Prevenzione Aterosclerosi

 

 
    

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Prevenzione Aterosclerosi

  

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MEDICINA - PREVENZIONE - ATEROSCLEROSI

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INTRODUZIONE

L'aterosclerosi rappresenta la principale causa diretta o indiretta di morte nei Paesi occidentali. Si tratta di una manifestazione patologica che insorge (per cause varie e tuttora non ancora completamente note) a carico di alcune arterie, con la comparsa di una lesione caratteristica, detta "ateroma".

L'aterosclerosi è fondamentalmente una malattia cronica, che dipende da molti fattori di rischio (genetici, acquisiti ambientali ed altri ancora) e che può non manifestarsi per molti anni, nei quali essa si sviluppa, per poi sfociare in una manifestazione acuta a carico di alcuni organi, nei quali la presenza dell'ateroma riduce l'apporto del sangue, per cui l'organo interessato diviene ischemico. Le manifestazioni a carico degli organi divenuti ischemici sono note a tutti, anche se non sempre vengono intese come fenomeni finali da attribuirsi ad un'unica causa. Gli organi più comunemente interessati all'ischemia sono il cuore (in cui l'ischemia può manifestarsi come infarto miocardico acuto, come angina pectoris o come morte improvvisa), il cervello (ischemia cerebrale transitoria, emorragia cerebrale, trombosi), il rene (nefropatia vascolare) o gli arti (claudicatio intermittens, arteropatie periferiche, gangrena). È bene rimarcare che tutte queste manifestazioni non sono di per sé delle malattie, ma solo delle complicanze dell'aterosclerosi, da attribuirsi al ridotto flusso del sangue negli organi, e che tale ridotto flusso di sangue risulta determinato dal fatto che una o più arterie che portano il sangue a quel determinato organo sono in parte o del tutto ostruite dall'ateroma. Quello che in pratica accade è che le cellule dell'organo interessato dalla manifestazione acuta non ricevono più l'ossigeno e gli altri nutrimenti dal sangue, e conseguentemente tali cellule vanno incontro ad uno stato che potremmo definire di vera e propria «asfissia metabolica», per cui esse non possono più svolgere il compito che è stato loro assegnato. Le attività dell'organo vengono quindi ad essere limitate e l'organo non è più in grado di assicurare globalmente le proprie funzioni. In molti casi, particolarmente quando le complicanze si manifestano a carico di cuore e cervello, il soggetto va incontro a morte.

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LE DIMENSIONI DEL PROBLEMA

Come precedentemente accennato, l'aterosclerosi rappresenta la maggiore causa diretta o indiretta di morte nei Paesi occidentali. Già nel 1969 l'Experimental Board dell'Organizzazione Mondiale della Sanità affermava che "la cardiopatia ischemica ha raggiunto proporzioni enormi, e colpisce con frequenza sempre maggiore ed in età sempre più giovane. Essa può divenire nei prossimi anni problema epidemico che dovremo affrontare del totale delle morti, superando del doppio le morti attribuibili alle neoplasie.

uesto significa che ogni due persone che muoiono oggi in Italia, una è a causa delle conseguenze dell'aterosclerosi. Oltretutto, vista l'assenza di sintomi per tutto il periodo di sviluppo dell'ateroma, risulta abbastanza difficile non solo individuare la presenza dell'ateroma stesso, ma anche svolgere un'indagine approfondita sulla reale incidenza dell'aterosclerosi. I recenti progressi tecnologici hanno messo a disposizione del medico molte nuove metodiche come l'ecografia ed il doppler, che permettono di osservare in modo "non invasivo" (cioè senza entrare con lo strumento di indagine "dentro" i vasi dei pazienti) lo stato delle arterie: questo ha consentito di studiare e valutare in tempo reale il flusso ematico in un organo; tuttavia, nella maggior parte dei casi, quando il paziente si sottopone a questi esami ha già avvertito qualche sintomo, per cui tali metodi non hanno ancora oggi quel valore preventivo che invece dovrebbero avere.

Per semplificare ulteriormente possiamo dire che fino a poco tempo fa ci si limitava ad annotare i decessi attribuibili all'aterosclerosi, mentre oggi si può intervenire con un certo anticipo sull'insorgere delle manifestazioni acute; manca ancora (tranne poche eccezioni) una reale pratica della prevenzione da attuarsi su larga scala e volta a correggere immediatamente le abitudini di vita che possano in qualche modo indurre la formazione dell'ateroma.

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Il fatto che si parli di aterosclerosi in termini di "patologia del benessere" e di causa principale di morte nei Paesi occidentali, ci dice quanto sia grande l'influenza dei fattori ambientali e delle abitudini di vita. Lo stress, l'alimentazione scorretta o totalmente sbagliata, il fumo e l'alcool sono tutti fattori la cui importanza nell'induzione della formazione dell'ateroma è stata chiaramente dimostrata. Sarebbe quindi d'obbligo una campagna volta a sensibilizzare la popolazione affinché modifichi immediatamente le abitudini scorrette di vita, limitando di conseguenza alcune delle maggiori cause di rischio.

Altre cause dell'aterosclerosi sono invece dovute a fattori non modificabili, come quelli genetici. Molte indagini svolte finora hanno appurato l'esistenza di una predisposizione familiare alle manifestazioni aterosclerotiche (come l'infarto), dovute ad un alterato metabolismo lipidico da ascriversi a difetti ereditari. In tali casi anche l'efficacia dei farmaci si è dimostrata molto scarsa (o nulla), e si deve ricorrere ad altri sistemi di terapia sui quali vi sono ancora diversi limiti qualitativi o quantitativi.

In ogni caso, la maggior parte delle volte che vengono osservati dei fenomeni aterosclerotici essi sono già in una fase avanzata, per cui ogni terapia che viene adottata ha l'unico scopo di evitare che si giunga alle complicanze d'organo e di limitare ulteriori danni: sono infatti rarissimi i casi di regressione osservati. La reale cura dell'aterosclerosi si fa con la prevenzione, e questa si può attuare solo conoscendo tutti i possibili fattori di rischio e tutte le possibili correlazioni causa-effetto del fenomeno; in ultima analisi, la prevenzione dipende anche dalla conoscenza del problema.

