lontani, è uno degli elementi cardine della proposta di danza del Teatro Comunale di Ferrara. Questa linea spicca nel programma del Festival di Danza Contemporanea della stagione 2010 con la riproposizione di due lavori "storici" di Sasha Waltz e Anne Teresa de Keersmaeker, coreografe che hanno marcato con un segno preciso l'attuale spazio della danza. Il festival è stato inaugurato in ottobre da Travelogue I - Twenty to Eight, spettacolo del 1993 che segnò la nascita della compagnia Sasha Waltz & Guests e ne decretò il successo internazionale. Ancora oggi, ricreato per un nuovo gruppo di danzatori, Travelogue conferma la freschezza degli anni del debutto nel raccontare rituali di vita domestica con il loro inevitabile carico di nevrosi, e consente di mettere in luce quella personalissima rilettura in chiave giocosa o dissacrante del Tanztheater che è uno dei caratteri salienti del linguaggio coreografico di Waltz. Ma per Ferrara questa proposta ha un valore aggiunto. Proprio qui, e proprio con Travelogue - dove era impegnata anche come danzatrice - Sasha Waltz venne per la prima volta in Italia nel 1996 e ripresentare questo lavoro è un modo per rilevare sia la continuità del livello artistico della coreografa berlinese, sia la coerenza che contraddistingue la programmazione di danza a Ferrara sin dagli anni 90. Anche Rosas, la compagnia guidata da Anne Teresa De Keersmaeker, ha presentato un lavoro che, come risulta implicito già nel titolo, è una sorta di "manifesto" dell'ensemble. Realizzato per la prima volta nel 1983, Rosas danst Rosas è un classico nel repertorio della coreografa fiamminga, per la capacità di prefigurare tutte le tensioni e le dialettiche proprie dei lavori successivi. Protagonista assoluto è l'universo femminile che, con un gesto che coniuga estrema astrattezza e quotidianità, dialoga con la musica, composta da Thierry de Mey e Peter Vermeersch durante lo sviluppo della coreografia, a partire dalle emozioni suscitate nel corso della sua realizzazione. Una serata in prima nazionale che ha visto come protagonista Lutz Förster, uno degli interpreti più vicini alla grande coreografa tedesca, in uno spettacolo creato per lui e con lui da Jérôme Bel, che porta come titolo il nome stesso del danzatore. In Lutz Förster il protagonista parla di sé e della sua esperienza artistica a fianco dei grandi maestri del Novecento e, prima fra tutti, accanto a Pina Bausch, ricordata attraverso estratti di alcuni dei suoi lavori più celebri, da Kontakthof a Nelken. É andato poi scena Out of context for Pina, che Alain Platel - coreografo che da sempre si muove su un terreno di confine tra normale e patologico, conscio e inconscio - ha dedicato a Pina Bausch: un inquietante viaggio "alla ricerca delle radici dell'infanzia e della preistoria", che si propone di recuperare la bellezza che nasce dalla difficoltà e dalla disabilità. Secondo il metodo abituale dell'artista belga, anche questo spettacolo è il risultato di un lavoro collettivo. Fin dalla sua fondazione nel 1984, infatti, la compagnia les ballets C de la B, che si è arricchita negli anni con la presenza di artisti attivi nelle più diverse discipline, vede tutti i suoi componenti partecipare in modo attivo alla realizzazione di ogni progetto. Il programma del Festival è proseguito con due appuntamenti collegati per la dimensione iniziatica e spirituale che li accomuna nel solco di una tensione dinamica fra Oriente e Occidente. Il quattordicesimo fiore, creazione di Giovanni Di Cicco, presentata dalla sua compagnia Dergah Danza Teatro e realizzata in coproduzione con la Fondazione Teatro Comunale di Ferrara, ha debuttato in prima assoluta a dicembre. Coreografo attento ai fermenti della danza contemporanea come alle forme espressive legate alla tradizione filosofica e mistica orientale, per questo lavoro Di Cicco si è ispirato ad opere tra loro molto distanti come Le Sacre du printemps di Igor Stravinskij, Sacrificio di Tarkovskij e Scarpette rosse di Andersen, costruendo un percorso di profonda fascinazione. Accostata a questa compagnia italiana, è stata proposta una raffinata serata dedicata alla musica e alla danza sacra della confraternita sufi dei Dervisci Mevlevi. L'appuntamento, dal titolo programmatico Danza, musica e rituale dei Dervisci, ha visto impegnato il celebre Ensemble Galata Mevlevi Music di Istanbul. La prima parte è un percorso nella musica sacra sufi, con una selezione di composizioni che vanno dalle origini dell'ordine dei Mevlevi sino all'esecuzione di inediti composti da Nail Kesova, direttore e guida del complesso. Nella seconda parte si entra nel cuore del rituale che caratterizza la confraternita dei Dervisci Mevlevi, la Sêma, comunemente chiamata "danza rotante dei dervisci". In chiusura del Festival, il Teatro Comunale di Ferrara, con la piattaforma Fuoristrada - giunta ormai alla quinta edizione - ha promosso un ponte verso il futuro con due serate dedicate alle nuove leve della danza. In uno spazio appositamente creato, in cui artisti e pubblico hanno condiviso il palcoscenico, sono state presentate le creazioni di giovani coreografi italiani che si sono segnalati in concorsi e festival dedicati alla giovane danza d'autore. Teatro comunale di Vicenza. Anche nel 2010 è proseguita per la Stagione danza del Teatro, Vicenza Danza, la tradizione degli Incontri con la danza, interessanti conversazioni con critici, giornalisti e studiosi, accolti con attenzione e piacere dal pubblico vicentino, per presentare e condurre gli spettatori al cuore del balletto, raccontando generi, autori, trame, coreografie e movimenti dei danzatori La programmazione è iniziata in gennaio con Mi ultimo secreto travolgente spettacolo di flamenco contemporaneo proposto dalla Compañía Mercedes Ruiz, astro nascente della danza folklorica andalusa. Parlava italiano lo spettacolo in calendario in febbraio: Casanova, la nuova produzione della Compagnia Aterballetto, coreografia di Eugenio Scigliano che ha debuttato a Civitanova Marche nel luglio scorso, ha propost su raffinate musiche settecentesche, le trame della seduzione e del protagonista che gioca infinite volte con il suo doppio. Un evento