LA VITA AFFETTIVA
Come
si è detto nel capitolo precedente, le strutture nervose sono soltanto le
mediatrici dell'attività psichica e non possono condizionarne il valore.
La stimolazione elettrica del cervello produce fenomeni che sembrano eguali a
quelli psichici, ma che in realtà sono qualitativamente del tutto
diversi. Per fare un paragone, si immagini una massaia che piange mentre taglia
una cipolla: si può forse affermare che in tale circostanza le sue sono
lacrime di commozione? Ecco un altro esempio: quando il medico colpisce con un
martelletto il ginocchio del paziente, provoca un riflesso per cui la gamba si
estende; ma questo stesso movimento può essere compiuto anche da chi
dà un calcio ad un pallone. Quindi occorre distinguere fra il colpo di
martelletto del medico, che provoca un'azione involontaria, e il colpo dato al
pallone che è la conseguenza di un movimento
intenzionale.
Si comprende quindi come la
stimolazione elettrica della corteccia del cervello induca niente altro che un
riflesso, quindi non possa originare un contenuto intenzionale da parte del
paziente. Al massimo gli conferisce un'intonazione, una «colorazione»
emotiva simile a quella provocata dall'ipnosi. E se la stimolazione elettrica
cerebrale può condizionare un animale, non si può dire la stessa
cosa dell'uomo, a causa del suo alto grado di ragionevolezza e di
coscienza.
Quando lo sperimentatore provoca, ad
esempio, la paura, premendo un pulsante che comanda a distanza una corrente
elettrica in questa o in quella zona cerebrale, che cosa fa? Riproduce nel
cervello i fenomeni elettrici che accompagnano la paura naturale, di origine
propriamente psichica. Ora, non sarebbe strano che la stessa corrente, immessa
nello stesso punto, non vi producesse i medesimi effetti? La stimolazione
elettrica cerebrale non fa altro che provocare il «corto circuito» di
un processo naturale, ma non offre alcuna indicazione sulla vera natura del
pensiero. Si limita a mettere in azione, con una specie di esca, i fenomeni
naturali che sempre si accompagnano con quelli emotivi e razionali. A questo
livello, il problema di fondo resta dunque
insoluto.
Nella vita normale, quando l'uomo ha
paura, è a causa di qualcosa. Quando ha fame è per bisogno di
cibo, ed è per bisogno di acqua che ha sete. Gli esperimenti di
stimolazione elettrica del cervello mettono in disaccordo questa connivenza fra
la soggettività (paura, fame, sete, ecc.) e la realtà fisica
(oggetto di paura, bisogno di nutrimento, d'acqua, ecc.). Possono finanche
metterle in contraddizione. Ma si potrebbe arrivare a questo se non si trattasse
di due realtà differenti? Le indagini che si compiono mediante la
stimolazione elettrica del cervello dimostrano infatti che la vita soggettiva,
la quale normalmente e come «incollata» agli avvenimenti della vita
fisica - così bene «incollata» che generalmente non siamo in
grado di distinguere l'una dall'altra - può esserne artificialmente
separata. Ed ecco che tali indagini giungono al risultato di mettere ancora
più in evidenza il carattere profondamente misterioso del
pensiero.
L'organizzazione strutturale di
ciò che appartiene propriamente alla vita mentale, vale a dire
l'affettività e l'intelligenza, è ancora mal conosciuta. Non vi
è dubbio che una perturbazione dell'attività cerebrale provoca
perturbazioni psichiche: stati patologici come le atrofie progressive del
cervello, le encefalopatie metaboliche o infettive, i tumori cerebrali, sono in
grado di menomare le capacità intellettuali, di modificare
l'affettività, di suscitare stati deliranti e sindromi molto simili a
quelle della schizofrenia e
dell'isterismo.
Tuttavia occorre sottolineare
l'imprecisione di queste correlazioni anatomo-cliniche. È vero che nella
maggior parte dei casi esiste una concordanza tra la gravità delle
devastazioni neuroniche del cervello e il grado di deterioramento intellettuale
di una demenza; ed è altrettanto vero che alterazioni dei lobi frontali
si traducono in una diminuzione dell'affettività, e non in un disturbo
dell'intelligenza. Ma oggi il neurofisiologo non pretende di trovare nella
materia cerebrale le alterazioni anatomiche o funzionali responsabili dei deliri
e degli stati psicotici complessi collegati con svariate malattie organiche. Lo
studio delle anomalie istologiche dei neuroni è ancora grossolano e le
modificazioni osservate non spiegano la qualità dei disturbi mentali.
Inoltre, quando le lesioni si trovano in una stessa area cerebrale, un disturbo
psichico si manifesta sotto forme molto diverse perché, nella sua
origine, la personalità del malato costituisce un fattore
essenziale.
Se, mettendo insieme le acquisizioni
che i vari rami della scienza hanno raggiunto nei riguardi del cervello umano,
si cerca di conoscere con più precisione l'organizzazione
anatomo-funzionale dell'affettività e dell'intelligenza, si arriva alla
constatazione che non se ne sa quasi nulla. La vita affettiva non sfugge al
principio dei livelli funzionali
gerarchizzati.
