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Anno 2010 Festival del Cinema di Berlino Cannes Premi Oscar David di
Donatello Festival internazionale del Film di Roma 67a Mostra del cinema di
Venezia 23° European Film Award Danza Musica classica Musica leggera e jazz Il
Festival di Sanremo
Anno 2010. Cinema. Il grande successo della stagione
cinematografica 2010 si chiama 3D. Grazie soprattutto al battage pubblicitario
e, naturalmente, al successo del film Avatar di James Cameron, la tecnologia
RealD sembra ormai diventata un must per tutte le nuove produzioni, non importa
se di Fantasy o storiche o altro. Eppure la tecnologia 3D non è nuova: negli
anni '80 fu introdotta sul mercato senza eccessivo successo. Ora, molto più
raffinata e accattivante, sembra avere incontrato il favore del pubblico. Al
contrario delle precedenti tecnologie per la proiezione stereoscopica, necessita
infatti di un solo proiettore digitale. Allo spettatore è richiesto di indossare
un paio di occhiali con lenti a polarizzazione circolare. Il primo film
distribuito nell'attuale formato RealD Cinema fu Chicken Little - Amici per le
penne nel 2005. All'epoca i cinema attrezzati per RealD erano solo un centinaio,
negli Stati Uniti. Attualmente la RealD 3D dichiara di aver raggiunto il numero
di 1200 sale RealD in tutto il mondo. Ma non tutto è positivo nel 2010 per
l'industria cinematografica: i pesanti tagli decisi dal governo hanno colpito
pesantemente il settore e gli addetti ai lavori hanno più volte pesantemente
contestato il ministro della cultura Bondi. Tra i film italiani
menzioniamo: Io sono l'amore di Luca Guadagnino; Happy family di Gabriele
Salvatores; Genitori & figli di Giovanni Veronesi; La prima cosa bella di Paolo
Virzì; Baciami ancora di Gabriele Muccino; Basilicata coast to coast di Rocco
Papaleo; La nostra vita di Daniele Luchetti; Sul mare di Alessandro D'Alatri;
Due vite per caso di Alessandro Aronadio; Christine Cristina di Stefania
Sandrelli; Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio di Isotta Toso;
Benvenuti al Sud di Luca Miniero; Cosa voglio di più di Silvio Soldini; La
solitudine dei numeri primi di Saverio Costanzo; Io, loro e Lara di Carlo
Verdone. Tra i film stranieri ecco invece: The wolfman di Joe Johnstone;
The messenger di Oren Moverman; Cella 211 di Daniel Monzon; Life during wartime
di Todd Solondz; I gatti persiani di Bahman Ghobadi; Il piccolo Nicolas e i suoi
genitori di Laurent Tirard; Les Beaux Gosses di Riad Sattouf; Sunshine cleaning
di Christine Jeffs; Vendicami - Vengeance di Johnnie To; Inside job di Charles
Ferguson; La princesse di Montpensier di Bertrand Tavernier; Humpday di Lynn
Shelton; Harry Potter e i doni della morte - Parte I di David Yates; Inception
di Christopher Nolan; L'ultimo dominatore dell'aria di M. Night Shyamalan;
Codice Genesi di Albert Hughes; La città verrà distrutta all'alba di Breck
Eisner; The Karate kid - La leggenda continua di Harald Zwart; Green zone di
Paul Greengrass; The losers di Sylvain White; Buried - Sepolto di Rodrigo
Cortés; Wall street - Il denaro non dorme mai di Oliver Stone; The social
network di David Finch. Tra i film di animazione ricordiamo infine:
Cattivissimo me di Pierre Coffin, Chris Renaud, Sergio Pablos; Toy story 3 - La
grande fuga di Lee Unkrich; Shrek e vissero felici e contenti di Mike Mitchell;
Dragon trainer di Dean de Blois; Il regno di Ga'Hoole - La leggenda dei
guardiani di Zack Snyder; Rapunzel - L'intreccio della torre di Nathan Greno,
Byron Howard. Alice in Wonderland di Tim Burton. Questo film, tratto dai
libri "Alice nel paese delle meraviglie" e "Attraverso lo specchio e quello che
Alice vi trovò" di Lewis Carroll vede la protagonista (Mia Wasikowska) più
adulta; un' Alice che, in fuga da un improvvisa proposta di matrimonio, si
ritrova nel paese delle meraviglie dopo dieci anni dal suo primo viaggio. Scopre
che le cose sono cambiate dalla sua ultima visita, ma non troppo. Rincontra
personaggi della sua infanzia (lo Stregatto, la Regina Rossa e la Regina Bianca,
il Cappellaio Matto.) e con loro rivivrà un mix di avventure surreali. La
protagonista di Burton si scosta molto dalla classica immagine di bambina
sperduta nel mondo delle meraviglie; Alice è un'eroina con una vita interiore
molto attiva e questo è reso più credibile proprio perché rapportato a una
giovane donna di 20 anni. Non si può considerare Alice in Wonderland un sequel e
nemmeno un remake ma una completa rilettura per le nuove generazioni. Girato in
solo 40 giorni miscelando diversi tipi di tecnologia (attori in carne ed ossa
accanto a pupazzi, personaggi deformati dal trucco, fondali ottenuti con la
tecnica dello schermo verde e oggetti confezionati con i materiali più
disparati) e arricchito dal 3D aggiunto solo in postproduzione. In questo caso
il 3D non è un "trucchetto" per portare la gente al cinema, è piuttosto un modo
per trasportare il pubblico dentro Wonderland, dove le proporzioni e il concetto
di spazio cambiano improvvisamente. Burton ha potuto ancora contare sul
trasformista Jhonny Deep che ha creato un cappellaio decisamente Matto, sulla
moglie Helena Bonham Carter per la perfida Regina Rossa e Anne Hathaway negli
insoliti panni della Regina Bianca. Avatar di James Cameron. Eccolo
finalmente il film di cui tutto il mondo ha parlato fino alla noia, la pellicola
che ha avuto vent'anni di gestazione e che ha lanciato in tutti i cinema del
pianeta la voglia del tridimensionale. Il film, ambientato in un lontano futuro,
vede l'ex-marine Jake Sully (Sam Worthington), che ha perso l'uso delle gambe,
spedito sul Pianeta Pandora, dove vivono delle creature blu, i Na'vi, che vivono
in mezzo ad una natura incontaminata. Il pianeta è ricco di un prezioso minerale
e Jake deve collegarsi al suo avatar Na'vi per potersi infiltrare tra gli
indigeni. Jake si innamora di Neytiri (Zoe Saldana), cosa che provocherà una
rivolta dei pacifici alieni contro gli occupanti. Cameron inventa la lingua
Na'vi e la frase "Oel ngati kamele" "ti vedo, ti riconosco, sento una
connessione spirituale con te" rappresenta il significato della vita su Pandora,
dove ogni creatura è parte della natura e del pianeta stesso. Poco importa se,
dopo neanche mezz'ora, tutti gli spettatori sappiano come andrà a finire la
storia, sorta di moderno "Pocahontas" ambientato su un lontano immaginario
pianeta: non a caso le iniziali dell'eroe " J. S. " sono le stesse di John
Smith, l'eroe di quel racconto. Basta ammirare la fantasia visionaria
dell'ambientazione, che da sola vale il prezzo del biglietto. Il film racconta
un mondo dove l'armonia primitiva è intatta, e lo reinventa, immettendo della
vegetazione e della fauna sconosciuta, per il nostro ammirato stupore. Siamo
invitati a penetrare in un'altra umanità, precedente la caduta dell'Eden, ma
anche in fase di contemporanea contaminazione tra corporeo e virtuale. Ci fa
sognare quella nuova umanità che non osiamo neppure immaginare, perché, come ci
insegna la lingua Na'vi, "vedere" non è solamente "guardare", ma anche entrare
in connessone spirituale con l'ignoto. Baciami ancora di Gabriele
Muccino. Gettandosi in una spericolata missione ad alto rischio e riesumando
dieci anni dopo i personaggi de " L'ultimo bacio ", il suo primo clamoroso
successo, Gabriele Muccino confeziona una nuovo film generazionale, questa volta
centrato sui quarantenni. Ciò che emerge è un universo fatto di rimpianti, di
sogni infranti, di sensi di colpa, di insoddisfazioni, che mostrano un
generalizzato disastro affettivo. Il tono del racconto è segnato da una
crescente amarezza perché, come afferma Carlo in quella che può essere
considerata la battuta riassuntiva della storia: gli errori si pagano sempre e,
si potrebbe aggiungere, la vita non fa sconti. Con una struttura maggiormente
corale rispetto al capitolo originale, "Baciami ancora" è, dal punto di vista
sentimentale, un racconto estremamente romanzesco, segnato da complicazioni di
ogni tipo, inedite ma realistiche gelosie fra nuove compagne e figli di primo
letto, tradimenti segreti e palesi, gravidanze impreviste ed imprevedibili,
amicizie traballanti, seconde occasioni. Molto riuscito l'intersecarsi delle
vite, delle storie, che entrano ed escono compenetrandosi in un gioco molto
avvincente, forse mai come questa volta ben riuscito. La recitazione "sopra le
righe", nevrotica, croce e delizia di molto cinema di Muccino, appare qui
funzione e trait d'union di tutto il sapore della storia. Piace il cast, non
soltanto un calderone di bravi attori e bei volti, ma un racconto armonico di
caratteri e corpi che ben si intrecciano e si toccano con delicatezza. Su tutti
superbo Favino, sempre più uno dei più bravi del nostro cinema, e per una volta
molto azzeccato Santamaria in un ruolo che gli sta addosso come un guanto, con
ottimi esiti. I film che giocano in bilico tra un sorriso ed una lacrima sono in
genere quelli che si chiamano riusciti. E allora Muccino, qui come sceneggiatore
prima ancora che regista, può mettere in bacheca un altro successo. Discusso e
discutibile quanto si vuole, ma sempre abile nel pennellare quell'epica del
quotidiano di cui si nutrono i cuori di spettatori liberi dal giogo di sapori
autoriali da cinefestival. Un film che racconta grandi passioni che si
esauriscono in pochi giorni e amori che non finiscono mai, pronti a rifiorire e
riesplodere, anche a distanza di anni. Il cinema del regista romano non ama i
mezzi toni e il chiaroscuro; è un cinema di sentimenti assoluti, di scontri,
dove i dialoghi sono sempre gridati, urlati. Se "L'ultimo bacio" era il film
della fuga, "Baciami ancora" è il film del ritorno. Se nel primo capitolo la
tentazione era la libertà, l'imprevisto, l'avventura, la ragazzina ventenne, qui
ad esercitare il fascino maggiore sono il sogno della stabilità, l'utopia della
famiglia perfetta, la rivincita delle prime mogli, che appaiono assai più
desiderabili delle avventure di una notte. Insomma tutto è cambiato, anche se i
personaggi sono, per certi versi, uguali a se stessi: immaturi, ingenui,
sognatori incapaci di affrontare la realtà e, di conseguenza, condannati alla
sconfitta, fino a quella più drammatica, come accade al personaggio di Paolo,
interpretato da Claudio Santamaria. Il maggior pregio del film consiste nel
fatto che, pur raccontando una storia per certi versi molto prevedibile - ciò
che accade alle varie coppie si può intuire facilmente - riesce ad evitare
banalità e superficialità. Ancora una volta diventa naturale precipitare nella
trama e appassionarsi ai destini dei vari protagonisti. A cominciare da Carlo
(Stefano Accorsi) e Giulia, che ritroviamo genitori ormai separati, in balia di
furiosi scontri e inconfessabili attrazioni.
Basilicata coast to coast di Rocco Papaleo. Dal Tirreno allo Jonio, sulle
orme di alcuni scalcagnati musicisti lucani intenzionati a partecipare al
Festival del teatro-canzone di Scanzano Ionico. "Basilicata coast to coast" è il
titolo dell'esordio alla regia di Rocco Papaleo, volto noto del cinema nazionale
nonchè appassionato interprete del teatro-canzone, da cui viene appunto l'amico
cosceneggiatore, Valter Lupo, e l'idea per questa opera prima. A cui ha dato
decisivo impulso Giovanna Mezzogiorno, amica di lunga data di Papaleo, qui nei
panni grunge della figlia d'un onorevole, che anziché "sfruttare" l'illustre
genitore fa la precaria, sia esistenzialmente che professionalmente. Pure lei
finirà per seguire i magnifici quattro: lo sciupa femmine Alessandro Gassman,
l'introverso cuginetto Paolo Briguglia; il "capocomico" Papaleo che
fortissimamente vuole quest'avventura e Max Gazzè, al suo esordio d'attore, che
suona il basso ma non spiccica neppure una parola, mutismo frutto di una
delusione d'amore. Un quartetto ben assortito che regala incontri surreali e
attimi fuggenti, con un grande valore terapeutico assegnato al viaggio,
arrivando alla conclusione che il viaggio stesso è la meta e non il fine.
Approdo non inedito, ugualmente condivisibile: vale pure per il film, che la
genuinità e la passione del Papaleo regista mantengono fresco, nostrano e
generoso, senza viceversa farlo scadere a "spot" della sua terra, quella
Basilicata omaggiata senza piaggeria. Poi c'è la musica, ottima, curata da Rita
Marcotulli e cantata dai quattro, con l'azzeccato epilogo affidato a "Mentre
dormi" di Gazzè. Per il resto, la Mezzogiorno è efficacemente acida e isterica,
Gassman gigioneggia con gusto e sostanza, Briguglia fa il bravo ragazzo ma si
concede un triangolo in tenda e Papaleo orchestra l'ensemble con energia,
facendosi bacchettare, quando serve, dalla moglie (Michela Andreozzi,
bravissima). Benvenuti al sud di Luca Maniero. Il film "Benvenuti al
Sud" è la grande sorpresa della stagione: saldamente in testa al boxoffice fin
dalla prima settimana di uscita. Nessuno forse di aspettava un successo così
travolgente per un film divertente ma comunque non molto originale. Infatti
Benvenuti al Sud è l'esplicito remake del più grande successo francese di tutti
i tempi, "Giù al nord", che nel 2008 divenne oltralpe un caso nazionale. Nella
traduzione italiana, molta della comicità transalpina andava perduta. Anzi, la
decisione di tradurre in maniera maccheronica e (quasi) demenziale il dialetto
provenzale ha nociuto molto all'opera originale. Ora naturalmente tutto risulta
più naturale e comprensibile per noi italiani: probabilmente la stessa obiezione
si potrebbe fare qualora questa nostra versione venisse tradotta in una
qualsiasi altra lingua. Quella diretta da Dany Boon, comico vulcanico e pieno di
sfumature al tempo stesso, era un'esaltazione della vita di provincia e del
superamento dei pregiudizi nord-sud. Con la differenza che, in Francia, c'era un
meridio- nale/provenzale che non aveva alcuna voglia di andare nel terribile
nord dai "selvaggi" bretoni. Stavolta, com'era immaginabile, si rovescia tutto:
Claudio Bisio è Alberto, direttore di un ufficio postale di Usmate Velate che
per guadagnare punti e farsi trasferire a Milano si finge handicappato
(esattamente come nel film francese, in una scena ricalco). Scoperto, viene
"sbattuto" giù in Meridione per punizione: a Castellabate, nel Cilento, per
precisione. Per un lombardo abitudinario e pieno di preconcetti sul Sud Italia
come lui, la prospettiva di vivere almeno due anni in quei luoghi rappresenta un
incubo, cui si prepara con un nuovo guardaroba di vestiti leggeri e giubbotto
antiproiettile. La moglie razzista (ed evidentemente leghista: organizza un
gruppo chiamato le "rondinelle") non lo vuole seguire, e così Alberto lascia
moglie e figlio in Lombardia e se ne va mesto in Campania, paventando
criminalità, rozzezza e fastidi vari. E all'inizio i rapporti con i sottoposti e
cittadini del paesello non sono buoni: ma piuttosto velocemente le cose
volgeranno al bello, si capiranno e lui sarà conquistato dalla solarità dei
nuovi amici "terroni". Ma quando, ogni due settimane, torna per il week-end in
Brianza, non ha il coraggio di dire la verità: la moglie lo vede finalmente come
un eroe che resiste a mille violenze e angherie, perché disilluderla? Il
problema nasce quando la consorte deciderà di venirlo a trovare. I nuovi amici
partenopei inscenano una rappresentazione con tutti i peggiori stereotipi dei
pregiudizi contro il Sud. Naturalmente tutto andrà per il verso giusto, a
dimostrazione che, anche nell'Italia leghista di oggi, c'è spazio per il lieto
fine. Cosa voglio di più di Silvio Soldini. La protagonista è Anna, una
giovane donna "normale" che vive una vita semplice tra l'ufficio (è impiegata in
uno studio legale) e l'appartamento appena comprato con il compagno Alessio
(Beppe Battiston), con cui sta cominciando anche a progettare un figlio. È
appagata? Forse non troppo - perché lui a sera non fa che leggere libri a letto
- ma certo serena. Fino al giorno in cui Anna non incontra Domenico. Lo conosce
che lui fa il cameriere per un catering, se lo ritrova davanti qualche giorno
dopo, con la scusa di un coltello dimenticato, si scambiano i numeri, lei gli
manda un sms e in breve finiscono per fare l'amore. Domenico, che lavora
sottopagato ed è sempre a corto di quattrini, ha una moglie (Teresa
Saponangelo), una figlia di 5 anni e un figlio più piccolo nato da poco, anche
lui una vita mediamente banale che l'attrazione per Anna rende finalmente viva.
Ma gli incontri tra i due amanti sono condizionati dalle restrizioni, dalle
mancanze, dai contrattempi. Poco tempo e pochi soldi, brevi intermezzi durante
la pausa pranzo oppure pomeriggi passati in un motel, quando lui dovrebbe essere
in piscina a fare un corso di immersione (e poi gli tocca ricordarsi di bagnare
la muta e l'accappatoio). Il tradimento è per molte persone l'unica forma di
"eroismo" esistenziale e forse per questo è così diffuso e praticato. Silvio
Soldini torna ad affrontare il tema delle relazioni uomo-donna con coerenza,
anche se apparentemente ribaltando la prospettiva rispetto al precedente "Giorni
e nuvole". In quel caso il contesto economico-sociale era evidenziato sin
dall'inizio con la perdita del lavoro mentre qui emerge pian piano. L'amore al
calor bianco che travolge Anna e Domenico (e con loro, anche se in maniere
diverse, anche i reciproci contesti familiari) non interessa al regista e agli
sceneggiatori di per sé (sarebbe una storia già ultra nota) ma contestualizzato
in un mondo in cui le certezze di un tempo sono state messe in crisi. Tuttavia
Soldini, che considera "Cosa voglio di più" un film di svolta nella sua carriera
proprio perché affronta l'amore, da sempre il suo tema centrale, dal punto di
vista schiettamente fisico e carnale, insiste molto sull'aspetto sociale: il suo
intento è quello di raccontare, attraverso la storia di una coppia italiana, un
ambiente preciso e in un momento storico determinato, in questo caso il
precariato e l'insicurezza economica. I personaggi meglio tratteggiati sono
quelli di contorno. Le famiglie dei due amanti, soprattutto i suoceri di
Domenico, due napoletani che abitano al piano di sopra e interferiscono molto
nella vita della coppia, la sorella di Anna che ha appena avuto un bambino, la
tintoria dove lavorano sua madre e la zia. Ancora, la moglie tradita che
sospetta e reagisce violentemente. E poi la descrizione di Milano, dal centro
all'hinterland, sui treni dei pendolari e nei casermoni della periferia tutta
uguale, che Soldini racconta, con la fotografia di Ramiro Civita, nei dettagli
di una contemporanea geografia dell'anima che prosegue nella sua filmografia da
un capitolo all'altro. Green Zone di Paul Greengrass. Green Zone non è
un film sulla guerra in Iraq. E' un thriller ambientato in Iraq. Sebbene la
trama ruoti intorno alla scoperta dell'assenza delle armi di distruzione di
massa da parte di un soldato stanziato in Iraq, lo stesso il nuovo film della
coppia Greegrass/Damon trova la sua vera ragione d'esistere nel modo in cui
rivendica per se stesso lo statuto di genere. Questo nuovo film non pretende di
insegnarci niente che non conosciamo già ma anzi si appoggia ad un finale già
noto (le armi di distruzione di massa non ci sono mai state) per riscrivere le
regole del cinema d'azione militare. Una pellicola muscolare e adrenalinica che,
senza alcun condono di natura politica, utilizza gli stilemi tipici del cinema
d'azione per raccontare come il governo americano, all'indomani dell'invasione
per abbattere il regime di Saddam Hussein, fosse dunque pienamente consapevole
che l'Iraq non avesse alcuna arma di distruzione di massa. Il punto di vista
scelto per questa narrazione spettacolare, ma anche attenta al dettaglio, è
quello di un'unità speciale dell'esercito guidato da Matt Damon che, anche in
questa pellicola, si conferma come uno degli attori più dotati del cinema
hollywoodiano, in grado di donare spessore e credibilità a personaggi altrimenti
a rischio di diventare dei cliché. Un manipolo di soldati cui è stata affidata
la missione di penetrare nei siti indicati dall'intelligence come luoghi
deputati alla costruzione di quegli strumenti di sterminio che hanno consentito
a Bush di guadagnare il consenso dell'opinione pubblica americana per la guerra
in Iraq. All'ennesimo mancato ritrovamento di alcunché, l'ufficiale e i suoi
uomini iniziano ad insospettirsi e, quando vengono intralciati nelle loro azioni
da altri soldati americani, guidati direttamente da un burocrate di Washington,
sono certi che si nasconda un segreto molto grave. Così, in una guerra privata e
segreta tra membri dello stesso schieramento, entrambe le pattuglie iniziano a
dare la caccia al generale Al Rawi: qualcuno per conoscere la sua verità,
qualcun altro per fare in modo che, in una maniera o nell'altra, quello che è
accaduto davvero nei rapporti antebellici intercorsi tra Stati Uniti e Iraq
venga taciuto per sempre. "Green zone" non è un film facile, perché la sua
qualità spettacolare, come le scene d'azione credibili e curate, potrebbero
rappresentare paradossalmente un ostacolo per l'apprezzamento di una storia che
è soprattutto un dramma psicologico dalla matrice personale e intima. Un soldato
che crede nei valori del suo paese viene a contatto in maniera dolorosa e senza
ombra di dubbio con le prove che il suo governo ha mentito pur di raggiungere lo
scopo di invadere l'Iraq. La sceneggiatura ben congegnata dell'Oscar Brian
Helgeland, che crea una sottile tensione derivante dalla consapevolezza che la
verità nel mondo connesso può trapelare in un istante, e il sorprendente senso
di realtà che viene dall'elaborata ambientazione fanno di Green Zone qualcosa di
più di un thriller ben riuscito. Happy Family di Gabriele Salvatores.