unico lo spettacolo successivo, una doppia data che ha messo in scena un grande balletto contemporaneo, accompagnato dalle musiche dal vivo eseguite dall'Orchestra del Teatro Olimpico di Vicenza: si tratta della Serata Ravel - De Falla due creazioni di grande eleganza coreografica e di forte impatto scenico, Il ritratto dell'Infanta e L'amore stregone, proposte dal Malandain Ballet Biarritz, con la direzione artistica del raffinato coreografo francese Thierry Malandain. In marzo i generi dello spettacolo dal vivo dialogano per proporre al pubblico vicentino la tradizione dei grandi teatri stabili: un balletto impeccabile, l'Orchestra del Teatro Olimpico che accompagna la danza, diretta eccezionalmente per le due serate da Nicolas Brochot con l'esibizione della mezzosoprano Rosario Mohedano per il programma De Falla. Ancora un coreografo francese, ormai newyorkese, per la prima europea del Pascal Rioult Dance Theatre ha presentato la Grande Messa in do minore K. 427, musica di Wolfgang Amadeus Mozart. Considerata un monumento dei canoni tradizionali, la musica ha offerto al coreografo la possibilità di esaltare la sua abilità nel trasformare un capolavoro classico in una strepitosa esperienza contemporanea. In aprile La Bella Addormentata proposta da Les Grands Ballets Canadiens de Montréal. Sulle celebri musiche di Ciajkovskij che hanno reso indimenticabile il balletto classico, l'idea originale di Mats Ek è stata magistralmente interpretata dalla grande compagnia canadese che propone una vicenda contemporanea, in un contesto scenografico ambientato negli anni '50. Un balletto classico, caratterizzato da suggestioni scenografiche orientaleggianti e da sapiente tecnica interpretativa, come solo la grande scuola russa può proporre, è La Bayadère presentata in prima nazionale dal St Petersburg Ballet Theatre in maggio, coreografia originale di Marius Petipa, musica di Ludwig Minkus. Adda Danza. Come tutti gli anni, in maggio, a Trezzo sull'Adda, ha avuto luogo la XV edizione del Festival Adda Danza, uno tra i più seguiti nella provincia di Milano, tanto da registrare il tutto esaurito. Oltre a dare un ampio spazio all'arte coreutica, anche il côté architettonico è valorizzato da questo Festival, dato che lo spazio in cui si svolgono gli spettacoli è la Centrale Idroelettrica Taccani, esempio del meraviglioso stile Liberty. Il Festival si è aperto con un compleanno: la compagnia Balletto di Roma, arrivata a mezzo secolo di attività, ha proposto un doppio spettacolo in due diverse serate: una nuova versione di Otello, con la coreografia di Fabrizio Monteverde, con le musiche di Dvorak che fanno da leggero contrappunto ironico alle azioni dei ballerini, ambientate in un porto di mare, per sottolineare le partenze e gli arrivi di persone da mondi diversi, e una seconda serata di sapore argentino: la coreografa Milena Zullo ha rivisitato uno spettacolo dell'anno precedente, Hora zero, creando Contemporary Tango, che, come denuncia il nome, riprende i movimenti del tango, mescolandoli a un linguaggio più contemporaneo. Un'altra serata è stata all'insegna della Spellbound Dance Company con Le quattro stagioni, che abitano fuori e dentro un piccolo spazio, che sembra una casetta, una nave, un albero, un posto dove osservare le stagioni che mutano, come ha spiegato il coreografo Mauro Astolfi, che spesso ha partecipato ad Adda Danza, e la cui formazione, prevalentemente internazionale, gli ha permesso di fare proprie esperienze diverse nel settore coreutico. Le musiche di Vivaldi sono mixate con quelle originali di Luca Salvadori, composte apposta per questo balletto ovviamente non per suscitare un confronto impossibile con il grande maestro del passato, ma, parafrasando Salvadori, per avere più punti di osservazione e mettere a fuoco soggetti diversi, spesso sfuggenti. E sono di nuovo giovani danzatori, quelli del Junior Balletto di Toscana, compagnia che costituisce la struttura produttiva di tirocinio professionale della Scuola del Balletto di Toscana, a conquistare il palcoscenico, danzando Sulle tracce di Diaghilev, ispirato al celebre direttore artistico dei Balletti Russi, che fece conoscere al mondo il genio di Vaslav Nijinskij. La compagnia Balletto dell'Esperia ha presentato tre titoli della tradizione coreutica, rivisitati da altrettanti coreografi contemporanei. Si parte con La morte del cigno, firmato dal francese Thierry Malandain, rivisitazione del pezzo di Fokine composto perAnna Pavlova e proposto ad Adda Danza da tre danzatrici. A fare da contrappunto alla scelta di moltiplicare le interpreti femminili, L'après-midi d'un faune è stato invece danzato da un duo 200 danza maschile, con la coreografia di Eugenio Scigliano, che ha voluto così esaltare l'aspetto mascolino del ruolo. Ha chiuso la serata una composizione di Paolo Mohovic, I quattro temperamenti, nel quale la distinzione maschile/ femminile è sottolineata da un'interpretazione quasi animalesca dei primi opposta all'eleganza e raffinatezza delle ultime. Il festival si è concluso dedicando due serate alla compagnia argentina Tangokinesis con le coreografie di Ana MarÌa Stekelman, Happy Hour, ad Adda Danza in prima nazionale, e Nuevo Tango. La tradizione del tango argentino ripensata e mostrata in una nuova e originale forma compositiva, mescolando i tangheros classici a ballerini moderni e classici. Nonostante i numerosi problemi dovuti alla diminuzione dei finanziamenti da parte degli Enti pubblici per le attività dello spettacolo, si è comunque riusciti a organizzare il festival. E il pubblico ha risposto in modo positivo a questo evento, a dimostrazione del fatto che la danza è un ottimo investimento, oltre che dal punto di vista economico anche da quello culturale. Dalla patria del Maestro Enrico Cecchetti, uno dei più importanti codificatori della danza classica, del resto, non ci si può aspettare che il perpetuarsi della tradizione di una delle arti più antiche che l'uomo abbia conosciuto. Teatro Roma 2. L' Assessorato alle Politiche Culturali e della Comunicazione Municipio Roma 2 Teatro Greco Dance Company ha presentato Pantheos Integrazione delle arti e delle culture nella