In Italia è iniziato nel 1972 uno studio di monitoraggio della popolazione del comune di Brisighella, in provincia di Ravenna. Questo studio, condotto a cura dell'Istituto di Clinica Medica dell'Università di Bologna, fa parte del progetto ERICA dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, volto a conoscere e stimare le cause di rischio aterosclerotico e a valutare l'efficacia di un'azione preventiva da esercitarsi a tutti i livelli (fino dalla scuola dell'obbligo con conferenze ed informazioni sulle corrette abitudini alimentari) sulle popolazioni a rischio. Tra i molti risultati dello studio di Brisighella (che ha coinvolto i circa 9000 cittadini residenti e che, comunque, continuerà ancora per anni) ottenuti fino ad oggi, si è osservata una reale riduzione (dopo anni di trend contrario) di alcuni fattori di rischio, indice chiaro dell'efficacia di una campagna di sensibilizzazione.

 

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CHE COS'È L'ATEROMA E COME SI SVILUPPA

Esistono diverse teorie sulle cause della formazione dell'ateroma, come la teoria trombogenica, quella della migrazione e della proliferazione miointimale e quella della cosiddetta risposta al danno; nonostante questo, la teoria più scientificamente accreditata rimane probabilmente quella lipidogenica (che è, tra l'altro, anche una delle più antiche): in tutta la successiva trattazione ci si limiterà quindi all'uso di questa teoria.

L'ateroma è una lesione arteriosa formata da una miscela eterogenea contenente quantità variabili di lipidi (tra cui è molto importante il colesterolo), cellule ed alcune proteine fibrose, che viene a formarsi inizialmente nella superficie interna di alcune arterie. Il processo che porta alla formazione dell'ateroma viene chiamato aterogenesi, ed è determinato principalmente da un'interazione tra alcune lipoproteine circolanti nel sangue e le cellule della parete arteriosa, da cui risulta una sedimentazione sulla parete di tali lipoproteine modificate cui segue una vera e propria infiltrazione di materiale nella parete stessa con accumulo e crescita della placca che protude verso il lume del vaso (dove scorre il sangue), che viene così ad ostruirsi progressivamente. L'aterogenesi, come già brevemente accennato sopra, è un processo che può durare molti anni senza che si manifesti alcun sintomo clinico, ed è determinato da una quantità di fattori (se ne conoscono con certezza più di 250) classificati in iniziatori, promotori, potenziatori e precipitatori. Bisogna subito puntualizzare che un fattore di rischio non va considerato come un fattore patogenico: un fattore di rischio, secondo le correnti definizioni, è un fattore che compare in modo significativamente più frequente nei soggetti malati, pur non essendo necessariamente implicita una correlazione causa-effetto tra fattore di rischio e malattia; questo anche se, allo stato delle conoscenze attuali, certi fattori di rischio sono considerati fattori causali, come l'elevato valore della colesterolemia Va inoltre specificato che i fattori di rischio sono da considerare tali solo nell'ambito di una popolazione, cioè sono significativi se rapportati ad un grande numero di soggetti, per cui le valutazioni dei rischi che verranno fatte in seguito non sono da intendersi applicate ad un singolo individuo.

Tra i fattori di rischio, si definiscono "maggiori" quelli in cui è più stretta la relazione con l'incidenza delle complicanze d'organo ed in cui il valore predittivo risulta più sensibile.

L'Organizzazione Mondiale della Sanità considera fattori di rischio maggiori l'ipercolesterolemia, l'ipertensione arteriosa, il diabete, l'obesità ed il fumo di sigaretta.

 

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Per quanto riguarda la classificazione dei fattori di rischio, vengono definiti iniziatori tutti quei fattori che ledendo l'integrità dell'endotelio arterioso, hanno funzione determinante nello scatenare l'aterosclerosi. Fattori iniziatori sono, tra gli altri l'ipercolesterolemia (cioè un eccessivo livello di colesterolo nel sangue), l'ipertensione, il diabete ed il fumo.

I fattori promotori sono quelli che promuovono la deposizione del colesterolo nella parte arteriosa, favorendo così la crescita dell'ateroma: tra essi ricordiamo l'aumento delle VLDL e delle LDL, la riduzione delle HDL, l'eccesso di grassi saturi (di origine prevalentemente animale) nella dieta e la carenza di vitamine C e B6.

I fattori potenziatori accrescono gli effetti dei due tipi di fattori precedenti ed incrementano la probabilità che si formino trombi: sono importanti fattori potenziatori i contraccettivi orali, il fumo, l'eccesso di grassi saturi nella dieta, l'aumento del livello ematico di trombossano A e la riduzione di quello della prostaciclina.

I fattori precipitanti, infine, sono quelli che inducono ischemia acuta a carico degli organi ed aritmia cardiaca: tra essi si ricordano il fumo, lo sforzo fisico, il freddo, l'aumento delle catecolamine ematiche e la riduzione dell'apporto di magnesio nella dieta.

Possiamo immediatamente notare che lo stesso fattore di rischio può agire a vari livelli, come il fumo, che è un fattore iniziatore, potenziatore e precipitante; inoltre praticamente tutti i fattori potenziatori sono anche fattori precipitanti.

Ai fattori elencati ne vanno aggiunti molti altri conosciuti ed altri ancora sconosciuti specie tra quelli precipitanti.

L'aterosclerosi ha quindi origine multifattoriale, ma i fattori di rischio possono agire in diversi intervalli di tempo ed a differenti livelli di gravità: l'ipercolesterolemia può cominciare a manifestarsi anche alla nascita, mentre il fumo, il diabete e l'obesità possono subentrare in periodi successivi; di fatto i fattori di rischio agiscono in sinergia e tendono a sommare i loro effetti col passare del tempo, aumentando sensibilmente il rischio di ulteriori complicanze cardiovascolari che vanno a sommarsi a quelle già esistenti.

Tra i fattori di rischio più studiati vi è la colesterolemia, in cui si è riusciti a determinare anche una correlazione lineare tra il livello di colesterolo nel sangue e l'entità del rischio, ovvero la probabilità di andare incontro ad un evento ischemico a carico di un organo.

