ITINERARI - SPAZIO E TEMPO - INCONTRI E SCONTRI DI CULTURE

INTRODUZIONE

Quando, nel 1818, l'esploratore inglese John Ross (1777-1856) scoprì un gruppo di cacciatori eschimesi sulle coste settentrionali della Groenlandia si stupì che degli uomini potessero vivere a quella latitudine, a meno di mille miglia dal Polo. Ma ancor più stupiti furono i cacciatori. La guida eschimese di Ross che per primo prese contatto con loro, sebbene assomigliasse fisicamente a quegli uomini, vestisse e parlasse in modo simile, fu guardato con sorpresa e paura. Egli faticò a convincerli di essere fatto come loro di carne ed ossa e di essere venuto da un paese molto più a Sud, dove gli Eschimesi credevano esistessero solo nevi e ghiacci. Essi scoprivano così di non essere i soli abitanti della Terra.
Quello degli Eschimesi polari è un caso di isolamento, durato qualche centinaio di anni, che aveva comportato la perdita di alcuni elementi della cultura originaria e qualche modificazione del linguaggio. Un altro esempio potrebbe essere quello dei Tasmaniani, popolazione ormai estinta, che abitava l'isola di Tasmania a Sud dell'Australia, che erano rimasti isolati dal resto del mondo per un periodo di tempo anche maggiore.
Molti fenomeni di isolamento sono tali solo in apparenza. Gli abitanti del continente americano, per esempio, sono rimasti isolati dal resto dell'umanità per parecchie migliaia di anni, ma l'area «isolata» era talmente grande che al suo interno esistevano moltissimi gruppi umani, grandi e piccoli, con culture e gradi di sviluppo diversi, tra i quali era possibile una larga circolazione di beni, di idee, di tecniche.
In realtà i casi di vero isolamento culturale sono estremamente rari: di regola ogni gruppo umano si trova a contatto con altri gruppi e stabilisce con loro rapporti più o meno stabili. Quando tali rapporti sono abbastanza intensi, le culture che vi partecipano si influenzano a vicenda, si modificano, si ristrutturano, mettono insomma in atto quella serie di processi di azione e reazione a cui è stato dato il nome generico di «acculturazione» (un termine coniato sul finire del secolo scorso da studiosi americani e per lungo tempo usato solo nel mondo anglosassone).
Se le culture che vengono in contatto sono profondamente diverse sul piano della tecnologia, dell'organizzazione sociale, dei modi di pensare, è facile che una di loro si trovi in una posizione di predominio in ragione della sua superiorità militare, o economica o semplicemente numerica: il processo di acculturazione può assumere allora aspetti violenti, distruttivi, o concludersi addirittura con la scomparsa della cultura più debole.
In effetti, la guerra, la conquista, l'asservimento costituiscono forse la più antica e diffusa forma di acculturazione. A cominciare dagli Egizi e dai Babilonesi la fusione nei primi grandi imperi di culture e popoli diversi fu la diretta conseguenza di iniziative militari. Non sempre la guerra è portatrice solo di lutti e rovine. Qualche volta dalla guerra nascono grandi esperienze di civiltà, come è accaduto per l'impero di Alessandro Magno nel IV secolo a.C., e più tardi per quello romano. L'ellenismo, ossia la diffusione della cultura greca in tutti i Paesi del Mediterraneo orientale attraverso un processo di assimilazione e di scambio con le preesistenti civiltà medio-orientali, è stato un frutto delle imprese militari di Alessandro. Le conquiste romane hanno realizzato un analogo processo di unificazione culturale su un'area ancora più vasta, che comprendeva oltre alle regioni tradizionali della cultura ellenistica (dall'Asia minore all'Egitto), gran parte dell'Europa occidentale e tutta l'Africa settentrionale.
Anche se non sono state soltanto imprese di conquista, l'espansione dell'Islam nel Mediterraneo, in Africa e in Asia, o, in epoca più recente, la diffusione del Cristianesimo nei continenti non europei (e in particolare l'evangelizzazione degli indigeni dell'America o dell'Africa) hanno fatto largo ricorso alla forza militare. Le imprese dei cosiddetti «conquistadores» cristiani nell'America Latina sono un classico esempio degli effetti devastanti di un'acculturazione imposta con le armi: nel giro di pochi anni antiche e grandi civiltà come quelle degli Incas e degli Aztechi sono state spazzate via.
L'incontro della civiltà europea con le civiltà del resto del mondo ha avuto spesso un carattere conflittuale e la maggior parte delle società tradizionali sono uscite distrutte da questo contatto. Qui però la parola «distruzione» indica una serie di processi diversi. Qualche volta è accaduto proprio che i membri di queste società più deboli siano stati massacrati o che in un modo o nell'altro si siano estinti fisicamente; altre volte si è estinta la loro cultura, ma loro sono entrati a far parte, magari in posizione subordinata, della cultura europea.
Ci sono popoli che hanno reagito al contatto con gli Europei con il disfacimento completo delle proprie istituzioni. Altri hanno invece rifiutato i cambiamenti loro imposti e hanno cercato di chiudersi nella difesa ostinata delle proprie tradizioni. Altri ancora hanno raccolto solo alcuni tratti della cultura dominante, fondendoli con elementi della propria: si parla in questi casi di «sincretismo», un fenomeno particolarmente evidente e diffuso in certi Paesi dell'America latina, come il Brasile, dove le antiche culture indigene, quelle africane degli schiavi neri, e quella cristiana dei coloni europei si sono mescolate dando vita a nuovi e originali insiemi culturali.