Dopo tre film drammatici, Salvatores torna alla commedia, genere già ampiamente
praticato in passato, e firma la sua opera più divertente, a tratti decisamente
comica. Insomma, in "Happy family" si ride molto, ma attraverso personaggi,
meccanismi, trovate, atmosfere completamente diverse dalla tradizione italiana.
La trama si svolge su un doppio binario narrativo, dove realtà ed immaginazione
si intersecano e si sovrappongono. Perché la storia narrata non è che la
sceneggiatura di un film scritta dall'aspirante sceneggiatore Ezio, il quale
immagina l'incontro fra due famiglie milanesi agli antipodi: una ricca,
tradizionalista e borghese, l'altra sciamannata, alternativa e caotica. I due
nuclei familiari entrano in contatto perché i rispettivi figli, Filippo e Marta,
compagni di scuola ed entrambi sedicenni, hanno deciso di sposarsi. Come nelle
famiglie vere, anche in quelle di Ezio si delineano i problemi di sempre: dei
rapporti coniugali sull'orlo della crisi, delle donne insoddisfatte, di anziane
nonne un po' rintronate, di malattie che inaspettatamente e sinistramente
compaiono, costringendo a rivedere stili di vita e comportamenti e a porre il
problema della ricerca di una vita piena, in cui possano esistere anche gioia e
trasgressione, non solo lavoro e denaro. Lo stesso Ezio è travolto dalla
vicenda, e sembra quasi che talora gli sfugga il controllo delle sue creature,
che premono per dare, alle storie che li riguardano, un andamento a loro più
congeniale. Lo spettacolo, perciò, si interrompe più volte, prima di giungere
alla conclusione che fin dall'inizio si era prospettata. Lo scrittore tornerà
alla vita vera, ricordandoci con Groucho Marx, che, diversamente da quella
rappresentata, non ha una trama ed è perciò unicamente affidata al caso. A noi
spetta il compito di renderla un po' più gioiosa, se possibile. La vita, quindi,
sembrerebbe più che altro essere legata al caso o alla fortuna: può andare bene
così come potrebbe ridursi ad essere una perenne storia senza trama e senza
nessuna sfumatura. Bellissimo sfondo del film è una Milano coloratissima di
giorno (con la sua trasgressiva e divertente Chinatown) e soprattutto in bianco
e nero di notte, con i fari luminosi delle auto che l'attraversano e con le luci
che sottolineano, quasi fantasticamente, la sua vitalità. Così come il commento
musicale è stato affidato alle nostalgiche canzoni di Simon & Garfunkel, un duo
che ha segnato l'immaginario sonoro della generazione a cui appartiene
Salvatores. Alla fine egli sceglierà un finale che possa risultare gradevole per
il pubblico e che faccia felici i protagonisti della storia. Una sorta di
sarcasmo sottile (e qui scatta il vero significato di quest'ultima opera di
Salvatores) tra ciò che appartiene al mondo dell'arte scenica e della finzione
che deve necessariamente avere una trama ed una conclusione e ciò che invece
rappresenta la nostra vita reale che spesso non ha nè l'una nè l'altra. Il
concerto di Radu Mihaileanu. All'epoca di Breznev, Andreï Filipov è il più
grande direttore d'orchestra dell'Unione Sovietica e dirige la celebre Orchestra
del Bolshoi. Ma viene licenziato all'apice della gloria quando si rifiuta di
separarsi dai suoi musicisti ebrei, tra cui il suo migliore amico Sacha.
Trent'anni dopo lavora ancora al Bolchoi, ma...come uomo delle pulizie. Una sera
Andreï si trattiene fino a tardi per tirare a lustro l'ufficio del direttore e
trova casualmente un fax indirizzato alla direzione del Bolshoi: è del Théâtre
du Châtelet che invita l'orchestra ufficiale a suonare a Parigi. All'improvviso,
Andreï ha un'idea folle: riunire i suoi vecchi amici musicisti, che come lui
vivono facendo umili lavori, e portarli a Parigi, spacciandoli per l'orchestra
del Bolshoi. E' l'occasione tanto attesa da tutti di potersi finalmente
riprendere tutto ciò che il destino aveva loro tolto. Il regista Mihaileanu,
rumeno, emigrato in Francia nel periodo cupo di Ceausescu, già autore di una
notevole fatica cinematografica come "Train de vie", dimostra una capacità di
sintesi tra il registro drammatico e quello comico e riesce ad esprimere la sua
doppia anima culturale, l'una slava e l'altra occidentale, dimostrando che
proprio dalla disarmonia e dalla contraddizione può nascere una nuova
comprensione e una diversa armonia. La dissacrante e vorticosa comicità della
prima parte, vera e propria avventura picaresca di un'esuberante armata
Brancaleone, finisce per valorizzare al massimo, proprio per contrasto, la
sorpresa finale, che non è tanto narrativa ma puramente emozionale. Stupenda la
trama ma veramente stupefacente la sceneggiatura del secondo tempo. Il regista
su una base musicale è riuscito con le sole immagini a fare provare emozioni
uniche, commoventi e brillanti allo stesso tempo. Nell'indimenticabile finale,
la musica "parla", racconta, spiega senza bisogno di parole. Ed è questo che
rende il film unico e sublime. Inception di Christopher Nolan. In un
mondo dove la tecnologia permette di entrare nella mente degli uomini attraverso
i loro sogni, Dom Cobb è un ladro esperto, il migliore in assoluto nell'arte
pericolosa di estrazione, furto di segreti preziosi dal profondo del subconscio
durante il sogno, quando la mente è più vulnerabile. La rara capacità di Cobb ha
fatto di lui un giocatore ambito, in questo mondo infido, di moderno spionaggio
industriale, ma lo ha anche reso un latitante internazionale e gli è costato
tutto ciò che ha mai amato. Ora a Cobb viene offerta una possibilità di
redenzione. Un ultimo lavoro potrebbe ridargli indietro la sua vita, ma solo se
riesce a compiere l'impossibile. Al posto della rapina perfetta, Cobb e il suo
team di specialisti devono realizzare il contrario: il loro compito non è quello
di rubare un'idea, ma di impiantarne una. Se ci riusciranno, potrebbe essere il
delitto perfetto. Ma nessuna attenta pianificazione e nessuna capacità o
competenza è in grado di preparare la squadra alla presenza di un pericoloso
nemico che sembra prevedere ogni loro mossa. In realtà il nemico è Cobb stesso:
infatti le sue paure ed impressioni si mischieranno alla realtà, mettendo in
pericolo la sua intera squadra, preda dall'inappagabile e violento rimorso dei
suoi ricordi. Anche se il film rischia a tratti il cerebralismo
autoreferenziale, è però indubbio che il triplice salto mortale (tre sono i
livelli da esplorare nell'inconscio onirico) è perfettamente riuscito. I
personaggi infatti si perdono negli abissi del sogno nel sogno del sogno, lo
spettatore si vede saltare da un livello temporale all'altro. Inception è al
contempo una riflessione sul funzionamento della psiche, un melodramma, un film
d'azione. Il tutto inserito nell'ambigua cornice di quella incapacità di
distinguere tra apparenza e realtà che è propria di ogni essere umano quando,
nel sonno, crea mondi tanto inesistenti quanto assolutamente reali. Il finale è
la ciliegina sulla torta di una pellicola che tiene incollati in ansia
dall'inizio alla fine. Si può sognare di sognare? Tutto sembra finire per il
meglio ma, una volta a casa, Cobb fa girare la sua trottola come d'abitudine,
per controllare di non essere all'interno di un sogno, ma viene distratto dai
suoi due figli, che può finalmente riabbracciare, e vi corre incontro prima che
si riesca a scoprire se questa cadrà o meno. Quindi lo spettatore non saprà mai
se Cobb ha finalmente risolto i suoi problemi o se sta ancora sognando.
Invictus di Clint Eastwood. Invictus è un omaggio ad un uomo, ad uno sport,
ad una nazione. Il film è sostanzialmente diviso in 2 parti. La prima è la parte
più politica, la seconda quella sportiva. Non un film sullo sport e nemmeno una
biografia di Nelson Mandela, bensì il racconto emozionante di come i Campionati
del mondo di rugby del Sudafrica del 1995 siano diventati una tappa fondamentale
del percorso di riconciliazione e perdono immaginato dal presidente sudafricano
per riunire, per la prima volta, una nazione divisa e lacerata da odi e rancori
secolari. "Invictus" è un omaggio alla lungimiranza e al fiuto politico di
Nelson Mandela per capire quanto un evento sportivo mondiale potesse diventare
una sorta di occasione per rilanciare l'immagine e l'economia di una nazione in
ginocchio. Un momento cruciale per riavvicinare le etnìe presenti nel paese e
fare della locale squadra di rugby un simbolo, nei cui variopinti colori far
riconoscere, per la prima volta, un'intera e "unica" nazione. Mentre a Damon è
affidato l'elemento più fisico della storia, attraverso il personaggio del
capitano della squadra di rugby che Mandela responsabilizza in prima persona,
facendogli comprendere il valore e l'importanza della posta in gioco, Morgan
Freeman interpreta Nelson Mandela cogliendo, del leader del movimento dei
diritti civili e della lotta l'apartheid, quell'intelligenza superiore che
permette ad alcune persone di guardare più lontano di altre. Il Mandela di
Freeman è un grande politico, ma anche un uomo con debolezze e fragilità in
grado di soverchiarlo. Una persona che non si è mai arresa e che, come dice il
titolo del film, è invincibile. "Invictus" però, non è solo il titolo perfetto
per un film che parla di politica, progresso umano e sport, bensì anche quello
della poesia composta nel 1875 da William Ernest Henley. Una breve serie di
liriche che Mandela dice lo abbiano aiutato a sopravvivere ai quasi trent'anni
di reclusione in prigione e in seguito consegnate al capitano della squadra di
rugby in un toccante "scambio di saggezza". Un film da vedere, per imparare cosa
sia lo sguardo di un grande autore e capire dove e come nasca la politica in
grado di rendere migliori le singole persone e popoli. La nostra vita di
Daniele Luchetti. Come già "La prima cosa bella" di Virzì, anche "La nostra
vita" è un film che non ha paura dei sentimenti: anche in questo caso tutto
ruota attorno ad una morte, quanto mai tragica, quella di una giovane donna
mentre dà alla luce il terzo figlio, e non mancano scene di forte commozione. La
storia racconta il dolore di Claudio, il quale decide di reagire al lutto
gettandosi in una forsennata corsa all'arricchimento, come se accumulare denaro
fosse l'unico antidoto alla sofferenza. Con un mezzo ricatto, Claudio riesce ad
ottenere il subappalto per la costruzione di una palazzina, si trasforma in
piccolo imprenditore e si lancia in un'impresa azzardata, dimenticando ogni
senso etico e morale, comportandosi come un qualunque padroncino, sfruttatore e
inconsciamente razzista. Il personaggio diventa l'emblema e il simbolo
dell'Italia di oggi: un paese privo di etica e di morale. Una nazione,
esattamente come Claudio, illusa e sprovveduta, che crede di poter risolvere
ogni problema con il denaro. I soldi, l'apparenza, lo status della vacanza in
Costa Smeralda, i beni materiali e la frenesia dell'acquisto sono la febbre che
anima Claudio e i molti come lui. Ma, ed è proprio questa una delle migliori
qualità del film, Luchetti non dipinge il suo protagonista come un personaggio
negativo. Anche se le scelte che Claudio compie sono risibili e a volte
decisamente immorali e condannabili, emotivamente si continua a stare dalla sua
parte, ammirandone la vitalità, la generosità, l'ingenuità. Luchetti costruisce
un film intorno al personaggio interpretato da Elio Germano, e viene ricambiato
dall'attore, che sforna un'interpretazione che gli ha fatto vincere la palma
d'oro come miglior attore al Festival di Cannes. La vita di Claudio sembra
perfetta, inizia a crollare quando decide di non denunciare la morte bianca che
avviene nel cantiere dove lavora. Non è colpa sua se quella guardia rumena,
irregolare, ubriaca, è caduta in un fosso del cantiere. Denunciare la morte di
quell'uomo vorrebbe dire sospensione dei lavori, controlli della polizia e
ritardi nella consegna della palazzina. Nella pellicola nessuno è punito per le
colpe commesse, lo Stato è assente, le leggi in vigore non sono scritte. Il
regista ci mostra tutto quello che c'è dietro "l'ufficio vendite" dei palazzi
che spuntano come funghi nelle periferie delle grandi città italiane. La
periferia romana era lo scenario perfetto per portare sullo schermo l'Italia
degli stranieri invisibili, delle morti bianche, dei centri commerciali che
sostituiscono le piazze, degli immobiliaristi improvvisati, "gli spietati" del
far west italiano. Rinnegare l'anima per apparire, la ricerca della felicità si
riduce all'ostentazione del benessere, correndo anche il rischio di andare oltre
le proprie possibilità economiche. La sola ricetta per poter guarire questa
società malata data da Luchetti è il calore e l'amore della famiglia. La
pecora nera di Ascanio Celestini. La pecora nera è un film che fa male.
S'inizia con un pizzico di fiducia. Ci si illude che la battuta, la parola di
Ascanio Celestini, sia riuscita ad aprire un varco nella pazzia del suo
personaggio. Invece più si va avanti nella vicenda, più tutto si sgretola,
palesandosi allo spettatore. Nicola non lavora nel manicomio. Nicola è rinchiuso
nel manicomio. Nicola sembrerebbe poter vivere un amore. Ma Nicola non è in
grado di gestire nessuna passione. Nicola, in qualche modo, sembra essersi fatto
carico della sua famiglia. Ma non si è accorto che la sua famiglia era solo un
cumulo di macerie. E lui tra quelle macerie ci è rimasto. Ripetendo sempre ed
ossessivamente le stesse cose. Le stesse battute. Le stesse parole. Nicola ha
sublimato la sua pazzia nella forma di un amico immaginario: ma questo lo ha
reso ancora più solo. La sua unica occasione di libertà è rappresentata dalla
spesa al supermercato con la superiora, occasione per vedere Marinella,
interpretata da Maya Sansa, di cui è innamorato sin dall'infanzia. Celestini si
inoltra nel mondo della follia, o meglio di come veniva trattata in altri tempi
a base di elettroshock e abbandono dei pazienti; ricrea una dimensione sospesa,
dove grazie all'interpretazione di Giorgio Tirabassi riesce ad appassionare alle
stravaganti vicende di Nicola, ragazzo di periferia marchiato sin dall'infanzia.
E chissà se Nicola è così perché internato o internato perché è così. Un piccolo
appunto al regista: ci sarebbe piaciuto sapere almeno qualcosa degli altri
esseri chiusi in un luogo come il manicomio e non solo vedere delle ombre
stagliate sul fondo. La prima cosa bella di Paolo Virzì. Paolo Virzi si
conferma regista talentuoso ed encomiabile creando, in questa sua opera, una
trama caratterizzata da una pregevole rifinitura stilistica nella sceneggiatura
e in un perfetto livello interpretativo degli attori. Anna, che da anziana è la
Sandrelli e da giovane è la sempre più brava Micaela Ramazzotti, è la grande
madre da cui non si riesce mai a liberarsi: troppo bella, troppo solare, troppo
provinciale. Proprio come Livorno, l'altra "madre" del film, città chioccia e
spietata nel suo bisogno di incasellare ogni persona in un personaggio su cui
poter ridere. Bruno (Valerio Mastrandea) cerca di lasciarsi tutto questo alle
spalle, fuggendo a Milano, per coltivare i suoi bisogni di scrittore
scapigliato. In realtà riesce a diventare solo un frustrato professore di
italiano, infelice consumatore occasionale di droghe. Quando la sorella Valeria
(Claudia Pandolfi) viene a cercarlo per avvertirlo che la madre sta morendo, non
può sottrarsi al dovere di tornare a Livorno dopo tanti anni di assenza, per
affrontare un passato che ha tentato inutilmente di dimenticare. Ecco allora che
lo investono i ricordi dell'infanzia e della giovinezza, raccontati su un piano
parallelo agli ultimi giorni di vita della madre, che ha conservato intatta,
anche nella più dura malattia, quella ingenua voglia di vivere che l'aveva
sempre contraddistinta, facendola "intrappolare" in un mare di guai. "La prima
cosa bella" di Nicola di Bari, che Anna canta con i suoi bambini e con i figli
adulti nel commovente finale, è la canzone simbolo di questa pacificazione e del
riconoscimento, da adulti, di tutto ciò che abbiamo odiato e cercato di
allontanare e che invece è parte della nostra identità: una famiglia sbagliata,
la discriminazione a scuola, una provincia soffocante. La musica accompagna i
protagonisti per tutta la durata del film, diventa il punto di unione nei
momenti di maggior sconforto, quando per distrarsi dalle "pallonate in faccia"
che gli arrivano nella vita, si fanno forza l'un l'altro cantando insieme dei
classici della musica italiana, modo originale per metabolizzare il dolore. La
prima cosa bella è un film che scuote anche gli animi più insensibili e
scettici. Lo segui col fiato sospeso, pronto a sorridere o a struggerti il
cuore, per le sorti dei suoi buffi, dolenti, patetici, umanissimi adorabili
personaggi. Alla fine ti lascia esausto e appagato e ti vien voglia di
applaudire. Le ultime 56 ore di Claudio Fracasso. La storia è quella di
un colonnello che, di ritorno da una missione di pace nel Kosovo, scopre che la
gran parte dei suoi commilitoni è affetta da tumori dovuti al contatto con
l'uranio impoverito, senza avere a disposizione l'attrezzatura adatta. Dinanzi
al silenzio colpevole delle istituzioni, il militare e un pugno di fedelissimi
decidono di sequestrare il reparto di un ospedale nel quale, però, il caso ha
voluto si trovino anche la moglie e la figlia di un negoziatore della polizia,
disposto a tutto pur di salvare la sua famiglia. Sarà lui a dover evitare che
l'ultimatum, cui fa riferimento il titolo del film, termini in un bagno di
sangue, dato che i Nocs circondano già l'ospedale e sono pronti ad irrompere pur
di salvare gli ostaggi. Il fatto è che in questo film di uno dei più produttivi
artigiani del nostro cinema di genere c'è un po' di tutto: un budget medio-alto,
ottimi momenti di azione (la rapina col successivo inseguimento tra autobus e
forze dell'ordine) che poco o nulla hanno da invidiare ai loro omologhi
d'oltreoceano, attori che si impegnano e che sono effettivamente capaci di dare
al loro personaggio uno spessore umano (su tutti Gian Marco Tognazzi che riesce
a conferire carisma al suo colonnello), al fianco di altri capaci solo di
rappresentare "fisicamente" un alter ego senza dimensioni. Ci sono nel copione
battute involontariamente divertenti, altre che suonano troppo scritte e poco
spontanee. E c'è un sottotesto ideologico fortemente ambiguo se non apertamente
schierato, evidenziato soprattutto nel finale "eroico", anche se il tema
dell'uranio impoverito è sicuramente drammatico, interessante, e ancora attuale
e controverso. Lungi dall'essere perfetto e soffrendo, per una stentata
coralità, per la disomogeneità delle interpretazioni dei numerosi attori, "Le
ultime 56 ore" segna comunque un ritorno importante del cinema italiano al
thriller e al genere d'azione, con un'apertura significativa ed encomiabile ai
film di denuncia. Un film non privo di difetti, di momenti di stanca e con
qualche situazione francamente ridondante cui, alla fine, si può perdonare tutto
grazie ad un finale sorprendente e inaspettato che dona tutta una nuova
prospettiva alla trama e alla storia, commuovendo lo spettatore e, soprattutto,
obbligandolo a riflettere sui temi tutt'altro che facili o scontati affrontati
dalla trama. L'uomo nell'ombra di Roman Polanski. "L'uomo nell'ombra",
grande successo e Orso d'argento per la migliore regia all'ultimo Festival di
Berlino, si apre con una scena innocua, l'attracco di un traghetto, che già
pervasa di tale assurda tensione da sembrare il perfetto preludio a due ore in
cui ci ritroviamo, insieme all'ingenuo protagonista destinato a rimanere senza
nome, il "ghostwriter", sempre più invischiati in questo intrigo internazionale
che evoca anche la Cia. Piove, il cielo è perennemente grigio, le acque del mare
limacciose e il razionalismo dello scenario, una villa-fortezza sull'isola di
Martha's Vineyard, non contribuiscono certo al trionfo del bene sul male.