Sezione longitudinale di vaso sanguigno con placca ateromatica: A) vaso visto di scorcio dall'alto; B) visto di fronte. La placca, evidenziata in giallo, mostra una tipica forma a "campana oblunga"

Fasi di crescita della placca ateromatica nell'arteria

Le teorie eziopatogenetiche dell'arterosclerosi

 

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I LIPIDI CIRCOLANTI E LE LIPOPROTEINE

I lipidi svolgono molte funzioni plastiche ed energetiche, però non sono solubili in acqua, e quindi neppure nel sangue; per questo motivo i lipidi devono essere trasportati attraverso i vari distretti dell'organismo veicolati da altre sostanze, che sono principalmente proteine e fosfolipidi. L'insieme delle macromolecole contenenti lipidi, fosfolipidi e proteine e destinate al trasporto dei lipidi stessi attraverso il sangue, per fornire tutti i distretti dell'organismo, prende il nome di lipoproteina.

Le lipoproteine hanno forma sferoidale e sono indicativamente formate da uno strato esterno (quello a diretto contatto con il sangue) costituito da sostanze facilmente solubili in acqua (idrofile) o a comportamento anfotero (cioè sostanze con una parete della molecola idrofila e che si pone all'esterno della lipoproteina ed un'altra parte della molecola idrofoba, che si dispone all'interno della stessa), mentre l'interno della lipoproteina è costituito dalle componenti insolubili in acqua (idrofobe), cioè principalmente da lipidi.

La parte esterna (idrofila) delle lipoproteine è formata da fosfolipidi e da alcune apoproteine (il termine apoproteina, che useremo da qui in seguito è il termine scientificamente corretto per definire le proteine contenute nelle lipoproteine), mentre la parte interna (detta anche "core") delle lipoproteine contiene principalmente colesterolo e trigliceridi.

Le lipoproteine sono classificate in quattro grandi gruppi, a seconda della loro composizione, e svolgono funzioni differenti avendo anche (a seconda della quantità e dei rapporti in cui esse sono presenti nel sangue) differente significato patologico.

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Le prime lipoproteine che si formano dopo un pasto sono i chilomicroni, che vengono sintetizzati nell'intestino. I chilomicroni trasportano i lipidi esogeni (cioè i grassi assimilati con l'alimentazione) attraverso i dotti linfatici prima ed i vasi sanguigni poi, fino ai siti dove tali lipidi subiscono le varie trasformazioni. I chilomicroni sono mediamente composti da trigliceridi (circa per il 90%), fosfolipidi (5%), colesterolo (4%) e da apoproteine (1% circa). I chilomicroni hanno una emivita plasmatica molto breve, e, nel soggetto normale, non devono essere presenti nel sangue dopo un digiuno di 12 ore.

Quando i chilomicroni entrano nel circolo ematico vengono a reagire con un enzima chiamato LPL (lipoproteinlipasi) presente sulle cellule della parete dei vasi: in particolare la LPL interagisce con le apoproteine dei chilomicroni, e da tale interazione risulta una idrolisi dei trigliceridi, che vengono trasformati in acidi grassi liberi (NEFA) e glicerolo e vengono quindi captati dai tessuti periferici come substrati energetici o (nel caso del colesterolo) come materia prima per sintesi delle membrane cellulari, oppure, ancora, vengono inglobati nel tessuto adiposo a costituire del materiale di riserva.

Nel corso di questa complessa reazione, i fosfolipidi dei chilomicroni vanno a combinarsi con alcune apoproteine residue sempre dei chilomicroni formando una nuova lipoproteina precursore delle HDL, detta HDL nascente, la cui funzione verrà esaminata più avanti.
Dopo aver interagito con la LPL i chilomicroni sono strutturalmente e dimensionalmente modificati: tali chilomicroni modificati (rimangono alcune apoproteine più una quota residua di colesterolo e trigliceridi) prendono il nome di remnants e si avviano verso il fegato, dove vengono inglobati negli epatociti (le cellule del fegato) con un processo di endocitosi. Qui le quote residue di colesterolo e di trigliceridi vengono inglobate nel fegato sottraendole ai remnants, che così si avviano alla definitiva demolizione.

Il fegato metabolizza i lipidi dei remnants per formare, utilizzando anche lipidi sintetizzati ex novo dal fegato stesso, una nuova classe di lipoproteine, le VLDL (Very Low Density Lipoprotein), composte da trigliceridi (60%), colesterolo (15%), fosfolipidi (15%) ed apoproteine (10%). L'epatocita è una cellula in grado di sintetizzare colesterolo endogeno: tale processo di sintesi è regolato con un controllo a feed-back (ovvero da un controllo a retroazione) dalla quantità di colesterolo esogeno introdotto con la dieta e veicolato al fegato dai remnants.

Il fegato è anche in grado di sintetizzare ex novo trigliceridi a partire da differenti substrati energetici, come glucosio ed aminoacidi. Questa prerogativa è molto importante, in quanto permette all'organismo di operare un rimaneggiamento continuo dei trigliceridi assunti con la dieta, di sintetizzarne di nuovi e di mantenere l'omeostasi lipidica nelle varie condizioni fisiologiche.

 

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Le VLDL, una volta immesse nel torrente ematico, vengono sottoposte all'azione idrolizzante della LPL, da cui risulta una liberazione di acidi grassi e di glicerolo, che vengono utilizzati dalle cellule come fonte energetica, oppure vengono inglobati come materiale di riserva nel tessuto adiposo. Anche dall'idrolisi delle VLDL vengono liberati fosfolipidi che entrano nella composizione delle HDL nascenti: il destino metabolico delle VLDL è quindi analogo a quello dei chilomicroni, con la fondamentale differenza che i chilomicroni trasportano e distribuiscono i trigliceridi derivanti dalla dieta, mentre le VLDL trasportano e distribuiscono i trigliceridi di origine epatica. Le trasformazioni cui sono state sottoposte le VLDL portano come risultato finale alla formazione di lipoproteine molto più piccole, dette IDL.

