ITINERARI - SVILUPPO E PROGRESSO - L'ECONOMIA SCHIAVISTICA

LA SCHIAVITÙ

In tutte le antiche civiltà fondate su un'economia agricola relativamente evoluta e su modi di vita urbani, l'organizzazione sociale e produttiva aveva raggiunto un notevole livello di complessità: basta pensare alla crescente differenziazione tra i diversi settori della produzione e, all'interno di ciascun settore, alla crescente specializzazione dei mestieri e delle mansioni lavorative. Ma con la nascita di una organizzazione produttiva complessa era nata anche, come abbiamo avuto modo di vedere, la diseguaglianza sociale. Al vertice della società erano emersi alcuni gruppi privilegiati che godevano di particolare prestigio e autorità e che, nella distribuzione delle ricchezze globalmente prodotte dalla comunità, potevano usufruire, rispetto al resto della popolazione, di una quota relativamente più abbondante di beni. In parole più semplici, gli uomini si distinguevano ormai assai nettamente in ricchi e poveri, potenti e umili, nati per comandare e nati per servire.
Non bisogna però immaginare che le diseguaglianze sociali si riducessero davvero a queste troppo semplici contrapposizioni. Tra le condizioni sociali estreme c'era una quantità di condizioni intermedie. Per di più, in tutte le società evolute, prestigio, potere e ricchezza sono spesso, ma non necessariamente associati: non è detto affatto che chi gode di forte prestigio sociale sia anche potente e ricco o viceversa. Anche nelle società antiche poteva accadere che un gruppo relativamente sfavorito nelle relazioni sociali sotto certi aspetti, lo fosse assai meno sotto altri.
Questa molteplicità di condizioni valeva anche per una contrapposizione che a noi moderni appare irriducibile: quella tra libertà e schiavitù, due termini che sembrano escludere mezze misure. E invece il mondo antico, oltre alla schiavitù vera e propria, ha conosciuto innumerevoli forme di dipendenza personale e di lavoro coatto, che però erano ben lontane dal configurare la condizione dello schiavo. Negli antichi imperi del Vicino Oriente, ad esempio, la costruzione e la manutenzione delle grandi opere pubbliche si affidava (come abbiamo visto per l'Egitto) a un sistema di corvée imposto da tempi remoti alla popolazione contadina. Ma obblighi analoghi gravavano su persone di condizione più elevata e non solo a favore di una istituzione pubblica come il tempio delle antiche città mesopotamiche, o il re, o il faraone, ma anche a favore di grandi signori privati nobili o funzionari delle corti reali. Si può dire, anzi, che una condizione di dipendenza (o di non-libertà) era presente in un modo o nell'altro a qualsiasi livello della scala sociale.
La libertà personale come piena padronanza di sé è «un'invenzione» della Grecia classica. Non è semplice dire che cosa fosse la libertà per i Greci. È più facile dire che cosa la libertà non era. La libertà, infatti, era l'esatto contrario della schiavitù e la schiavitù per i Greci era la condizione della totale assenza di diritti. Nel Vicino Oriente la schiavitù era soltanto la condizione sociale più bassa in una società in cui la dipendenza personale costituiva la regola. In Grecia, invece, dove la regola era costituita dalla libertà, lo schiavo non era considerato una persona dipendente da un'altra, perché non era affatto considerato persona, ma cosa: era, come diceva