L'adattamento cinematografico del best seller di Robert Harris (qui anche
collaboratore alla sceneggiatura), con il quale Roman Polanski torna alle
consuete atmosfere del thriller dopo una pausa di oltre vent'anni, è quasi una
manifestazione del potere intrinseco della scrittura (e quindi della
sceneggiatura cinematografica), che finisce per attirare a sé e per catturare
l'incauto protagonista (e di riflesso lo spettatore). Il film di Roman Polanski
tuttavia mantiene per certi versi un'impostazione maggiormente ancorata al
genere di appartenenza, giocando in maniera più tradizionale con le consuetudini
del thriller. Non è di certo un approccio innovativo alla materia trattata;
eppure rappresenta lo stesso un gradito ritorno ai toni delle origini. Proprio
come nel caso dell'ultimo Scorsese, anche Polanski con L'uomo nell'ombra riesce
a confezionare un blockbuster rivolto in prevalenza al pubblico mainstream,
senza però rinunciare a instillare gocce della sua poetica personale. "Nel
momento in cui seppi come era morto Mac Ara avrei dovuto alzare i tacchi e
andarmene" esordisce così il romanzo di Robert Harris che ha ispirato la
sceneggiatura, scritta da Polanski insieme allo scrittore e giornalista
britannico. Mac Ara, che almeno ha un nome, è morto annegato apparentemente
caduto dal traghetto che lo riportava, a bordo di un'automobile per gli ospiti
che si rivelerà una trappola, sulla terraferma. Stava scrivendo le memorie di un
ex primo ministro inglese, nell'esilio mica tanto dorato di Martha's Vineyard,
prigione di lusso assediata dalla pessima realtà politica contemporanea dove
vivono anche la moglie dell'ex premier, donna affascinante e algida, e la sua
bionda segretaria e, forse, amante. Ecco un bel quadretto, a cui si devono
aggiungere dei servitori silenziosi quanto inquietanti. Ma il dramma non si
consuma solo in interni, perché il ghost si lascia trascinare - e come potrebbe
evitarlo - in un'indagine in cui già si intuisce chi sarà a rimetterci. Ewan
McGregor e Pierce Brosnan, Olivia Williams e Kim Catrall sono i sapienti
interpreti del concerto da camera, che ha un prologo e un epilogo (con un
fuoricampo rivelatore) londinesi. L'ex primo ministro inglese Alan Lang vuole
scrivere le sue memorie imbottite di bugie per consacrare la sua fama, il
giovane ghostwriter, scrittore nell'ombra avido di verità, è forse stufo di
stare anonimo. Mine vaganti di Ferzan Ozpetek. Film bello e intenso;
diverte e al tempo stesso fa pensare. La sua cifra complessiva é un sovrano
equilibrio, senza scivoloni o derive espressionistiche. La recitazione è
convincente e controllata, e i personaggi entrano nel cuore. All'interno di una
agiata famiglia meridionale il regista immette un elemento di rottura e poi
sembra ritrarsi ad osservare le reazioni che, ovviamente, sconvolgono l'ipocrita
routine borghese. Il rientro a casa del rampollo più giovane Tommaso,
trasferitosi a Roma per studiare economia e commercio, è il momento per la
famiglia di sancire ufficialmente il passaggio della gestione aziendale ai due
figli maschi. Tommaso è pronto a sconvolgere i piani del pater familias
dichiarando apertamente la propria omosessualità e il desiderio di seguire
aspirazioni letterarie, ma durante la cena ufficiale per festeggiare il nuovo
corso aziendale, viene anticipato dal fratello maggiore Antonio che, dopo tanti
anni di fedele servizio agli affari di famiglia, si dichiara omosessuale prima
di lui e viene per questo espulso dalla casa e dalla direzione dell'azienda. Per
non distruggere definitivamente l'orgoglio del padre, già colto da un collasso
al momento della rivelazione, a Tommaso non resta altro che dissimulare le
proprie preferenze sessuali e assecondare momentaneamente gli oneri familiari.
Ozpetec gioca sulla forza del sentimento, rendendo palese, ancor più che negli
altri film, la sua filosofia sull'immortalità degli affetti, dei legami; nulla
finisce, tutto ritorna se c'è amore. Un amore che elude gli schemi classici, un
amore che va oltre l'esclusività e la possessività e che, finalmente, rende
liberi. Prince of Persia di Mike Newell. A Hollywood la chiamano la
maledizione dei videogame: nonostante la loro popolarità crescente, nessuno è
riuscito a trasformarli in successi, come avvenuto invece per i fumetti. Con
questo film si cerca di superare questa maledizione affidando la produzione di
"Prince of Persia: Le sabbie del tempo" a Jerry Bruckheimer (l'uomo che era
riuscito a trasformare un'attrazione di un parco divertimenti nella saga Pirata
dei Caraibi). Il tentativo è quello di rinverdire i fasti anni '40 de "Il ladro
di Bagdad" e "Le mille e una notte", reinterpretati a ritmo della playstation.
Il principe Dastan si allea suo malgrado con la misteriosa Tamina per impedire
che le forze del male si impossessino di un pugnale che dà il potere di
riavvolgere il tempo e dominare così il mondo. Il film si basa sui personaggi e
gli elementi chiave del videogioco, ma ovviamente la storia è differente, perché
non è scritta per essere sviluppata da una persona con in mano un joypad. Però
rimane intatto il senso di avventura e la storia d'amore tra i protagonisti,
compresa quella tensione romantica e i conseguenti battibecchi tra due caratteri
forti. E poi c'è il marchio distintivo di tutti i videogame della serie, ovvero
i volteggi, le corse sui muri, i salti nel vuoto e le capriole di Dastan, che
Mechner tentò di inserire fin dal primo gioco del 1989 ispirato dalla visione di
Indiana Jones, ricalcando al computer i movimenti eseguiti dal fratello in un
parco. Per eseguire le incredibili acrobazie Gyllenhaal ha messo 5 chili di
muscoli e si è allenato con David Belle, l'inventore del parkour, ovvero "l'arte
di superare qualsiasi ostacolo" (a mani nude), eseguendo poi sul set in prima
persona quasi tutti gli stunt. A volte c'erano i cavi di protezione a
sorreggerlo, poi rimossi al computer, mentre nei campi lunghi ci hanno pensato
gli esperti degli effetti visivi, con l'utilizzo di una controfigura virtuale.
La spettacolarità del film è garantita da un ampio utilizzo di effetti visivi,
che come racconta Tom Wood "si sono concentrati nello sforzo di trasportare al
cinema i panorami mastodontici del gioco, estendendo i set reali in Marocco e
realizzando per intero alcune inquadrature, come quelle del tempio sotterraneo
di sabbia che chiude il film. Senza dimenticare l'incredibile effetto di
riavvolgimento del tempo, che Dastan userà per riparare ai propri errori, per
cui è stato creato un apposito effetto digitale da Double Negativa, più avanzato
del "bullet time" e in grado di ricreare una specie di scia virtuale degli
attori, simile a quelle che lascia una fonte luminosa Robin Hood di
Ridley Scott. "Robin Hood" presentato in pompa magna quale film d'apertura di
Cannes 2010, rappresenta una variazione interessante e originale sul tema delle
gesta del ribelle che ruba ai ricchi per donare ai poveri: un prequel alla sua
intera storia, rivisitata però sempre in chiave leggendaria, lasciando solo uno
spazio minimo alla storicità e, ovviamente, al realismo. Una pellicola dalla
vocazione molto classica che percorre, a suo modo, il solco della lunga
tradizione cinematografica dell'eroe portato diverse volte sullo schermo, da
Errol Flynn passando per Sean Connery, fino ad arrivare a Kevin Costner. Robin
Longstride è un arciere al seguito di Riccardo Cuor di Leone, che prima di
tornare a casa a Londra dalla Terza Crociata, sta riconquistando alcuni castelli
che gli erano stati sottratti dal Re di Francia. Robin, dopo un zuffa,
sollecitato dal sovrano inglese gli comunica pubblicamente il proprio disagio
per alcune gesta poco onorevoli cui è stato costretto l'esercito in Terrasanta.
Messo alla gogna insieme a dei commilitoni, l'uomo di umile estrazione
approfitta della morte di Riccardo per fuggire. Intercettata una pattuglia di
spie francesi che hanno teso una trappola fatale al corteo che sta riportando la
corona in Inghilterra, Robin è costretto a fingersi un nobile e a mantenere una
promessa fatta ad un cavaliere in punto di morte. È in quel momento che il
soldato inizierà, suo malgrado, ad incamminarsi verso quel destino che lo
porterà a diventare Robin Hood. Impreziosito dalla presenza di Cate Blanchett e
da un cast di grandi talenti eterogenei, che vanno da William Hurt a Max Von
Sydow, "Robin Hood" è un film gradevole ed intelligente, animato da quella cura
del dettaglio, dell'elegante gusto per il virtuosismo e il senso dell'humour
caratteristiche del cinema di Ridley Scott. Pienamente apprezzabile per la sua
qualità e il suo stile, "Robin Hood" lascia un unico rammarico nella possibile
aspettativa nei confronti di una trama di maggiore sostanza e introspezione,
radicalmente differente da quanto visto e raccontato fino ad oggi. Il
ricongiungimento della coppia Ridley Scott - Russell Crowe in un contesto epico
dà comunque vita ad un film d'azione spettacolare e ricco di humour, qualità
ampiamente consentite dai personaggi dell'eroe incappucciato. La mano di Scott
si vede chiaramente nell'uso della fotografia e nella cura della ricostruzione,
ma il regista è aiutato anche dall'ottimo montaggio di Pietro Scalia che
valorizza soprattutto le scene d'azione. Insomma, volevano creare qualcosa di
diverso e ci sono riusciti in buona misura. E anche se la vera Leggenda inizierà
dopo, basta anche solo la bella immagine alla fine della battaglia in cui
vediamo, con forte controcampo, Robin con una freccia incoccata pronto a
lanciare, a ricordarci il fascino leggendario dell' arciere più famoso e amato
di sempre. Shutter Island di Martin Scorsese. Shutter Island è un film
il cui valore sta più nelle atmosfere che sa restituire che nella coerenza e nel
rigore dell'intreccio narrativo. Più nella tensione che suscita nello spettatore
che negli inevitabili colpi di scena, più catartici che rivelatori. Che le cose
non siano come sembra è chiaro sin dall'inizio, ma Scorsese tiene troppo
occupato lo spettatore perché questi riesca a mettere subito a posto i pezzi
dell'infernale puzzle. Il film è ambientato nel Masachussetts 1954 dove l'agente
Teddy Daniels (Di Caprio), ancora traumatizzato dalla morte della moglie e dagli
orrori visti a Dachau durante la guerra, arriva sull'isola di Shutter, al largo
di Boston, sede di una prigione di massima sicurezza per criminali psicopatici,
affiancato dal nuovo collega Chuck Aule. L'agente deve indagare sulla sparizione
di una pericolosa paziente. Di Caprio si muove e costringe anche lo spettatore a
seguirlo negli oscuri meandri del manicomio, costretto a mettere continuamente
in discussione ciò che vede, in quanto i misteriosi pazienti e i sospetti
esperimenti medici nei reparti segreti lo depistano e lo portano a delle
improvvise tempeste dell'anima. Teddy Daniels usa la follia per negare a se
stesso tutti i peccati fatti e i traumi subiti dalla vita, inscenando nella sua
contorta mente un film nel film che lo vede vittima di tutto e tutti; i
direttori del centro psichiatrico considerano Teddy il paziente piu pericoloso e
importante dell'intera struttura subordinando la riuscita del loro progetto alla
sua guarigione totale... ecco allora che ricreano intorno a lui la scenografia
che si era creato e che raccontava da anni al fine di guarirlo totalmente dato
che tutte le precedenti cure hanno avuto esito negativo. Geniale il finale che
vede il protagonista tornato lucido dopo la cura e quindi consapevole dei reati
che cercava di nascondere a se stesso,il quale però finge a questo punto la
pazzia costringendo il dottor Cawley a lobotomizzarlo preferendo quindi la morte
mentale, una sorta di purificazione dai peccati sotto forma di intervento alla
testa. Scorsese mostra un'altra faccia della violenza: la follia. Riprendendo
alcuni precedenti (The Aviator) mette lo spettatore nella condizione di
accettare la realtà per quanto brutale ed orrenda possa essere o di rifiutarla e
nascondersi per sempre indossando la maschera perbenista e mite, che la società
e le regole impongono. Così facendo, offre una verità scomoda ed amara, eppure
unica da accettare. Più cerebrale che viscerale, Shutter Island non sarà un
capolavoro del regista Scorsese, ma 138 minuti di puro godimento. Toy story
3. La grande fuga di Lee Unkrich. Giunto al terzo film, la serie di
Toy story invece che afflosciarsi si dimostra ancora vitale. La Pixar si sta
dimostrando una fucina di menti brillanti, e i risultati si vedono, proprio in
virtù della maturità sempre maggiore dello studio di produzione. Al di là della
spettacolarità del 3D ai livelli (se non migliore) di Avatar, dove infatti non
sono stati usati i soliti trucchetti del formato (per esempio una cascata di
frecce che punta verso il pubblico) ma come se fosse una finestra sulla storia
(si può comunque vedere tranquillamente in 2D), i personaggi non perdono un
colpo, i sentimenti sono preponderanti, l'azione è perfetta e le dinamiche dei
flashback mai così efficaci! Andy deve andare al college e i giocattoli devono
trovare una sistemazione all'asilo mentre Woody è stato scelto in quanto è stato
da sempre il suo giocattolo preferito, e lui sempre lo sarà. Indipendentemente
dall'età. E Woody saprà fare la scelta giusta, per sè, per Andy, per i suoi
amici. Perchè lui è la star di Toy Story, lui sa sempre cosa fare, lui sa
scegliere ciò che è meglio per sè e per gli altri. A questo punto niente è quel
che sembra: il cowboy, che ha sempre ragione, non abbandonerà mai i suoi amici e
la trama non tira le fila perchè ha ancora molto da raccontare! Woody e compagni
già erano tornati a casa per ben due volte attraversando distanze impensabili
per un giocattolo, questa volta devono anche evadere da un asilo che di notte
diventa un carcere. Potendosi permettere il lusso di non dover introdurre dei
personaggi già noti il film si concentra sui nuovi comprimari, tutti dotati di
personalità in linea con il genere carcerario (tranne Ken e Barbie straordinari
outsider a modo loro), e affronta con più complessità la mitologia della serie,
cioè quale sia il rapporto dei giocattoli con i propri padroni. I piccoli
protagonisti non sono mai stati così coraggiosi, dolci, espressivi e coinvolti
nelle vicende umane... in questo terzo capitolo c'è proprio ogni carta per
giocare sul tavolo del capolavoro, tra tradizione e innovazione: gli umani sono
più protagonisti e soprattutto lo è Andy alla fine, Buzz è sempre il coraggioso
ranger spaziale pronto a essere l'espediente di svolta nella storia, Mr. Potato
"collauda" nuovi spassosi corpi, ci sono nuovi giocattoli interessanti e
divertenti, Woody è trascinato in azioni mirabolanti ed è sempre il capo buono
pronto al sacrificio e finalmente i tanto amati giocattoli riflettono sul
proprio ruolo, tra nuovi e vecchi amici, regalando momenti di tristezza e
gioia...la realizzazione stilistica e grafica del film è eccelsa e in questo è
meglio del primo The wolfman di Joe Johnston. Anche co-produttore, Del
Toro è protagonista nei panni del nobile Lawrence Talbot, attore di fama
internazionale che ha tagliato ogni contatto con la famiglia di stanza a
Blackmoor e si è trasferito in America. Durante una tournee londinese, viene
spinto a tornare a casa dalla lettera della fidanzata del fratello, Gwen
Conliffe (Emily Blunt), che lo prega di mettersi sulle tracce del suo amato,
misteriosamente scomparso. Arriva tardi: il cadavere del fratello è stato
rinvenuto, brutalmente sfigurato. Ma ci sono altri motivi perché il ritorno del
"figlio prodigo" non sia indolore: la sua infanzia fu tragicamente segnata dal
"suicidio" della madre e con il padre (Anthony Hopkins) non sono mai state rose
e fiori, anzi il caro genitore lo fece pure internare in manicomio per un anno,
prima di spedirlo da una zia oltreoceano. Comunque, Lawrence si unisce alla
ricerca degli abitanti del villaggio, o meglio indaga per proprio conto,
chiedendo lumi ai gitani, quegli stessi che tramandarono di generazione in
generazione versi strappati al terrore e resi leggenda: "Anche un uomo puro di
cuore che recita le sue preghiere la sera può diventare un lupo quando fiorisce
la luparia e risplende la luna d'autunno". Scoprirà che qualcosa o qualcuno
dalla forza sovrumana e dall'insaziabile sete di sangue sta facendo a pezzi i
compaesani, e ce n'è anche per lui: un sospettoso ispettore di Scotland Yard,
Aberline (Hugo Weaving), è venuto a interrogarlo. Nonostante il prodotto sia di
buona fattura, Benicio Del Toro e Anthony Hopkins, rispettivamente padre e
figlio, non affrontano lo sdoppiamento della coscienza, perché il film resta
intrappolato negli effetti speciali. La trama, sebbene con l'innegabile merito
di far spaventare, non fa paura. Troppo presto scopre le sue carte, troppo
presto si tratteggiano i ruoli sulla scacchiera, perché possa scattare una
qualsivoglia suspense.