Le IDL sono lipoproteine a densità intermedia e sono praticamente delle VLDL impoverite in trigliceridi ed apoproteine ed arricchite invece in colesterolo. Le IDL sono destinate a venire metabolizzate molto in fretta: vengono infatti catturate dal fegato, e solo una modesta quota di IDL sfugge a questo destino, per venire comunque privata di tutti i trigliceridi e di una quota di apoproteine, che riduce queste IDL residue ad un piccolo nucleo contenente solo colesterolo esterificato: le lipoproteine così modificate prendono il nome di LDL (Low Density Lipoprotein), e sono mediamente composte da trigliceridi (5%), colesterolo (50%), fosfolipidi (25%) ed apoproteine (20%). Le LDL sono destinate ad essere catturate anch'esse dal fegato, e con lo stesso meccanismo recettoriale di cattura delle IDL, ma il processo epatico di cattura avviene molto più lentamente che per le IDL, per il fatto che il fegato effettua il suo filtro "riconoscendo" le apoproteine proprie delle IDL e delle LDL: mentre nelle IDL vi sono due tipi di apoproteine (la cosiddetta apoproteina E e la apoproteina B100), nelle LDL vi è solo un tipo di apoproteina (la apoproteina B100), per cui il riconoscimento e la cattura sono più lenti.

Le LDL rimangono quindi in circolo per periodi lunghi; il loro compito principale è quello di rifornire di colesterolo i tessuti periferici, che lo devono utilizzare per la sintesi di componenti delle membrane cellulari. Nelle cellule destinate ad utilizzare il colesterolo vi è un recettore con il compito di legarsi alla lipoproteina e di trascinare all'interno della cellula medesima il contenuto in colesterolo della lipoproteina, mentre le apoproteine sono destinate ad essere demolite. n colesterolo che viene fornito alle cellule periferiche dalle LDL regola con un meccanismo a feed-back l'attività di un enzima molto importante, chiamato HMG CoA Reduttasi, che presiede alla sintesi ex novo di colesterolo intracellulare. n recupero del colesterolo in eccesso, così come la cattura del colesterolo proveniente dal ricambio cellulare e del colesterolo legato alle LDL che non trova cellule che lo utilizzano, è affidata ad un'ultima famiglia di lipoproteine, le HDL (High Density Lipoprotein), composte mediamente da trigliceridi (5%), colesterolo (25%), fosfolipidi (25%) ed apoproteine (45%). Le HDL possono avere differenti siti di sintesi: epatico, intestinale ed ematico (da particelle residue del catabolismo dei chilomicroni e delle VLDL).

In tutti questi casi, le prime fasi corrispondono alla sintesi delle HDL nascenti, di cui si è già accennato prima, e che sono lipoproteine dalla caratteristica forma discoidale, con un doppio strato fosfolipidico contenente colesterolo ed apoproteine. Una volta in circolo, le HDL nascenti subiscono numerose trasformazioni di carattere meccanico e chimico ed abbandonano la forma discoidale per assumere quella sferica. A tale scopo assume grande importanza un enzima denominato LCAT (Lecitin Colesterol Acil Transferasi), che permette la penetrazione del colesterolo nella lipoproteina nascente, "gonfiandola" e facendole assumere la caratteristica forma globulare di HDL matura.

 

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Le HDL sono classificate in differenti categorie a seconda del loro "stato". Le HDL mature neoformate, in particolare, vengono classificate come HDL(dep.3), povere in colesterolo e più piccole delle altre HDL. Via via che le HDL(dep.3) raccolgono il colesterolo in eccesso refluo dalle cellule periferiche o derivante dalla demolizione di chilomicroni a VLDL, esse si trasformano in HDL(dep.2) più grandi delle prime per avere assorbito una quota consistente in colesterolo. Le HDL(dep.2) provvedono ad esterificare tutto il colesterolo libero al loro interno che, a seconda delle esigenze metaboliche può essere ceduto ad altre lipoproteine (come le LDL), oppure viene portato al fegato che demolisce il colesterolo in eccesso trasformandolo in acidi biliari. L'inglobamento da parte del fegato con la successiva demolizione del colesterolo trasportato dalle HDL avviene con particolare efficienza (nel soggetto sano) quando vi è un aumento della quota ematica del colesterolo.

Un compito non meno importante svolto dalle HDL è quello di prelevare il colesterolo in eccesso dalle superfici delle cellule periferiche, in particolare dalle cellule della parete dei vasi Tale funzione di "spazzino" per il colesterolo periferico in eccesso viene svolta sempre grazie all'enzima LCAT, di cui si è già parlato prima.

Le HDL sono quindi le lipoproteine che più da vicino controllano l'omeostasi del colesterolo, prelevandolo dalle cellule che ne hanno in eccedenza e catturando quello derivante dalle degradazioni cellulari. Inoltre le HDL trasportano il colesterolo in eccesso da loro catturato verso il fegato, dove il colesterolo stesso viene trasformato in acidi biliari e quindi eliminato dall'organismo. In alcuni casi le HDL possono cedere una certa quantità di colesterolo ad altre lipoproteine o a cellule che ne abbiano particolare necessità.
Per quanto concerne il metabolismo del colesterolo, cui si è accennato seppure brevemente e per sommi capi, bisogna osservare che il colesterolo è una molecola indispensabile al buon funzionamento di tutte le cellule del nostro organismo, e che non è dannoso il colesterolo in sé, ma un suo eccesso. Inoltre il colesterolo non va considerato di per sé, ma collegato alla frazione lipoproteica cui appartiene: si è visto come il colesterolo facente parte delle HDL abbia significato non patologico, ma protettivo, mentre quello legato alle LDL ed alle VLDL sia un chiaro indice di rischio aterogenetico.

Schema: Il destino metabolico delle HDL

 

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VALORI OTTIMALI DEI PARAMETRI EMATICI

Si è già visto che il problema del "colesterolo" sia in realtà una cosa molto più complessa di quanto si potesse immaginare; in pratica abbiamo visto che c'è un colesterolo aterogeno (quello legato alle VLDL ed alle LDL), che fa quindi aumentare il rischio di complicanze d'organo, ma esiste anche una quota di colesterolo con significato protettivo (quello facente parte delle HDL), che quindi riduce il rischio di complicanze d'organo.