danza. Quest'anno la Rassegna ha proposto un cartellone ricco di eventi, dove la danza Jazz e contemporanea ha incontrato i ritmi, i colori e la travolgente musicalità delle danze latinoamericane. Ha inaugurato la Rassegna Tango Sensual, uno spettacolo diretto e interpretato da Mauro Barreras e Ambra De Angelis, con la partecipazione di Geraldine Rojas, Ezequiel Paludi, Claudia Fusillo, Roberto Ricciuti, Alice Gaine e Andrea Bassi per una serata di avvolgente sensualità. Claudio e Armanda Di Stazio hanno presentato Caribbean Roma Style, una rassegna di danze caraibiche interpretate da grandi artisti internazionali. Lazaro Martin Diaz ha proposto Salsa Evolution: un viaggio appassionante nelle danze popolari cubane dagli albori della scoperta dell'America fino alla Salsa, fenomeno moderno d'integrazione socio-culturale. Astra Roma Ballet ha messo in scena il balletto Aladino, con coreografia contemporanea di Daniela Megna e una ouverture in stile neoclassico di Diana Ferrara. Chi di noi non ha mai pensato che se avesse avuto una lampada magica come quella di Aladino avrebbe esaudito tutti i suoi desideri? Il balletto, prendendo spunto dalla celebre favola delle Mille e una notte, vuole riflettere sul difficile cammino spirituale che ogni uomo deve affrontare per ritrovare se stesso. La rassegna si è chiusa con Flamenco Tango- Jazz. La Compagnia Caterina Lucia Costa ha infatti presentato El silencio de la luna: la passione vissuta in una notte di luna piena con desiderio di libertà, in un linguaggio quotidiano di ritornelli popolari. Il tutto raccontato attraverso la danza e la musica del flamenco. Roberta Beccarini e Guillermo Berzins si sono esibiti in uno spettacolo di Tango, metafora della vita e dialogo sensuale fra i corpi. Infine il grande Jazz della Teatro Greco Dance Company con Corrado Celestini, Gianpaolo Roncarati e Francesca Pignataro. Danza Allstyles. Prima rassegna estiva di danza, si è svolta in agosto, presso la stupenda Arena Sferisterio di Macerata, dando vita ad un evento culturale di prestigio, rivolto alla danza ed al suo mondo. In questo contesto, Danza allstyles aveva l'obiettivo di avvicinare le arti espressive alla città, e la città alle arti, costituendo una importante vetrina: vetrina per i ragazzi che hanno potuto esibirsi davanti ad un pubblico, vetrina per le scuole, vetrina per la danza, la musica, il canto, il teatro, ma soprattutto vetrina per la città di Macerata. Già famosa per l'opera lirica, essa ha assunto il volto giovane e moderno di città culturale poliedrica. Centro universitario e dimora del Musicultura Festival, dedicato alla musica popolare e d'autore, Macerata è ora anche città di danza, dove i giovani sono protagonisti con un evento non fine a se stesso, ma che ha lo scopo prioritario di dar loro una concreta occasione di crescita. La manifestazione si rivolge principalmente a tutte le scuole di danza d'Italia. Il veicolo pubblicitario di rilievo è rappresentato da una rivista, dedicata alla danza ed ai protagonisti della manifestazione. Ospiti di fama internazionale, coreografi, direttori artistici e ballerini famosi, hanno offerto al pubblico stupende coreografie, fungendo da preziosa cornice all'evento. Milano Danza Expo. Dal 26 al 28 novembre 2010, nel polo fieristico del Parco Esposizioni Novegro ha preso vita la seconda edizione di Milano Danza Expo, fiera della danza, del ballo e del movimento promossa dall'Ente organizzatore Comis. Consegnato il premio alla carriera, nella serata di Gala, a Luciana Savignano. Diversi ospiti d'eccezione tra cui: Anbeta Toromani, Bruno Vescovo, Mauro Astolfi, Susanna Beltrami, Marco Batti ed Eugenio Buratti. L'obiettivo della manifestazione era quello di radunare a Milano tutte le anime della danza e del ballo nel cuore dello storico Parco Esposizioni Novegro, i protagonisti del settore: dall'hip hop alla danza orientale e del musical. Dedicata ai professionisti e agli appassionati, è la seconda edizione di Milano Danza Expo. Fiera ma anche, e soprattutto, eventi. Milano Danza Expo va al ritmo della community dei giovani. Il palinsesto diretto da Simone Ranieri metteva in agenda, ogni giorno, stage e lezioni, concorsi per professionisti e non, rassegne per compagnie e scuole, esibizioni e spettacoli, workshop e incontri, audizioni e casting. In tutto oltre 200 stage e 250 ore di lezioni. A disposizione dei visitatori oltre 7 mila metri quadrati, cinque sale attrezzate, aree spettacolo disseminate nei due padiglioni dove sfogare la voglia di danzare, set televisivi dove incontrare i propri idoli e assistere a dibattiti e presentazioni di iniziative editoriali, e per i giovanissimi, la partecipazione del cast di Wanna Dance, programma cult di Boing.

Anno 2010. Musica classica. La Scala inizia la stagione a passo di valchiria. Si è chiuso tra gli applausi convinti del pubblico il lunghissimo pomeriggio-sera scaligero della "prima" del 7 dicembre: in scena Die Walkure, La Valchiria di Richard Wagner, opera seconda della tetralogia "L'Anello del Nibelungo". La direzione era affidata a Daniel Barenboim e la regia a Guy Cassiers. Come ogni anno l'apertura della stagione è stata preceduta da polemiche, questa volta per i tagli del governo alla cultura e mentre all'interno del teatro si svolgevano gli ultimi preparativi, fuori continuavano le manifestazioni: tra i nomi dei personaggi che si sono raccolti nella piazza antistante il teatro, per far sentire la loro voce per una giustissima causa, c'erano Paolo Rossi, Toni Servillo, Moni Ovadia e Andrée Ruth Shammah, da sempre in prima linea a favore della causa, ma molti erano gli universitari e gli allievi delle scuole di teatro (a loro sarebbe andato il pieno sostegno di Francesco Saverio Borrelli, ex procuratore capo di Milano, presente in sala, il quale avrebbe dichiarato alla stampa di solidarizzare "pienamente con gli studenti, perché i tagli sono ispirati al principio di uguaglianza e pertanto dovrebbero essere fatti ente per ente"). A margine della conferenza stampa che precede l'inaugurazione del teatro ha fatto eco a queste proteste lo stesso Stéphane Lissner, sovrintendente e direttore artistico del teatro, il quale si