Anno 2010: Cinema Premi Oscar David di
Donatello Festival del Cinema di Berlino Festival del cinema di Cannes Festival
internazionale del Film di Roma 67a Mostra del cinema di Venezia 23° European
Film Award Danza Musica classica Musica leggera e jazz Il Festival di Sanremo
Anno 2010. Premi Oscar. Miglior film: The Hurt
Locker Miglior regia: Kathryn Bigelow per The Hurt Locker Miglior
attore protagonista: Jeff Bridges per Crazy Heart Miglior attrice
protagonista: Sandra Bullock per The Blind Side Miglior attore non
protagonista: Christoph Waltz per Inglorious Basterds - Bastardi senza
gloria Miglior attrice non protagonista: Mo'Nique per Precious Miglior
sceneggiatura originale: Mark Boal per Hurt Locker Miglior sceneggiatura
non originale: Geoffrey Fletcher per Precious Miglior film straniero: Il
segreto dei suoi occhi di José Campanella (Argentina) Miglior film
d'animazione: Up di Pete Docter e Bob Peterson Miglior fotografia:
Mauro Fiore per Avatar Miglior montaggio: Chris Innis e Bob
Murawski per The Hurt Locker Miglior scenografia: Rick Carter,
Robert Stromberg e
Kim Sinclair per Avatar Migliori costumi: Sandy Powell per
The Young Victoria Miglior trucco: Barney Burman, Mindy Hall e
Joel Harlow
per Star Trek Migliori effetti speciali: Joe Letteri, Stephen
Rosenbaum,
Richard Baneham e Andrew R. Jones per Avatar Miglior
colonna sonora: Michael Giacchino per Up Miglior canzone: The weary
Kind per Crazy Heart Miglior sonoro: Paul N.J. Ottosson e Ray
Beckett per The Hurt Locker Miglior montaggio sonoro: Paul N.J. Ottosson
per The Hurt Locker Miglior documentario: The Cove di James Marsh Miglior
cortometraggio: The New Tenants di Joachim Back e Tivi Magnusson Miglior
cortometraggio documentario: Music by Prudence di Roger Ross Williams e
Elinor Burkett Miglior cortometraggio d'animazione: Logorama di Nicolas
Schmerkin David di Donatello. Miglior Film: L'uomo che verrà di Giorgio
Diritti Miglior Regista: Marco Bellocchio per Vincere Miglior Regista
Esordiente: Valerio Mieli per Dieci inverni Miglior Sceneggiatura:
Francesco Bruni, Francesco Piccolo,
Paolo Virzì,
Giorgio Diritti, Giovanni Gavalotti per La prima cosa
bella Miglior Produttore: RAI Cinema per L'uomo che verrà Miglior Attrice
Protagonista: Micaela Ramazzotti per La prima cosa bella Miglior Attore
Protagonista: Valerio Mastandrea per La prima cosa bella Miglior Attore
non Protagonista: Ennio Fantastichini per Mine vaganti Miglior Attrice
non Protagonista: Ilaria Occhini per Mine vaganti Miglior Direttore della
Fotografia: Daniele Ciprì per Vincere Miglior Musicista: Ennio
Morricone per Baarìa Miglior Canzone Originale: Baciami ancora di
Jovanotti per Baciami ancora Miglior Scenografo: Marco Dentici per
Vincere Miglior Costumista: Sergio Ballo per Vincere Miglior Truccatore:
Franco Corridoni per Vincere Miglior Acconciatore: Alberta Giuliani
per Vincere Miglior Montatore: Francesca Calvelli per Vincere Miglior
Fonico di Presa Diretta: Carlo Missidenti per L'uomo che verrà Migliori
Effetti Speciali Visivi: Paola Trisoglio e Stefano Marinoni di
Visualogie per Vincere Miglior Film dell'Unione Europea: Il concerto di
Radu Mihaileanu Miglior Film Straniero: Bastardi senza gloria di Quentin
Tarantino Miglior documentario lungometraggio: La bocca del lupo di
Pietro Marcello Miglior cortometraggio: Passing Time di Laura Bispuri
David Giovani: Baarìa di Giuseppe Tornatore David Speciali assegnati:
Tonino Guerra, Bud Spencer e
Terence Hill Festival del Cinema di Berlino. Orso d'oro -
Miglior film: Miele di Semih Kaplanoglu Gran premio della giuria: Se
voglio fischiare, fischio di Florin Serban Orso d'argento per la miglior
regia: The ghost Writer di Roman Polanski Orso d'argento per la migliore
attrice: Shinobu Terajima per Caterpillar Orso d'argento per il miglior
attore: Grigoriy Dobrygin e
Sergei Puskepalis (ex aequo) per "How I ended this summer" Orso
d'argento per la sceneggiatura: Wang Quan'an e Na Jin
per Apart Together Orso d'argento per lo straordinario contributo
artistico: Pavel Kostomarov per la fotografia di "How I ended this
summer" Miglior film d'esordio: Sebbe di Babak Najafi Orso d'oro per il
miglior cortometraggio: Händelse Vid Bank di Ruben Östlund Festival
del cinema di Cannes. Palma d'oro: On Uncle Boonmee who can recall his
past lives di Apichatpong Weerasethaku Gran premio della giuria: Octubre
di Daniel e Diego Vega Miglior regia: Mathieu Amalric con Tournée Miglior
attore: Javier Bardem ed Elio Germano ex-aequo Miglior attrice:
Juliette Binoche Miglior sceneggiatura: Lee Changdong per Poetry
Premio della giuria: Des hommes et des dieux di Xavier Beauvois Premio Un
Certain Regard: Hahaha di Hong Sangsoo Premio Cinéma Europa: Le
Quattro volte di Michelangelo Frammartino Festival internazionale del
Film di Roma. - Premio Marc'Aurelio della Giuria al miglior film: Kill Me
Please
di Olias Barco - Gran Premio della Giuria Marc'Aurelio: Hævnen - In a
Better World
di Susanne Bier - Premio Speciale della Giuria Marc'Aurelio: Poll
di Chris Kraus - Premio Marc'Aurelio della Giuria al miglior attore: Toni
Servillo
per Una Vita Tranquilla - Premio Marc'Aurelio della Giuria alla migliore
attrice: tutto il cast femminile di Las Buenas hierbas - Targa Speciale del
Presidente della Repubblica Italiana al film che meglio mette in rilievo i
valori umani e sociali: Dog Sweat di Hossein Keshavarz - Premio
Marc'Aurelio del Pubblico al miglior film - BNL: Hævnen - In a Better World
di Susanne Bier - Premio Marc'Aurelio al miglior documentario per la sezione
L'Altro Cinema | Extra: De Regenmakers di Floris-Jan Van Luyn - Premio
Marc'Aurelio Esordienti: Kaspar Munk per Hold Om Mig - Premio
Marc'Aurelio Alice nella città sotto i 12 anni: I Want To Be a Soldier di
Christian Molina - Premio Marc'Aurelio Alice nella città sopra i 12 anni:
Adem di Hans Van Nuffel - Il Festival ha assegnato il Premio Marc'Aurelio
all'attore a
Julianne Moore Il Festival internazionale del cinema di Roma è
gemellato con il
TriBeCa Film Festival di New York, fondato nel 2002 da Jane
Rosenthal e Robert De Niro in risposta agli attentati dell'11 settembre 2001 al
World Trade Center e alla conseguente perdita di vitalità dell'area vicina di
TriBeCa a Manhattan, quartiere nel quale lo stesso De Niro abita da anni. A Roma
vengono presentati alcuni dei film scelti per la precedente edizione del
festival newyorkese, mentre alcuni film proiettati nella capitale sono poi
riproposti nella successiva edizione del TriBeCa Film Fest. De Niro è stato
ospite della prima edizione della rassegna, durante la quale l'allora sindaco di
Roma Walter Veltroni gli ha consegnato il passaporto italiano. 67a Mostra
del cinema di Venezia. Leone d'oro per il miglior film: Somewhere di
Sofia Coppola Leone d'argento per la migliore regia: Alex de la Iglesia
per Zanan Balada triste de trompeta Coppa Volpi per il miglior attore:
Vincent Gallo per Essential killing Coppa Volpi per la migliore attrice:
Ariane Lebed per Attenberg Osella per la miglior sceneggiatura: Alex de
la Iglesia per Balada triste de trompeta Osella per la migliore fotografia:
Mikhail Krichman per Silent souls Premio speciale della Giuria: Essential
killing di Jerzy Skolimowski Premio Venezia Opera Prima "Luigi De
Laurentiis": Cogunluk (Majority)
di Seren Yuce Premio "Marcello Mastroianni" a un giovane attore o
attrice emergente:
Mila Kunis per Black swan Leone d'oro all'insieme dell'opera:
Monte Hellman 23° European Film Award. Premio Migliore Film
Europeo THE GHOST WRITER di Roman Polanski (Francia/Germania/UK) Premio
Migliore Regista Europeo Roman Polanski per la regia del film THE GHOST
WRITER Premio Migliore Attrice Sylvie Testud per la sua intepretazione
nel film LOURDES Premio Migliore Attore Ewan McGregor per la sua
intepretazione nel film THE GHOST WRITER Premio Migliore Sceneggiatura
Robert Harris e Roman Polanski per la sceneggiatura di THE GHOST WRITER
Premio "Carlo di Palma" Migliore Fotografia Giora Bejach per la fotografia
del film LEBANON Premio Migliore Montaggio Luc Barnier e Marion Monnier
per il montaggio del film CARLOS Premio Migliore Produttore Albrecht
Konrad per il film THE GHOST WRITER Premio Migliore Compositore Alexandre
Desplat per le musiche del film THE GHOST WRITER Premio FIPRESCI - European
Discovery LEBANON di Samuel Maoz (Israele/Germania/Francia) Premio
Migliore Documentario - Premio ARTE NOSTALGIA DE LA LUZ di Patricio Guzmán
(Francia/Germania/Cile) Premio Migliore Film di Animazione THE
ILLUSIONIST di Sylvain Chomet Premio Migliore Cortometraggio HANOI -
WARSZAWA di Katarzyna Klimkiewicz (Polonia) Premio EURIMAGES Zeynep
Özbatur Atakan (produttore) Premio alla Carriera Bruno Ganz (attore)
Premio alla Carriera Internazionale Gabriel Yared (compositore) Premio
del Pubblico Migliore Film Europeo MR. NOBODY di Jaco van Dormael
Nell'anno 2010 ... Gian Fabio Bosco, detto Gian, è morto il 16 febbraio. La
coppia "Ric e Gian" perde il suo Gian. All'età di 73 anni Gian Fabio Bosco si è
spento all'ospedale di Lavagna, in Liguria, dove era stato ricoverato qualche
tempo fa per un aneurisma. Nato a Firenze il 30 luglio 1936, la sua carriera è
stata lunga, da solo o in coppia con Ric, più di 60 anni. Figlio d'arte (i
genitori erano entrambi attori nella celebre compagnia di Gilberto Govi), ebbe
le prime esperienze come attore all'età di 8 anni nella stessa compagnia dei
genitori. Giovanissimo entrò nella compagnia di Gino Bramieri e poi con il
comico Mario Ferrero. È appunto lavorando con il comico che alla fine degli anni
'50 conobbe il ballerino fantasista Riccardo Miniggio. Comincia un duo,
inizialmente chiamato Jerry e Fabio che riscosse successo persino in Francia.
Nel 1965 il produttore cinematografico Angelo Rizzoli, che li ingaggia per
girare il film "Ischia operazione amore" (1966) decide di cambiare il loro nome
d'arte in Ric e Gian. I due stanno insieme nel mondo dello spettacolo per 20
anni e solo nel 1987 decidono di separarsi. Gian Fabio Bosco diversificò la sua
attività, privilegiando il teatro e il cinema. Ha girato con Adriano Celentano
Joan Lui, con Neri Parenti e nel 1988 in Libero Burro di Sergio Castellitto che
andò anche alla mostra del cinema di Venezia. Nel 2002 recita nel film di
Vincenzo Salemme Ho visto le stelle. Per la televisione qualche fiction tra cui
"Anni '60" e "Angelo il custode" con Lino Banfi. Claude Chabrol, è morto
a Parigi il 12 settembre 2010. Figlio di un farmacista, Claude Chabrol nacque a
Parigi il 24 giugno 1930. Il suo debutto nel cinema avvenne a dodici anni, come
proiezionista, in un garage di un piccolo villaggio della Creuse. Dopo la scuola
secondaria, Chabrol studiò legge e, già burlone, scrisse false dediche di
Hemingway e di Faulkner, che riusciva a vendere ad un buon prezzo. Molto
giovane, si sposò con una ricca ereditiera, cosa che gli consentì di realizzare
i suoi primi film: Le beau Serge (1958) e I cugini (1958), con Jean-Claude
Brialy. L'anno dopo, Chabrol girò Donne facili (1959), con Stéphane Audran, che
sarà una delle attrici preferite e che diventerà poi sua moglie. Il film è
accolto molto male dal pubblico e il successivo Les godelureaux (1960) lo fece
cadere completamente in disgrazia; neppure un film come Landru (1962), ispirato
al celebre fatto di cronaca e sceneggiato da Françoise Sagan, fece uscire
Chabrol da quella difficile situazione. Allora il regista francese iniziò a
realizzare dei film di spionaggio pieni di humour, nel tentativo di sfruttare il
successo di James Bond. Il favore del pubblico torna nel 1968, con il film Les
Biches-Le cerbiatte, seguito l'anno successivo da Stéphane una moglie infedele,
Ucciderò un uomo e Il tagliagole, con cui Chabrol definì lo stile che lo ha reso
famoso, inserendo il giallo alla Hitchcock nella quotidianità della piccola
borghesia di provincia. Poi, realizzò film come Gli innocenti (1975), Violette
Nozière (1978), I fantasmi del cappellaio (1982), L'inferno (1993) e Il buio
nella mente (1995). Dopo Il colore della menzogna (1999), con Jacques Gamblin e
Sandrine Bonnaire, Claude Chabrol ha diretto Grazie per la cioccolata (2000),
interpretato da Isabelle Huppert. Nel 2003 ha presentato al Festival di Berlino
Il fiore del male, tratto da "Qui est criminelle?", romanzo di Caroline
Eliacheff, che ha come tema centrale la colpa quale malattia ereditaria. Ha
presentato fuori concorso a Venezia La damigella d'onore (2004) e L'innocenza
del peccato (2007). I suoi film raccontavano, spesso basandosi sui romanzi di
Georges Simenon, una provincia il cui apparente conformismo borghese serve a
coprire un vaso di Pandora, colmo di vizi e odi. Gary Coleman, il bimbo
prodigio della serie televisiva Arnold, è morto il 28 maggio in un ospedale
dello Utah per emorragia cerebrale. Aveva 42 anni. Era caduto in precedenza
ferendosi gravemente alla testa. Portato in ospedale, gli era stata
diagnosticata una emorragia cerebrale ed era tenuto in vita dalle
apparecchiature ospedaliere. Con il consenso della moglie Shanon, si è deciso di
staccare la spina. Nato con una grave malattia renale congenita, che aveva
bloccato da adulto la sua crescita a 142 centimetri, il bimbo prodigio aveva
dovuto sottoporsi durante la sua vita a due trapianti di reni e, nonostante
questo, a trattamento quotidiano di dialisi. In onda negli Stati Uniti dal 1978
al 1986, la serie Il mio amico Arnold arrivò al pubblico italiano negli anni
Ottanta, quando Canale 5, ormai rete nazionale, ne fece un punto fermo della sua
programmazione pomeridiana. Il segreto del successo era tutto concentrato nelle
fattezze del protagonista assoluto dello show: un bambino afroamericano, piccolo
e grassottello, dalla battuta fulminante e dall'irresistibile senso
dell'umorismo. Nessuno, all'epoca, avrebbe mai sospettato che Arnold non fosse
un attore-bambino dal talento straordinario. Ma pian piano la verità venne a
galla. Gary Coleman, nato a Zion, Illinois, nel 1968, non era un piccolo e
grassottello ragazzino nero, ma un uomo, adulto e minato nel fisico. La serie
aveva dato grande popolarità all'attore che all'epoca guadagnava 100 mila
dollari a puntata. Ma i suoi risparmi erano stati dilapidati dai genitori e dal
manager. Coleman aveva fatto causa, ma nel 1999 aveva dovuto dichiarare
bancarotta. Infatti, quando per l'uomo Gary divenne insostenibile mantenere le
sembianze del bambino Arnold, la tv lo aveva abbandonato. Nel 1996 era apparso
in un episodio della serie Willy, il principe di Bel Air, protagonista la futura
superstar Will Smith. Nel passato di Gary vi è anche una brutta storia di
violenza domestica, quella che Coleman usò contro Shannon Price, la donna che
aveva sposato nel 2007. Coleman aveva tentato anche la carta della politica. Nel
2003 annunciò la sua candidatura a governatore della California. Ma, ironia
della sorte, fu battuto da un altro "Arnold": Schwarzenegger, l'ex culturista
inventatosi attore e reso popolarissimo dai ruoli interpretati in " Terminator
". Tony Curtis è morto a Los Angeles (California) il 30 settembre. Era
nato a New York nel 1925. Cresciuto nelle strade del Bronx, fra le bande del suo
quartiere, figlio di un sarto ungherese, ha partecipato alla seconda guerra
mondiale entrando nei Marines e al suo rientro, con il solo obiettivo di
diventare attore, ha cominciato a studiare arte drammatica. Nel 1949, inizia la
sua carriera teatrale con il nome di James Curtis, cambiandolo poi in Anthony
Curtis (diventato poi Tony). Il suo debutto al cinema è con il film di Jerry
Lewis (inedito in Italia) How to Smuggle a Hernia Across the Border (1949), dove
recita accanto a colei che diverrà la sua prima moglie, Janet Leigh. Una volta
sposata la Leigh, il 4 giugno 1951, e una volta avute da lei le sue prime due
figlie - la nota attrice Jamie Lee Curtis e la caratterista Kelly Curtis -
divorzierà da questa nel 1962, per sposarsi con l'attrice Christine Kaufmann
(1963-1967) dalla quale avrà due figlie (una di queste è l'attrice Allegra
Curtis). Dopo la Kaufmann è la volta di Leslie Allen (1968-1982), due figli e un
divorzio, poi l'attrice Andrea Savio (1984-1992) un divorzio, ma nessuno figlio.
Stessa sorte per Lisa Deutsch (1993-1994), a cui va il primato del matrimonio
più breve con Curtis, ed infine l'ultima moglie, di 45 anni più giovane di lui,
Jill Vandenberg Curtis, sposata nel 1998. Ebbe anche una chiacchierata "Love
story" con Marylin Monroe, dopo il film "A qualcuno piace caldo". Marilyn,
avrebbe poi raccontato l'attore, sarebbe rimasta incinta ma, malgrado lei
sognasse da anni la maternità, perse il bambino. Forse anche per questo, il film
divenne oggetto di un culto che travalicava il mondo del cinema. Tanto che il
Guardian, nel dare la notizia della sua morte, titola: "La stella di A qualcuno
piace caldo è morta a ottantacinque anni". Tornando agli aspetti professionali
di Curtis, i suoi esordi nel cinema hanno grandi nomi. Come quello di Robert
Siodmack, per esempio, che gli offre la parte di un gigolò in Doppio Gioco
(1949) accanto a Burt Lancaster (che sarà suo partner in numerosi film) e Yvonne
De Carlo. Una pellicola di grande successo, che divenne famosa negli Studios per
l'eccessiva violenza usata. Da lì in poi, il contratto con la Universal a 100
dollari la settimana e una marea di film dove però il suo nome fatica a
brillare, eccezione fatta per Non c'è posto per lo sposo (1952) di Douglas Sirk.