GLI EUROPEI E GLI INDIGENI D'AMERICA

Intorno al 1500, quando ci si convinse che le terre scoperte da Colombo erano un nuovo e sconosciuto continente e non, come si era creduto in un primo momento, le propaggini estreme dell'Asia (o, come allora si diceva, delle Indie), gli Europei, e per primi gli Spagnoli e i Portoghesi, si trovarono di fronte a popoli e culture che si erano sviluppati in totale isolamento dal resto dell'umanità. L'esistenza di vastissime regioni abitate di cui in Europa nessuno aveva mai avuto il minimo sentore apriva promettenti prospettive di conquista e di dominio. Ma era anche, almeno per i teologi, un fatto imbarazzante: Gesù Cristo era venuto in Terra per salvare l'umanità e aveva mandato ai quattro canti del mondo i suoi apostoli per annunciare la buona novella (il vangelo), mentre ora, dopo 1500 anni, si scopriva che una fetta considerevole di umanità non aveva mai ricevuto un annuncio del genere. Per qualche tempo in Europa si discusse molto seriamente se gli indigeni del Nuovo Mondo appartenessero davvero al genere umano (e se quindi l'annuncio della salvezza riguardasse anche loro) oppure no. Alla fine, stabilito che erano uomini, parve ragionevole concludere che alla Spagna e al Portogallo era stata riservata da Dio la duplice missione di evangelizzarli (per il bene delle loro anime) e di ridurli in schiavitù (per il bene della Cristianità).
In America c'erano culture molto sviluppate, che avevano dato vita a complesse organizzazioni statali, e società molto semplici, primitive. Nella descrizione degli indiani Tainos fatta da Cristoforo Colombo nel suo diario si coglie lo stupore che suscitava negli Europei la vista delle popolazioni primitive d'America, così diverse da quelle dell'antico continente.

... Vanno nudi come la madre li ha fatti, anche le donne, benché io ne vedessi una sola molto giovane. Tutti quelli che io vidi erano giovani infatti non ne vidi uno che superasse i trent'anni d'età; erano molto ben fatti, con corpi molto belli e volti molto graziosi. Alcuni di essi si dipingono di nero; e sono del colore degli abitanti delle Canarie, né neri né bianchi. E alcuni di essi son dipinti di bianco, alcuni di rosso e altri di tutti i colori che trovano. Alcuni si dipingono il volto, altri tutto il corpo, altri solo gli occhi e altri solo il naso. Non portano armi né le conoscono: mostrai loro delle spade ed essi le presero per la lama e si tagliarono per ignoranza. Non conoscono il ferro. Le loro lance sono certe canne senza ferro, e alcune di esse hanno un dente di pesce sulla punta, mentre altre sono appuntite in vari modi. Essi generalmente sono di notevole statura di bell'aspetto e ben proporzionati. Questi uomini devono essere dei buoni servitori e di intelligenza vivace, poiché vedo che imparano molto presto tutto quello che dico loro, e credo che possano facilmente diventare cristiani, dato che mi parve che non abbiano alcuna religione...