Nella massa del cervello, nel
diencefalo, hanno sede dei dispositivi la cui stimolazione o distruzione
modifica gli istinti (come la sete, la fame, il bisogno sessuale) esaltandoli o
sopprimendoli nella loro forma più semplice, cioè una specie di
impulso.
Queste strutture elementari sono integrate
in una parte del cervello che fa la sua apparizione molto presto nella scala dei
vertebrati: si tratta del rinencefalo o «sistema limbico»: a questo
livello, gli impulsi istintivi vengono inseriti in un comportamento la cui
finalità è la preservazione dell'individuo e della specie.
Nell'uomo, questo livello funzionale è interamente dominato dalle
strutture superiori della corteccia cerebrale. È però impossibile
determinare rigorosamente la funzione svolta dai differenti settori del cervello
umano nei comportamenti affettivi, benché si sappia con certezza che i
lobi frontali vi hanno una parte di primo piano.
La
vita intellettuale, non meno delle altre forme del pensiero, dipende dalle
strutture nervose; ma si sa ben poco riguardo alle condizioni della sua comparsa
e del suo svolgimento normale. La patologia nervosa mostra che lesioni diffuse
del cervello provocano deterioramenti dell'intelligenza, ma anche che essa
può restare intatta dopo l'asportazione di vaste regioni cerebrali.
Inoltre, molte alterazioni alle quali si attribuiscono caratteri intellettuali e
che sono il risultato di lesioni focali (del lobo parietale, per esempio) sono
più apparenti che reali: il malato perde i mezzi o, per così dire,
la strumentalità dell'intelligenza; ma se egli viene sottoposto a dei
test psicologici per determinare i disturbi dei gesti, dell'orientamento nello
spazio, del linguaggio e così via, si riscontra che le capacità
operative e dell'intelligenza generale non sono fatalmente
compromesse.
Queste osservazioni, derivanti dalla
patologia e dai controlli della psicologia sperimentale, sono in accordo con la
neurofisiologia per mostrare che la distinzione tradizionale fra sensazione e
percezione non trova una semplice corrispondenza nelle organizzazioni nervose,
perché non esiste un sistema definito per cui la sensazione si
prolungherebbe in un altro supporto destinato alla percezione. Oggi si comincia
a comprendere, invece, che questo processo si svolge in una successione di
sistemi di integrazione senza che sia possibile attribuire il fenomeno
psicologico della percezione all'uno o all'altro di tali sistemi
.
Facendo ricorso a un linguaggio che oggi appare
troppo generale e troppo semplice, spesso si usa riunire i fattori che
intervengono nel pensiero in tre categorie: le motivazioni affettive (in
particolare il significato affettivo delle varie situazioni), i risultati delle
passate esperienze (che intervengono nei processi di apprendimento e nella
struttura della personalità), e infine le capacità intellettuali.
Il valore obiettivo di questi fattori si può, senza dubbio misurare e
discernere. Ma le acquisizioni dell'uomo, i suoi comportamenti, i suoi pensieri,
non sono riassumibili soltanto in termini di apprendimento e di comportamento
acquisiti. L'uomo è capace di induzione e di deduzione, è in grado
di prendere coscienza riflessa di quello che sente, di quello che pensa, di
quello che fa.
Ciò che si conosce sul
funzionamento del sistema nervoso induce a ritenere che non vi sia differenza di
natura tra i riflessi più semplici, i più geneticamente
determinati, e i meccanismi più elevati, più complessi, meno
determinati alla nascita, ossia quelli che si elaborano nel corso della vita
sotto la pressione degli scambi incessanti fra l'individuo e il mondo esterno.
Per tale ragione, l'organizzazione anatomo-funzionale del sistema nervoso non
lascia finora intravedere ai neurofisiologi qualcosa di estraneo che autorizzi a
porre l'uomo al di fuori dell'evoluzione biologica.
IL PENSIERO E LA COSCIENZA
Questa evoluzione mostra,
infatti, un succedersi di progressi verso una «perfezione». Si tratta,
in realtà, di una «differenziazione accresciuta delle
possibilità di adattamento alle esigenze variate che le differenti specie
incontrano nel loro rispettivo ambiente» (Walter Riese). Lo stesso concetto
scaturisce dall'analisi, non più della materia cerebrale, ma del
comportamento degli esseri viventi. «Quando un comportamento raggiunge un
certo grado di complessità, comincia ad assumere un aspetto mentale»
(J. Lhermitte). Ma è difficile fissare, nella scala evolutiva degli
animali, il limite al di qua del quale non esiste attività mentale, e al
di là del quale tale attività fa la sua apparizione. Espressioni
come «istinto» e «comportamento universale» nascondono
troppo spesso l'intento di ridurre le attività animali a una semplice
meccanica biologica per mettere in evidenza che la vera natura mentale dell'uomo
è differente.