Aristotele, uno strumento animato, semplice «oggetto di proprietà» del padrone. Anche i Romani, sulle orme dei Greci, equiparavano lo schiavo ad uno strumento di lavoro: lo chiamavano «strumento che parla» (instrumentum vocale), per distinguerlo dall'animale domestico, che emette dei versi e può comunicare dei messaggi (abbaiando il cane avverte il padrone dell'arrivo di un estraneo), ma non riesce ad articolare un discorso (era detto per questo instrumentum semi-vocale) e dall'utensile inanimato e muto (instrumentum mutum).
In Grecia, insomma, come poi a Roma, nessuno metteva in dubbio che gli schiavi fossero uomini e non bestie. Ma questo non impediva che fossero considerati meri oggetti di proprietà, che potevano essere comprati o venduti indipendentemente dalla loro volontà come una qualsiasi altra merce. Abbiamo detto che i concetti di libertà e di schiavitù sono nati insieme: l'uno era l'opposto dell'altro, e, come nelle coppie bene/male, bello/brutto, ecc., ciascuno dei due poteva essere definito nella sua vera essenza solo come negazione dell'altro. Bisogna aggiungere però che la nozione di schiavitù è originariamente e intrinsecamente connessa a quelle di merce e di proprietà privata. Senza l'idea della proprietà, ossia del diritto di usare e di abusare a piacimento delle cose proprie, non c'è e non può esserci l'idea di schiavitù. Ciò che definiva lo schiavo era la sua appartenenza ad un padrone (despòtes da cui l'italiano «despota», che ha però un significato alquanto diverso), che poteva essere una qualsiasi persona libera. Essendo oggetto di proprietà, infatti, lo schiavo non poteva, a sua volta, avere proprietà: né beni immobili, come case o terreni, né beni mobili, come animali, denari o, appunto, schiavi. In verità, per quanto riguarda i beni mobili, molte volte era tollerato che lo schiavo possedesse qualche capo di bestiame, guadagnasse qualche soldo e mettesse da parte un gruzzoletto (che i latini chiamavano peculium, mentre indicavano con pecunia le ricchezze degli uomini liberi). Ma anche dei suoi risparmi lo schiavo poteva disporre solo con il permesso del padrone.
Come non aveva la disponibilità legale di alcun bene, così lo schiavo non poteva avere, agli affetti della legge, una famiglia. Anche qui, abbastanza di frequente veniva tollerato che gli schiavi, specialmente quelli addetti ai servizi domestici che avevano un rapporto più diretto con il padrone e godevano, almeno di solito, di condizioni di vita migliori, si formassero una famiglia. Si trattava in ogni caso di situazioni di fatto, che il padrone poteva cancellare in qualsiasi momento, per esempio vendendo i componenti dello stesso gruppo familiare ad acquirenti diversi oppure disperdendoli in case o in fondi diversi.
Privo di personalità giuridica, lo schiavo non aveva il diritto di ricorrere ai tribunali per ottenere giustizia contro nessuno e tanto meno contro il suo padrone, da cui doveva essere rappresentato in qualsiasi giudizio. Il padrone era responsabile del comportamento del suo schiavo e rispondeva dei danni da lui eventualmente provocati a terzi. La testimonianza di uno schiavo era considerata valida in tribunale solo in un numero molto limitato di casi. In particolare erano tenute per buone le dichiarazioni che gli venivano estorte con la tortura: un riconoscimento di cui presumibilmente avrebbe fatto volentieri a meno.