Come comportarsi di fronte a popoli tanto diversi per lingua, usi, abitudini? Le prime descrizioni degli indiani d'America rivelano incertezza. Ad alcuni sembravano pericolosi cannibali privi di religione e di senso morale, ad altri, invece, persone buone e miti, di costumi semplici, «primitivi», insomma, ma proprio per questo più vicini alla natura, ingenui come bambini, non guastati ancora dai condizionamenti e dalle deviazioni che la vita civile impone alla natura umana. Su una cosa erano tutti d'accordo: la civiltà europea era infinitamente superiore.
Ma come la pensavano gli indigeni americani? Sul piano della forza fu subito chiaro a tutti che la superiorità degli Europei era schiacciante. Ma sul piano della civiltà, toccò agli Europei apparire agli occhi degli indigeni come dei barbari, talvolta ridicoli, talvolta patetici, talvolta ripugnanti. Gli Europei giudicavano gli indigeni sulla base dei propri criteri di valore, curandosi ben poco di capire i criteri di valore degli altri, e naturalmente gli indigeni americani facevano lo stesso con loro.
Tra i villaggi dei contadini brasiliani vicino al Rio Paraguay, ve ne sono alcuni che si distinguono dagli altri per qualche particolare: le abitazioni, costruite con tronchi scortecciati coperti di foglie di palma ingiallite, non hanno pareti, a differenza delle capanne brasiliane. Sono i villaggi degli indios Caduvei. La vita di questi indios oggi è molto simile a quella dei contadini brasiliani: portano gli stessi vestiti di cotone, vivono molto poveramente coltivando campi di manioca, allevando qualche animale domestico e cacciando selvaggina. Essi però possiedono degli oggetti che gli altri contadini non hanno; nelle loro capanne ci sono vasi e scodelle decorati con complicati disegni a volute e a spirali; i bambini giocano con statuette di legno che sono insieme giocattoli ed immagini di divinità. Questi oggetti sono gli ultimi resti di un'antica cultura che oggi è quasi dimenticata. Qualche volta però durante le feste i Caduvei tornano ai loro usi tradizionali: le donne sostituiscono il vestito di cotone con un pezzo di stoffa che avvolge tutto il corpo e dipingono il loro viso con una rete di sottili arabeschi. Allora il loro aspetto ricorda quello dei loro antenati, i nobili Mbaya Guaiacuru che ai conquistatori spagnoli e portoghesi erano apparsi nello splendore dei loro sfarzosi costumi, tuniche e mantelli di cuoio che ricadevano in pieghe rigide, decorati in nero e rosso con motivi molto simili ai semi delle nostre carte da gioco francesi: cuori, picche, quadri, fiori.
Gli antenati dei Caduvei avevano dimostrato assai poca considerazione per gli Europei. L'alterigia dei nobili Mbaya aveva intimidito perfino i conquistatori spagnoli e portoghesi al punto che questi, che di solito trattavano gli indigeni del continente americano senza alcun rispetto, davano loro lo stesso titolo con cui si rivolgevano ai nobili del proprio Paese: Don e Dona. In effetti la vita dei Mbaya Guaiacuru assomigliava un poco a quella dei feudatari europei del Medio Evo: i nobili e le dame trascorrevano gran parte del loro tempo in giochi e tornei e non si occupavano di lavori manuali, riservati ai Guana, un popolo da loro ridotto in servitù.