Rimane da stabilire quali sono le quote di colesterolo che minimizzano i rischi: non è infatti possibile, per i livelli di colesterolo (come per moltissimi altri fattori di rischio e per molte altre patologie) stabilire delle quote ematiche corrispondenti al rischio zero, e di conseguenza non è possibile definire quello che dovrebbe essere un soggetto "normale", almeno per ciò che riguarda la probabilità che un tale soggetto non vada incontro ad eventi a carico di organi. Se quindi è in linea di massima corretto definire nella popolazione italiana un gruppo di soggetti ipercolesterolemici (o iperlipidemici) ed un altro gruppo di soggetti non-ipercolesterolemici (o non-iperlipidemici), non è invece possibile definire un gruppo di soggetti a rischio ed un altro gruppo di soggetti non a rischio: si dovrà stabilire, sulla base di dati epidemiologici (e quindi statistici) una graduatoria del rischio che porti da un generico rischio modesto ad un rischio elevato.

L'Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito un valore medio ottimale della colesterolemia in una popolazione uguale a 200 mg per decilitro. Tale valore (è bene sottolinearlo ancora) non è il limite tra rischio e non-rischio, ma solo un valore al di sotto del quale si può ragionevolmente sperare che la frequenza di complicanze cardiovascolari dell'aterosclerosi sia minore.
Il valore ottimale del colesterolo dovrebbe essere ancora più basso (circa 150 mg/dl) in quei soggetti con aterosclerosi già in corso ed in cui si volesse sperare in una regressione dei fenomeni ateromatosi in atto, o in cui, al limite, si volesse impedire un'ulteriore evoluzione degli stessi. Anche per i trigliceridi, che sono un fattore di rischio di peso statistico inferiore rispetto al colesterolo, si è fissato un valore ottimale al di sotto del quale il rischio di eventi a carico di organi va considerato improbabile: tale valore è fissato in circa 170 mg/dl. Il colesterolo HDL è invece un fattore protettivo, e di conseguenza è considerato ottimale un valore da 45-50 mg/dl in poi. I valori della pressione arteriosa (altro importante e noto fattore di rischio) vengono considerati ottimali dall'Organizzazione Mondiale della Sanità se la pressione sistolica è inferiore a 140 mmHg e quella diastolica è inferiore a 90 mmHg Sono invece conclamatamente ipertesi (almeno in termini di rischio aterogenetico) i soggetti con pressione sistolica superiore a 160 mmHg e diastolica superiore a 95 mmHg. Anche per quanto riguarda l'ipertensione o la pressione arteriosa in sé, bisogna chiarire che in un ambito di "normalità" tra i 120 ed i 140 mmHg per la pressione sistolica e tra i 70 ed i 90 mmHg per la pressione diastolica, il rischio sarà minore nei soggetti con i valori pressori più bassi.

Nel caso del fumo, e a prescindere da tutti gli altri effetti nocivi che questo ha (per esempio sull'apparato respiratorio) è piuttosto difficile quantificare il rischio commisurato al numero di sigarette fumate mediamente in un giorno; si stabilisce comunque che la condizione di non fumatore non è esente da rischi se il non-fumatore frequenta luoghi dove altre persone fumano (fenomeno del "fumo passivo", di cui sono ampiamente dimostrati i rischi), per cui si può definire "normale" solo un non-fumatore che non frequenti luoghi dove altri fumano, e solo a tale soggetto "normale" si potrà associare quel rischio minimo che tale condizione comporta.

Da quanto è stato detto (solo per quello che riguarda i fattori di rischio più noti ed accertati) risulta chiaro che è necessario, per quanto possibile, cercare di minimizzare le fonti di rischio, almeno per quello che riguarda i rischi modificabili, come le abitudini alimentari, la sedentarietà, il fumo e lo stress; sarà compito del medico cercare l'ulteriore riduzione di altri fattori di differente origine (come il diabete, la gotta, l'ipertensione, l'obesità e l'ipercolesterolemia) utilizzando degli opportuni farmaci quando necessario. Bisogna inoltre ricordare che il rischio, come già detto in precedenza, ha origine multifattoriale, e che gli effetti dei singoli fattori si sommano tra loro, potenziandosi a vicenda per tutto il tempo in cui essi sono presenti contemporaneamente.

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CLASSIFICAZIONE DELLE DISLIPIDEMIE

La classificazione delle dislipidemie può avvenire in diversi modi, ma il più utilizzato, cui si farà ricorso anche qui, è quello della tipizzazione secondo Fredrickson, basata sull'acquisizione di alcuni parametri di laboratorio da ottenersi in ogni caso dopo un digiuno di almeno 12 ore del soggetto interessato.

Normalmente, per diagnosticare una dislipidemia, risultano sufficienti i dosaggi di trigliceridi, colesterolo totale e colesterolo HDL (più, eventualmente, l'elettroforesi delle lipoproteine ed il dosaggio di alcune apoproteine): tali dosaggi, oltre ad essere ormai comune routine in qualsiasi laboratorio di analisi, offrono il vantaggio di avere costi molto contenuti; salvo particolari eccezioni, invece, il dosaggio dei fosfolipidi e quello degli acidi grassi liberi (NEFA) non risultano di particolare utilità, e comunque aggravano i costi dell'analisi. Possono essere molto utili, infine, anche i dosaggi paralleli del glucosio ematico (glicemia) e dell'acido urico (uricemia), viste le interazioni metaboliche esistenti.

A questo tipo di analisi, vista l'alta incidenza della malattia e l'assenza pressoché totale di criteri diagnostici clinici, dovrebbe sottoporsi tutta la popolazione, inclusi i bambini, specie se figli di soggetti con dislipidemia di origine genetica conclamata. Un soggetto adulto sano dovrebbe sottoporsi a tali accertamenti ogni due o tre anni, mentre se il soggetto mostrasse alcune anomalie, e salvo eventuali eccezioni, l'esame dovrebbe essere ripetuto 30-40 giorni dopo l'istituzione di una terapia (che non deve per forza essere farmacologica) per controllarne l'efficacia, quindi ogni 3 mesi circa.