LA SCHIAVITÙ SECONDO ARISTOTELE

In un celebre brano della sua Politica Aristotele (384-322 a.C.), uno dei massimi filosofi greci, ha tentato di definire la schiavitù come una condizione di natura e di dimostrarne per questa via la legittimità (che altri avevano messo in dubbio o negato recisamente). Ne riportiamo alcuni passi tra i più significativi. Oscurità e salti logici non devono stupire o scoraggiare: qui Aristotele era costretto, come si suol dire, ad «arrampicarsi sugli specchi», che è quel che succede quando si pretende di giustificare razionalmente realtà che sono semplicemente e brutalmente fatti di potere.

... Quale sia la natura dello schiavo e quali le sue capacità, è chiaro da queste considerazioni: un essere che per natura, pur essendo uomo, non appartiene a se stesso ma a un altro, è per natura schiavo: e appartiene a un altro chi, pur essendo uomo, è oggetto di proprietà [...]. Quel che dovremo esaminare qui di seguito è se esista per natura un essere di questo genere oppure no, e se sia meglio e giusto per qualcuno essere schiavo o no, e se invece ogni schiavitù sia contro natura. [...]
Comandare e essere comandato non solo sono cose necessarie, ma utili e certi esseri, fin dalla nascita, sono destinati parte a essere comandati, parte a comandare. [...] In effetti, in tutte le cose che risultano composte di una pluralità di parti e formano un'unica entità comune, c'è quel che comanda e quel che è comandato [...]. Tutto ciò che vive, ad esempio, è composto di anima e di corpo, e di questi, per natura, la prima comanda e l'altro è comandato. (Qui dobbiamo badare a quel che è naturale negli esseri che si trovano in condizioni normali, e non nei degenerati, e quindi dobbiamo considerare l'uomo che sta nelle sue migliori condizioni d'anima e di corpo: in lui quel che abbiamo affermato appare evidente, mentre negli esseri viziati e che stanno in una condizione anormale si potrebbe constatare che, proprio per tale condizione abietta e contro natura, spesse volte è il corpo che comanda sull'anima). È dunque in primo luogo nell'essere vivente che possiamo cogliere, come si diceva, [un principio analogo] all'autorità del padrone [sullo schiavo] e del governante [sui governati]; l'anima domina infatti il corpo con l'autorità del padrone, e l'intelligenza domina l'istinto con l'autorità dell'uomo di governo o del re. Ed è chiaro in questi casi che è naturale e utile per il corpo essere soggetto all'anima e per la parte affettiva essere soggetta all'intelligenza (ossia alla parte fornita di ragione), mentre la situazione opposta o una condizione di parità sarebbero nocive a tutti. Ora, gli stessi rapporti esistono tra gli uomini e gli altri animali: gli animali domestici sono per natura migliori dei selvatici e a tutti quelli è utile essere soggetti all'uomo, perché in tal modo hanno la loro sicurezza. Così pure, nelle relazioni tra maschio e femmina, l'uno è per natura superiore, l'altra inferiore, l'uno comanda, l'altra è comandata ed è necessario che sia così. Quelli dunque che differiscono tra loro quanto l'anima dal corpo o l'uomo dalla bestia, sono per natura schiavi. Si trovano in questa condizione tutti coloro la cui attività si riduce all'impiego della forza fisica e dai quali questo è tutto quello che si può ricavare: il meglio per costoro, proprio come nei casi precedenti, è star soggetti a questa forma di autorità. In effetti è schiavo per natura chi può appartenere a un altro (per cui è di un altro) e chi, pur partecipando della ragione, può solo apprenderla, non averla. [La differenza con gli animali domestici è che] gli animali non partecipano affatto della ragione, ma sono soggetti solo alle sensazioni e agli istinti. Quanto alla loro utilità, la differenza è minima: entrambi, sia gli schiavi, sia gli animali domestici, servono a soddisfare con le loro forze fisiche i bisogni [degli uomini liberi]. Per questo la natura ha voluto segnare anche nel corpo una differenza tra liberi e schiavi: questi lo hanno robusto per i servizi che devono rendere, quelli eretto e inadatto a questo genere di lavori, ma adatto alla vita politica (e alle sue attività di guerra come di pace). Spesso accade però anche il contrario: taluni, cioè, hanno solo il corpo di liberi, altri solo l'anima. Certo, se i liberi avessero un fisico come quello delle statue degli Dei, tutti, è evidente, ammetterebbero che gli altri meritano di essere loro schiavi. E se questo è vero nei riguardi del corpo, tanto più giusto sarebbe ammetterlo nei riguardi dell'anima: ma non è facile cogliere la bellezza dell'anima come si fa con quella del corpo. Insomma, è evidente che taluni sono per natura liberi e altri schiavi, e che per questi ultimi è giusto essere schiavi...