Occorre invece restringere le
valutazioni sulla base dei fatti osservati. Una presa di posizione del genere
è riscontrabile, per esempio, in una dottrina psicologica sorta alcuni
decenni fa negli Stati Uniti, quella del behaviorismo, fondata da Watson: la
mente è l'aspetto di un adattamento dei processi biologici; è
l'insieme delle funzioni intellettive che veglia alla salvaguardia
dell'organismo; la mente è il comportamento dell'organismo, e questo
comportamento niente altro che una forma speciale di eventi
fisiologici.
Ma resta sempre il fatto che le
ricerche fisiologiche non spiegano la natura di questa attività
immateriale della mente. Esse si limitano a chiarire le controparti fisiche dei
fenomeni psicologici; e occorre riconoscere che questi chiarimenti sono ancora
scarsi. Ogni volta che una nuova tecnica di indagine viene scoperta, sorge la
speranza di trovare una corrispondenza fisica della vita mentale. Un esempio
tipico è quello dell'elettroencefalografia, la quale ha fatto sorgere
speranze che sono andate deluse. I più recenti perfezionamenti apportati
alla tecnica elettroencefalografica (come la toposcopia, l'accumulo e
l'elaborazione dei dati per mezzo di calcolatori elettronici, ecc.) permettono
senza dubbio di migliorarla. Ma, come si è già detto, è
un'illusione credere che sarà possibile registrare le attività del
pensiero raccogliendo le correnti elettriche cerebrali. Altre tecniche di
indagine dell'attività nervosa, come la neurochimica, sono appena
all'inizio e non lasciano intravedere la possibilità di cogliere il nesso
fra attività nervosa e attività
mentale.
Oggi si può solo dire che la vita
del cervello e la vita della mente appartengono a uno stesso fenomeno, ma visto
sotto punti di vista differenti. È semplicistico e falso credere che il
pensiero sia inserito nella materia come una sostanza prodotta dai neuroni.
Sostenere che esso costituisce un'entità distinta è altrettanto
falso, perché questa affermazione porta a negare la relazione interna che
esiste fra cervello e mente. Materia e mente non si incontrano in un punto di
giunzione; e non sono nemmeno due entità che si influenzerebbero a
vicenda. Hanno qualcosa in comune, una relazione interna che però non si
sa in cosa consiste. Non vi è dubbio che la scienza continuerà ad
approfondirsi nelle correlazioni fra il cervello e il pensiero. Ma
riuscirà a cogliere la natura dei loro legami? La prudenza e la ragione
consigliano di non azzardare una risposta su tale
interrogativo.
Ci si può anche chiedere se
questo problema non superi le capacità umane. Il pensiero è legato
alla materia, ma la sua essenza è immateriale. Esso diventa accessibile
quando si inserisce in una struttura materiale che l'uomo è in grado di
cogliere, come i comportamenti e il linguaggio. L'uomo non percepisce altro che
un mondo a tre dimensioni in movimento nel tempo; è in grado di
apprendere solo i fenomeni trasformati in un elemento fisico che egli può
raccogliere per mezzo dei suoi sensi e integrare nel suo
cervello.
Se si considera schematicamente
l'organizzazione di tutto il sistema nervoso, si riscontra che essa si fonda su
vie di entrata, su percorsi più o meno complicati e su vie di uscita. È
possibile misurare le qualità fisiche e i messaggi che giungono al
sistema nervoso, e così anche le risposte che esso dà mettendo in
azione i muscoli. Questa organizzazione diventa sempre più complessa
dagli animali fino all'uomo, ma il suo principio è il medesimo. In tale
evoluzione, il pensiero diventa un'attività sempre più dominante,
ma senza che la scienza sia in grado di scoprire altre modificazioni
strutturali, oltre a quelle che consistono in un maggior numero di neuroni e in
un più complesso sistema di fibre nervose di passaggio e di unione. Nel
sistema nervoso degli animali ai quali è attribuibile una forma di
attività mentale, e così anche nel sistema nervoso dell'uomo, non
è possibile riscontrare una qualche struttura interpretabile come una
«via di uscita» propria del pensiero. L'individuo umano è in
grado di prendere coscienza del proprio pensiero, ma può comunicarlo
soltanto mettendo in azione i muscoli, muovendosi e parlando. Ciò che
può misurare, sono soltanto queste attività e la forma fisica dei
messaggi attraverso i quali il pensiero trova la sua espressione materiale.
L'uomo è sensibile al loro contenuto psicologico, ma non è per
mezzo di essi che può materializzare il pensiero. Quindi, dal punto di
vista della biologia, bisogna accettare l'ignoto e resistere alla tentazione di
colmarlo con un ragionamento speculativo.
Uno dei
maggiori insegnamenti della psicologia è che la libertà, di cui
l'uomo evoluto va così fiero, non è un dono naturale, ma una
conquista. L'uomo non nasce libero, perché la sua personalità si
costruisce e viene determinata in gran parte dalle forze esterne che agiscono su
di lui. «Date a una calamita la coscienza dei suoi movimenti»,
scriveva Leibniz, «e potrà credere che dipendono solo da essa
perché non sentirebbe le attrazioni impercettibili del magnetismo
terrestre. Così accade agli uomini che non avvertono gli impulsi delle
loro percezioni confuse».