Le donne dei Caduvei oggi si dipingono il viso per essere più attraenti, ma un tempo queste decorazioni avevano un significato molto preciso e, tanto per cominciare, distinguevano i Mbaya Cuaiacuru dai popoli che essi avevano vinto in guerra e che tenevano in servitù. Oltre a dipingersi i Mbaya si depilavano completamente il viso comprese le ciglia e le sopracciglia. Consideravano assolutamente sconveniente l'usanza europea di non depilarsi e di non pitturarsi il viso: per questo, anzi, chiamavano gli Europei «fratelli del nandù» (ossia dello struzzo americano). La depilazione e la pittura corporale, infatti, modificando le fattezze naturali del viso, erano per i Mbaya un segno di civiltà, la conferma che l'uomo aveva definitivamente rinunciato alla vita animale. Evidentemente, pensavano i Mbaya, gli Europei non avevano di queste preoccupazioni... Così, però, un Mbaya non avrebbe mai sposato un individuo di razza bianca. Certe dame affermavano che neppure la moglie del viceré era degna di riceverle: esse avrebbero acconsentito a incontrarsi solo con la regina del Portogallo. è inutile dire che la cosa stupiva enormemente gli Europei, che, abituati a considerarsi i padroni della Terra scoprivano di poter essere guardati con disprezzo dagli appartenenti ad una civiltà diversa e, dal loro punto di vista, «inferiore».