Il suo primo film da protagonista è per l'anno successivo, con Il Mago Houdini,
film biografico dove recita, accanto alla moglie Janet Leigh, la vita del grande
illusionista e prestigiatore. In Italia, Tony Curtis diventa celebre grazie a
Trapezio (1956) di Carol Reed, dove volteggia in aria accanto a Gina
Lollobrigida e un ritrovato Burt Lancaster. Mentre, in America, convince tutti
nel ruolo di un infido portaborse nel mondo del giornalismo statunitense
corrotto in Piombo rovente (1957) di Alexander Mackendrick. Ma c'è da dire che
la carriera di Tony Curtis non sarebbe quella che è senza la sua ribellione agli
Studios che, a quel tempo, facevano il bello e il cattivo tempo (decidendo loro
per gli attori, indirizzando le loro carriere, ripetendo all'eccesso un
personaggio stereotipato quando questo funzionava), stringendo una profonda
collaborazione artistica con il regista controcorrente Blake Edwards che lo
utilizzò in molte delle sue commedie: da Le avventure di Mister Cory (1957) a
Licenza a Parigi (1958), da Operazione Sottoveste dove duetta con Cary Grant
dentro un sommergibile rosa a La grande corsa (1965) che è quasi un cartone
animato. Tralasciando la commedia - in cui è maestro - Tony Curtis è talentuoso
anche nei ruoli drammatici. La parete di fango (1958) di Stanley Kramer, dove è
il contraltare bianco di Sidney Poitier, gli fa strappare, infatti, le
nominations al Golden Globe come miglior attore in un film drammatico e
all'Oscar come miglior attore non protagonista. Ma noi, ricorderemo per sempre
Tony Curtis per il capolavoro di Billy Wilder A qualcuno piace caldo (1959) con
una Marilyn Monroe in stato di grazia e uno spassoso Jack Lemmon in abiti
femminili. La storia è quella di due musicisti del 1929 che, a Chicago, sono
testimoni di un massacro gangsteriano e, braccati dai killer della mafia,
riescono a trovare la salvezza travestendosi da ragazze e aggregandosi ad
un'orchestra femminile. E anche se nessuno è perfetto, Tony Curtis in quel film
lo è. Da qui in poi seguono Kubrick, Huston, Minnelli e ancora Mackendrick che
lo inserisce in un film con Claudia Cardinale, Piano, piano non t'agitare
(1967), che comunque non sarà l'unico contatto italiano nella sua carriera. Fra
i suoi ruoli più difficili come non citare Lo strangolatore di Boston (1968) di
Richard per il quale è nominato ai Golden Globe come Miglior attore in un film
drammatico. Ma a cavallo fra gli anni '60 e '70, Tony Curtis si dà alla
produzione cinematografica e a piccoli ruoli da guest star in numerosi serial
televisivi, per tornare sul grande schermo nel 1976, con Gli Ultimi Fuochi di
Elia Kazan, accanto a Robert De Niro, Robert Mitchum e Jeanne Moreau. Negli anni
Ottanta, si concede solo per piccole parti e nel 1994, in seguito ad un attacco
di cuore, subisce un intervento con bypass. Lo stesso anno, uno dei suoi figli,
Nicholas, muore il 2 luglio per un'overdose di eroina. Appare sano e rinvigorito
l'anno successivo, nel flop di Arnold Schwarzenegger Eroe per famiglie e torna a
recitare perfino nella versione musical di "A qualcuno piace caldo", con il
ruolo del milionario Osgood Fielding III, che nel film era interpretato da Joe
E. Brown. Si trasferisce poi a Las Vegas, in Nevada, e si dedica alla pittura (i
suoi quadri sono stati esposti al Museum of Modern Art di New York), senza mai
lasciare la sua passione per la recitazione, concedendosi qualche piccola parte
ogni tanto in qualche serial tv. Oltre a quella cinematografica, di un certo
rilievo anche la sua attività televisiva, in particolare come co-protagonista
nei primi anni settanta di una serie di telefilm di successo: "Attenti a quei
due", in cui impersona il ricco playboy americano Danny Wilde, contrapposto
all'elegante e raffinato lord inglese Brett Sinclair (Roger Moore), entrambi
impegnati a fronteggiare malviventi e belle donne in scanzonate avventure di
intrighi e mistero. Suso Cecchi D'Amico è morta il 10 luglio. Era nata a
Roma nel 1914. Giovanna Cecchi, questo il suo vero nome, ha origini toscane: suo
padre Emilio Cecchi, scrittore e critico letterario, era di Firenze. Il suo
primo vero contatto con il cinema avviene negli anni '30 quando suo padre viene
nominato direttore di produzione cinematografica per la Cines. Moglie del
critico musicale Fedele D'Amico, a sua volta figlio del fondatore dell'Accademia
d'arte drammatica D'Amico di Roma, esordisce come sceneggiatrice nel 1946 per il
film Mio figlio professore di Renato Castellani. Nella sua lunghissima carriera
partecipa alla stesura di numerosi capolavori, stringendo in particolare un
forte e duraturo sodalizio con Luchino Visconti, Michelangelo Antonioni e Mario
Monicelli. Tra le sue sceneggiature sono da ricordare quelle di Ladri di
biciclette e Miracolo a Milano di Vittorio De Sica, I vinti, Le amiche e La
signora senza camelie di Michelangelo Antonioni, Salvatore Giuliano di Francesco
Rosi, I soliti ignoti, e Speriamo che sia femmina. Nella sua trentennale
collaborazione con Visconti, Suso Cecchi D'Amico scrive le sceneggiature di
Bellissima, Senso, Rocco e i suoi fratelli, Il Gattopardo, Vaghe stelle
dell'Orsa, Ludwig, Gruppo di famiglia in un interno e Le notti bianche. La sua
vita è ricca di aneddoti che sono raccolti in varie pubblicazioni dedicate alla
signora del cinema italiano. Tra i tanti sono celebri l'intesa perfetta con
Visconti, da lei definito, nonostante le apparenze, "il regista più facile con
cui lavorare"; poi Moravia, conosciuto agli esordi e definito un pessimo
sceneggiatore; le risate e la rottura con Zavattini, dopo che lui addossò a lei
la colpa dell'insuccesso di un film di Brancati. Nel 1994 la Mostra di Venezia
le ha assegnato il Leone d'Oro alla carriera. Dino De Laurentiis è morto
l' 11 novembre a Los Angeles, all'età di 91 anni. Era nato a Torre Annunziata
nel 1919. Il suo vero nome era Agostino De Laurentiis. Giovanissimo si
trasferisce a Roma e nel biennio 1937-38 intraprende la carriera di attore
iscrivendosi al Centro Sperimentale di Cinematografia. Inizia a fare la comparsa
all'età di 17 anni, recitando in Orologio a cucù (1938) di Camillo Mastrocinque,
accanto a Vittorio De Sica; Batticuore (1939) e Grandi magazzini (1939) di Mario
Camerini. Intanto comincia a muovere i suoi primi passi nella produzione: è il
1941 e lui finanzia L'amore canta di Ferdinando Maria Poggioli. L'anno
successivo, viene convocato da Guido Maggiorino Gatti, direttore della Lux Film
di Roma, che lo assume come produttore esecutivo. Dopo la guerra, rientrato
nella capitale nel 1944, conosce Bianca Maria De Paolis, figlia di un direttore
di banca, che sposa l'anno successivo e da cui divorzierà nel 1966. Con lei si
trasferisce a Torino dove, con Luigi Rovere, produce Il bandito (1946) di
Alberto Lattuada (che era stato suo testimone di nozze). Separatosi poi da
Rovere, fonda la Dino De Laurentiis, che si accosterà alla LUX. Nel 1948 con
Carlo Ponti costituisce la Ponti-De Laurentiis con studi propri, e producono il
primo film a colori realizzato in Italia, "Totò a colori" (1952) per la regia di
Steno. Importantissima nella sua vita la produzione della pellicola drammatica
Riso Amaro (1949) di Giuseppe De Santis, che gli farà conoscere la sua seconda
moglie: l'attrice Silvana Mangano. La Mangano, sposata civilmente, darà al
consorte quattro figli. Ma quella che all'apparenza sembra una famiglia felice
non lo è affatto. Nel 1987 Dino chiede il divorzio, e nel 1989, a Madrid,
Silvana muore. Insieme, i due hanno condiviso il successo di grandi pellicole
come: Napoli milionaria (1950) di Eduardo De Filippo, Guardie e ladri (1951) di
Mario Monicelli e Steno, Anna (1951) di Lattuada, Europa '51 (1952) di Roberto
Rossellini, L'oro di Napoli (1954) di Vittorio De Sica, Guerra e pace (1955) di
King Vidor, ma soprattutto due film di Federico Fellini: La strada (1954) che
gli fece aggiudicare il Nastro d'Argento per il miglior produttore assieme a
Carlo Ponti (con il quale lavorava) e Le notti di Cabiria (1957), ancora Nastro
d'Argento e David di Donatello sempre per la migliore produzione. Nel 1962 ha un
ambizioso progetto: Dinocittà. Un luogo dove si possano creare kolossal, ma
anche film d'autore, dove associare alla produzione cinematografica le capacità
imprenditoriali. L'impresa resta in piedi dal gennaio 1964 al giugno 1972, poi
chiude i battenti e nel 1978 inaugura il Luxury Hotel Complez a Bora Bora. Dopo
La grande guerra (1959) di Mario Monicelli e Tutti a casa (1960) di Luigi
Comencini (che gli portò il secondo David), De Laurentiis continuò a lavorare
per fare grande il cinema italiano finanziando artisti come Salce, Blasetti,
Lizzani, Corbucci, Risi, Petri, Brass, Antonioni, Visconti e Bava, ma anche
cercando di esportare il suo nome all'estero producendo opere di Martin Ritt,
Richard Fleischer, Claude Chabrol, Edward Dmytryk e Roger Vadim. Enorme fu il
boom de La Bibbia (1966) diretto da John Huston (terzo David) che sancì
definitivamente la sua carriera in America e Russia, ancora strette dalla morsa
della guerra fredda. Se all'est finanziava pellicole come Waterloo (1970) di
Sergei Bondarchuk ad ovest era impegnato con Serpico (1973) di Lumet e I tre
giorni del Condor (1975) di Pollack. Senza De Laurentiis non avremmo mai visto
L'uovo del serpente (1977) di Ingmar Bergman, ma anche flop incredibili come
King Kong (1976) e Flash Gordon (1980). Negli anni '70 quando il cinema italiano
viene penalizzato dalla legge che concede i sussidi solo ai film con il 100% di
produzione italiana, si trasferisce negli Stati Uniti. Diventò cittadino
americano nel 1986, e continuò ad alternare insuccessi a pietre miliari della
storia del cinema: Ragtime (1980), Conan il barbaro (1982), La zona morta
(1983), Dune (1984), L'anno del dragone (1985) e Velluto blu (1986). Trovata una
degna partner nella figlia Raffaella, Dino, negli anni Novanta, dopo la morte di
Silvana, trova anche una nuova moglie, la produttrice americana Martha
Schumacher che darà alla luce Carolyna e Dina. Il Leone d'Oro alla carriera
arriva nel 2003. In 60 anni di carriera ha prodotto oltre 600 film in varie
vesti produttive; ha ricevuto 33 candidature e più di 59 premi internazionali.
Il 25 marzo 2001 gli è stato consegnato l'Oscar alla carriera. Dennis Hopper
è morto nella sua casa di Venice, in California, il 29 maggio. Era nato a Dodge
City, Kansas, il 17 maggio del 1936. Il film al quale la sua immagine rimane più
legata è Easy Rider, considerato uno dei film più importanti della storia del
cinema americano, con Peter Fonda e un allora sconosciuto Jack Nicholson. Un
inno al mito "on the road" divenuto manifesto dell'epoca, firmato - Hopper ne fu
interprete e anche regista - da un personaggio che divenne simbolo
dell'anticonformismo e della cultura "contro" dell'America degli anni Settanta.
Capace di instaurare rapporti di amicizia con le persone più diverse, aveva
frequentato il gotha dell'arte, dello spettacolo, della politica. Suoi amici
erano stati James Dean e Andy Warhol, Roy Lichtenstein e Martin Luther King,
Marlon Brando e John Wayne, Miles Davis e decine di altri nomi leggendari.
Cinque mogli, quattro figli, aveva divorziato da Victoria Duffy appena qualche
mese fa. Come regista, si ricordano Out of the Blue (1981), Colors (1987), The
Hot Spot - Il posto caldo (1990); come attore: L'amico americano (1977) di Wim
Wenders, Apocalypse Now (1979) di Francis Ford Coppola, Velluto blu (1986) di
David Lynch, Il cuore nero di Paris Trout (1991) di Stephen Gyllenhaal, Una vita
al massimo (1993) di Tony Scott, Speed (1994) di Jan de Bont, Waterworld (1995)
di Kevin Reynolds, Basquiat (1996) di Julian Schnabel, Space Truckers (1996) di
Stuart Gordon, Blackout (1997) di Abel Ferrara, La terra dei morti viventi
(2005) di George A. Romero, Palermo Shooting (2008) di Wim Wenders, Lezioni
d'amore (2008) di Isabel Coixet. Nell'ottobre 2009 il suo manager aveva
dichiarato che l'attore soffriva di cancro alla prostata e aveva cancellato
tutti gli impegni lavorativi per concentrarsi sulle cure mediche, mentre nel
marzo 2010, pesando appena 45 chilogrammi, era stato dichiarato malato in fase
terminale dal suo avvocato, ma non era voluto mancare alla consegna della stella
con il suo nome sulla "Hollywood walk of fame". Tiberio Murgia è morto a
Roma il 20 Agosto 2010. È nato a Oristano nel 1929. Lavora in miniera e in
acciaieria ed è poi cameriere in un ristorante romano quando viene notato da
Mario Monicelli, alla ricerca di un tipico siciliano-macchietta per interpretare
Ferribotte, il ladruncolo fratello di Carmelina (il ruolo di Claudia Cardinale)
ne I soliti ignoti (1958). Continua collezionando parti molto simili tra loro in
film d'eccezione: viene diretto nuovamente da Monicelli ne La grande guerra
(1959) e da Giorgio Simonelli ne I baccanali di Tiberio (1959) e, pur
affrontando generi variegati resta legato indissolubilmente allo stereotipo del
meridionale solenne dal fisico magro e asciutto. Visto il fortunato esordio
nelle vicende dei "soliti ignoti", è protagonista anche del seguito firmato da
Nanni Loy Audace colpo dei soliti ignoti e nel 1961 è per l'ennesima volta il
personaggio di una storia di ladruncoli un po' imbranati, inesorabilmente
comici, de I soliti rapinatori di Milano. Spesso al fianco di Walter Chiari, Ugo
Tognazzi, Raimondo Vianello e altri interpreti della sua generazione, conferma
la sua bravura di attore comico con la partecipazione al film Il giorno più
corto (1962) di Sergio Corbucci con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, piccolo
capolavoro del riso che risponde con una parodia a Il giorno più lungo
americano. Nel 1964 è in Tre notti d'amore di Luigi Comencini, Franco Rossi e
Renato Castellani, nel 1966 fa parte del cast del film francese Il santo prende
la mira e L'uomo di Casablanca e nello stesso anno viene chiamato da Vittorio De
Sica per Caccia alla volpe. Due anni dopo è scritturato da Monicelli per La
ragazza con la pistola al fianco di Monica Vitti, Carlo Giuffrè e Stanley Baker.
Cambia genere con il lavoro di Pipolo e Franco Castellano Innamorato pazzo
(1981) dove affianca la coppia Adriano Celentano e Ornella Muti in vicende
amorose tutte sentimentali e poco sessuali. All'inizio degli anni Ottanta è
anche nel demenziale Attila, flagello di Dio dove Diego Abatantuono è il
protagonista di un film trash divenuto un cult della nostra cinematografia. Si
ritaglia un'interpretazione memorabile in Paulo Roberto Cotechiño, centravanti
di sfondamento (1983) di Nando Cicero e ritorna alla commedia del molleggiato
Celentano in Segni particolari: bellissimo (1983). In pausa creativa durante gli
anni Novanta, ritorna al cinema nel 2001 con la divertente commedia Ribelli per
caso di Vincenzo Terracciano e in Una milanese a Roma con Nino Manfredi; nel
2008 lo troviamo come protagonista in Chi nasce tondo... al fianco di Valerio
Mastrandrea e Raffaele Cannoli. Leslie William Nielsen è morto il 28
Novembre 2010 a Fort Lauderdale (Florida). Era nato nel 1926 a Regina (Canada).
Gli esordi di Nielsen sono stati tutt'altro che felici. I primi tempi infatti ha
collezionato numerosissimi ruoli marginali. Diventa protagonista in Una calda
notte d'estate (1957), con Shirley Mac Laine e in La legge del più forte (1958).
Gli altri film che formano la sua scalata verso il successo sono piccoli lavori
che vanno da Sinfonia di guerra (1968), Amore extraterrestre (1970) a risultati
più interessanti come L'avventura del Poseidon fino al thriller Non entrate in
quella casa, entrambi della seconda metà degli anni Settanta. Con gli anni
Ottanta arriva la svolta: entrato a far parte del cast de L'aereo più pazzo del
mondo, riesce a crescere artisticamente al punto da non fermare più la sua vena
comica innata. Affianca Sean Connery nello sbeffeggiante Obiettivo mortale di
Richard Brooks ed è il motore della serie televisiva Quelli della pallottola
spuntata 1 e 2, che darà il via all'omonima trasposizione cinematografica in cui
parodizza il genere poliziesco in un mix di gag e strambi comportamenti
irresistibili. È di qualche anno dopo infatti Una pallottola spuntata (1988),
Una pallottola spuntata 2 1/2 - L'odore della paura (1991) e Una pallottola
spuntata 33 1/3 - L'insulto finale (1994), buffi ritratti delle avventure
investigative del poliziotto più imbranato del mondo. Prosegue con la parodia de
L'esorcista dal titolo Riposseduta (1990), poi si fa trasportare dalla commedia
di buoni sentimenti Caro Babbo Natale (1991) per poi finire in Italia ad
affiancare Christian De Sica e Massimo Boldi in S.P.Q.R. - 2000 e 1/2 anni fa di
Enrico Vanzina. A metà degli anni Novanta, lavora con Mel Brooks in un film
cult, Dracula morto e contento che prende in giro la diavoleria di un
personaggio negativo come Dracula per renderlo simpatico e impacciato
protagonista di avventure comiche senza fine. Muore in Florida, a 84 anni, per
complicazioni legate ad una polmonite. Arthur Penn è morto il 28
settembre a Manhattan, il giorno dopo il suo ottantottesimo compleanno, per
un'insufficienza cardiaca congestizia. Era nato a Philadelphia il 27 settembre
del 1922. Durante la seconda guerra mondiale, mentre era stazionato a Fort
Jackson, formò un piccolo circolo teatrale con gli altri membri della fanteria,
e alla fine del conflitto, continuò i suoi studi teatrali in Italia. Negli anni
cinquanta, sebbene avesse studiato con Michael Chechov all'Actors Studios di Los
Angeles, iniziò a lavorare nel 1951 alla NBC TV. Due anni dopo Penn scriveva e
produceva produzioni in diretta televisiva per la Philco Playhouse e la
Playhouse 90. Il suo primo lungometraggio fu la pellicola western The Left
Handed Gun (1958), in cui Penn combinò il method acting sulla psicologia del
personaggio con la storia leggendaria del fuorilegge Billy the Kid interpretato
da Paul Newman. Il film fu ben accolto in Europa ma non ebbe la stessa fortuna
in America. Nel '62 Penn decise di adattare per il grande schermo la storia di
Anne Sullivan, l'insegnante che insegnò alla cieca e sorda Hellen Keller a
parlare, Anna dei miracoli - Al di là del silenzio. Penn rifiutò di assumere,
nonostante le pressioni, Elisabeth Taylor e fece ricoprire i ruoli della
Sullivan e della Keller rispettivamente ad Anne Bancroft e Patty Duke, le
protagoniste della sua opera teatrale scritta da Wlliam Gibson. Le due
protagoniste ottennero l'Oscar mentre Penn guadagnò una nomination. Nel 1964
Burt Lancaster lo licenziò dopo i primi due giorni di riprese di Il treno. Nel
1966 diresse La caccia, ma il produttore Sam Spiegel non contento del prodotto
finale licenziò il regista e rimontò la pellicola. Penn decise così di lasciare
nuovamente il cinema. Un anno dopo Penn fu convinto a tornare a dirigere film da
Warren Beatty con la direzione della pellicola Gangster Story. Penn assunse
sconosciuti provenienti dalla televisione e dai teatri newyorchesi e filmò e
montò la pellicola senza alcuna interferenza da parte degli studios. Grazie al
supporto di Beatty, Penn cercò di realizzare una pellicola brutale. Nonostante i
critici provassero avversione per lo spargimento di sangue e la nozione dei
criminali come degli eroi belli e dannati, il pubblico accolse positivamente la
pellicola, una combinazione tra il genere americano e lo stile della Nouvelle
Vague. Il film di Bonny e Clyde divenne un fenomeno della cultura pop che ispirò
una revisione sui film dei gangster. Seguirono Alice's Restaurant (1969), per
cui Penn ottenne una terza nomination all'Oscar e Piccolo grande uomo (1970).
Nel 1975 diresse Gene Hackman nel thriller Bersaglio di notte, mentre l'anno
dopo fu il turno di Jack Nicholson e Marlon Brando, protagonisti della commedia
western Missouri. Negli anni '80 il film-manifesto, il più bello e sfortunato,
il più libero e struggente: Gli amici di Georgia, vero e proprio Grande Romanzo
Americano su un immigrato albanese e i suoi tre amici per la vita, epica
proletaria per varcare l'ultima delle frontiere: la perdita dell'innocenza, la
conquista dell'amore paterno. La pellicola Con la morte non si scherza (1990)
segnò la fine della sua carriera cinematografica. Nonostante si fosse ritirato
da anni, fu convinto dal figlio Matthew a diventare produttore esecutivo della
serie televisiva Law & Order. Eric Rohmer (pseudonimo di Jean-Marie
Maurice Schérer) è morto l'11 Gennaio a Parigi. Era nato nel 1920 a Nancy.