IL SISTEMA SCHIAVISTICO

Oltre a definire sul piano del diritto la nozione «pura» di schiavitù, Greci e Romani hanno fatto della schiavitù un'importante istituzione sociale: l'hanno anzi posta a fondamento del proprio sistema economico. Contrariamente a quanto talvolta si crede, quella dello schiavo non è stata la forma prevalente di lavoro nel mondo antico: l'espressione «sistema schiavistico» si può propriamente applicare soltanto a quel particolare modello di società e di economia che è stato realizzato nel mondo greco a partire pressappoco dal V secolo a.C. e in quello romano a partire pressappoco dal III secolo a.C. Per parlare di sistema schiavistico, infatti, non basta che ci siano degli schiavi, magari in gran numero; occorre che gli schiavi abbiano un ruolo determinante nella produzione.
Nelle antiche civiltà fluviali dell'Egitto e della Mesopotamia la schiavitù c'era, ma non era tale da caratterizzare il loro modo di produzione, nel quale il fattore lavoro era costituito principalmente da contadini dipendenti, soggetti a corvées e a obblighi di diversa natura, ma non schiavi. A costoro si affiancava un certo numero di agricoltori liberi e proprietari della terra che lavoravano. Il grosso della superficie coltivata era controllato dai sacerdoti dei templi e dai grandi signori della terra, nobili e funzionari reali. Ma su tutti (ed era questo forse il tratto più caratteristico del loro modo di produzione) si ergeva il superiore dominio del re o del faraone, ossia dello Stato, che, come responsabile delle opere di arginamento, canalizzazione e irrigazione, si considerava in ultima analisi l'unico, vero proprietario del suolo ed esercitava con maggiore o minore rigore questo suo monopolio a seconda dei tempi e delle opportunità.
La caratteristica fondamentale del sistema schiavistico era la massiccia presenza di schiavi in tutte le principali attività produttive, a cominciare dall'agricoltura. «Massiccia» non vuol dire «esclusiva»: nella Grecia classica e poi a Roma, accanto agli schiavi, hanno sempre conservato una notevole importanza i lavoratori liberi, contadini e artigiani, e non sono mai mancate forme di servitù e di dipendenza diverse dalla schiavitù. Ma gli schiavi occupavano i settori strategici dell'economia e con la loro presenza condizionavano strettamente il lavoro di tutti gli altri.
Schiavi si nasceva, ma, soprattutto, si diventava. La schiavitù era talvolta una pena prevista per i criminali, analoga ai moderni lavori forzati. In Grecia, in Roma e nel Vicino Oriente era comune fin da tempi antichi la schiavitù per debiti: chi non pagava, poteva essere legittimamente ridotto in schiavitù dal proprio creditore. Questa forma di schiavitù era legata alla pratica dell'usura, ossia del prestito a interesse. L'usura rappresentava un vero e proprio flagello per le classi povere, e specialmente per i contadini, tanto che le autorità pubbliche dovettero ripetutamente intervenire in materia, vietandola (come presso gli Ebrei) o limitando i tassi di interesse (come a Roma). Dove il prestito a interesse non era né proibito né regolamentato, come in Grecia e nel Vicino Oriente, fu la possibilità di ridurre in schiavitù il debitore insolvente che venne progressivamente ristretta (e in qualche caso esclusa del tutto).
In ogni caso, il modo più comune per fare schiavi era la guerra e la razzia, che infatti rappresentavano la principale fonte di rifornimento per quel grande commercio internazionale di «bestiame umano» che costituì una delle condizioni fondamentali per l'affermazione e il buon funzionamento dell'economia schiavistica. Nel mondo antico (e in quello romano in particolare) guerra e schiavitù erano unite, anzi, da un doppio legame: se la guerra produceva schiavi, il lavoro degli schiavi sollevava gli uomini liberi dai compiti della produzione e li rendeva disponibili per la guerra. A Roma, antica terra di agricoltori e pastori, solo la possibilità di sostituire con schiavi i contadini liberi ha consentito di tenere in permanenza sotto le armi una quota altissima della popolazione maschile adulta.
Non è un caso, dunque, che il massimo fiorire del sistema schiavistico, dal III secolo a.C. al I d.C., abbia coinciso con l'età delle grandi conquiste romane. Un diluvio di schiavi proveniente dalla campagne militari inondò in quei secoli i mercati mediterranei facendo crollare i prezzi e rendendo la manodopera schiavile nettamente più conveniente di quella libera. Per avere un'idea delle dimensioni del fenomeno basti pensare che secondo calcoli attendibili intorno al 225 a.C. ci sarebbero stati in Italia quattro milioni e mezzo di liberi contro seicentomila schiavi: due secoli più tardi la popolazione libera era rimasta più o meno la stessa, ma gli schiavi erano quintuplicati.
Sono state però soprattutto le regioni occidentali del Mediterraneo, più intensamente romanizzate, quelle che hanno adottato su larga scala il modello schiavistico. In Oriente, e specialmente in Egitto e in Mesopotamia, il sistema schiavistico ha dovuto convivere con i tradizionali modi di produzione basati sulle corvées contadine.