MISSIONARI E COLONIZZATORI

Lo spirito di missione, e cioè il bisogno assillante di fare proseliti, di indurre gli altri a condividere la nostra fede, è un elemento tanto connaturato con la più comune tradizione religiosa dell'Occidente (e cioè con il Cristianesimo in tutte le sue diverse confessioni), che talvolta riesce difficile immaginare una religione priva assolutamente di tale carattere. Ma religioni di questo tipo esistono, e sono quelle che si rifanno alla specifica realtà di un popolo o di una razza, e cioè di un'etnia, con la quale in ultima analisi si identificano.
Si tratta di religioni diversissime tra loro, come quelle pagane del mondo classico, l'Ebraismo, l'Induismo, lo Shintoismo (che è la religione tradizionale del popolo giapponese). Queste religioni non conoscono, o conoscono in maniera assai blanda il proselitismo perché la partecipazione alla comunità religiosa è essenzialmente connessa alla nascita, al sangue, all'eredità biologica. Queste religioni non hanno missionari perché la loro esperienza religiosa non è esportabile (non avrebbe più senso) al di fuori delle etnie (popoli o razze) che le hanno plasmate e che sono state plasmate da loro.
Viceversa le grandi religioni universalistiche come il Cristianesimo, l'Islam, il Buddismo, si sono diffuse molto al di fuori dell'ambito geografico ed etnico nel quale sono nate. Che il Cristo fosse ebreo, Maometto arabo, il Buddha indiano, è un fatto secondario, accidentale: il loro messaggio di salvezza è rivolto a tutti gli uomini. Come i cristiani, anche i musulmani e i buddisti hanno sentito l'esigenza di diffondere, in un modo o nell'altro, la loro fede.
La guerra santa dell'Islam è un modo violento di fare proseliti: il modo che nell'Europa cristiana, che con l'Islam è stata in guerra per oltre un millennio, è forse più noto. L'Islam però non si è diffuso solo (e neppure prevalentemente) nella forma della conquista armata: una regione vastissima come l'Indonesia, per esempio, è stata convertita alla fede musulmana non da soldati fanatizzati o da profeti armati, ma da pacifici mercanti di diversa origine, indiani, persiani e arabi.
Per quanto riguarda il Buddismo, la sua esperienza missionaria ha avuto in Asoka, il grande sovrano indiano del III secolo a.C., uno dei primi fautori, ma ha conosciuto gli episodi più significativi per opera di un folto manipolo di indiani e di centroasiatici che, a partire dal IV secolo d.C., e soprattutto attraverso un'immane opera di traduzione dei testi sacri, lo hanno diffuso in Cina.
In ogni caso, quella del missionario, che si trasferisce in Paesi lontani e poco conosciuti, tra gente di diversa cultura e non di rado ostile con lo scopo di convertirla (con le buone o con le cattive) è una figura caratteristica (anche se non esclusiva) del Cristianesimo: non c'è parte del mondo dove i missionari cristiani non si siano spinti, e in molte regioni i primi europei ad arrivare sono stati proprio i missionari.
L'impegno missionario ha segnato sin dall'inizio la vita delle comunità cristiane: tra l'altro il termine «missionario» (che ha la stessa radice di «messo», derivando dal latino missus) è l'esatto equivalente di «apostolo» (che in greco vuol dire «inviato»), che l'uso ha riservato ai diretti discepoli di Gesù «mandati» per il mondo ad annunciare «la buona notizia» (che è il significato etimologico della parola «evangelo») della salvezza.
Di questo impegno missionario sono stati momenti importanti dapprima l'evangelizzazione dei popoli germanici e slavi che premevano da Nord e da Est sulle vecchie regioni dell'impero romano (e, da Costantino in poi, anche cristiano) e più tardi la sanguinosa resistenza all'avanzata islamica, terminata nella controffensiva cristiana delle Crociate. La fondazione nel XIII secolo degli ordini mendicanti, francescani e domenicani, più che mai intrisi di spirito missionario, ha espresso però una nozione di evangelizzazione almeno in parte diversa da quella truce e violenta dei crociati: ne fanno testimonianza, tra le altre, le pacifiche missioni in Estremo Oriente dei francescani Giovanni da Pian del Carpine (1182-1252) e di Oderico da Pordenone (1265-1331), di cui abbiamo già fatto cenno.
Tra XVI e XVII secolo vi fu una nuova, straordinaria esplosione dell'attività missionaria dovuta principalmente a due ragioni: la scoperta e la colonizzazione dell'America, in primo luogo, che rivelò all'Europa cristiana una grossa fetta di umanità rimasta per un millennio e mezzo del tutto ignara del messaggio di Cristo, e poi la feroce concorrenza che sul terreno del proselitismo si scatenò tra cattolici e protestanti. In campo cattolico ebbe un ruolo di grande rilievo sia la fondazione di nuovi ordini religiosi, come la Compagnia di Gesù, che ponevano l'attività missionaria tra le loro principali finalità, sia l'istituzione della Congregazione di Propaganda Fide (cioè di un collegio di cardinali specificamente preposto alle iniziative di diffusione della fede cristiana).
Accanto alla grande (e terribile) opera di evangelizzazione sistematica delle terre di recente scoperte (le Americhe e alcuni territori africani come il Congo o l'Angola), dove i missionari cristiani avevano a che fare con società relativamente semplici (oppure disarticolate dall'aggressione europea), ripresero allora, sulle rotte marittime appena aperte, le missioni verso i civilissimi e potenti Paesi dell'Asia: Cina, Giappone, India.
Qui, dove i missionari cristiani dovevano la possibilità di svolgere la loro opera esclusivamente alla tolleranza ed alla generosità dei loro ospiti, era impossibile impostare l'azione evangelizzatrice sulla forza. Ogni intransigenza era fuori luogo e, anziché contrapporre il Cristianesimo alle credenze ed alle tradizioni locali, bisognava puntare sui possibili elementi di affinità e di consonanza. è quello che tentarono, con notevole successo, i gesuiti in Cina, almeno fino a quando gli ordini rivali dei domenicani e dei francescani non denunciarono al Papa i pericoli di sincretismo religioso insiti in un atteggiamento del genere: l'accettazione (o anche soltanto l'apprezzamento) di elementi delle culture indigene avrebbe significato un sostanziale snaturamento della dottrina cristiana. L'ultima e più intensa esperienza missionaria vissuta dalle Chiese cristiane ha coinciso nel XIX secolo con la costruzione dei grandi imperi coloniali europei. Il missionario, cattolico o protestante, sacerdote o laico, accompagnava e talvolta precedeva il soldato e il funzionario coloniale in quella gigantesca spartizione del mondo di cui le grandi potenze europee furono protagoniste nel secolo scorso. Il missionario, anzi, era egli stesso una sorta di funzionario coloniale, incaricato di funzioni tipicamente pertinenti allo Stato, come l'istruzione o l'assistenza sanitaria, ma dotato di quel tanto di autonomia che gli permetteva di godere dei benefici del potere senza dover rispondere delle terribili responsabilità di cui quello stesso potere si stava caricando.
è potuto così accadere che l'intero impianto missionario, che minacciava di essere travolto nel crollo del sistema coloniale, sia invece sopravvissuto, almeno nelle sue strutture più importanti, limitandosi (per così dire) a «cambiar pelle», ossia a sostituire il clero europeo con quello indigeno e, più in generale, a consentire alle organizzazioni ecclesiastiche locali di crescere in relativa autonomia.