Il più grande
mistero dell'uomo è la coscienza, un fenomeno dotato di una
singolarità assoluta, perché ogni essere umano, in quanto
cosciente, è unico da un capo all'altro dello spazio e del tempo. Si
può immaginare che in futuro la tecnica riesca a realizzare macchine in
grado di simulare il pensiero umano. Ma i loro costruttori saranno incapaci di
conferire ad esse una coscienza individuale simile a quella umana, cioè
la capacità di percepire, di gioire, di soffrire, di provare un
sentimento. La coscienza umana è basata, come l'immaginario cervello
cibernetico del futuro, su una struttura materiale. Ma tale struttura, quel
cervello artificiale non sarà in grado di
conoscerla.
Nessuno sa dove si trovi la sede della
coscienza. Una volta si riteneva che risiedesse nella corteccia cerebrale,
perché si sapeva che una parte di essa costituiva la stazione ricevente
della vista, un'altra parte quella dell'udito, altre ancora della parola e della
rappresentazione senso-motoria delle parti del corpo. Quindi sembrava logico
associare la coscienza con le «zone alte» del cervello. Ma oggi
è noto che tutti, o quasi tutti, questi centri corticali possono essere
distrutti senza abolire la coscienza; e pare dimostrato che l'area essenziale
per il mantenimento di tale stato sia costituita dal diencefalo, cioè da
quel complicato sistema di formazioni di sostanza grigia che è inglobato
al centro della massa cerebrale e collegato alla corteccia da connessioni
neuroniche nei due sensi.
Il diencefalo regola le
funzioni neurovegetative (cioè del sistema nervoso simpatico e
Parasimpatico) e per conseguenza della emotività. Esperimenti eseguiti
con estrema delicatezza e precisione hanno permesso di individuare le zone del
diencefalo dalla cui stimolazione dipendono non solo la pressione sanguigna la
respirazione e altre attività, ma anche il sonno e la veglia e persino
gli atteggiamenti caratteristici della difesa, dell'aggressione e della
fuga.
Pare che nel diencefalo, dove convergono
circuiti neuronici sensori e motori, non solo si trovino zone con funzione
specifica, ma si svolga anche una funzione coordinatrice ed integratrice del
sistema nervoso centrale. Nel diencefalo si formerebbero dei «modelli»
globali che sarebbero poi riverberati alla
corteccia.
Tuttavia non si può affermare che
il diencefalo sia proprio la sede della coscienza, anche se controlla ampie aree
cerebrali interessate nelle normali fluttuazioni della coscienza associate con
il sonno e la veglia. È stato dimostrato che il diencefalo contiene un
«centro della veglia» la cui distruzione provoca il permanere di uno
stato di incoscienza che assomiglia al sonno, ma che non interrompe le
principali vie sensitive della vista, dell'udito e del
dolore.
Esperimenti compiuti sul gatto, nel quale
il diencefalo era stato distrutto, hanno dimostrato che l'animale può
essere svegliato da un forte suono, da una luce violenta proiettata nei suoi
occhi o dalla vivace stimolazione di un nervo sensitivo, ma ricade presto nel
suo stato di sonno; d'altra parte, se il centro della veglia resta intatto,
l'animale si sveglia e si riaddormenta regolarmente anche se tutti i principali
sistemi della sua sensibilità sono tagliati in modo che i segnali sensori
- una volta ritenuti importantissimi per la conservazione della coscienza - non
siano in grado di raggiungere il cervello per le normali vie dirette. Secondo i
neurofisiologi, queste osservazioni sono valide anche per
l'uomo.
Sede del centro della veglia è una
parte del diencefalo (descritta da Moruzzi e Magoun nel 1949) nota come
«formazione reticolare». Si tratta di un'esile struttura a rete,
costituita da cellule nervose poste fuori dalle principali vie di conduzione
motoria e sensoria. Si trova nella regione centrale dei peduncoli cerebrali e si
estende oltre il diencefalo, lungo il sistema nervoso centrale. La formazione
reticolare ha funzione di sentinella nei riguardi della corteccia cerebrale: ne
risveglia e mantiene l'attività. È un apparato regolatore, ma non il
centro della coscienza.
La parte superiore della
formazione reticolare facilita l'attività di altre parti del cervello e
del midollo spinale, mentre la sua parte inferiore inibisce le stesse
attività. Il centro della veglia è posto nella sua parte alta e
agisce contemporaneamente sull'intera corteccia cerebrale, al contrario di ogni
singolo sistema sensorio che influenza solo parti limitate di essa. Il potere
del centro della veglia di influenzare la corteccia come un tutto unico sembra
essere strettamente correlata con la sua capacità di risvegliare
l'animale che dorme.