Quando era ancora professore di lettere a Vierzon, ha pubblicato nel '46 un
romanzo sotto lo pseudonimo di Gilbert Cordier, Elisabeth. Con Godard, Rivette,
Truffaut e Chabrol fonderà La Gazzette du cinèma (di cui diverrà direttore)
oltre ad essere assiduo frequentatore del mitico cinè-club del Quartiere Latino
a Parigi. Con loro pubblicò un libro su Hitchcock nel '55 mentre più tardi
scrisse un saggio sull'espressionista Murnau. Sarà caporedattore dei Cahiers du
cinèma dal '57 al '63, proprio gli anni in cui prende decisamente vita la
Nouvelle Vague. Rohmer, il più anziano del gruppo, era stato d'altronde il primo
a fare il passo nella regia con il corto Journal d'un scélérat nel '50. È del
'59 il suo primo lungometraggio, Il segno del leone. Nel '62 fonda la società
Les films du Losange con cui produrrà la gran parte delle sue pellicole. Con La
collezionista nel '66 ma soprattutto La mia notte con Maud (1969), il suo
capolavoro, otterrà anche una nomination agli Oscar come miglior sceneggiatura.
Nel '65 firma l'episodio su Place de l'Etoile di Parigi di notte, accanto a
Chabrol, Godard, Douchet e Jean Rouch. Ultimo dei racconti morali è L'Amore il
pomeriggio (1972), forse il più ironico ma anche il più spietato verso il mondo
piccolo borghese che descrive. Con La Marchesa von... (1976) mette in scena
quasi ricalcandolo un racconto storico di von Kleist. Nel 1980 sarà la volta
della serie Comédies et proverbes, dal tono più scanzonato e beffardo. Il raggio
verde (1986) otterrà il Leone d'oro a Venezia. Rohmer regala opere mai
deludenti, garbate e attente alle sfumature, pur con certi eccessi di verbosità:
ne sono conferma L'amico della mia amica (1987) e Reinette e Mirabelle (1987).
Gli anni '90 sono segnati dai Contes des quatre saisons: in Racconto di
primavera (1990) sempre teatrale e molto parlato, tra la musica di Schumann e
Beethoven si narra dell'incertezza dei sentimenti, in Racconto d'inverno (1991)
per il classico e rohmeriano caso del destino Félicie resta incinta senza poter
contattare il padre a cui, nel loro amore estivo, aveva dato un indirizzo
sbagliato. Nel successivo Racconto d'estate (1996) si affronta un'altra,
leggera, avventura balneare per un insolito tombeur des femmes, mentre Racconto
d'autunno (1998) ritrova l'eleganza espressiva dei Contes. Leone d'Oro alla
carriera nel 2001, sempre coerente e vitale, a 80 anni, Rohmer firma un'altra
trilogia, questa volta storica. Il primo è La nobildonna e il duca (2001) dove
narra la rivoluzione francese dalla parte dell'aristocrazia e dove gli attori
recitano su fondali dipinti. Triple Agent - Agente speciale (2004) sarà invece
un film di spionaggio ambientato negli anni '30 e ne Gli amori di Astrea e
Celadon (2007) mette in scena un romanzo pastorale di Honoré d'Urfé ambientato
nel V secolo. Jean Simmons è morta il 22 Gennaio, all'età di 81 anni, a
Santa Monica (California). Era nata nel 1929 a Londra. Interpretò Cesare e
Cleopatra (1946), Grandi speranze (1946), Narciso nero (1947) prima di
affermarsi come Ofelia in Amleto (1948, per cui ottenne il premio come miglior
attrice a Venezia) di L. Olivier. A Hollywood esordì in Androclo e il leone
(1952) da Shaw e fu impiegata in una serie di colossal in costume (da La tunica,
1953, a Spartacus, 1960), ma provò la propria versatilità in commedie (anche
musicali come Bulli e pupe, 1955) e in ruoli fortemente drammatici (Il figlio di
Giuda, 1960, del marito R. Brooks, che l'ha diretta nel 1969 in The Happy
Ending). In seguito ha molto diradato l'attività, ritirandosi dopo Dominique
(1978) e tornando solo recentemente in How to make an american Quilt (1995). Ha
lavorato anche per la televisione. Nel 1988 le è stato consegnato il premio alla
carriera al Festival di Cannes. Mario Monicelli Viareggio, 16 maggio
1915 Roma, 29 novembre 2010. Figlio di Tomaso Monicelli, giornalista e
drammaturgo, cresce a Viareggio, frequentando il liceo e l'università a Milano,
dove sviluppa la sua passione per il cinema, condivisa insieme ai cugini
Mondadori, con i quali inizia a scrivere sulla rivista "Camminare", che ha fra i
suoi collaboratori anche altri futuri registi: Alberto Lattuada, Riccardo Freda
e Renato Castellani. Nel 1934, con Alberto Mondadori, realizza un cortometraggio
muto in 16 mm, Il cuore rivelatore, tratto dal racconto di Poe. L'anno
successivo i due affrontano il lungometraggio, girando I ragazzi della via Paal,
utilizzando come attori amici e parenti e vincendo a Venezia il premio per il
miglior film a passo ridotto. Fa quindi da aiuto regista per Gustav Machaty,
Genina, Camerini, Gentilomo, Bonnard, Mattoli, Germi e insieme a Steno dà vita a
un felice sodalizio che li vede prima collaboratori al giornale satirico
"Marc'Aurelio" e poi prolifici sceneggiatori. Con Steno fa il suo vero esordio
alla regia nel 1949 con Totò cerca casa e dopo otto film in coppia prosegue da
solo a partire da Proibito (1954) con Lea Massari. Comincia a delinearsi un
autore "nazional-popolare", ma irrispettoso di ogni retorica, pessimista,
feroce, demistificatore di sacralità e continuamente alla ricerca delle umane
debolezze dei suoi personaggi, mettendone in evidenza anche i connotati
cialtroneschi e il loro lato ridicolo. L'opera più riuscita e più godibile è
senza dubbio I soliti ignoti (1958), che ha avuto il merito di recuperare al
cinema un attore allora mal sfruttato come Vittorio Gassman. Fra trovate
irresistibili che descrivono un sottobosco criminale dei più sgangherati,
Monicelli (grazie anche ai suoi più grandi collaboratori Suso Cecchi D'Amico,
Age e Scarpelli) testimonia ancora una volta questa sua innata capacità di
fondere insieme attenzione ai personaggi e alle storie raccontate, valutazione
critica e notazione ironica, che si fa più sapiente col passare degli anni. Allo
stesso modo film come La grande guerra (1959), con Vittorio Gassman e Alberto
Sordi in versione soldati lavativi e sfaticati, e I compagni (1963),
ingiustamente poco considerato, ma senza dubbio uno dei più intensi film da lui
diretti - tanto che ebbe perfino una nomination agli Oscar per soggetto e
sceneggiatura - trasportano sullo schermo pagine di storia e fatti di costume
riuscendo spesso a porre l'accento sui problemi con intensità maggiore rispetto
a giornali o libri. L'armata Brancaleone (1966), rivisita in chiave grottesca il
Medioevo, senza dimenticare La ragazza con la pistola (1968), Amici miei (1975),
Un borghese piccolo piccolo (1977), Speriamo che sia femmina (1986). Tra i
riconoscimenti alla sua produzione vanno ricordate le quattro nomination
all'Oscar come film straniero per I soliti ignoti, La grande guerra, La ragazza
con la pistola e I nuovi mostri (1977) e per le due per soggetto e sceneggiatura
originali per I compagni e Casanova 70 (1965). Svariati i David di Donatello.
Miglior regia per Un borghese piccolo piccolo, Speriamo che sia femmina e per Il
male oscuro (1990), Nastri d'Argento e due Leoni d'Oro, uno per miglior film con
La grande guerra e l'altro alla carriera nel 1991. Nel 1990, periodo di crisi
del cinema italiano, riesce a rimanere a galla dirigendo Alessandro Haber,
Cinzia Leone, Marina Confalone e Paolo Panelli nella commedia anti-familiare
Parenti Serpenti (1992), poi passa a Villaggio, Troisi, Melato e Placido in Cari
fottutissimi amici (1994), Facciamo Paradiso (1995) e Panni Sporchi (1999) e nel
nuovo millennio si presenta al pubblico e alla critica, parlando della bestia
nera che più di ogni altro l'ha ossessionato nella sua vita: la guerra, con il
film Le rose del deserto (2006) che ancora una volta mette in luce una visione
antieroica dell'esercito italiano. Il grande regista muore suicida la notte del
29 novembre 2010, lanciandosi dal quinto piano dell'ospedale San Giovanni di
Roma dove era ricoverato per un tumore alla prostata in fase terminale.
Anno 2010. Danza. Calendario Italia. Teatro Comunale di
Ferrara. La presenza di artisti di rilievo internazionale che affrontano i
temi della contemporaneità, mettendo in discussione i codici acquisiti e senza
disconoscere le relazioni con autori all'apparenza lontani, è uno degli elementi
cardine della proposta di danza del Teatro Comunale di Ferrara. Questa linea
spicca nel programma del Festival di Danza Contemporanea della stagione 2010 con
la riproposizione di due lavori "storici" di Sasha Waltz e Anne Teresa de
Keersmaeker, coreografe che hanno marcato con un segno preciso l'attuale spazio
della danza. Il festival è stato inaugurato in ottobre da Travelogue I - Twenty
to Eight, spettacolo del 1993 che segnò la nascita della compagnia Sasha Waltz &
Guests e ne decretò il successo internazionale. Ancora oggi, ricreato per un
nuovo gruppo di danzatori, Travelogue conferma la freschezza degli anni del
debutto nel raccontare rituali di vita domestica con il loro inevitabile carico
di nevrosi, e consente di mettere in luce quella personalissima rilettura in
chiave giocosa o dissacrante del Tanztheater che è uno dei caratteri salienti
del linguaggio coreografico di Waltz. Ma per Ferrara questa proposta ha un
valore aggiunto. Proprio qui, e proprio con Travelogue - dove era impegnata
anche come danzatrice - Sasha Waltz venne per la prima volta in Italia nel 1996
e ripresentare questo lavoro è un modo per rilevare sia la continuità del
livello artistico della coreografa berlinese, sia la coerenza che
contraddistingue la programmazione di danza a Ferrara sin dagli anni 90. Anche
Rosas, la compagnia guidata da Anne Teresa De Keersmaeker, ha presentato un
lavoro che, come risulta implicito già nel titolo, è una sorta di "manifesto"
dell'ensemble. Realizzato per la prima volta nel 1983, Rosas danst Rosas è un
classico nel repertorio della coreografa fiamminga, per la capacità di
prefigurare tutte le tensioni e le dialettiche proprie dei lavori successivi.
Protagonista assoluto è l'universo femminile che, con un gesto che coniuga
estrema astrattezza e quotidianità, dialoga con la musica, composta da Thierry
de Mey e Peter Vermeersch durante lo sviluppo della coreografia, a partire dalle
emozioni suscitate nel corso della sua realizzazione. Una serata in prima
nazionale che ha visto come protagonista Lutz Förster, uno degli interpreti più
vicini alla grande coreografa tedesca, in uno spettacolo creato per lui e con
lui da Jérôme Bel, che porta come titolo il nome stesso del danzatore. In Lutz
Förster il protagonista parla di sé e della sua esperienza artistica a fianco
dei grandi maestri del Novecento e, prima fra tutti, accanto a Pina Bausch,
ricordata attraverso estratti di alcuni dei suoi lavori più celebri, da
Kontakthof a Nelken. É andato poi scena Out of context for Pina, che Alain
Platel - coreografo che da sempre si muove su un terreno di confine tra normale
e patologico, conscio e inconscio - ha dedicato a Pina Bausch: un inquietante
viaggio "alla ricerca delle radici dell'infanzia e della preistoria", che si
propone di recuperare la bellezza che nasce dalla difficoltà e dalla disabilità.
Secondo il metodo abituale dell'artista belga, anche questo spettacolo è il
risultato di un lavoro collettivo. Fin dalla sua fondazione nel 1984, infatti,
la compagnia les ballets C de la B, che si è arricchita negli anni con la
presenza di artisti attivi nelle più diverse discipline, vede tutti i suoi
componenti partecipare in modo attivo alla realizzazione di ogni progetto. Il
programma del Festival è proseguito con due appuntamenti collegati per la
dimensione iniziatica e spirituale che li accomuna nel solco di una tensione
dinamica fra Oriente e Occidente. Il quattordicesimo fiore, creazione di
Giovanni Di Cicco, presentata dalla sua compagnia Dergah Danza Teatro e
realizzata in coproduzione con la Fondazione Teatro Comunale di Ferrara, ha
debuttato in prima assoluta a dicembre. Coreografo attento ai fermenti della
danza contemporanea come alle forme espressive legate alla tradizione filosofica
e mistica orientale, per questo lavoro Di Cicco si è ispirato ad opere tra loro
molto distanti come Le Sacre du printemps di Igor Stravinskij, Sacrificio di
Tarkovskij e Scarpette rosse di Andersen, costruendo un percorso di profonda
fascinazione. Accostata a questa compagnia italiana, è stata proposta una
raffinata serata dedicata alla musica e alla danza sacra della confraternita
sufi dei Dervisci Mevlevi. L'appuntamento, dal titolo programmatico Danza,
musica e rituale dei Dervisci, ha visto impegnato il celebre Ensemble Galata
Mevlevi Music di Istanbul. La prima parte è un percorso nella musica sacra sufi,
con una selezione di composizioni che vanno dalle origini dell'ordine dei
Mevlevi sino all'esecuzione di inediti composti da Nail Kesova, direttore e
guida del complesso. Nella seconda parte si entra nel cuore del rituale che
caratterizza la confraternita dei Dervisci Mevlevi, la Sêma, comunemente
chiamata "danza rotante dei dervisci". In chiusura del Festival, il Teatro
Comunale di Ferrara, con la piattaforma Fuoristrada - giunta ormai alla quinta
edizione - ha promosso un ponte verso il futuro con due serate dedicate alle
nuove leve della danza. In uno spazio appositamente creato, in cui artisti e
pubblico hanno condiviso il palcoscenico, sono state presentate le creazioni di
giovani coreografi italiani che si sono segnalati in concorsi e festival
dedicati alla giovane danza d'autore. Teatro comunale di Vicenza. Anche
nel 2010 è proseguita per la Stagione danza del Teatro, Vicenza Danza, la
tradizione degli Incontri con la danza, interessanti conversazioni con critici,
giornalisti e studiosi, accolti con attenzione e piacere dal pubblico vicentino,
per presentare e condurre gli spettatori al cuore del balletto, raccontando
generi, autori, trame, coreografie e movimenti dei danzatori La programmazione è
iniziata in gennaio con Mi ultimo secreto travolgente spettacolo di flamenco
contemporaneo proposto dalla Compañía Mercedes Ruiz, astro nascente della danza
folklorica andalusa. Parlava italiano lo spettacolo in calendario in febbraio:
Casanova, la nuova produzione della Compagnia Aterballetto, coreografia di
Eugenio Scigliano che ha debuttato a Civitanova Marche nel luglio scorso, ha
propost su raffinate musiche settecentesche, le trame della seduzione e del
protagonista che gioca infinite volte con il suo doppio. Un evento unico lo
spettacolo successivo, una doppia data che ha messo in scena un grande balletto
contemporaneo, accompagnato dalle musiche dal vivo eseguite dall'Orchestra del
Teatro Olimpico di Vicenza: si tratta della Serata Ravel - De Falla due
creazioni di grande eleganza coreografica e di forte impatto scenico, Il
ritratto dell'Infanta e L'amore stregone, proposte dal Malandain Ballet
Biarritz, con la direzione artistica del raffinato coreografo francese Thierry
Malandain. In marzo i generi dello spettacolo dal vivo dialogano per proporre al
pubblico vicentino la tradizione dei grandi teatri stabili: un balletto
impeccabile, l'Orchestra del Teatro Olimpico che accompagna la danza, diretta
eccezionalmente per le due serate da Nicolas Brochot con l'esibizione della
mezzosoprano Rosario Mohedano per il programma De Falla. Ancora un coreografo
francese, ormai newyorkese, per la prima europea del Pascal Rioult Dance Theatre
ha presentato la Grande Messa in do minore K. 427, musica di Wolfgang Amadeus
Mozart. Considerata un monumento dei canoni tradizionali, la musica ha offerto
al coreografo la possibilità di esaltare la sua abilità nel trasformare un
capolavoro classico in una strepitosa esperienza contemporanea. In aprile La
Bella Addormentata proposta da Les Grands Ballets Canadiens de Montréal. Sulle
celebri musiche di Ciajkovskij che hanno reso indimenticabile il balletto
classico, l'idea originale di Mats Ek è stata magistralmente interpretata dalla
grande compagnia canadese che propone una vicenda contemporanea, in un contesto
scenografico ambientato negli anni '50. Un balletto classico, caratterizzato da
suggestioni scenografiche orientaleggianti e da sapiente tecnica interpretativa,
come solo la grande scuola russa può proporre, è La Bayadère presentata in prima
nazionale dal St Petersburg Ballet Theatre in maggio, coreografia originale di
Marius Petipa, musica di Ludwig Minkus. Adda Danza. Come tutti gli anni,
in maggio, a Trezzo sull'Adda, ha avuto luogo la XV edizione del Festival Adda
Danza, uno tra i più seguiti nella provincia di Milano, tanto da registrare il
tutto esaurito. Oltre a dare un ampio spazio all'arte coreutica, anche il côté
architettonico è valorizzato da questo Festival, dato che lo spazio in cui si
svolgono gli spettacoli è la Centrale Idroelettrica Taccani, esempio del
meraviglioso stile Liberty. Il Festival si è aperto con un compleanno: la
compagnia Balletto di Roma, arrivata a mezzo secolo di attività, ha proposto un
doppio spettacolo in due diverse serate: una nuova versione di Otello, con la
coreografia di Fabrizio Monteverde, con le musiche di Dvorak che fanno da
leggero contrappunto ironico alle azioni dei ballerini, ambientate in un porto
di mare, per sottolineare le partenze e gli arrivi di persone da mondi diversi,
e una seconda serata di sapore argentino: la coreografa Milena Zullo ha
rivisitato uno spettacolo dell'anno precedente, Hora zero, creando Contemporary
Tango, che, come denuncia il nome, riprende i movimenti del tango, mescolandoli
a un linguaggio più contemporaneo. Un'altra serata è stata all'insegna della
Spellbound Dance Company con Le quattro stagioni, che abitano fuori e dentro un
piccolo spazio, che sembra una casetta, una nave, un albero, un posto dove
osservare le stagioni che mutano, come ha spiegato il coreografo Mauro Astolfi,
che spesso ha partecipato ad Adda Danza, e la cui formazione, prevalentemente
internazionale, gli ha permesso di fare proprie esperienze diverse nel settore
coreutico. Le musiche di Vivaldi sono mixate con quelle originali di Luca
Salvadori, composte apposta per questo balletto ovviamente non per suscitare un
confronto impossibile con il grande maestro del passato, ma, parafrasando
Salvadori, per avere più punti di osservazione e mettere a fuoco soggetti
diversi, spesso sfuggenti. E sono di nuovo giovani danzatori, quelli del Junior
Balletto di Toscana, compagnia che costituisce la struttura produttiva di
tirocinio professionale della Scuola del Balletto di Toscana, a conquistare il
palcoscenico, danzando Sulle tracce di Diaghilev, ispirato al celebre direttore
artistico dei Balletti Russi, che fece conoscere al mondo il genio di Vaslav
Nijinskij. La compagnia Balletto dell'Esperia ha presentato tre titoli della
tradizione coreutica, rivisitati da altrettanti coreografi contemporanei. Si
parte con La morte del cigno, firmato dal francese Thierry Malandain,
rivisitazione del pezzo di Fokine composto perAnna Pavlova e proposto ad Adda
Danza da tre danzatrici. A fare da contrappunto alla scelta di moltiplicare le
interpreti femminili, L'après-midi d'un faune è stato invece danzato da un duo
200 danza maschile, con la coreografia di Eugenio Scigliano, che ha voluto così
esaltare l'aspetto mascolino del ruolo. Ha chiuso la serata una composizione di
Paolo Mohovic, I quattro temperamenti, nel quale la distinzione maschile/
femminile è sottolineata da un'interpretazione quasi animalesca dei primi
opposta all'eleganza e raffinatezza delle ultime. Il festival si è concluso
dedicando due serate alla compagnia argentina Tangokinesis con le coreografie di
Ana MarÌa Stekelman, Happy Hour, ad Adda Danza in prima nazionale, e Nuevo
Tango. La tradizione del tango argentino ripensata e mostrata in una nuova e
originale forma compositiva, mescolando i tangheros classici a ballerini moderni
e classici. Nonostante i numerosi problemi dovuti alla diminuzione dei
finanziamenti da parte degli Enti pubblici per le attività dello spettacolo, si
è comunque riusciti a organizzare il festival. E il pubblico ha risposto in modo
positivo a questo evento, a dimostrazione del fatto che la danza è un ottimo
investimento, oltre che dal punto di vista economico anche da quello culturale.