IL LATIFONDO A SCHIAVI

Il latifondo (latifundium, composto di latus = «esteso» e fundus = «fondo podere»), ossia la grande azienda agricola affidata al lavoro di squadre di schiavi è nella sostanza una innovazione romana. In Grecia gran parte delle terre era lavorata da schiavi, ma le proprietà erano per lo più di modeste dimensioni. In età ellenistica e nel Vicino Oriente esistevano invece grandissime aziende di proprietà delle dinastie reali o dei nobili loro funzionari, ma il sistema prevalente di conduzione non era schiavistico. È stata Roma ad associare stabilmente schiavitù e grande proprietà.
Per avere un'idea delle dimensioni rispettive di questo genere di aziende in Grecia e a Roma, basti pensare che un latifondo greco del IV secolo a.C., che era considerato relativamente grande, quello di un certo Fenippo, ateniese, comprendeva meno di 400 ettari, di cui solo 86 destinati a campi arati, e una decina a vigneti; le «scorte vive» (ossia gli animali utilizzati per la lavorazione del fondo) erano costituite in tutto da sei asini, due coppie di buoi e sette schiavi. I latifondi romani contavano invece migliaia o decine di migliaia di ettari (un nobile del I secolo a.C., Lucio Domizio Enobarbo arrivò a possederne quasi centomila!) e la loro dotazione di schiavi era proporzionalmente maggiore.
Il latifondo romano venne a costituirsi negli ultimi secoli prima dell'era cristiana per effetto principalmente delle continue campagne militari, con cui Roma s'impadronì prima dell'Italia e poi dell'intero bacino del Mediterraneo. Le guerre rovinavano economicamente i piccoli proprietari coltivatori, che un tempo avevano costituito il gruppo sociale più solido della popolazione romana e che continuavano a costituire il nerbo dell'esercito. Impossibilitati a curare di persona le proprie terre, i piccoli proprietari sempre più spesso si vedevano costretti ad abbandonarle nelle mani degli usurai e degli aristocratici. Nello stesso tempo le guerre mettevano a disposizione dell'aristocrazia patrizia l'immenso patrimonio delle terre confiscate ai nemici e una sterminata folla di schiavi.
Nati dal progressivo assorbimento di piccoli fondi e dall'appropriazione più o meno legale di terre demaniali, i latifondi non erano mai o quasi mai proprietà compatte e naturalmente erano troppo vasti per costituire delle unità produttive in grado di funzionare. L'unità produttiva era la villa, che era un'azienda di notevoli dimensioni, spesso superiore ai cento ettari, affidata alla direzione di un fattore o agente, il villicus che non di rado era lui stesso uno schiavo. Il latifondo, dunque, era un aggregato di fondi o di villae, che non necessariamente risultavano territorialmente contigui.
Come insediamento la villa era più simile a un villaggio agricolo che a una semplice fattoria: il suo centro era costituito da un grosso nucleo di edifici, situato preferibilmente su un'altura per consentire la vista dei campi, che comprendeva, oltre alla residenza del proprietario e gli alloggi degli schiavi (gli ergastula, da cui «ergastolo», il termine che in italiano designa sia l'orribile pena della detenzione perpetua, sia il luogo dove questa pena si sconta), magazzini, granai, forni, frantoi, laboratori, officine e perfino fornaci per la fabbricazione di anfore e vasi ad uso dell'azienda. Oltre alle attività propriamente agricole, infatti, le villae ospitavano tutta una serie di attività connesse alla trasformazione dei prodotti dell'agricoltura e dell'allevamento (salumieri, macellai, mugnai, tessitori, ecc.) e alla manutenzione degli edifici e delle attrezzature (falegnami, fabbri, carpentieri, carrai, vasai ecc.).
L'affermazione del latifondo lavorato da schiavi ha significato il diffondersi di una agricoltura di tipo estensivo in luogo di quella intensiva delle preesistenti piccole proprietà contadine. In queste ultime l'obbiettivo economico era di trarre il massimo profitto possibile da un'estensione limitata di terreno mediante l'attenta cura che il proprietario era in grado di dedicare al proprio fondo. Nelle grandi aziende dei latifondisti, invece, l'obbiettivo era di far rendere al meglio una forza-lavoro scarsamente motivata, come erano gli schiavi, organizzandola in squadre e sottoponendola a una severa disciplina. Condizionato dalle prioritarie esigenze di vigilanza e di pronta repressione di qualsiasi forma d'insubordinazione, questo modo di impiegare la risorsa «lavoro» doveva far leva più sulla quantità che sulla qualità della manodopera. La produzione su larga scala (prevalentemente basata sulla coltura dei cereali) praticata nel latifondo, anche se comportava un certo spreco della risorsa «terra», era la sola compatibile con quel tipo di manodopera e con quel tipo di organizzazione del lavoro.
In linea di massima non si può dire che lo schiavo impiegato nei campi o nelle officine fosse meno produttivo del lavoratore libero. Se non altro, il tipo di sfruttamento a cui era sottoposto consentiva di utilizzarne senza interruzioni la forza lavoro: lo si poteva spostare da un'azienda all'altra e da un'occupazione all'altra secondo le stagioni e le opportunità e in questo modo si evitavano i tempi morti che, soprattutto nelle pause invernali dei lavori agricoli erano caratteristici del contadino. Non mancarono del resto tentativi di aumentare la produttività dello schiavo, sollecitandone la collaborazione con concessioni e incentivi. Ma su questa strada oltre un certo limite non si poteva andare, a meno di non mettere in discussione lo stesso sistema schiavistico. In definitiva, finché questo restava in piedi, era solo con la violenza che dallo schiavo si poteva estrarre lavoro e solo il timore delle punizioni riusciva a tenerne a freno la rivolta. Fruste e catene, anche se forse erano adoperate meno spesso di quanto in genere non si immagini, erano pur sempre i simboli della sua condizione di lavoratore.

 

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