è dimostrato preoccupato: "Se non ci sarà la reintegrazione del Fondo unico per lo spettacolo, sarà una cosa abbastanza grave. Rappresenta una mancanza di 5 milioni di euro. Il quadro potrebbe anche peggiorare l'anno prossimo, posso dire che non solo la Scala sarà in difficoltà, quasi tutte le fondazioni liriche saranno costrette a chiudere". Per la prima volta le proteste e i timori hanno avuto la dovuta risonanza anche all'interno del teatro, sul palco: il maestro Daniel Barenboim si è così espresso: "Sono molto felice - ha esordito rivolto verso il capo dello Stato Giorgio Napolitano seduto in prima fila - di dirigere ancora una volta alla Scala. Sono onorato di essere stato dichiarato maestro scaligero, ma a nome dei miei colleghi sono molto preoccupato per il futuro della cultura in Italia e in Europa. Se mi permettete - ha continuato il direttore - vorrei che ricordiamo insieme l'articolo 9 della Costituzione Italiana: "La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione". Alla lettura del testo sono seguiti fragorosi applausi da parte degli spettatori. Barenboim, direttore e pianista, ha parlato "anche in nome di tutti i ... colleghi che suonano, cantano, ballano e lavorano non soltanto in questo magnifico teatro, ma in tutti i teatri d'Italia". Alla fine del secondo tempo della Valchiria il presidente Napolitano, come aveva annunciato, ha incontrato le rappresentanze sindacali: da parte di Napolitano c'è stato "apprezzamento per le parole di Barenboim, che anche se in modo conciso ed essenziale" ha lanciato un messaggio condivisibile e di conseguenza c'è stata soddisfazione da parte delle rappresentanze sindacali del Teatro scaligero per le parole "eloquenti del presidente che ha riconosciuto l'estremo valore della cultura, ...che è risorsa strategica" e che ha sottolineato come la Costituzione vada attuata. Restando in argomento, prima di passare alla musica, ha brillato per la sua assenza alla serata il ministro dei Beni culturali, Sandro Bondi. E ora l'opera. Quasi cinque ore. Nonostante gli eccessi tecnologici di cui si parlava con timore alla vigilia la scena si è dimostrata essenziale e ricca nel contempo. Splendido il dialogo a tre del primo atto enfatizzato da fasci di luce, giochi di ombre proiettate sulle pareti e inserti video sapientemente dosati. Notevoli, nel secondo atto, la scultura di giganteschi cavalli verdi e il globo ruotante alle spalle di Wotan, il Re degli dei. Tra i cantanti, scelti con grande perizia, è emersa l'interpretazione di Siegmund da parte di Simon O'Neill e di Waltraud Meier nel ruolo di Sieglinde. Un po' timoroso l'Hunding di John Tomlinson. Eccellente Nina Stemme, nel ruolo della valchiria Brünnhilde. In primo piano comunque la musica di Wagner, con la sua capacità di condurre una sorta di "inazione", anche quando in scena succede poco o nulla, con un tessuto musicale sempre prezioso ed eloquente. Una scrittura capace però di far sobbalzare di stupore, inaspettatamente, come solo il genio può. Impeccabile la direzione: Barenboim ha gestito la trama e le nuances della partitura, con una coesione buca-palco perfetta, confermando ancora una volta la maestria con cui sa curare l'insieme e il particolare. A lui, ebreo, va anche riconosciuto il coraggio di dirigere Wagner, compositore ancora discusso per le sue tesi antisemite e per l'uso che Hitler fece della sua musica. A questo proposito in un articolo di pochi giorni prima il direttore si era espresso così: "Quando si continua a sottoscrivere il tabù su Wagner in Israele, ciò significa che concediamo ancora l'ultima parola a Hitler". Questa prima scaligera ha avuto un numero di spettatori infinitamente maggiore rispetto agli altri anni: l'opera era visibile in 350 sale mondiali, di cui 90 in Italia. I milanesi potevano vederla anche dall'Ottagono della Galleria Vittorio Emanuele, iniziativa che già l'anno precedente aveva riscosso molto successo. E poi il digitale terrestre: la Rai infatti ha inaugurato il nuovissimo canale Rai 5 proprio con la diretta dell'opera e poi ha mandato in onda i commenti da platea e backstage. E così si aprono le porte del teatro, si coinvolge il pubblico, in ottemperanza alla missione, ricordata da Lissner nella conferenza stampa di presentazione della serata, "di essere sempre vicini ai cittadini, perché siamo un teatro pubblico". Forse l'atmosfera magica del teatro non può essere trasmessa fuori dalle mura neoclassiche del Piermarini, certo è che la cosa è stata fatta al meglio: "tutto in alta definizione, con più di cinquanta microfoni", ha spiegato Antonio Marano, vice direttore generale Rai. Altra grande novità è stata quella della "prima ecosostenibile": Edison, azienda che per prima ha fornito la luce elettrica al teatro nel 1883, quest'anno ha eliminato le emissioni di anidride carbonica per l'intera produzione della Valchiria: ecco dunque il primo spettacolo a emissioni zero. Ottanta tonnellate circa di CO2 completamente compensate da energia eolica. Storia del Teatro. La genesi del Teatro alla Scala è legata a una storia di incendi, crolli e distruzioni: sul sito esisteva una chiesa gotica, Santa Maria alla Scala, così chiamata in onore della committente Regina della Scala, moglie di Bernabò Visconti. Il nome del teatro la ricorda tuttora. La chiesa venne fatta distruggere per lasciare spazio al Teatro Ducale, poi distrutto a sua volta nell'incendio del 1776 e fatto ricostruire per volontà dell'Imperatrice Maria Teresa d'Austria sulla base del progetto dell'architetto neoclassico Giuseppe Piermarini. Venne inaugurato nel 1778 con l'opera di Antonio Salieri Europa riconosciuta. Le spese per l'edificazione del nuovo teatro furono sostenute dai proprietari dei palchi del Teatro Regio Ducale in cambio del rinnovo della proprietà dei palchi. La Scala venne bombardata durante la seconda guerra mondiale, nella notte tra il 15 ed il 16 agosto del 1943, subendo gravi danni, ma venne subito ricostruita e riaperta l'11 maggio 1946, con un memorabile concerto di Arturo Toscanini. La fretta nella ricostruzione del soffitto e della sua sospensione al sistema complesso di travi, aveva però impedito di trovare i componenti simili