Dalla patria del Maestro Enrico Cecchetti, uno dei più importanti codificatori
della danza classica, del resto, non ci si può aspettare che il perpetuarsi
della tradizione di una delle arti più antiche che l'uomo abbia conosciuto.
Teatro Roma 2. L' Assessorato alle Politiche Culturali e della Comunicazione
Municipio Roma 2 Teatro Greco Dance Company ha presentato Pantheos Integrazione
delle arti e delle culture nella danza. Quest'anno la Rassegna ha proposto un
cartellone ricco di eventi, dove la danza Jazz e contemporanea ha incontrato i
ritmi, i colori e la travolgente musicalità delle danze latinoamericane. Ha
inaugurato la Rassegna Tango Sensual, uno spettacolo diretto e interpretato da
Mauro Barreras e Ambra De Angelis, con la partecipazione di Geraldine Rojas,
Ezequiel Paludi, Claudia Fusillo, Roberto Ricciuti, Alice Gaine e Andrea Bassi
per una serata di avvolgente sensualità. Claudio e Armanda Di Stazio hanno
presentato Caribbean Roma Style, una rassegna di danze caraibiche interpretate
da grandi artisti internazionali. Lazaro Martin Diaz ha proposto Salsa
Evolution: un viaggio appassionante nelle danze popolari cubane dagli albori
della scoperta dell'America fino alla Salsa, fenomeno moderno d'integrazione
socio-culturale. Astra Roma Ballet ha messo in scena il balletto Aladino, con
coreografia contemporanea di Daniela Megna e una ouverture in stile neoclassico
di Diana Ferrara. Chi di noi non ha mai pensato che se avesse avuto una lampada
magica come quella di Aladino avrebbe esaudito tutti i suoi desideri? Il
balletto, prendendo spunto dalla celebre favola delle Mille e una notte, vuole
riflettere sul difficile cammino spirituale che ogni uomo deve affrontare per
ritrovare se stesso. La rassegna si è chiusa con Flamenco Tango- Jazz. La
Compagnia Caterina Lucia Costa ha infatti presentato El silencio de la luna: la
passione vissuta in una notte di luna piena con desiderio di libertà, in un
linguaggio quotidiano di ritornelli popolari. Il tutto raccontato attraverso la
danza e la musica del flamenco. Roberta Beccarini e Guillermo Berzins si sono
esibiti in uno spettacolo di Tango, metafora della vita e dialogo sensuale fra i
corpi. Infine il grande Jazz della Teatro Greco Dance Company con Corrado
Celestini, Gianpaolo Roncarati e Francesca Pignataro. Danza Allstyles.
Prima rassegna estiva di danza, si è svolta in agosto, presso la stupenda Arena
Sferisterio di Macerata, dando vita ad un evento culturale di prestigio, rivolto
alla danza ed al suo mondo. In questo contesto, Danza allstyles aveva
l'obiettivo di avvicinare le arti espressive alla città, e la città alle arti,
costituendo una importante vetrina: vetrina per i ragazzi che hanno potuto
esibirsi davanti ad un pubblico, vetrina per le scuole, vetrina per la danza, la
musica, il canto, il teatro, ma soprattutto vetrina per la città di Macerata.
Già famosa per l'opera lirica, essa ha assunto il volto giovane e moderno di
città culturale poliedrica. Centro universitario e dimora del Musicultura
Festival, dedicato alla musica popolare e d'autore, Macerata è ora anche città
di danza, dove i giovani sono protagonisti con un evento non fine a se stesso,
ma che ha lo scopo prioritario di dar loro una concreta occasione di crescita.
La manifestazione si rivolge principalmente a tutte le scuole di danza d'Italia.
Il veicolo pubblicitario di rilievo è rappresentato da una rivista, dedicata
alla danza ed ai protagonisti della manifestazione. Ospiti di fama
internazionale, coreografi, direttori artistici e ballerini famosi, hanno
offerto al pubblico stupende coreografie, fungendo da preziosa cornice
all'evento. Milano Danza Expo. Dal 26 al 28 novembre 2010, nel polo
fieristico del Parco Esposizioni Novegro ha preso vita la seconda edizione di
Milano Danza Expo, fiera della danza, del ballo e del movimento promossa
dall'Ente organizzatore Comis. Consegnato il premio alla carriera, nella serata
di Gala, a Luciana Savignano. Diversi ospiti d'eccezione tra cui: Anbeta
Toromani, Bruno Vescovo, Mauro Astolfi, Susanna Beltrami, Marco Batti ed Eugenio
Buratti. L'obiettivo della manifestazione era quello di radunare a Milano tutte
le anime della danza e del ballo nel cuore dello storico Parco Esposizioni
Novegro, i protagonisti del settore: dall'hip hop alla danza orientale e del
musical. Dedicata ai professionisti e agli appassionati, è la seconda edizione
di Milano Danza Expo. Fiera ma anche, e soprattutto, eventi. Milano Danza Expo
va al ritmo della community dei giovani. Il palinsesto diretto da Simone Ranieri
metteva in agenda, ogni giorno, stage e lezioni, concorsi per professionisti e
non, rassegne per compagnie e scuole, esibizioni e spettacoli, workshop e
incontri, audizioni e casting. In tutto oltre 200 stage e 250 ore di lezioni. A
disposizione dei visitatori oltre 7 mila metri quadrati, cinque sale attrezzate,
aree spettacolo disseminate nei due padiglioni dove sfogare la voglia di
danzare, set televisivi dove incontrare i propri idoli e assistere a dibattiti e
presentazioni di iniziative editoriali, e per i giovanissimi, la partecipazione
del cast di Wanna Dance, programma cult di Boing.
Anno 2010. Musica classica. La Scala inizia la
stagione a passo di valchiria. Si è chiuso tra gli applausi convinti
del pubblico il lunghissimo pomeriggio-sera scaligero della "prima" del
7 dicembre: in scena Die Walkure, La Valchiria di Richard Wagner, opera
seconda della tetralogia "L'Anello del Nibelungo". La direzione era
affidata a Daniel Barenboim e la regia a Guy Cassiers. Come ogni anno
l'apertura della stagione è stata preceduta da polemiche, questa volta
per i tagli del governo alla cultura e mentre all'interno del teatro si
svolgevano gli ultimi preparativi, fuori continuavano le manifestazioni:
tra i nomi dei personaggi che si sono raccolti nella piazza antistante
il teatro, per far sentire la loro voce per una giustissima causa,
c'erano Paolo Rossi, Toni Servillo, Moni Ovadia e Andrée Ruth Shammah,
da sempre in prima linea a favore della causa, ma molti erano gli
universitari e gli allievi delle scuole di teatro (a loro sarebbe andato
il pieno sostegno di Francesco Saverio Borrelli, ex procuratore capo di
Milano, presente in sala, il quale avrebbe dichiarato alla stampa di
solidarizzare "pienamente con gli studenti, perché i tagli sono ispirati
al principio di uguaglianza e pertanto dovrebbero essere fatti ente per
ente"). A margine della conferenza stampa che precede l'inaugurazione
del teatro ha fatto eco a queste proteste lo stesso Stéphane Lissner,
sovrintendente e direttore artistico del teatro, il quale si è
dimostrato preoccupato: "Se non ci sarà la reintegrazione del Fondo
unico per lo spettacolo, sarà una cosa abbastanza grave. Rappresenta una
mancanza di 5 milioni di euro. Il quadro potrebbe anche peggiorare
l'anno prossimo, posso dire che non solo la Scala sarà in difficoltà,
quasi tutte le fondazioni liriche saranno costrette a chiudere". Per la
prima volta le proteste e i timori hanno avuto la dovuta risonanza anche
all'interno del teatro, sul palco: il maestro Daniel Barenboim si è così
espresso: "Sono molto felice - ha esordito rivolto verso il capo dello
Stato Giorgio Napolitano seduto in prima fila - di dirigere ancora una
volta alla Scala. Sono onorato di essere stato dichiarato maestro
scaligero, ma a nome dei miei colleghi sono molto preoccupato per il
futuro della cultura in Italia e in Europa. Se mi permettete - ha
continuato il direttore - vorrei che ricordiamo insieme l'articolo 9
della Costituzione Italiana: "La Repubblica promuove lo sviluppo della
cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il
patrimonio storico e artistico della nazione". Alla lettura del testo
sono seguiti fragorosi applausi da parte degli spettatori. Barenboim,
direttore e pianista, ha parlato "anche in nome di tutti i ... colleghi
che suonano, cantano, ballano e lavorano non soltanto in questo
magnifico teatro, ma in tutti i teatri d'Italia". Alla fine del secondo
tempo della Valchiria il presidente Napolitano, come aveva annunciato,
ha incontrato le rappresentanze sindacali: da parte di Napolitano c'è
stato "apprezzamento per le parole di Barenboim, che anche se in modo
conciso ed essenziale" ha lanciato un messaggio condivisibile e di
conseguenza c'è stata soddisfazione da parte delle rappresentanze
sindacali del Teatro scaligero per le parole "eloquenti del presidente
che ha riconosciuto l'estremo valore della cultura, ...che è risorsa
strategica" e che ha sottolineato come la Costituzione vada attuata.
Restando in argomento, prima di passare alla musica, ha brillato per la
sua assenza alla serata il ministro dei Beni culturali, Sandro Bondi. E
ora l'opera. Quasi cinque ore. Nonostante gli eccessi tecnologici di cui
si parlava con timore alla vigilia la scena si è dimostrata essenziale e
ricca nel contempo. Splendido il dialogo a tre del primo atto
enfatizzato da fasci di luce, giochi di ombre proiettate sulle pareti e
inserti video sapientemente dosati. Notevoli, nel secondo atto, la
scultura di giganteschi cavalli verdi e il globo ruotante alle spalle di
Wotan, il Re degli dei. Tra i cantanti, scelti con grande perizia, è
emersa l'interpretazione di Siegmund da parte di Simon O'Neill e di
Waltraud Meier nel ruolo di Sieglinde. Un po' timoroso l'Hunding di John
Tomlinson. Eccellente Nina Stemme, nel ruolo della valchiria Brünnhilde.
In primo piano comunque la musica di Wagner, con la sua capacità di
condurre una sorta di "inazione", anche quando in scena succede poco o
nulla, con un tessuto musicale sempre prezioso ed eloquente. Una
scrittura capace però di far sobbalzare di stupore, inaspettatamente,
come solo il genio può. Impeccabile la direzione: Barenboim ha gestito
la trama e le nuances della partitura, con una coesione buca-palco
perfetta, confermando ancora una volta la maestria con cui sa curare
l'insieme e il particolare. A lui, ebreo, va anche riconosciuto il
coraggio di dirigere Wagner, compositore ancora discusso per le sue tesi
antisemite e per l'uso che Hitler fece della sua musica. A questo
proposito in un articolo di pochi giorni prima il direttore si era
espresso così: "Quando si continua a sottoscrivere il tabù su Wagner in
Israele, ciò significa che concediamo ancora l'ultima parola a Hitler".
Questa prima scaligera ha avuto un numero di spettatori infinitamente
maggiore rispetto agli altri anni: l'opera era visibile in 350 sale
mondiali, di cui 90 in Italia. I milanesi potevano vederla anche
dall'Ottagono della Galleria Vittorio Emanuele, iniziativa che già
l'anno precedente aveva riscosso molto successo. E poi il digitale
terrestre: la Rai infatti ha inaugurato il nuovissimo canale Rai 5
proprio con la diretta dell'opera e poi ha mandato in onda i commenti da
platea e backstage. E così si aprono le porte del teatro, si coinvolge
il pubblico, in ottemperanza alla missione, ricordata da Lissner nella
conferenza stampa di presentazione della serata, "di essere sempre
vicini ai cittadini, perché siamo un teatro pubblico". Forse l'atmosfera
magica del teatro non può essere trasmessa fuori dalle mura neoclassiche
del Piermarini, certo è che la cosa è stata fatta al meglio: "tutto in
alta definizione, con più di cinquanta microfoni", ha spiegato Antonio
Marano, vice direttore generale Rai. Altra grande novità è stata quella
della "prima ecosostenibile": Edison, azienda che per prima ha fornito
la luce elettrica al teatro nel 1883, quest'anno ha eliminato le
emissioni di anidride carbonica per l'intera produzione della Valchiria:
ecco dunque il primo spettacolo a emissioni zero. Ottanta tonnellate
circa di CO2 completamente compensate da energia eolica. Storia del
Teatro. La genesi del Teatro alla Scala è legata a una storia di
incendi, crolli e distruzioni: sul sito esisteva una chiesa gotica,
Santa Maria alla Scala, così chiamata in onore della committente Regina
della Scala, moglie di Bernabò Visconti. Il nome del teatro la ricorda
tuttora. La chiesa venne fatta distruggere per lasciare spazio al Teatro
Ducale, poi distrutto a sua volta nell'incendio del 1776 e fatto
ricostruire per volontà dell'Imperatrice Maria Teresa d'Austria sulla
base del progetto dell'architetto neoclassico Giuseppe Piermarini. Venne
inaugurato nel 1778 con l'opera di Antonio Salieri Europa riconosciuta.
Le spese per l'edificazione del nuovo teatro furono sostenute dai
proprietari dei palchi del Teatro Regio Ducale in cambio del rinnovo
della proprietà dei palchi. La Scala venne bombardata durante la seconda
guerra mondiale, nella notte tra il 15 ed il 16 agosto del 1943, subendo
gravi danni, ma venne subito ricostruita e riaperta l'11 maggio 1946,
con un memorabile concerto di Arturo Toscanini. La fretta nella
ricostruzione del soffitto e della sua sospensione al sistema complesso
di travi, aveva però impedito di trovare i componenti simili agli
originari e si erano adottate soluzioni ibride in cemento armato che
secondo qualcuno peggiorarono l'acustica della sala. La finitura interna
del soffitto fu invece di indiscussa raffinatezza: solo un dipinto
geometrico in toni di grigio, a far risaltare ancor di più il magnifico
ed enorme lampadario (con quasi 400 lampadine) realizzato in cristallo
soffiato dagli artigiani di Venezia. Per dare un'idea delle sue
dimensioni, dalla coppa con cui è applicato al soffitto scende
all'interno del lampadario un tecnico a manovrare l'occhio di bue,
ovvero il faro seguipersone. Dal punto di vista architettonico la Scala
si rifà al Teatro della Reggia di Caserta del Vanvitelli, ed è divenuto
in breve tempo il modello di riferimento per il "teatro all'italiana":
la facciata dispone di una soluzione che ha fatto storia: la galleria
delle carrozze, subito imitata da altri teatri. Il Piermarini non aveva
previsto che si potessero vedere i coppi, perché il teatro ai suoi tempi
si apriva su una via relativamente stretta. Con l'apertura di Piazza
della Scala vi è l'effetto curioso del timpano sormontato da coppi. Tra
il 2002 e il 2004 la Scala è stato oggetto di una radicale
ristrutturazione, allo stesso modo in cui si era intervenuti anche sui
grandi teatri europei, L'Opera di Parigi e il Covent Garden di Londra
tra i principali. Il progetto dell'architetto svizzero Mario Botta non è
stata privo di polemiche, in primo luogo per l'impatto estetico della
torre scenica e della "torre" a pianta ovale. I lavori, iniziati nel
gennaio 2002, sono stati terminati nel dicembre 2004: in quel periodo
gli spettacoli sono stati allestiti a teatro degli Arcimboldi, alla
Bicocca. La pianta della platea è a forma di ferro di cavallo, vi sono
quattro ordini di palchi e due gallerie. All'opposto del palcoscenico vi
è il palco reale, oggi riservato alle autorità. Il boccascena è di 16 x
12 metri, ed è identico a quello del teatro degli Arcimboldi, in modo
che le scene possano passare da un teatro all'altro senza problemi.
All'inizio il sipario era una tela dipinta, che si apriva a caduta. Ora
il sipario è in velluto rosso, con apertura all'imperiale, con una
complessa decorazione in oro sempre in stile neoclassico. Nella parte
superiore del sipario vi è lo stemma del Comune di Milano, e sopra un
particolare orologio luminoso che indica l'ora (numero romano) e i
minuti (numeri arabi, scanditi a intervalli di tempo di cinque minuti).
Joan Sutherlanad, La Stupenda. Il soprano australiano Joan
Sutherland è morta il 10 ottobre in Svizzera, a Les Avants, dove da
tempo si era ritirata a vivere con il marito, il direttore d'orchestra
Richard Bonynge. Da tempo era malata di cuore e le sue condizioni di
salute erano peggiorate dopo una caduta nel luglio 2008 che le aveva
procurato la frattura di entrambe le gambe. Nata a Sydney nel 1926, in
novembre avrebbe compiuto 84 anni. Suprema virtuosa, è stata una delle
più grandi protagoniste dell'opera nel Novecento. Pochi cantanti lirici
hanno avuto una carriera autorevole e lunga - più di quattro decenni -
come la sua. Dotata di una voce di bellissimo timbro, di notevole volume
e assai estesa (dal sol naturale sotto il rigo al fa diesis sopracuto),
con sopracuti limpidi e penetranti, è stata capace di agilità sublimi
quanto spericolate. Attrice intelligente e misurata, nel registro
tragico come nel comico, ha dato un contributo fondamentale al recupero
della tecnica e della prassi esecutiva belcantistica (particolarmente
nella sua accezione primo-ottocentesca), sviluppando in modo più
specialistico e portando ai massimi esiti la "rivoluzione" stilistico-
interpretativa avviata da Maria Callas. Molte delle sue interpretazioni,
in buona parte consegnate ufficialmente al disco, sono considerate di
riferimento. Luciano Pavarotti la definì "the Voice of the Century" (la
voce del secolo) e per i melomani è stata, è e sarà, semplicemente, La
Stupenda, Koloraturwunder e The Incomparable. Soprano d'agilità, dopo
aver studiato canto nella natia Australia, prima con la madre, poi
privatamente con Aida Summers, ha debuttato a Sydney nel 1947 con un
concerto di brani wagneriani. Ha poi dato voce alla Didone nel Dido and
Aeneas di Purcell, quindi a Dalila nel Sansone di Händel e alla Judith
di Eugene Gossens. La sua carriera europea ha inizio a Londra nel 1952,
con l'interpretazione di Giorgetta nel Tabarro di Puccini al Royal
College of Music e, lo stesso anno, della Prima Dama nel Flauto magico
di Mozart al Covent Garden. Prima di affrontare la parte protagonistica
di Amelia nel Ballo in maschera di Verdi, alla Royal Opera House ha
cantato parti secondarie, tra cui la sacerdotessa nell'Aida verdiana e
Clotilde nella Norma di Bellini, entrambe accanto a Maria Callas. Nel
frattempo ha affrontato vari ruoli minori, come la Soprintendente nella
Elettra di Richard Strauss, Lady Rich nella Gloriana di Benjamin
Britten, Frasquita nella Carmen di Georges Bizet e Helmwige nella
Walküre di Richard Wagner. Ha interpretato, quindi, la Contessa nelle
Nozze di Figaro mozartiane e, nel 1954, Aida nell'omonima opera verdiana
e Agathe nel Freischütz di Weber. Ha poi debuttato anche nei Racconti di
Hoffmann di Offenbach, nel ruolo di Antonia nel 1954 e in quelli di
Giulietta e Olympia nel 1955 (a Seattle, nel 1970, interpretò tutte e
quattro le parti femminili dell'opera, quindi anche Stella). Nel 1958 ha
iniziato a esibirsi in altri Paesi, interpretando a Vancouver Donna Anna
nel Don Giovanni di Mozart. La sua carriera ebbe una svolta decisiva nel
febbraio 1959, quando cantò Lucia di Lammermoor a Londra, con la regia
di Franco Zeffirelli e diretta da Tullio Serafin. In una sola serata,
grazie a un ruolo di coloratura drammatica (che poi avrebbe riproposto
addirittura per un trentennio, fino alle recite di addio di Barcellona
nel 1988), la Stupenda diventò improvvisamente una star internazionale,
guadagnandosi un contratto esclusivo con un'importante casa discografica
britannica, la Decca, e iniziando a incidere numerosi recital, tra cui
il capolavoro assoluto "The Art of the Prima Donna" del 1960 che vinse
il prestigioso premio Grammy. Dopo Lucia di Lammermoor, interpretò la
Rodelinda di Händel e La Traviata di Verdi nei ruoli del titolo, I
puritani e La sonnambula di Bellini. La Sutherland si impose quindi
sulla scena internazionale riportando in auge molte parti sopranili
create da Giulia Grisi e da altre grandi primedonne dell'Ottocento,
allora affrontate sempre più raramente. Nel 1961 debuttò alla Scala
riesumando la Beatrice di Tenda di Bellini; l'anno dopo, ancora a
Milano, cantò in Les Huguenots di Meyerbeer, con Franco Corelli,
Giulietta Simionato, Nicolai Ghiaurov e Fiorenza Cossotto, e nella
Semiramide di Rossini. Nello stesso 1962 fu la Regina della Notte nel
Flauto magico diretta da Otto Klemperer al Covent Garden, e l'anno dopo
Cleopatra nel Julius Caesar di Händel. Dopo aver collaborato con molti
dei maggiori direttori d'orchestra del tempo, dal 1963 Joan Sutherland
lavorò quasi esclusivamente con suo marito, il direttore, musicologo e
filologo Richard Bonynge, pieno corresponsabile delle scelte della sua
carriera. Fu lui a sconsigliarle di usurare la voce con ruoli troppo
drammatici e pesanti, che quindi la Sutherland avrebbe poi saggiamente
evitato, e fu lui che ne scoprì e sponsorizzò la prodigiosa vocazione
belcantistica. Insieme debuttarono con Norma a Vancouver nel 1963: la
sacerdotessa dei druidi è un ruolo che la Stupenda ha interpretato,
stabilendo un record, per un quarto di un secolo. Seguirono nel 1965 il
Faust di Gounod a Filadelfia, nel 1966 La fille du Régiment a Londra,
nel 1967 Lakmé di Delibes a Seattle ed Orfeo ed Euridice di Haydn a
Vienna. E ancora: Maria Stuarda (San Francisco, 1971), Lucrezia Borgia
(Vancouver, 1972), Die Fledermaus di Strauss ed Esclarmonde di Massenet
(San Francisco, rispettivamente 1973 e 1974), Il trovatore (San
Francisco, 1975) e La vedova allegra (Vancouver, 1976), Suor Angelica di
Puccini e Le Roi de Lahore di Massenet (rispettivamente a Sydney e
Vancouver, 1977), Idomeneo di Mozart e I masnadieri di Verdi (Sydney,
rispettivamente 1979 e 1980). A San Diego, nel 1983 debuttò in Adriana
Lecouvreur di Cilea e nel 1984, a Toronto, in Anna Bolena di Donizetti.