Di solito, un individuo
dormiente è svegliato facilmente dalle stimolazioni sensitive,
soprattutto se lo stimolo è intenso. Gli stimoli dolorosi lo svegliano
assai meglio della luce e del suono. Sembra che non siano i segnali sensitivi a
svegliare l'individuo, ma che essi attivino il centro della veglia per mezzo di
rami collaterali della principale via sensitiva.
La
formazione reticolare possiede pure la capacità di selezionare gli
stimoli, cioè di eliminare la trasmissione, ai centri della corteccia, di
quegli impulsi nervosi che arrivano ai peduncoli cerebrali attraverso nervi
sensori e che disturberebbero una condotta appropriata in una determinata
situazione. Così la selezione degli stimoli nel processo della percezione
avverrebbe già nella formazione
reticolare.
Il neurochirurgo canadese Penfield
ritiene che nessuna delle aree della corteccia cerebrale collegate al diencefalo
possa funzionare indipendentemente da esso: gli impulsi nervosi provenienti
dalle aree corticali sarebbero organizzati nel diencefalo formando, come si
è detto, un «modello» neuronico, riflesso alla corteccia, dove
lascerebbe una traccia. La stimolazione della corteccia farebbe rivivere queste
tracce del «modello» che, di nuovo riflesse al diencefalo,
diventerebbero coscienti. Penfield ammette che si tratta di una supposizione
molto ardita, che sarebbe però fondata su quanto la sua esperienza
neurochirurgica gli ha mostrato, in particolare per ciò che riguarda la
rievocazione dei ricordi. Rimane, come egli riconosce, il grande mistero della
trasformazione di impulsi nervosi in pensiero e, soprattutto resta inspiegabile
il fenomeno della coscienza.
Si è detto che
la coscienza dipende dalla formazione reticolare, ma che questa struttura ha una
funzione di vigilanza, non di coscienza vera e propria. Nella sua accezione
psicologica, la coscienza ha un significato di gran lunga più vasto: essa
racchiude l'insieme dei fenomeni mentali; sostiene la sorprendente
continuità dell'esistenza; contiene ciò che l'individuo ha di
più personale, nei suoi ricordi, nei suoi pensieri, nei suoi sentimenti.
Quindi sarebbe un grave errore volerla localizzare in qualche parte del
cervello, perché essa è la sintesi di molte
attività.
La psicologia, giunta alla scienza
come un ramo della filosofia, tenta di gettare luce sui misteri della mente
umana con il metodo sperimentale. Tuttavia non è riuscita ancora a
liberarsi del tutto dal suo vizio di origine, cioè dalle speculazioni
aprioristiche della filosofia; anzi spesso si pone non come una integrazione, ma
come una contrapposizione della neurofisiologia. La psicologia lavora su un
materiale estremamente labile, e perciò le sue acquisizioni sono spesso
incerte e discutibili. Ma la sua maggiore scoperta, valida anche se non trova
correlazioni con la neurofisiologia, è quella dell'inconscio che ha
trovato nella psicoanalisi la sua più persuasiva
interpretazione.
La psicoanalisi è
più che mai di moda. Ovunque si parla e si scrive di
«complessi», di «inconscio», di «frustrazione», di
«libido», di «sublimazione», di «super-Io», di
«ambivalenza», di «archetipo». Per sfoggio di cultura si fa
un grande spreco di espressioni psicoanalitiche, ma senza conoscerne il vero
significato. Libri, quadri, sculture, musiche si ispirano spesso a pretesi
motivi psicoanalitici; poeti, scrittori, artisti concepiscono tematiche
più o meno colorate di una psicoanalisi d'accatto. E con tutto questo la
psicoanalisi è ancora una grande
sconosciuta.
Che cos'è dunque la
psicoanalisi? Anzitutto una scienza dei processi mentali inconsci, quindi un
mezzo di conoscenza che permette all'individuo umano di vedersi non «come
crede di essere», ma «come è». Prima ancora che ai malati,
la psicoanalisi si rivolge ai sani come un metodo per individuare i meccanismi
mentali inconsci sia propri sia altrui, in definitiva come una grande scuola di
umanità e di comprensione. L'apprendimento degli elementi su cui si basa
la psicoanalisi permette all'individuo di capire meglio se stesso, le sue
emozioni, i suoi affetti, il movente delle sue azioni, e di comprendere meglio
gli altri. Perciò la psicoanalisi offre a tutti la possibilità di
migliorarli e di migliorare i rapporti affettivi, familiari e
sociali.
Come Galileo con il suo cannocchiale
astronomico dilatò i confini del cielo visibile, così Freud con il
suo microscopio psicoanalitico ampliò i confini della mente umana.
Galileo contribuì a demolire il concetto che la Terra fosse il centro del
cosmo; Freud che la coscienza fosse il centro dell'universo psichico. Entrambi
infersero un duro colpo alla vanità dell'uomo. Alla vanità che
proviene dall'ignoranza e dalla paura.