Nei bambini i primi accertamenti dovrebbero essere svolti verso il primo o secondo anno di età se esistono pregressi problemi familiari, mentre, in altri casi, si potrebbero effettuare in concomitanza di altri prelievi ematici svolti per altri motivi, e comunque nelle fasi preadolescenziale e postadolescenziale.

I controlli dovranno farsi più frequenti con il progredire dell'età (in particolare dopo i 40 anni e nelle donne in menopausa), nei soggetti diabetici, obesi e con diagnosi accertata o presunta di vasculopatia cerebrale, periferica o coronarica.

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Si può escludere presenza di dislipidemie se un soggetto presenta contemporaneamente colesterolemia (CT) inferiore a 200 mg/dl trigliceridemia inferiore a 170 mg/dl, e colesterolo HDL (HDL-C) superiore a 45 mg/dl per i maschi e a 50 mg/dl nelle femmine.

Nel caso uno o più parametri risultino alterati è possibile valutare il tipo di dislipidemia secondo Fredrickson (si veda la tabella sottostante, rimandando a testi specialistici per una descrizione dettagliata di ogni singola tipologia) e prendere gli opportuni provvedimenti dietetici e farmacologici (se il caso lo richiede), sui quali torneremo più avanti. La tipizzazione secondo Fredrickson può presentare alcune difficoltà, in particolare nella distinzione tra dislipidemia di tipo IIb e dislipidemia di tipo IV, entrambe molto frequenti; in tali casi può essere utile ricorrere alla formula di Friedwald, che consente con buona approssimazione il calcolo del colesterolo LDL (LDL-C) a partire dai valori del colesterolo totale (CT), dei trigliceridi (TG) e del colesterolo HDL (HDL-C). Tale formula è come segue:

 

LDL-C = CT - TG+ HDL-C
             --             
              5
Essa si usa solo per quei pazienti in cui vi sia un contemporaneo innalzamento sia del colesterolo totale sia dei trigliceridi (ma non si può usare se il valore della trigliceridemia è superiore a 400 mg/dl): se il risultato della formula è un valore di LDL-C minore o uguale a 160, si deve supporre che il valore delle LDL non sia alterato, per cui la diagnosi più probabile sarà una dislipidemia di tipo IV; in caso contrario si può diagnosticare una dislipidemia di tipo IIb.

 

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¦     TIPO    ¦     FREQUENZA     ¦      POSSIBILE DIAGNOSI      ¦
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¦             ¦                   ¦ ¦ DEFICIT DI LPL             ¦
¦      I      ¦     RARISSIMO     ¦ ¦ DEFICIT DI PROTEINA CII    ¦
¦             ¦                   ¦ ¦ FORME SECONDARIE           ¦
+-------------+-------------------+------------------------------¦
¦             ¦                   ¦ ¦ IPERCOLESTEROLEMIA         ¦
¦             ¦                   ¦   FAMILIARE                  ¦
¦             ¦                   ¦ ¦ IPERCOLESTEROLEMIA         ¦
¦     IIa     ¦     FREQUENTE     ¦   POLIGENICA                 ¦
¦             ¦                   ¦ ¦ IPERCOLESTEROLEMIA         ¦
¦             ¦                   ¦   SPORADICA                  ¦
¦             ¦                   ¦ ¦ FORME SECONDARIE           ¦
+-------------+-------------------+------------------------------¦
¦             ¦                   ¦ ¦ IPERLIPIDEMIA MISTA        ¦
¦     IIb     ¦     FREQUENTE     ¦ ¦ FORME SECONDARIE           ¦
+-------------+-------------------+------------------------------¦
¦             ¦                   ¦ ¦ FAMIL BROAD ß DISEASE      ¦
¦     III     ¦     RARISSIMO     ¦ ¦ FORME SECONDARIE           ¦
+-------------+-------------------+------------------------------¦
¦             ¦                   ¦ ¦ IPERTRIGLICERIDEMIA        ¦
¦      IV     ¦     FREQUENTE     ¦   FAMILIARE                  ¦
¦             ¦                   ¦ ¦ FORME SECONDARIE           ¦
+-------------+-------------------+------------------------------¦
¦             ¦                   ¦ ¦ IPERLIPOPROTEINEMIA DI     ¦
¦      V      ¦       RARO        ¦   TIPO V                     ¦
¦             ¦                   ¦ ¦ FORME SECONDARIE           ¦
+-------------+-------------------+------------------------------¦
¦             ¦                   ¦ ¦ IPERLIPIDEMIA FAMILIARE    ¦
¦  VARIABILE  ¦       RARO        ¦   COMBINATA                  ¦
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PREVENZIONE DELLE DISLIPIDEMIE

La prevenzione, allo stato attuale delle cose, è senz'altro l'arma migliore in nostro possesso per contrastare l'aterosclerosi e le sue complicanze d'organo; si deve attuare la prevenzione sia per ritardare la comparsa della malattia, sia per rallentarne l'evoluzione, avendo come ultimo fine la riduzione della frequenza delle complicanze cardiovascolari e l'aumento dell'età media in cui tali complicanze possono eventualmente manifestarsi. La necessità di una prevenzione condotta in modo corretto è dovuta all'apparente paradosso che per questa patologia sono più conosciute le misure preventive che le effettive fasi di evoluzione. Questo è principalmente dovuto al fatto che è estremamente difficile una misurazione dell'entità della lesione ateromatosa (che peraltro ha differente gravità a seconda dell'arteria sulla quale la lesione stessa si localizza), a meno di ricorrere a tecniche molto costose (quindi non alla portata di tutte le strutture sanitarie) e comunque difficilmente riproducibili. Inoltre, tutte le indagini epidemiologiche sinora condotte e volte ad indagare sull'efficacia delle misure preventive e terapeutiche hanno basato i loro risultati sull'analisi statistica delle variazioni della mortalità e della morbilità in determinate popolazioni sottoposte o meno a tali misure, e non hanno potuto prendere in considerazione, per evidenti motivi, l'osservazione diretta dell'evoluzione delle lesioni ateromatose.