agli originari e si erano adottate soluzioni ibride in cemento armato che secondo qualcuno peggiorarono l'acustica della sala. La finitura interna del soffitto fu invece di indiscussa raffinatezza: solo un dipinto geometrico in toni di grigio, a far risaltare ancor di più il magnifico ed enorme lampadario (con quasi 400 lampadine) realizzato in cristallo soffiato dagli artigiani di Venezia. Per dare un'idea delle sue dimensioni, dalla coppa con cui è applicato al soffitto scende all'interno del lampadario un tecnico a manovrare l'occhio di bue, ovvero il faro seguipersone. Dal punto di vista architettonico la Scala si rifà al Teatro della Reggia di Caserta del Vanvitelli, ed è divenuto in breve tempo il modello di riferimento per il "teatro all'italiana": la facciata dispone di una soluzione che ha fatto storia: la galleria delle carrozze, subito imitata da altri teatri. Il Piermarini non aveva previsto che si potessero vedere i coppi, perché il teatro ai suoi tempi si apriva su una via relativamente stretta. Con l'apertura di Piazza della Scala vi è l'effetto curioso del timpano sormontato da coppi. Tra il 2002 e il 2004 la Scala è stato oggetto di una radicale ristrutturazione, allo stesso modo in cui si era intervenuti anche sui grandi teatri europei, L'Opera di Parigi e il Covent Garden di Londra tra i principali. Il progetto dell'architetto svizzero Mario Botta non è stata privo di polemiche, in primo luogo per l'impatto estetico della torre scenica e della "torre" a pianta ovale. I lavori, iniziati nel gennaio 2002, sono stati terminati nel dicembre 2004: in quel periodo gli spettacoli sono stati allestiti a teatro degli Arcimboldi, alla Bicocca. La pianta della platea è a forma di ferro di cavallo, vi sono quattro ordini di palchi e due gallerie. All'opposto del palcoscenico vi è il palco reale, oggi riservato alle autorità. Il boccascena è di 16 x 12 metri, ed è identico a quello del teatro degli Arcimboldi, in modo che le scene possano passare da un teatro all'altro senza problemi. All'inizio il sipario era una tela dipinta, che si apriva a caduta. Ora il sipario è in velluto rosso, con apertura all'imperiale, con una complessa decorazione in oro sempre in stile neoclassico. Nella parte superiore del sipario vi è lo stemma del Comune di Milano, e sopra un particolare orologio luminoso che indica l'ora (numero romano) e i minuti (numeri arabi, scanditi a intervalli di tempo di cinque minuti). Joan Sutherlanad, La Stupenda. Il soprano australiano Joan Sutherland è morta il 10 ottobre in Svizzera, a Les Avants, dove da tempo si era ritirata a vivere con il marito, il direttore d'orchestra Richard Bonynge. Da tempo era malata di cuore e le sue condizioni di salute erano peggiorate dopo una caduta nel luglio 2008 che le aveva procurato la frattura di entrambe le gambe. Nata a Sydney nel 1926, in novembre avrebbe compiuto 84 anni. Suprema virtuosa, è stata una delle più grandi protagoniste dell'opera nel Novecento. Pochi cantanti lirici hanno avuto una carriera autorevole e lunga - più di quattro decenni - come la sua. Dotata di una voce di bellissimo timbro, di notevole volume e assai estesa (dal sol naturale sotto il rigo al fa diesis sopracuto), con sopracuti limpidi e penetranti, è stata capace di agilità sublimi quanto spericolate. Attrice intelligente e misurata, nel registro tragico come nel comico, ha dato un contributo fondamentale al recupero della tecnica e della prassi esecutiva belcantistica (particolarmente nella sua accezione primo-ottocentesca), sviluppando in modo più specialistico e portando ai massimi esiti la "rivoluzione" stilistico- interpretativa avviata da Maria Callas. Molte delle sue interpretazioni, in buona parte consegnate ufficialmente al disco, sono considerate di riferimento. Luciano Pavarotti la definì "the Voice of the Century" (la voce del secolo) e per i melomani è stata, è e sarà, semplicemente, La Stupenda, Koloraturwunder e The Incomparable. Soprano d'agilità, dopo aver studiato canto nella natia Australia, prima con la madre, poi privatamente con Aida Summers, ha debuttato a Sydney nel 1947 con un concerto di brani wagneriani. Ha poi dato voce alla Didone nel Dido and Aeneas di Purcell, quindi a Dalila nel Sansone di Händel e alla Judith di Eugene Gossens. La sua carriera europea ha inizio a Londra nel 1952, con l'interpretazione di Giorgetta nel Tabarro di Puccini al Royal College of Music e, lo stesso anno, della Prima Dama nel Flauto magico di Mozart al Covent Garden. Prima di affrontare la parte protagonistica di Amelia nel Ballo in maschera di Verdi, alla Royal Opera House ha cantato parti secondarie, tra cui la sacerdotessa nell'Aida verdiana e Clotilde nella Norma di Bellini, entrambe accanto a Maria Callas. Nel frattempo ha affrontato vari ruoli minori, come la Soprintendente nella Elettra di Richard Strauss, Lady Rich nella Gloriana di Benjamin Britten, Frasquita nella Carmen di Georges Bizet e Helmwige nella Walküre di Richard Wagner. Ha interpretato, quindi, la Contessa nelle Nozze di Figaro mozartiane e, nel 1954, Aida nell'omonima opera verdiana e Agathe nel Freischütz di Weber. Ha poi debuttato anche nei Racconti di Hoffmann di Offenbach, nel ruolo di Antonia nel 1954 e in quelli di Giulietta e Olympia nel 1955 (a Seattle, nel 1970, interpretò tutte e quattro le parti femminili dell'opera, quindi anche Stella). Nel 1958 ha iniziato a esibirsi in altri Paesi, interpretando a Vancouver Donna Anna nel Don Giovanni di Mozart. La sua carriera ebbe una svolta decisiva nel febbraio 1959, quando cantò Lucia di Lammermoor a Londra, con la regia di Franco Zeffirelli e diretta da Tullio Serafin. In una sola serata, grazie a un ruolo di coloratura drammatica (che poi avrebbe riproposto addirittura per un trentennio, fino alle recite di addio di Barcellona nel 1988), la Stupenda diventò improvvisamente una star internazionale, guadagnandosi un contratto esclusivo con un'importante casa discografica britannica, la Decca, e iniziando a incidere numerosi recital, tra cui il capolavoro assoluto "The Art of the Prima Donna" del 1960 che vinse il prestigioso premio Grammy. Dopo Lucia di Lammermoor, interpretò la