Per
comprendere che cos'è l'inconscio, si immagini un uomo in barca che rema
su un lago. Il rematore è l'uomo cosciente che conduce la barca della
propria vita. La superficie del lago è la sua coscienza. Al di sotto di
essa, fino al fondo del lago, si estende il suo inconscio che, dall'alto in
basso, si suddivide in 6 livelli differenti: rispettivamente il super-Io, la
censura, l'Io, i I subconscio, l'inconscio generale e l'inconscio
collettivo.
Il rematore non sa che cosa vi sia
sotto la superficie del lago e quanto esso sia profondo. Allo stesso modo
conosce solo la sua vita cosciente, ignora il contenuto e la profondità
del suo inconscio. Ma di tanto in tanto alla superficie del lago giungono
sommovimenti, esplosioni che rischiano di squilibrare la barca: questi fenomeni
indicano che «qualcosa» avviene nell'interno del
lago.
IL MONDO DELL'INCONSCIO
Analogamente, alla superficie
della coscienza umana affiorano sogni o sintomi (ansie, depressioni, nevrosi,
ecc.) che la turbano più o meno fortemente, spesso compromettendo
l'equilibrio della vita, e che indicano un'attività dell'inconscio. È
come il rematore può essere capace di immergersi per vedere che cosa
avviene nel lago, così l'uomo è in grado, grazie alla
psicoanalisi, di esplorare le misteriose profondità del suo
inconscio.
L'inconscio comprende tutta la zona che
si trova al di sotto della coscienza, dal super-Io all'inconscio collettivo.
L'inconscio racchiude elementi (istinti, abitudini, ricordi, motivazioni, ecc.)
che possono salire alla superficie della coscienza spontaneamente, oppure
mediante un procedimento tecnico (ipnosi, elettrochoc, narcoanalisi,
psicoanalisi, ecc.).
La sua zona più
profonda è l'inconscio collettivo che conserva le esperienze primordiali
accumulate dalla specie umana, e dai suoi antenati del mondo animale, attraverso
milioni d'anni di evoluzione biologica. Al di sopra dell'inconscio collettivo vi
è l'inconscio generale, più differenziato del precedente. E questa
differenziazione aumenta mentre si sale verso il sub-cosciente, l'Io e il
super-Io.
L'inconscio ha origine dal corpo e dalla
mente, dallo stato di salute e di malattia, da fattori ereditari e da esperienze
personali, dalla cultura e dall'educazione, dal clima geografico, sociale,
religioso: è formato insomma da svariatissimi elementi. L'inconscio ha
una forza e una potenza sorprendenti, come è possibile constatare sia
quando le circostanze della vita mobilitano tutte le energie psichiche
interiori, sia quando si manifestano disturbi della personalità (nevrosi,
ecc.) e malattie organiche (Psicosomatiche).
Il
subcosciente (che si chiama anche a «inconscio personale» o Id)
è quella zona dell'inconscio da cui scaturiscono tutti gli istinti e da
cui partono gli impulsi tendenti a soddisfarli. Ma solo una parte di essi riesce
a salire fino alla superficie della coscienza. Per farli emergere, occorrono
certi stati particolari (sogni, ipnosi, elettrochoc, narcoanalisi, psicoanalisi,
ecc.). Nel subcosciente si trovano ricordi e sentimenti «dimenticati»,
molti dei quali dotati di una carica emotiva che provoca disturbi della
personalità e che si manifesta attraverso sintomi che affiorano o
esplodono alla superficie della coscienza. Per esempio, una persona soffre di
angoscia: questa angoscia non è una malattia, ma il sintomo di una
malattia che si trova nel subcosciente.
Il
complesso (di cui tanto si parla senza conoscerne il significato) è un
«insieme», un «groviglio» di immagini, di ricordi, di idee,
affini e fortemente caricati di emozioni spiacevoli o dolorose, che si trova a
livello del subcosciente. Il complesso si forma in seguito al continuo accumulo
di impulsi del subosciente «rimossi» (respinti) dal super-Io. Il
complesso, quindi, è il risultato di una lotta interiore che si svolge
fra il subcosciente e il super-Io. Come noi non ci rendiamo conto degli impulsi
subconsci, così non ci accorgiamo di questa lotta né dei complessi
che essa genera. Siamo consapevoli solo dei sintomi - le «esplosioni»,
i sommovimenti alla .superficie della coscienza - generati dai complessi che
così influenzano indirettamente il nostro
comportamento.
I maggiori complessi (di Edipo, di
Elettra, di Diana, di Caino, ecc.) si formano automaticamente nell'infanzia e
sono del tutto normali: corrispondono a certe crisi di adattamento e possono
scomparire con rapidità. Ma se ciò non avviene, si fissano
tenacemente nel subcosciente, si complicano sempre più e possono restare
operanti anche per l'intera vita, provocando nevrosi o disturbi del
comportamento.