Le misure di prevenzione vengono correntemente suddivise in primarie, secondarie e terziarie. La prevenzione primaria è quella che dovrebbe servire ad evitare la comparsa della malattia, quella secondaria dovrebbe evitare, nei soggetti già colpiti, il ripetersi di eventi acuti a carico degli organi, mentre la prevenzione terziaria dovrebbe ritardare il più possibile la morte del soggetto.

La prevenzione primaria è in assoluto la più efficace e quella che dovrebbe avere i costi sociali e sanitari minori, essendo applicabile senza difficoltà in tutta la popolazione. La prevenzione primaria deve mirare a minimizzare e, quando possibile, abolire del tutto i fattori di rischio modificabili; in particolare, gli sforzi maggiori dovrebbero indirizzarsi alla riduzione a valori meno pericolosi della dislipidemia, al controllo dell'alimentazione, alla riduzione dell'obesità, alla disabitudine al fumo e ad un attento controllo farmacologico di ipertensione e diabete. Tra tutte queste misure merita senz'altro rilevanza la modifica delle nostre abitudini alimentari, che deve essere sostanziale e permanente, in particolare in quei soggetti con i parametri ematici alterati. Un soggetto ipercolesterolemico deve abituarsi ad avere a che fare con una vera e propria malattia metabolica, e quindi deve considerare la sua posizione in campo alimentare analoga a quella di un paziente alle prese con altre malattie metaboliche (per esempio il diabete) comportanti alcune necessarie limitazioni. La correzione delle abitudini alimentari rappresenta in assoluto la misura preventiva più efficace attualmente in nostro possesso.

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Si noti che non si parla di "dieta", ma solo di correzione delle abitudini alimentari: il termine "dieta", infatti, presuppone una variazione temporanea delle componenti dell'alimentazione, inducendo oltretutto concetti di restrizioni eccessive e schemi alimentari inusuali; in realtà la "dieta" per un soggetto sano che attui la prevenzione primaria, o per un soggetto a rischio che voglia modificare i suoi parametri ematochimici, non comporta eccessive restrizioni, consistendo in variazioni più qualitative che quantitative, che consentono senz'altro dei pasti anche molto abbondanti. Si tratterebbe principalmente di ritornare alla cosiddetta "dieta mediterranea", povera in grassi e proteine di origine animale (burro, lardo, formaggi, insaccati carne, uova ecc.) e ricca in amidi e sostanze vegetali (pane, riso, pasta, verdura, frutta, olio d'oliva extra vergine ecc.) e con un consumo di pesce che soppianti in buona parte quello delle carni rosse. Queste indicazioni sono comunque di massima, in quanto l'alimentazione va variata in funzione del tipo di iperlipidemia diagnosticata e di eventuali altre malattie associate (diabete, ipertensione); le modificazioni vanno inoltre personalizzate in modo da renderle effettivamente adatte al paziente secondo il suo fabbisogno energetico: per questi motivi è sempre bene che un paziente si rivolga ad un centro ospedaliero specializzato.

È particolarmente interessante osservare che un cambiamento alimentare così impostato può avere molteplici effetti: è infatti provato che la "dieta mediterranea" ha buoni effetti nel ridurre molti fattori di rischio, come la dislipidemia, l'ipertensione, il diabete, ed altro ancora, mentre è provato che una alimentazione impostata scorrettamente non è solamente aterogena, ma anche ipertensivizzante, diabetogena e trombogena. La correzione dell'alimentazione è talmente importante da non poter essere in alcun modo trascurata né ridotta, anche nel caso si attuino misure terapeutiche vere e proprie: non esistono infatti farmaci per quanto attivi, efficaci e sicuri, che possano migliorare la condizione di un dislipidemico che non voglia cambiare radicalmente il modo di alimentarsi.

Anche l'abolizione del fumo, il controllo del peso corporeo, la riduzione degli stress ambientali ed una buona e continuativa attività fisica (seppure praticata in modo non agonistico, specie in età avanzata) sono ottimi fattori preventivi se abbinati alle correzioni da apportare all'alimentazione.

La prevenzione secondaria è più difficile da inquadrare secondo schemi fissi, ed è ovviamente anche più difficile da attuarsi. Va inoltre esteso il suo concetto originario (fondamentalmente quello di evitare il ripetersi di episodi acuti in soggetti che già ne abbiano manifestati), così che la prevenzione secondaria sia oggi da intendersi come la prevenzione da attuarsi in quei soggetti che abbiano lesioni ateromatose documentabili (ecografia, doppler), anche se non ancora clinicamente evidenti, come infarto miocardico od altro.
In questi soggetti le valutazioni strumentali sui vasi (stato delle arterie coronarie, carotidi ed iliaco-femorali) saranno reperti necessari da affiancare con scadenza costante agli usuali reperti analitici di laboratorio. Nel caso della prevenzione secondaria, oltre agli eventuali presidi farmacologici volti alla riduzione dei fattori di rischio, possono subentrare anche misure chirurgiche volte a ripristinare uno stato quasi fisiologico del flusso sanguigno od alla asportazione ed alla ricostruzione dei vasi interessati dall'ateroma (tecniche di angioplastica, endoarteriectomia e di by-pass). Altre tecniche chirurgiche sono in più diretto collegamento con la funzionalità dell'apparato digerente (come lo shunt porto-cavale ed il by-pass digiuno-ileale): in questi casi così come per il trapianto di fegato, si è dimostrata una drastica riduzione della colesterolemia, ma la loro applicazione va assolutamente limitata a certe forme di origine ereditaria altrimenti inguaribili. Limitate ed ancora allo stadio sperimentale sono anche le tecniche di LDL-aferesi, basate sull'uso di sistemi capaci di filtrare il sangue del paziente togliendovi la maggior parte delle LDL circolanti (che sono le lipoproteine a più alto rischio aterogenico), con successiva reintroduzione in circolo del sangue così filtrato: questa metodica consentirebbe di curare i soggetti con ipercolesterolemia ereditaria (refrattari a terapie farmacologiche), riducendo l'evoluzione delle lesioni ateromatose.