Rodelinda di Händel e La Traviata di Verdi nei ruoli del titolo, I puritani e La sonnambula di Bellini. La Sutherland si impose quindi sulla scena internazionale riportando in auge molte parti sopranili create da Giulia Grisi e da altre grandi primedonne dell'Ottocento, allora affrontate sempre più raramente. Nel 1961 debuttò alla Scala riesumando la Beatrice di Tenda di Bellini; l'anno dopo, ancora a Milano, cantò in Les Huguenots di Meyerbeer, con Franco Corelli, Giulietta Simionato, Nicolai Ghiaurov e Fiorenza Cossotto, e nella Semiramide di Rossini. Nello stesso 1962 fu la Regina della Notte nel Flauto magico diretta da Otto Klemperer al Covent Garden, e l'anno dopo Cleopatra nel Julius Caesar di Händel. Dopo aver collaborato con molti dei maggiori direttori d'orchestra del tempo, dal 1963 Joan Sutherland lavorò quasi esclusivamente con suo marito, il direttore, musicologo e filologo Richard Bonynge, pieno corresponsabile delle scelte della sua carriera. Fu lui a sconsigliarle di usurare la voce con ruoli troppo drammatici e pesanti, che quindi la Sutherland avrebbe poi saggiamente evitato, e fu lui che ne scoprì e sponsorizzò la prodigiosa vocazione belcantistica. Insieme debuttarono con Norma a Vancouver nel 1963: la sacerdotessa dei druidi è un ruolo che la Stupenda ha interpretato, stabilendo un record, per un quarto di un secolo. Seguirono nel 1965 il Faust di Gounod a Filadelfia, nel 1966 La fille du Régiment a Londra, nel 1967 Lakmé di Delibes a Seattle ed Orfeo ed Euridice di Haydn a Vienna. E ancora: Maria Stuarda (San Francisco, 1971), Lucrezia Borgia (Vancouver, 1972), Die Fledermaus di Strauss ed Esclarmonde di Massenet (San Francisco, rispettivamente 1973 e 1974), Il trovatore (San Francisco, 1975) e La vedova allegra (Vancouver, 1976), Suor Angelica di Puccini e Le Roi de Lahore di Massenet (rispettivamente a Sydney e Vancouver, 1977), Idomeneo di Mozart e I masnadieri di Verdi (Sydney, rispettivamente 1979 e 1980). A San Diego, nel 1983 debuttò in Adriana Lecouvreur di Cilea e nel 1984, a Toronto, in Anna Bolena di Donizetti. Il suo ultimo debutto è Ophélie in Hamlet di Thomas (Toronto, 1985). Come si può vedere, la Sutherland ha salvato dall'oblio non soltanto molte opere del primo Ottocento italiano, ma anche diversi titoli del repertorio francese. Al culmine del successo internazionale, si è ritirata dalle scene nel 1990 (a Sidney, nel ruolo di Margherita di Valois in Les Huguenots), a sessantaquattro anni, dopo quarantatré anni di carriera e circa sessanta ruoli interpretati. Pochi di essi sono stati da lei affrontati solo in sala di registrazione; tra questi la protagonista della Turandot di Puccini, Adina nell'Elisir d'amore, Ah-Joe nell Oracolo di Leoni e Athalia di Händel. Inoltre ha lasciato documenti rilevantissimi anche per la musica sacra, tra l'altro eseguendo il Messiah e il Sansone di Händel, il Requiem di Verdi e alcune composizioni di Johann Sebastian Bach. Ha inoltre cantato e inciso il quarto movimento della Nona sinfonia di Ludwig Van Beethoven. Infine la Sutherland ha avuto anche il merito, insieme al marito, di aver contribuito al lancio di Luciano Pavarotti sulla scena internazionale. Il tenore affermò in più occasioni di aver compiutamente rifinito la tecnica di respirazione ed appoggio del suono grazie a suoi insegnamenti, divenendone il partner privilegiato per molti anni. Nel 1978 la regina Elisabetta II le conferì il titolo di dama dell'impero britannico (Dame - Commander of the British Empire).

Anno 2010. Musica leggera e jazz. Il Festival di Sanremo. Il Sessantesimo Festival della Canzone Italiana si è svolto al Teatro Ariston di Sanremo dal 16 al 20 febbraio. Vi hanno partecipato venticinque interpreti che hanno proposto altrettanti brani, suddivisi in due sezioni: Artisti, in cui erano in gara quindici interpreti affermati, e Nuova Generazione, composta dai restanti dieci artisti, per lo più al debutto. Ad aggiudicarsi la vittoria della categoria Artisti, alla sua prima apparizione al Festival, è stato Valerio Scanu con il brano "Per tutte le volte che....". Il giovane cantante, classe 1990, ha battuto tutta la concorrenza ed è riuscito ad aggiudicarsi questo ambito premio. È la seconda volta che un concorrente di Amici vince sul Palco dell'Ariston: l'anno precedente era stato premiato Marco Carta, trionfatore anche del talent show. Quest'anno ha vinto invece il secondo classificato. Ma a far discutere è la seconda posizione, occupata dal trio Pupo - Emanuele Filiberto - Luca Canonici, la cui canzone ha sollevato numerose proteste. Molte le polemiche che hanno accompagnato questa ultima serata del Festival di Sanremo 2010. Il pubblico non ha gradito l'esclusione di Irene Grandi, così come l'eliminazione di Simone Cristicchi. Il picco massimo dell'indignazione è arrivato al momento dell'esclusione di Malika Ayane, tanto che anche l'orchestra ha protestato lanciando per aria gli spartiti musicali. Quando sono stati letti i nomi dei tre finalisti, la platea è insorta, urlando "venduti, venduti", riferito alla posizione raggiunta dal trio di cui abbiamo dato notizia poco sopra. La categoria Nuova Generazione è stata vinta dalla canzone "Il linguaggio della resa" di Tony Maiello. Terza posizione per un altro personaggio televisivo, Marco Mengoni, vincitore dell'ultima edizione di X Factor, con la sua canzone "Credici ancora". Mengoni, era stato ammesso di diritto nella categoria Artisti. La conduzione è stata affidata ad Antonella Clerici, quarta donna conduttrice della principale rassegna canora dopo Loretta Goggi, Raffaella Carrà e Simona Ventura (non considerando Stefania Casini, conduttrice "ufficiosa" del Festival di Sanremo 1978). E la Clerici ha stupito tutti: con la sua aria da massaia bonaria e i suoi abiti improbabili ha fatto segnare punte di share del 55%, con vette di 16 milioni di spettatori. I brani di maggior successo. Come ampiamente prevedibile, ed ovvio, ha trionfato la Waka Waka di Shakira accompagnata dal gruppo musicale Freshlyground. Certo, il 2010 è stato l'anno dei mondiali africani vinti dalla Spagna. E Waka Waka ne è stato l'inno ufficiale, rifacimento di un brano africano (camerunense per la precisione: Zangalewa), con la partecipazione di un gruppo sudafricano che include elementi del Mozambico e dello Zimbabwe, ed interpretato da una interprete di lingua spagnola. Waka Waka è stata al N.1 della classifica per 16 settimane consecutive. Curiosamente uguagliando il record di un altro brano che aveva fatto da inno ai mondiali di calcio di 20 anni prima, quelli italiani del '90 quando il tormentone fu costituito da Un'estate italiana della coppia Gianna Nannini / Edoardo Bennato e le loro notti magiche aspettando un gol. Il trionfo delle moine di Shakira viene completato da un brano che tenta il bis del tormentone estivo, Loca interpretato in doppia versione: in inglese con il rapper Dizzie Rascal ed in spagnolo col rapper dominicano El Cata. Al 2° posto della classifica annuale in Italia c'è Ligabue, con la sua Un colpo all'anima tratta dal suo ultimo album Arrivederci, mostro! Jovanotti piazza due N.1 ad inizio (Baciami ancora) e a fine anno (Tutto l'amore che ho). Da citare anche il suo featuring in un altro successo da Top Ten annuale: Mondo di Cesare Cremonini che si piazza al 10° posto. Ma la vera sorpresa dello scenario italiano la procurano i Modà che piazzano in classifica 2 successi di buone proporzioni: La notte (8°) e la precedente Sono già solo (35°). La nuova leva della canzone mainstream italiana viene completata dalla definitiva affermazione di tre interpreti muliebri provenienti da Sanremo: Malika Ayane con Ricomincio da qui (20°), Nina Zilli con L'uomo che amava le donne (66°) e, soprattutto, Noemi con Per tutta la vita (16°). Il brano di maggior successo uscito dalle kermesse televisive veleggia al 37° posto (Calore di Emma Marrone), mentre Marco Mengoni si attesta al 49° (Credimi ancora), l'Amoroso è 53a con La mia storia con te, Scanu è 62° con Per tutte le volte che... (nonostante il "trionfo" sanremese), e l'ultima vincitrice di X-Factor, Nathalie, addirittura 85a con In punta di piedi. Alla fin fine, l'unica novità italiana che si è imposto a livello mainstream risulta forse essere Fabri Fibra che ha fatto centro con Vip in trip, grazie soprattutto al video associato che faceva il verso ad un celebre video dei Clash (Rock in the Casbah). Mentre si è avuta la conferma della maturità artistica raggiunta da Cesare Cremonini che piazza in Top Ten un brano di ottima qualità: Mondo. Per il resto la classifica è dominata dal pop di matrice angloamericana sia da parte di popstar quali Shakira, LadyGaga, Black Eyed Peas, Eminem, Rihanna, Robbie Williams ed i redivivi Take That, sia da parte di più o meno "one-hit wonder": i Train di Hey, Soul Sister, i Temper Trap di Sweet Disposition o i Mads Langer di You're Not Alone. La dance continua a cogliere importanti successi da alta classifica e rappresenta forse il genere dove avvengono più "cose". Diverse le sorprese quest'anno: dal belga Stromae che conquista addirittura la Top Ten (9° posto) con Alors on danse, alla coppia di DJ Yolanda Be Cool e Dcup che hanno rispolverato il vecchio classico di Carosone e ne hanno fatto un tormentone internazionale con We No Speak Americano (36°), sino alla dance che viene dall'Est di Stereo Love (39°) di Edward Maya e Vika Julina e a Why Don't You di Gramophoneidze (64°). Tra le prime ci piace segnalare l'ottimo risultato di un brano tutt'altro che facile al primo ascolto ma che quando ti entra in testa ti affascina: CMYK di James Blake. Ma sono diversi i brani di livello molto elevato: dalla coraggiosa Born Free di M.I.A. (alla seconda presenza in classifica dopo il n.72 di XXXO), alle atmosfere un po' new age dei JJ con la bellissima Let Go, passando dall'ottimo soul di Quentin Harris con Give It 2 U che si avvale della strepitosa interpretazione di Ultra Natè, e giungendo alla trascinante Dog Days Are Over della magnifica Florence and The Machine. Ma i pezzi maggiormente "alternativi" e più di nicchia sono rappresentati dagli ottimi piazzamenti di How To Dress Well con Lover's Start, da Soft As Chalk della celebrata Joanna Newsom e dal canadese Caribou con Odessa. Certo, non sono pezzi apprezzabili dalla totalità degli ascoltatori ma ci stanno bene in un "best of" dell'annata appena trascorsa. Il trio britannico The XX e la banda canadese Arcade Fire sono tra gli artisti maggiormente osannati in questi anni e non potevano mancare nella nostra lista. I primi con la bellissima VCR (tratta ancora dall'acclamatissimo loro primo album eponimo) mentre i secondi sono presenti addirittura con 3 brani, con We Used To Wait. Infine, notevoli i consensi ottenuti da Janelle Monae con Cold War, forse il debutto più notevole del 2010, e dalla sconosciutissima Madita, attrice austriaca prestata alle 7 note con un vero e proprio pezzo-killer, ET. Assolutamente di tutto rispetto le presenze italiane di questo blocco. Tra queste, ci fanno particolarmente piacere quei brani che non hanno avuto sinora la visibilità che avrebbero meritato come la splendida Casting dei Mambassa, o la straziante Per carità di Stato di Moltheni, o la giocosa Me so mbriacato del cantautore romano Mannarino. Oltre al loro brano di punta Gli spietati, sono almeno 5 i pezzi dei Baustelle che meritano sicuramente una citazione: Le Rane, La bambolina, San Francesco, I mistici dell'Occidente e L'indaco, a dimostrazione della ottima qualità dei loro brani. Comunque c'è da notare che la tanto bistrattata saga più televisiva che musicale di Sanremo, alla fine è riuscita a piazzare ben 5 brani in questa nostra classifica "best of". Come si vede, quindi, l'appuntamento sanremese riesce ancora a sfornare pezzi che poi restano nella storia della canzonetta italica. Infine, vogliamo chiudere con un omaggio alla bistrattatissima scena dance italica che, nonostante sia apprezzata oltralpe, continua ad essere quasi del tutto ignorata dalle nostre parti. Ricordiamo qui I Was Drunk del dj napoletano Riva Starr (alias Stefano Miele) e Pirupa, dj produttore di Teramo con Clarity of Love, misconosciuta produzione italica. L'edizione italiana di X Factor conferma la sua capacità nell'identificare talenti davvero meritevoli del successo di massa, come dimostra il 18° posto conquistato dalla