L'ETNOLOGO

Fino al secolo XIX le relazioni dei viaggiatori e dei missionari sulle popolazioni indigene con cui erano entrati in contatto sono state in pratica la sola documentazione accessibile agli Europei interessati a quel genere di studi che oggi chiamiamo «etnografici» (dal greco éthnos = «popolo») o di «antropologia culturale» (dal greco àntropos = «uomo»), e che si occupano della cultura e della mentalità di specifici gruppi etnici o sociali e in particolare dei popoli detti «primitivi». Etnologi e antropologi, insomma, per un lungo periodo di tempo hanno continuato a studiare soprattutto sui libri, conoscendo le popolazioni di cui si occupavano solo attraverso la testimonianza di altre persone. Naturalmente anche i missionari, che vivevano a stretto contatto con i «primitivi», erano, a modo loro, etnologi e antropologi, almeno nel senso che avevano un evidente interesse a conoscere usi, costumi, mentalità delle popolazioni che intendevano convertire al Cristianesimo: ma, appunto, il loro scopo primario era quello di convertire, e cioè di distruggere le culture con le quali venivano in contatto.
La figura dell'antropologo che lavora «sul campo», cioè che passa un certo periodo di tempo presso la popolazione che desidera studiare senza pretendere di modificarne la cultura, di istruirla, di convertirla o di civilizzarla, è relativamente recente: risale ai primi decenni del XX secolo, quando la dominazione bianca e la presenza dei missionari avevano già in larga misura mutato o compromesso le tradizionali forme di vita. Per i primi ricercatori sul campo si trattava dunque di recuperare, prima che fossero definitivamente dimenticate, le antiche tradizioni culturali di popolazioni che spesso erano minacciate anche fisicamente di estinzione.
Il contatto diretto degli studiosi con le culture oggetto delle loro indagini modificò sostanzialmente l'atteggiamento di fondo con cui avevano fino a quel momento guardato ai «primitivi» o «selvaggi», come erano tradizionalmente denominati. Mentre il razzismo costituiva un presupposto implicito o esplicito delle vecchie dottrine antropologiche, tra i ricercatori sul campo si vennero gradualmente affermando, specialmente nel periodo tra le due guerre mondiali, varie forme di relativismo culturale tutte genericamente riconducibili alla constatazione che ciò che è buono, giusto o bello in una cultura non necessariamente lo è anche in un'altra cultura. Nessuna cultura, si diceva, può essere giudicata con i criteri e i valori propri di un'altra cultura, e tanto meno coi criteri e i valori della cultura europea, che era la cultura dei conquistatori e dei coloni. Quelle che erano state definite, non senza disprezzo, culture «primitive» venivano ora riconosciute come culture diverse, ma non inferiori alla nostra.
Dall'assunzione dell'uguale dignità di tutte le culture discendeva quasi per necessità il rifiuto dell'azione missionaria e più in generale un forte scetticismo circa l'opportunità di una qualsiasi azione «civilizzatrice» (come allora si qualificavano le iniziative delle amministrazioni coloniali a beneficio delle popolazioni indigene nei settori dell'istruzione, della sanità, delle opere pubbliche, ecc.). Un atteggiamento di questo genere implicava non piccoli problemi per chi, volendo condurre le proprie ricerche sul terreno, doveva comunque ricorrere alla collaborazione delle autorità coloniali o addirittura, come qual che volta succedeva, svolgeva quelle ricerche per incarico espresso delle stesse autorità.
Gli antropologi si sono dunque sforzati, nello studiare le popolazioni presso cui si recavano, di liberarsi dei propri pregiudizi (a cominciare dalla credenza nella superiorità del bianco) e dei condizionamenti derivanti dall'appartenenza alla razza (e alla classe) dominante. Anche psicologicamente la cosa era tutt'altro che facile, come si rileva, tra l'altro, da queste annotazioni dell'antropologo francese Claude Lévi-Strauss, che si riferiscono al suo primo incontro con un gruppo di indios Bororo nell'interno del Brasile:

... In che ordine descrivere quelle impressioni profonde e confuse che assalgono il nuovo arrivato in un villaggio indigeno la cui civiltà è rimasta relativamente intatta? [...] Di fronte a una società ancora vitale e fedele alla sua tradizione lo choc è così forte che si rimane sconcertati. In questa matassa dai mille colori quale filo si deve seguire per cercare di sbrogliarla? [...] Il villaggio racchiude i suoi abitanti come una leggera ed elastica armatura; più simili ai cappelli delle nostre donne che alle nostre città: insieme monumentale che conserva un po' della vita della vegetazione, volte e fogliami la cui linea naturale è stata conciliata dall'abilità dei costruttori con le esigenze e necessità dei loro piani. La nudità degli abitanti sembra protetta dal velluto erboso delle pareti e dalla frangia delle palme: essi scivolano fuori dalle loro dimore come se si spogliassero di ampi mantelli di struzzo. [...] Mentre attendevamo alla nostra sistemazione nell'angolo di una vasta capanna, io, più che analizzarle, mi lasciavo impregnare da queste immagini. Si delineavano particolari: le abitazioni conservavano sempre la disposizione e le dimensioni tradizionali, ma la loro architettura aveva già subito l'influenza neobrasiliana: la loro pianta era rettangolare e non più ovale e benché il materiale del tetto e delle pareti fosse lo stesso (rami che sostenevano un intreccio di palme), le due parti erano distinte e lo stesso tetto era a doppio spiovente invece che arrotondato. Tuttavia, il villaggio di Kejara dove eravamo appena arrivati, restava [...] uno degli ultimi dove l'azione dei Salesiani non si era ancora fatta troppo sentire. Questi missionari che sono riusciti a porre fine ai conflitti fra Indiani e coloni, hanno condotto nello stesso tempo eccellenti inchieste etnografiche [...] e un metodico sterminio della cultura indigena...

Nonostante le migliori intenzioni di questo mondo, gli antropologi che hanno operato fino al secondo dopoguerra conducevano le loro ricerche presso popolazioni dominate dall'uomo bianco e conservavano per questo semplice fatto una condizione di superiorità e di forza nei confronti di coloro che avrebbero dovuto osservare e studiare: non c'è da stupirsi che il rispetto degli indigeni nei loro confronti nascondesse una sostanziale diffidenza. Anche oggi, del resto, gli antropologi si trovano spesso in una posizione ambigua. Un antropologo francese, Jean Monod, ha descritto in termini assai divertenti la sua poco felice esperienza tra gli indios Piaroa del Sud America:

... Una sera, mentre mangiavamo carne in scatola dopo aver ascoltato la radio, il padrone della casa venne come al solito a sedersi vicino a noi e sorridendo dichiarò che stavamo mangiando carne umana. Sobbalzai, smisi di mangiare e gli mostrai la scatola e l'etichetta con la testa di bue. Il vecchio ammiccò come per dire che a lui non l'avremmo fatta perché sapeva bene come stavano le cose. Vedendo poi che stavamo per condire gli spaghetti con la salsa di pomodoro il vecchio aggiunse che quello era sangue. Nella società Piaroa si uccide solo per mangiare e solamente gli animali. I bianchi al contrario dal momento che erano abituati ad ammazzarsi tra loro dovevano fare ciò per lo stesso motivo, cioè per procurarsi carne da mangiare. Una prova era data dal fatto che ascoltavo la radio tutte le sere: secondo il vecchio facevo questo per non sentire le grida delle persone che erano state ammazzate e che stavo per divorare. Mentre parlavamo dei miti Piaroa, il padrone della casa ad un certo momento si rifiutò di dirmi altro. Era male raccontare queste cose ad un bianco. Compresi che voleva essere pagato per il suo lavoro come aveva visto che avevo fatto in precedenza con un indigeno creolo. La mia resistenza a pagare il vecchio era dovuta ad una buona intenzione: non volevo tramite lui dare ai Piaroa il gusto di lavorare per i bianchi per denaro. Temevo che ciò potesse portare ad uno stato di dipendenza. Ma era una preoccupazione eccessiva! Veniva infatti scambiata per avarizia. A nulla valsero i miei discorsi che cercavano di risolvere la questione su un piano di amicizia. Dovetti pagare. Uno sfruttatore: ecco cos'ero. Il fatto che loro erano indigeni era il pretesto fornitomi dall'etnologia per arricchire la «scienza» del mio Paese a loro spese senza la minima preoccupazione della loro sopravvivenza e del loro avvenire e per farmi nello stesso tempo una posizione. Il secondo mese trascorse in trattative economiche sempre più pressanti. Il fascino era completamente svanito. Mi ero trasformato in distributore automatico di sigarette. ll mio fallimento tra i Piaroa si spiega con l'esistenza del neocolonialismo negli schemi del quale rientrava il mio lavoro anche se all'inizio mi ero illuso di sfuggirgli...