L'Io, a sua volta, è la
personalità propria di ogni individuo. Noi abbiamo coscienza del nostro
lo, sappiamo che non è l'Io degli altri. Eppure esso affonda in gran
parte nell'inconscio perché ha origine dal sub-cosciente. Infatti tutti
noi, nella primissima infanzia, non dicevamo «io», non ci rendevamo
conto di avere una propria individualità, una personalità; poi,
pian piano, abbiamo preso coscienza di noi stessi. Il nostro Io, quindi,
è una parte del nostro subcosciente trasformata dalle circostanze
esterne, differenziata attraverso i processi di percezione; perciò resta
in rapporto molto stretto con il subcosciente, vale a dire con i nostri istinti
profondi. Gran parte del nostro Io resta dunque inconscio e richiede circostanze
particolari per salire alla superficie della coscienza, cioè il
«permesso» della censura.
La censura
proviene dall'educazione e ha il compito di «tagliare» cioè di
impedire la salita, alla superficie della coscienza, di quegli impulsi istintivi
grossolani, sconvenienti, primitivi (aggressività, odio, violenza
sessuale, brutalità, ecc.) che provengono dal subcosciente; oppure di
lasciarli passare, ma trasformati per un fine sociale o morale. La censura che
è nel nostro inconscio, esaminando a uno a uno tutti i nostri impulsi
istintivi, svolge dunque una indispensabile funzione di ordine sociale.
Normalmente tale funzione può venir meno, ma non del tutto, durante il
sonno: la censura allenta la sua sorveglianza, e ciò permette di far
emergere ala coscienza - ossia di ricordare - i sogni attraverso i quali si
esprimono anche i nostri impulsi istintivi che la censura «taglia»
quando siamo svegli.
Il super-Io, infine, è
un Io inibito dalla censura, il risultato di una trasformazione imposta dagli
altri. In senso largo, il super-Io è la parte sociale e morale del nostro
inconscio. Il subcosciente e l'Io sono controllati dalla censura. Il super-Io, a
sua volta, ha un proprio sistema di controllo che è la
«polizia» autonoma e inconscia di ogni individuo, la quale spesso si
trova in feroce opposizione con gli impulsi istintivi del subcosciente. Ed
è a causa di tale opposizione che gli impulsi vietati del super-Io
vengono «rimossi», cioè rinviati al subcosciente da cui
provengono, generando complessi, di conseguenza nevrosi e altri disturbi
psichici e anche organici.
Si tenga presente che
tutto questo meccanismo agisce senza che l'individuo ne sia consapevole. Alla
superficie della sua coscienza affiorano o esplodono solo i sintomi
dell'attività incessante che avviene nei 6 livelli dell'inconscio sopra
descritti.
Fra i più comuni di questi
sintomi vi è il sogno. In passato esso era considerato come un
avvertimento o un consiglio proveniente da una divinità o da un defunto.
E ancor oggi il sogno è oggetto di speculazioni superstiziose.
L'interpretazione psicoanalitica del sogno non ha nulla in comune con la
popolare «Chiave dei sogni» e altre fandonie. Freud diceva che il
sogno «è la strada maestra che porta all'inconscio». Per lui e
per i suoi seguaci, il sogno non è altro che un sintomo del subcosciente
che si presenta spesso sotto forma di simbolo e che è molto utile per
interpretare impulsi, rimozioni, complessi dei pazienti sottoposti alla
psicoterapia.
Si è detto che la censura e il
«poliziotto» del super-Io impediscono il passaggio di certi impulsi
del subcosciente. Tuttavia questi possono riuscire egualmente a salire al
livello della coscienza, eludendo la vigilanza dei guardiani. Ciò avviene
appunto durante il sonno, quando la mente umana affonda verso le sue sorgenti
istintive. Allora gli impulsi del subcosciente hanno via libera: la censura si
rilassa e il «poliziotto» del super-Io rallenta la sorveglianza. E
così nel cervello passa una sfilata di immagini di cui il dormiente
è spettatore. Vi sono persone che affermano di non sognare mai o che sono
incapaci di ricordare i propri sogni. In realtà anch'esse sognano, ma
hanno una censura e un super-Io così sensibili o così rigidi da
impedire la consapevolezza e quindi il ricordo dei
sogni.
Tra le parole che il linguaggio comune ha
preso dalla psicoanalisi, «complesso» è quella di cui si fa il
maggior uso. Si parla e si scrive dei «complessi» propri e altrui,
ignorando però che questi parassiti della mente vivono nel subcosciente
dell'individuo il quale, quindi, non si rende conto della loro esistenza. Tanto
è vero che i complessi dirigono, a nostra insaputa, alcune nostre azioni
dette appunto «complessuali»; azioni a cui attribuiamo motivi che non
sono quelli reali, oppure che facciamo e magari ripetiamo avendo solo il
sentimento che «qualcosa ci obbliga» a eseguirle. Di regola, si
confonde il sintomo, il segno esteriore del complesso, con il complesso vero e
proprio. Per esempio, molto spesso si sente dire: «Ho un complesso di
inferiorità». Invece bisogna dire: «Ho dei sentimenti di
inferiorità che sono i sintomi di un complesso (il quale potrebbe non
essere di inferiorità) presente nel mio
subcosciente».