 

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I FARMACI UTILIZZABILI IN TERAPIA

È già stato premesso che l'uso di qualsiasi farmaco presuppone comunque e senza alcuna esclusione una modificazione definitiva e radicale delle abitudini alimentari: solo a questo livello un farmaco è in grado di agire in modo veramente efficace. L'uso dei farmaci, qualora deciso dal medico, deve sempre avere significato di trattamento continuativo, ovvero la terapia con farmaci, per essere efficace, dovrà essere mantenuta tutta la vita e l'assunzione del farmaco non andrà mai interrotta, a meno dell'insorgenza di effetti collaterali che facciano sospendere la terapia con un certo farmaco, che andrà però sostituito con un altro. Talvolta sono suggerite le cosiddette «finestre terapeutiche», ovvero periodi transitori in cui l'assunzione del farmaco è sospesa per poi venire ripristinata (per esempio, periodi di trattamenti di due o tre mesi alternati con periodi di sospensione di due o tre settimane), ma non è mai stato dimostrato che tali sospensioni provvisorie riescano a ridurre i rischi di complicanze dell'aterosclerosi; a maggior ragione, una terapia consistente nell'assunzione del farmaco per poche settimane all'anno sarebbe assolutamente inutile.

I farmaci attualmente a disposizione del medico sono molteplici, come molteplici sono i meccanismi d'azione che questi esercitano per ridurre i livelli plasmatici del colesterolo. Esistono sostanze che impediscono l'assorbimento intestinale dei lipidi alimentari (resine a scambio ionico, sequestranti degli acidi biliari) e che vengono considerati farmaci di prima scelta: pur essendo estremamente efficaci, sono tuttavia poco usati per la «scomodità» della loro assunzione da parte del paziente.

Altri farmaci, detti di seconda scelta, possono agire con diversi meccanismi, inibendo la sintesi del colesterolo (con azione diretta sulla HMG CoA Reduttasi, cui si è già accennato parlando del metabolismo delle lipoproteine) od inducendo un aumento della sintesi di HDL con parallela riduzione della sintesi di LDL; vi sono, infine, altri presidi farmacologici interessanti, anche per il meccanismo d'azione, ma in ogni caso si rimanda, per una disamina attenta di ogni singolo principio attivo, ai testi specialistici.

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ABBREVIAZIONI, SIGLE, TERMINI TECNICI IMPIEGATI NEL TESTO

ALFA LIPOPROTEINE:

sinonimo di HDL.

APO A

apoproteina principale delle HDL.

APO B

apoproteina principale delle LDL.

APO

abbreviazione per «apoproteina».

APOPROTEINE

componente proteica delle lipoproteine; le varie apoproteine sono identificate da una lettera e/o numeri (es. apo AI, AII, B, CII, CIII).

BETA LIPOPROTEINE

sinonimo di LDL.

CHILOMICRONI

lipoproteine di notevoli dimensioni, molto ricche in trigliceridi, normalmente presenti nel sangue solo dopo il pasto.

COLESTEROLOLEMIA

livello ematico del colesterolo totale, uguale alla somma del colesterolo trasportato dalle varie lipoproteine.

COLESTEROLO-HDL

colesterolo trasportato dalle HDL, considerato protettivo in quanto rappresenta la quota del colesterolo totale in fase di rimozione dei tessuti.

COLESTEROLO-LDL

colesterolo veicolato dalle LDL, fortemente aterogeno.

COLESTEROLO

sostanza normalmente presente nell'organismo umano, impropriamente classificato tra i grassi, utile per funzioni plastiche e per la sintesi di alcuni ormoni. L'eccesso di colesterolo può indurre aterosclerosi.

DISLIPIDEMIA

cfr. iperlipoproteinemia.

DISLIPOPROTEINEMIA

cfr. iperliproteinemia.

FATTORE DI RISCHIO

qualsiasi fattore che risulti più frequente nei soggetti affetti da malattia piuttosto che non nei soggetti esenti. Tra i principali fattori di rischio per l'aterosclerosi: colesterolemia, fumo di sigaretta, ipertensione arteriosa, diabete, sesso maschile, età, ecc.

FOSFOLIPIDI

sostanze con caratteristiche anfotere (in parte idrofile in parte idrofobe) utilizzate dall'organismo per funzioni plastiche.

HDL: High Density Lipoproteins (lipoproteine ad alta densità), considerate protettive, ricche di fosfolipidi.

INCIDENZA

numero di nuovi eventi di una malattia in una certa popolazione e in un certo lasso di tempo (usualmente espressa ogni 100.000 cittadini per anno).

IPERDISLIPIDEMIA

cfr. iperlipoproteinemia.

IPERLIPIDEMIA

cfr. iperlipoproteinemia

IPERLIPOPROTEINEMIA

malattia che determina aumento di concentrazione di una o più classi di lipoproteine nel sangue. Le i. possono essere primitive o secondarie. Il suffisso «dis» (lipoproteinemia) dovrebbe essere utilizzato in presenza di alterazioni qualitative, più che quantitative, delle lipoproteine circolanti, ma per semplicità, i vari termini (dis-lipidemia), -lipoproteinemia, iper-lipidemia, -lipoproteinemia, iperdislipidemia) si considerano sinonimi.

LDL

Low Density Lipoproteins (lipoproteine a densità bassa), aterogene, molto ricche in colesterolo.

LIPOPROTEINE

macromolecole circolanti nel sangue, composte da lipidi (trigliceridi), da colestero, da fosfolipidi e da proteine (apoproteine).

LPL

lipasi lipoproteica, enzima deputato da catabolismo dei chilomicroni e delle VLDL.

MORBILITÀ

cfr. incidenza, ma riferita solo ad eventi non fatali.

MORTALITÀ

cfr. incidenza, ma riferita solo ad eventi fatali.

PREBETA LIPOPROTEINE

sinonimo di VLDL.

PREVALENZA

frequenza di una data malattia in una data popolazione (usualmente riportata in percentuale rispetto ad altre malattie o al totale delle malattie).

TRIGLICERIDEMIA

livello dei trigliceridi plasmatici totali.

TRIGLICERIDI

esteri del glicerolo, propriamente classificabili tra i lipidi, servono all'organismo per funzioni energetiche e di deposito (nel tessuto adiposo).

VLDL

Very Low Density Lipoproteins (lipoproteine a densità molto bassa), ricche in trigliceridi.

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