CLAUDE LEVI-STRAUSS

Claude Lévi-Strauss, nato nel 1908, è forse il maggiore degli antropologi francesi. Dal 1935 al 1939 ha vissuto in Brasile come insegnante di sociologia all'Università di San Paolo. In questi anni, decisivi per la sua formazione, Lévi-Strauss ha organizzato diverse spedizioni presso le tribù del Mato Grosso e dell'Amazzonia. A questo periodo è legato anche quello che (a parte le opere più strettamente teorico-scientifiche) resta il suo libro più fortunato, Tristi Tropici (1955), che è insieme un'autobiografia intellettuale, un'affascinante relazione di viaggio e una commossa testimonianza della sua esperienza di ricercatore sul campo, diviso tra i valori della grande cultura europea di cui si sentiva partecipe, e le suggestioni, altrettanto forti, delle culture «primitive» da lui conosciute, interpretate, amate.

CULTURA

Cultura viene dal latino colere = «avere cura», che a sua volta deriva da un'antica radice indoeuropea (la stessa di collo) presente in diverse lingue con il significato di «andare attorno», «circondare» e, in senso figurato, «proteggere», «interessarsi» e simili. ll latino cultus, che è il participio passato di colere, come sostantivo indicava genericamente «cura» o «attenzione» e, a seconda dell'oggetto, diventava «culto» o «venerazione» (se riferita a un Dio), «coltura» o «coltivazione» (se riferita a un campo), «educazione» (se riferita a un ragazzo), stile o modo di vivere (cultus vitae), di vestire, di abitare, ecc.
In italiano occorre distinguere tra coltura (con la o) che si riferisce sempre e soltanto alla coltivazione della terra («mettere un terreno a coltura», «la coltura del grano», ecc.) da cultura (con la u) che si riferisce invece esclusivamente all'educazione e alla mentalità, personale o collettiva, degli uomini («un uomo di cultura», «la cultura del Rinascimento», «la cultura materiale», ecc.). Colto (con la o) vuol dire «istruito» «dotato di larghe cognizioni» e si rapporta dunque a «cultura» (con la u), non a «coltura» (con la o).
Come si può capire dagli esempi fatti il termine «cultura» ha tre significati principali:
1) l'insieme delle cognizioni possedute da una persona in un dato settore dello scibile (farsi una cultura nel campo della musica jazz, possedere una solida cultura matematica, ecc.) o in più settori diversi (è appunto in questo senso di maggiore apertura che si adopera di solito l'espressione uomo di cultura, l'espressione «cultura generale» ha invece un valore limitativo, indicando un insieme di conoscenze diversificate, ma elementari, superficiali, generiche);
2) l'insieme dei valori, delle conoscenze, dei modi di pensare propri di una data epoca o di un dato ambiente sociale (es.: la cultura del Rinascimento la cultura francese nell'età della Restaurazione, la cultura del mercante italiano nel Basso Medio Evo, ecc.);
3) l'insieme delle espressioni materiali (manufatti, tecniche di lavoro, oggetti di consumo, ecc., che nel loro complesso costituiscono appunto la cosiddetta «cultura materiale») e spirituali (tradizioni, credenze, costumi, pratiche rituali, ecc.) di una società o di una popolazione (es.: la cultura dei Nabikwara, le culture del paleolitico, ecc.).

 

 

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