Il suo ultimo debutto è Ophélie in Hamlet di Thomas (Toronto, 1985).
Come si può vedere, la Sutherland ha salvato dall'oblio non soltanto
molte opere del primo Ottocento italiano, ma anche diversi titoli del
repertorio francese. Al culmine del successo internazionale, si è
ritirata dalle scene nel 1990 (a Sidney, nel ruolo di Margherita di
Valois in Les Huguenots), a sessantaquattro anni, dopo quarantatré anni
di carriera e circa sessanta ruoli interpretati. Pochi di essi sono
stati da lei affrontati solo in sala di registrazione; tra questi la
protagonista della Turandot di Puccini, Adina nell'Elisir d'amore,
Ah-Joe nell Oracolo di Leoni e Athalia di Händel. Inoltre ha lasciato
documenti rilevantissimi anche per la musica sacra, tra l'altro
eseguendo il Messiah e il Sansone di Händel, il Requiem di Verdi e
alcune composizioni di Johann Sebastian Bach. Ha inoltre cantato e
inciso il quarto movimento della Nona sinfonia di Ludwig Van Beethoven.
Infine la Sutherland ha avuto anche il merito, insieme al marito, di
aver contribuito al lancio di Luciano Pavarotti sulla scena
internazionale. Il tenore affermò in più occasioni di aver compiutamente
rifinito la tecnica di respirazione ed appoggio del suono grazie a suoi
insegnamenti, divenendone il partner privilegiato per molti anni. Nel
1978 la regina Elisabetta II le conferì il titolo di dama dell'impero
britannico (Dame - Commander of the British Empire). Anno 2010.
Musica leggera e jazz. Il Festival di Sanremo. Il Sessantesimo
Festival della Canzone Italiana si è svolto al Teatro Ariston di Sanremo dal 16
al 20 febbraio. Vi hanno partecipato venticinque interpreti che hanno proposto
altrettanti brani, suddivisi in due sezioni: Artisti, in cui erano in gara
quindici interpreti affermati, e Nuova Generazione, composta dai restanti dieci
artisti, per lo più al debutto. Ad aggiudicarsi la vittoria della categoria
Artisti, alla sua prima apparizione al Festival, è stato Valerio Scanu
con il brano "Per tutte le volte che....". Il giovane cantante, classe 1990, ha
battuto tutta la concorrenza ed è riuscito ad aggiudicarsi questo ambito premio.
È la seconda volta che un concorrente di Amici vince sul Palco dell'Ariston:
l'anno precedente era stato premiato Marco Carta, trionfatore anche del
talent show. Quest'anno ha vinto invece il secondo classificato. Ma a far
discutere è la seconda posizione, occupata dal trio Pupo - Emanuele
Filiberto - Luca Canonici, la cui canzone ha sollevato numerose
proteste. Molte le polemiche che hanno accompagnato questa ultima serata del
Festival di Sanremo 2010. Il pubblico non ha gradito l'esclusione di Irene
Grandi, così come l'eliminazione di Simone Cristicchi. Il picco
massimo dell'indignazione è arrivato al momento dell'esclusione di Malika
Ayane, tanto che anche l'orchestra ha protestato lanciando per aria gli
spartiti musicali. Quando sono stati letti i nomi dei tre finalisti, la platea è
insorta, urlando "venduti, venduti", riferito alla posizione raggiunta dal trio
di cui abbiamo dato notizia poco sopra. La categoria Nuova Generazione è stata
vinta dalla canzone "Il linguaggio della resa" di Tony Maiello. Terza
posizione per un altro personaggio televisivo, Marco Mengoni, vincitore
dell'ultima edizione di X Factor, con la sua canzone "Credici ancora". Mengoni,
era stato ammesso di diritto nella categoria Artisti. La conduzione è stata
affidata ad Antonella Clerici, quarta donna conduttrice della principale
rassegna canora dopo Loretta Goggi, Raffaella Carrà e Simona Ventura (non
considerando Stefania Casini, conduttrice "ufficiosa" del Festival di Sanremo
1978). E la Clerici ha stupito tutti: con la sua aria da massaia bonaria e i
suoi abiti improbabili ha fatto segnare punte di share del 55%, con vette di 16
milioni di spettatori. I brani di maggior successo. Come ampiamente
prevedibile, ed ovvio, ha trionfato la Waka Waka di Shakira accompagnata
dal gruppo musicale Freshlyground. Certo, il 2010 è stato l'anno dei mondiali
africani vinti dalla Spagna. E Waka Waka ne è stato l'inno ufficiale,
rifacimento di un brano africano (camerunense per la precisione: Zangalewa), con
la partecipazione di un gruppo sudafricano che include elementi del Mozambico e
dello Zimbabwe, ed interpretato da una interprete di lingua spagnola. Waka Waka
è stata al N.1 della classifica per 16 settimane consecutive. Curiosamente
uguagliando il record di un altro brano che aveva fatto da inno ai mondiali di
calcio di 20 anni prima, quelli italiani del '90 quando il tormentone fu
costituito da Un'estate italiana della coppia Gianna Nannini / Edoardo Bennato e
le loro notti magiche aspettando un gol. Il trionfo delle moine di Shakira viene
completato da un brano che tenta il bis del tormentone estivo, Loca interpretato
in doppia versione: in inglese con il rapper Dizzie Rascal ed in spagnolo
col rapper dominicano El Cata. Al 2° posto della classifica annuale in
Italia c'è Ligabue, con la sua Un colpo all'anima tratta dal suo ultimo
album Arrivederci, mostro! Jovanotti piazza due N.1 ad inizio (Baciami
ancora) e a fine anno (Tutto l'amore che ho). Da citare anche il suo featuring
in un altro successo da Top Ten annuale: Mondo di Cesare Cremonini che si
piazza al 10° posto. Ma la vera sorpresa dello scenario italiano la procurano i
Modà che piazzano in classifica 2 successi di buone proporzioni: La notte
(8°) e la precedente Sono già solo (35°). La nuova leva della canzone mainstream
italiana viene completata dalla definitiva affermazione di tre interpreti
muliebri provenienti da Sanremo: Malika Ayane con Ricomincio da qui
(20°), Nina Zilli con L'uomo che amava le donne (66°) e, soprattutto,
Noemi con Per tutta la vita (16°). Il brano di maggior successo uscito dalle
kermesse televisive veleggia al 37° posto (Calore di Emma Marrone),
mentre Marco Mengoni si attesta al 49° (Credimi ancora), l'Amoroso
è 53a con La mia storia con te, Scanu è 62° con Per tutte le volte che...
(nonostante il "trionfo" sanremese), e l'ultima vincitrice di X-Factor,
Nathalie, addirittura 85a con In punta di piedi. Alla fin fine, l'unica
novità italiana che si è imposto a livello mainstream risulta forse essere
Fabri Fibra che ha fatto centro con Vip in trip, grazie soprattutto al video
associato che faceva il verso ad un celebre video dei Clash (Rock in the
Casbah). Mentre si è avuta la conferma della maturità artistica raggiunta da
Cesare Cremonini che piazza in Top Ten un brano di ottima qualità: Mondo.
Per il resto la classifica è dominata dal pop di matrice angloamericana sia da
parte di popstar quali Shakira, LadyGaga, Black Eyed Peas, Eminem, Rihanna,
Robbie Williams ed i redivivi Take That, sia da parte di più o meno
"one-hit wonder": i Train di Hey, Soul Sister, i Temper Trap di Sweet
Disposition o i Mads Langer di You're Not Alone. La dance continua a
cogliere importanti successi da alta classifica e rappresenta forse il genere
dove avvengono più "cose". Diverse le sorprese quest'anno: dal belga Stromae
che conquista addirittura la Top Ten (9° posto) con Alors on danse, alla coppia
di DJ Yolanda Be Cool e Dcup che hanno rispolverato il vecchio
classico di Carosone e ne hanno fatto un tormentone internazionale con We No
Speak Americano (36°), sino alla dance che viene dall'Est di Stereo Love (39°)
di Edward Maya e Vika Julina e a Why Don't You di Gramophoneidze (64°). Tra le
prime ci piace segnalare l'ottimo risultato di un brano tutt'altro che facile al
primo ascolto ma che quando ti entra in testa ti affascina: CMYK di James
Blake. Ma sono diversi i brani di livello molto elevato: dalla coraggiosa
Born Free di M.I.A. (alla seconda presenza in classifica dopo il n.72 di
XXXO), alle atmosfere un po' new age dei JJ con la bellissima Let Go, passando
dall'ottimo soul di Quentin Harris con Give It 2 U che si avvale della
strepitosa interpretazione di Ultra Natè, e giungendo alla trascinante
Dog Days Are Over della magnifica Florence and The Machine. Ma i pezzi
maggiormente "alternativi" e più di nicchia sono rappresentati dagli ottimi
piazzamenti di How To Dress Well con Lover's Start, da Soft As Chalk
della celebrata Joanna Newsom e dal canadese Caribou con Odessa.
Certo, non sono pezzi apprezzabili dalla totalità degli ascoltatori ma ci stanno
bene in un "best of" dell'annata appena trascorsa. Il trio britannico The XX
e la banda canadese Arcade Fire sono tra gli artisti maggiormente
osannati in questi anni e non potevano mancare nella nostra lista. I primi con
la bellissima VCR (tratta ancora dall'acclamatissimo loro primo album eponimo)
mentre i secondi sono presenti addirittura con 3 brani, con We Used To Wait.
Infine, notevoli i consensi ottenuti da Janelle Monae con Cold War, forse
il debutto più notevole del 2010, e dalla sconosciutissima Madita, attrice
austriaca prestata alle 7 note con un vero e proprio pezzo-killer, ET.
Assolutamente di tutto rispetto le presenze italiane di questo blocco. Tra
queste, ci fanno particolarmente piacere quei brani che non hanno avuto sinora
la visibilità che avrebbero meritato come la splendida Casting dei Mambassa,
o la straziante Per carità di Stato di Moltheni, o la giocosa Me so
mbriacato del cantautore romano Mannarino. Oltre al loro brano di punta
Gli spietati, sono almeno 5 i pezzi dei Baustelle che meritano
sicuramente una citazione: Le Rane, La bambolina, San Francesco, I mistici
dell'Occidente e L'indaco, a dimostrazione della ottima qualità dei loro brani.
Comunque c'è da notare che la tanto bistrattata saga più televisiva che musicale
di Sanremo, alla fine è riuscita a piazzare ben 5 brani in questa nostra
classifica "best of". Come si vede, quindi, l'appuntamento sanremese riesce
ancora a sfornare pezzi che poi restano nella storia della canzonetta italica.
Infine, vogliamo chiudere con un omaggio alla bistrattatissima scena dance
italica che, nonostante sia apprezzata oltralpe, continua ad essere quasi del
tutto ignorata dalle nostre parti. Ricordiamo qui I Was Drunk del dj napoletano
Riva Starr (alias Stefano Miele) e Pirupa, dj produttore di Teramo
con Clarity of Love, misconosciuta produzione italica. L'edizione italiana di X
Factor conferma la sua capacità nell'identificare talenti davvero meritevoli del
successo di massa, come dimostra il 18° posto conquistato dalla vincitrice
dell'ultima edizione, Nathalie Giannitrapani, qui presente con la
delicata e passionale In punta di piedi, da lei stessa composta. Ancora una
produzione italiana in 17a posizione (a conferma che l'italiano è piuttosto
popolare in Italia...): Ti vorrei sollevare di Elisa con Giuliano
Sangiorgi dei Negramaro è un bel brano inserito nella tradizione melodica
nazionale che ha saputo farsi apprezzare dal grande pubblico. Continuiamo con le
sorprese: i milanesi Amor Fou sono uno dei tanti gruppi indipendenti
italiani di questi anni grami, vergognasamente ignorati dal "grande" giro. De
Pedis è una struggente ballata che prende il titolo dal cognome dello spietato
capo della Magliana qui visto inaspettatamente in una dimensione umana.
Magnetico ed affascinante il brano in 13a posizione, dovuto al gruppo britannico
degli Hurts. Wonderful Life ha iniziato ad avere successo in paesi
europei grazie ad un remix di Arthur Baker, per poi imporsi nella versione
originale con l'uscita del loro album la scorsa estate. Ritorno col botto per i
Massive Attack che si piazzano a ridosso della nostra Top Ten: interpretata
dalla voce di Hope Sandoval Paradise Circus è un piccolo capolavoro agrodolce di
quelli che solo il duo di Bristol e pochissimi altri sanno confezionare. La
vecchia Albione continua a dettare legge in campo di musica pop. I Temper
Trap hanno ottenuto unanimi riconoscimenti per la loro Sweet Disposition.
Max Gazzè ha tirato fuori uno dei più bei pezzi italiani del 2010 con Mentre
dormi: finalmente è divenuto stabilmente uno dei frequentatori fissi delle chart
di vendita dove ha stazionato con 29 settimane di presenza. Guarda l'alba
conferma il vero e proprio stato di grazia di Carmen Consoli, forse oggi
la più lucida e importante voce "d'autore" al femminile del panorama italiano.
La canzone, scritta insieme a Tiziano Ferro unisce in maniera prodigiosa
un testo al tempo stesso dolente e di speranza e una melodia dal respiro d'altri
tempi. Ricomincio da qui sancisce la definitiva consacrazione di Malika Ayane
e, contemporaneamente, conferma che Sanremo continua a tirar fuori brani
destinati a restare nella storia della canzone italiana. Entrambi i brani nelle
posizioni più alte sono di produzione britannica. Al 2° posto il rapper Plan
B ha convinto tutti con la sua virata soul della saga The defamation of
Strickland Banks in cui racconta in musica (e videoclip) le disavventure del
cantante processato e condannato ingiustamente. She Said è stato il primo
estratto dall'album ed ha sbancato le chart di mezzo mondo. E finalmente, il
brano più bello del 2010: la straordinaria interpretazione di Florence +
The Machine di You've Got The Love. Sì, una cover (uscita tra l'altro nel
2009 ma esplosa in Italia nel 2010), di un brano misconosciuto addirittura degli
'80 di Candi Staton, ripreso poi successivamente da vari interpreti (primi tra
tutti The Source) sino a divenire un vero e proprio cult, ultima la strepitosa
versione remix della interpretazione di Florence. La canzone numero 1.
Born this way di Lady GaGa va al primo posto della "Hot 100" di Billboard ed
entra nella storia in quanto millesima canzone al numero 1 nei 52 anni di
esistenza della chart. GaGa, alla notizia del risultato che la consacra negli
annali della discografia statunitense, ha dimostrato d'apprezzare. "E' un onore
grandissimo", ha riferito a Billboard. "Essere il millesimo numero uno...sarei
sciocca se non dicessi che questo è il più grande onore in tutta la mia
carriera. Sono sconvolta ed onorata per come 'Born this way' è stata accolta. E'
stata importantissima per me come artista, e tra Billboard e i numeri uno
internazionali e i numeri delle radio...ho una fortuna enorme ad avere i fan che
ho". E c'è da registrare un altro record. Con vendite digitali di 448.000 copie,
"Born this way" diventa il singolo di artista donna con le maggiori vendite nel
corso della prima settimana; il record precedente, recentissimo, apparteneva a
Britney Spears con i 411.000 download di Hold it against me. Il
record assoluto rimane però ancora nelle mani di Flo Rida, che nel
febbraio 2009 riuscì a vendere della sua "Right round" ben 636.000 copie
digitali. I più venduti al mondo. L'album che nel mondo ha venduto il
maggior numero di copie nel 2010, ora che siamo praticamente a bocce ferme e gli
eventuali aggiustamenti non farebbero cambiare i giochi, è "The fame monster" di
Lady GaGa. Il conteggio è stato effettuato da mediatraffic.de, secondo la quale
la cosiddetta United World Chart è così composta: 1. Lady GaGa - "The fame
(Monster)" - 5.8 milioni di copie 2. Eminem - "Recovery" - 5.7 milioni 3. Justin
Bieber - "My worlds" - 5.6 milioni 4. Lady Antebellum - "Need you now" - 3.6
milioni 5. Taylor Swift - "Speak now" - 3.5 milioni 6. Susan Boyle - "The gift"
- 3.0 milioni 7. Black Eyed Peas - "The E.N.D." - 3.0 milioni 8. Michael Bublé -
"Crazy love" - 3.0 milioni 9. Sade - "Soldier of love" - 2.3 milioni 10. Alicia
Keys - "The element of freedom" - 2.3 milioni 11. Katy Perry - "Teenage dream" -
2.2 milioni 12. Take That - "Progress" - 2.2 milioni 13. Susan Boyle - "I
dreamed a dream" - 2.1 milioni 14. Ke$ha - "Animal" - 2.1 milioni 15. Rihanna -
"Loud" - 2.0 milioni 16. Mumford and Sons - "Sigh no more" - 1.8 milioni 17.
Kings Of Leon - "Come around sundown" - 1.7 milioni 18. Bon Jovi - "Greatest
hits" - 1.7 milioni 19. Usher - "Raymond V Raymond" - 1.7 milioni 20. Linkin
Park - "A thousand Suns" - 1.7 milioni Top Jazz: I vincitori.
Nato nel 1982 il Top Jazz si propone, attraverso un sondaggio tra circa sessanta
critici specializzati italiani, di offrire un quadro d'insieme del movimento
musicale del jazz italiano. MUSICISTA CATEGORIE Francesco Bearzatti Disco
dell'anno Stefano Bollani Musicista dell'anno Tinissima 4tet Formazione
dell'anno Silvia Bolognesi Nuovo talento Paolo Damiani Compositore dell'anno
Fabrizio Bosso Categoria ottoni Rosario Giuliani Sassofonista dell'anno Danilo
Rea Tastierista dell'anno Roberto Cecchetto Chitarrista dell'anno Danilo Gallo
Bassista dell'anno Roberto Gatto Batterista dell'anno Stefano Pastor
Miscellanea.
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