Nella terminologia
psicoanalitica, vi è una grande differenza di significato fra repressione
e rimozione. La repressione è un fenomeno cosciente: essa si verifica
quando un impulso diventa cosciente, ossia la persona si rende conto di un
desiderio ma lo respinge volontariamente e coscientemente perché
contrario alle sue convinzioni. La rimozione, invece, è un processo
psicologico inconscio: l'impulso viene respinto dal super-Io prima di arrivare
alla coscienza. Ciò vuol dire, quindi, che noi non sappiamo mai se, in un
dato momento, il nostro inconscio sta rimuovendo qualche impulso. Vi è
solo la possibilità che gli effetti di questa rimozione salgano alla
superficie della coscienza sotto forma di sintomi svariatissimi, che vanno dai
sogni alle idee fisse, dalle nevrosi a certe malattie
psicosomatiche.
La rimozione diventa una forma di
«costipazione mentale» molto dannosa quando, in conseguenza di una
educazione troppo rigida, il super-Io esercita una rimozione eccessiva degli
impulsi istintivi: allora l'individuo perde ogni spontaneità, diventa un
«inibito» e, a sua volta, impone le proprie inibizioni a coloro che lo
circondano, a cominciare dai familiari. Invece nell'individuo educato bene,
aperto e equilibrato gli impulsi affiorano in gran parte alla coscienza per
essere accettati o repressi volontariamente: è questo l'individuo che
realizza il motto socratico «conosci te
stesso».
La vita quotidiana presenta casi
svariatissimi, originati però da questo unico meccanismo: un impulso
istintivo moralmente o socialmente sconveniente viene lasciato passare dal
«poliziotto» che vigila nel super-Io, ossia riesce a giungere alla
superficie della coscienza; ma sotto mentite spoglie, come un selvaggio vestito
di abiti civili. Ecco l'esempio maggiore: la sessualità è il campo
più degli altri controllato dal super-Io, quindi più degli altri
soggetto a divieti, a tabù, e di conseguenza a rimozioni, oppure a
camuffamenti.
Ora, se si passa in rassegna il
contenuto delle barzellette e di ogni altro racconto comico, si riscontra che
quasi sempre esso è di argomento sessuale; e che quella barzelletta, quel
racconto non sono altro che deformazioni dell'impulso sessuale primitivo,
lasciate passare dal «poliziotto» del super-Io senza che colui che li
espone e coloro che ne ridono si rendano conto di ciò. In altre parole,
gli impulsi primitivi della sessualità, con quel tanto di sadico e di
masochistico, che essi contengono, hanno via libera purché presentati
sotto forma di barzelletta, di scherzo.
D'altra
parte, una educazione male impartita può fare della sessualità un
terreno di malattia, se il «poliziotto» del super-Io è
così severo da rimuovere anche gli impulsi sessuali ammissibili. In tal
caso vi è una battaglia interiore costante, sorda, accanita, fra il
subcosciente e il super-Io fino al complesso e alla nevrosi. Ora, non è
preferibile constatare coscientemente un impulso sessuale (anche proibito dal
punto di vista della morale) e reprimerlo con la volontà, piuttosto che
rimuoverlo inconsciamente con tutte le lotte e tutti i guasti che rimozioni del
genere possono provocare?
Il subcosciente, di cui
la psicoanalisi ha messo in risalto l'enorme importanza nella vita mentale, non
è giudicabile con il metro della moralità. Esso si trova, per
così dire, «al di là del bene e del male» perché
forma la giungla dei nostri istinti, delle nostre tendenze, dei nostri desideri,
anche di quelli inconfessati o inconfessabili. Il lupo che divora l'agnello non
è crudele: «crudele» è la traduzione morale che noi
diamo al suo atto il quale, in realtà, è puramente istintivo,
quindi al di fuori di ogni giudizio etico. Allo stesso modo, il bambino che non
ha ancora coscienza del proprio Io non è morale né immorale
perché vive ancora a un livello subconscio, che è quello dei suoi
istinti profondi.
Il subcosciente è dunque
al di fuori della morale, l'ignora, non sa che esiste, non ne conosce le
convenzioni familiari, sociali, sessuali, religiose. Il subcosciente di ognuno
di noi tende soltanto - come nell'animale e nel bambino nella prima infanzia - a
soddisfare, il più rapidamente possibile, i suoi bisogni organici e
psichici, puramente egoistici, che si esprimono attraverso gli
impulsi.
Nell'uomo - e nell'uomo civilizzato in
particolare - questi impulsi vengono «tagliati», cioè repressi
o rimossi; oppure disciplinati, modificati dalla censura dell'Io e dalla
«polizia» del super-Io. Il sogno, soprattutto, è in grado di
eludere la sorveglianza del censore e del «poliziotto» che sono nel
nostro inconscio, facendo emergere alla coscienza i nostri istinti profondi; ma
spesso non siamo in grado di riconoscerli perché si celano sotto
mascheramenti simbolici. E questa è una funzione protettiva della mente
perché l'uomo non potrebbe trovarsi faccia a faccia con l'inconscio senza
che la sua ragione ne fosse stravolta.