vincitrice dell'ultima edizione, Nathalie Giannitrapani, qui presente con la delicata e passionale In punta di piedi, da lei stessa composta. Ancora una produzione italiana in 17a posizione (a conferma che l'italiano è piuttosto popolare in Italia...): Ti vorrei sollevare di Elisa con Giuliano Sangiorgi dei Negramaro è un bel brano inserito nella tradizione melodica nazionale che ha saputo farsi apprezzare dal grande pubblico. Continuiamo con le sorprese: i milanesi Amor Fou sono uno dei tanti gruppi indipendenti italiani di questi anni grami, vergognasamente ignorati dal "grande" giro. De Pedis è una struggente ballata che prende il titolo dal cognome dello spietato capo della Magliana qui visto inaspettatamente in una dimensione umana. Magnetico ed affascinante il brano in 13a posizione, dovuto al gruppo britannico degli Hurts. Wonderful Life ha iniziato ad avere successo in paesi europei grazie ad un remix di Arthur Baker, per poi imporsi nella versione originale con l'uscita del loro album la scorsa estate. Ritorno col botto per i Massive Attack che si piazzano a ridosso della nostra Top Ten: interpretata dalla voce di Hope Sandoval Paradise Circus è un piccolo capolavoro agrodolce di quelli che solo il duo di Bristol e pochissimi altri sanno confezionare. La vecchia Albione continua a dettare legge in campo di musica pop. I Temper Trap hanno ottenuto unanimi riconoscimenti per la loro Sweet Disposition. Max Gazzè ha tirato fuori uno dei più bei pezzi italiani del 2010 con Mentre dormi: finalmente è divenuto stabilmente uno dei frequentatori fissi delle chart di vendita dove ha stazionato con 29 settimane di presenza. Guarda l'alba conferma il vero e proprio stato di grazia di Carmen Consoli, forse oggi la più lucida e importante voce "d'autore" al femminile del panorama italiano. La canzone, scritta insieme a Tiziano Ferro unisce in maniera prodigiosa un testo al tempo stesso dolente e di speranza e una melodia dal respiro d'altri tempi. Ricomincio da qui sancisce la definitiva consacrazione di Malika Ayane e, contemporaneamente, conferma che Sanremo continua a tirar fuori brani destinati a restare nella storia della canzone italiana. Entrambi i brani nelle posizioni più alte sono di produzione britannica. Al 2° posto il rapper Plan B ha convinto tutti con la sua virata soul della saga The defamation of Strickland Banks in cui racconta in musica (e videoclip) le disavventure del cantante processato e condannato ingiustamente. She Said è stato il primo estratto dall'album ed ha sbancato le chart di mezzo mondo. E finalmente, il brano più bello del 2010: la straordinaria interpretazione di Florence + The Machine di You've Got The Love. Sì, una cover (uscita tra l'altro nel 2009 ma esplosa in Italia nel 2010), di un brano misconosciuto addirittura degli '80 di Candi Staton, ripreso poi successivamente da vari interpreti (primi tra tutti The Source) sino a divenire un vero e proprio cult, ultima la strepitosa versione remix della interpretazione di Florence. La canzone numero 1. Born this way di Lady GaGa va al primo posto della "Hot 100" di Billboard ed entra nella storia in quanto millesima canzone al numero 1 nei 52 anni di esistenza della chart. GaGa, alla notizia del risultato che la consacra negli annali della discografia statunitense, ha dimostrato d'apprezzare. "E' un onore grandissimo", ha riferito a Billboard. "Essere il millesimo numero uno...sarei sciocca se non dicessi che questo è il più grande onore in tutta la mia carriera. Sono sconvolta ed onorata per come 'Born this way' è stata accolta. E' stata importantissima per me come artista, e tra Billboard e i numeri uno internazionali e i numeri delle radio...ho una fortuna enorme ad avere i fan che ho". E c'è da registrare un altro record. Con vendite digitali di 448.000 copie, "Born this way" diventa il singolo di artista donna con le maggiori vendite nel corso della prima settimana; il record precedente, recentissimo, apparteneva a Britney Spears con i 411.000 download di Hold it against me. Il record assoluto rimane però ancora nelle mani di Flo Rida, che nel febbraio 2009 riuscì a vendere della sua "Right round" ben 636.000 copie digitali. I più venduti al mondo. L'album che nel mondo ha venduto il maggior numero di copie nel 2010, ora che siamo praticamente a bocce ferme e gli eventuali aggiustamenti non farebbero cambiare i giochi, è "The fame monster" di Lady GaGa. Il conteggio è stato effettuato da mediatraffic.de, secondo la quale la cosiddetta United World Chart è così composta: 1. Lady GaGa - "The fame (Monster)" - 5.8 milioni di copie 2. Eminem - "Recovery" - 5.7 milioni 3. Justin Bieber - "My worlds" - 5.6 milioni 4. Lady Antebellum - "Need you now" - 3.6 milioni 5. Taylor Swift - "Speak now" - 3.5 milioni 6. Susan Boyle - "The gift" - 3.0 milioni 7. Black Eyed Peas - "The E.N.D." - 3.0 milioni 8. Michael Bublé - "Crazy love" - 3.0 milioni 9. Sade - "Soldier of love" - 2.3 milioni 10. Alicia Keys - "The element of freedom" - 2.3 milioni 11. Katy Perry - "Teenage dream" - 2.2 milioni 12. Take That - "Progress" - 2.2 milioni 13. Susan Boyle - "I dreamed a dream" - 2.1 milioni 14. Ke$ha - "Animal" - 2.1 milioni 15. Rihanna - "Loud" - 2.0 milioni 16. Mumford and Sons - "Sigh no more" - 1.8 milioni 17. Kings Of Leon - "Come around sundown" - 1.7 milioni 18. Bon Jovi - "Greatest hits" - 1.7 milioni 19. Usher - "Raymond V Raymond" - 1.7 milioni 20. Linkin Park - "A thousand Suns" - 1.7 milioni Top Jazz: I vincitori. Nato nel 1982 il Top Jazz si propone, attraverso un sondaggio tra circa sessanta critici specializzati italiani, di offrire un quadro d'insieme del movimento musicale del jazz italiano. MUSICISTA CATEGORIE Francesco Bearzatti Disco dell'anno Stefano Bollani Musicista dell'anno Tinissima 4tet Formazione dell'anno Silvia Bolognesi Nuovo talento Paolo Damiani Compositore dell'anno Fabrizio Bosso Categoria ottoni Rosario Giuliani Sassofonista dell'anno Danilo Rea Tastierista dell'anno Roberto Cecchetto Chitarrista dell'anno Danilo Gallo Bassista dell'anno Roberto Gatto Batterista dell'anno Stefano Pastor Miscellanea.


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