ITINERARI - LE ORIGINI - ECOLOGIA - GLI ECOSISTEMI I PRINCIPALI ECOSISTEMI Pur variando moltissimo nell'aspetto generale tutti gli ecosistemi hanno in comune determinate strutture che rimangono costanti. Un lago, il fondale marino o una foresta appaiono come mondi a sé in cui vivono forme biologiche completamente diverse, eppure in ciascuno di questi sistemi la vita è organizzata nello stesso modo. Vi si trovano gli stessi livelli trofici, anche se gli anelli della catena alimentare sono impersonati da popolazioni animali e vegetali diverse. Il primo livello trofico, che negli ecosistemi terrestri è rappresentato dagli alberi, dalle erbe e dalle altre piante verdi, nei sistemi acquatici è dato dalle alghe pluricellulari e da microscopici organismi (soprattutto unicellulari) galleggianti sulla superficie delle acque, che costituiscono il fitoplancton. I successivi livelli trofici (secondo, terzo e quarto) che negli ecosistemi terrestri sono costituiti da popolazioni terricole, in mare sono rappresentati da individui adatti alla vita acquatica: sono tuttavia presenti in ambedue gli ambienti gli stessi gruppi zoologici, come insetti, crostacei, aracnidi. Il quinto livello trofico, dove avviene la decomposizione, è rappresentato in entrambi i casi da batteri che vivono indifferentemente nell'ambiente acquatico e in quello terrestre. In una classificazione semplificata degli ecosistemi possono essere identificati i seguenti ambienti naturali terrestri: a) foreste b) savane c) praterie d) deserti e) tundre f) ghiacciai. Vi sono poi ecosistemi marini divisi a seconda della profondità e della vicinanza alla costa: a) litorali b) zona eufotica c) abissi. La produzione primaria di energia è all'incirca uguale tra gli ecosistemi terresti e quelli acquatici, anche se questi ultimi sono svantaggiati a parità di fattori ambientali perché l'acqua assorbe una parte dell'energia emessa dal sole sottraendola alla fotosintesi. Così, il mare aperto ha un indice di produzione primaria bassissima, pari a quella del più povero ecosistema terrestre: il deserto. Un metro quadrato di superficie marina produce cioè all'incirca quanto un metro quadrato di superficie desertica. Un ecosistema terrestre molto ricco, come la foresta, ha una produzione da sei a venti volte superiore. Vi sono però alcuni ecosistemi acquatici, detti chiusi perché poco estesi e con una massa piccola, come ad esempio piccoli laghi, estuari dei fiumi e particolari litorali, che hanno una produzione primaria altissima, superiore al doppio di quella della foresta. Uno degli aspetti più importanti in qualsiasi tipo di ecosistema è la vegetazione che, come si è visto, costituisce il primo anello delle catene alimentari: il magazzino di energia di tutti gli ecosistemi. Perciò nello studiare un ambiente naturale è molto importante osservare la situazione della vegetazione: essa è un buon indicatore dello «stato di salute» dell'ecosistema. La presenza di certe piante è rivelatrice della natura del suolo e del sottosuolo; alcune specie vegetali infatti possono vivere solo in presenza di determinati elementi rari (selenio, manganese, rame); altre, come il castagno, prediligono terreni acidi oppure basici, come il pino di Aleppo; altre ancora possono indicare la presenza di vene d'acqua nel sottosuolo, come il Sarcobatus vermicolatus, un arbusto del deserto Nord Americano. La vegetazione di un ecosistema dà anche precise informazioni sulla qualità e la quantità delle specie animali erbivore che la sfruttano. Infatti ciascuna specie animale ha delle preferenze alimentari, delle «golosità», e divora soprattutto particolari vegetali trascurandone altri: con termine tecnico si dice che si è di fronte a un «pascolo selettivo», che normalmente lascia evidenti tracce nel paesaggio. Per questo motivo ogni ecologo dedica la massima attenzione alla descrizione della vegetazione di ciascun ecosistema; considerando poi le popolazioni animali che interagiscono con l'ambiente vegetale e i principali fattori ambientali, si può avere una discreta conoscenza di quella che è la struttura dell'ecosistema stesso. Generalmente ciascuno dei principali tipi di ecosistemi si suddivide in ecosistemi regionali, che di solito sono chiamati con espressioni locali; è il caso della «macchia» mediterranea e della garrigue francese, che sono particolari aspetti della foresta di sclerofille. Oltre agli ecosistemi regionali, vi sono i cosiddetti ecosistemi modificati o umanizzati, cioè quegli ambienti naturali in cui l'uomo è intervenuto o interviene per controllare a proprio vantaggio le funzioni di quel particolare ecosistema. Si può dire che oggi non esistano quasi più ecosistemi che non siano modificati: l'uomo con le sue culture, la sua economia, interviene ormai su tutta la natura. Anzi, oggi sempre più frequentemente si parla di ecosistemi artificiali, cioè di ambienti dovuti completamente all'azione dell'uomo, da cui tutte le altre specie viventi sono escluse oppure sono rigidamente controllate. Sono piccoli ecosistemi artificiali anche i modelli che si usano in laboratorio come gli acquari, i terrari, le colture in provetta. Anche i sommergibili, i veicoli spaziali, gli aeroplani si possono considerare come ecosistemi artificiali. Un acquario può essere considerato come un ecosistema. Occorre però che siano rappresentati tutti i livelli della catena trofica, dai produttori primari (che possono essere alghe) alle specie capaci di rimettere in circolo le sostanze di rifiuto (ad esempio, un mollusco come la limnea). Solo cosi l'acquario è autosufficiente. Una volta raggiunto l'equilibrio non dovrebbe esserci bisogno di aggiungere ossigeno né di cambiar acqua. LE FORESTE Le foreste rappresentano una delle parti più produttive della biosfera. Si è calcolato che annualmente la vegetazione forestale mondiale produca oltre 47.000 milioni di t di carbonio, mentre la vegetazione coltivata ne ottiene 2300 milioni di t. Le foreste sono le comunità biologiche più vecchie e più stabili; sono cioè ecosistemi capaci di resistere ad improvvise variazioni dei fattori ambientali e di adattarsi a condizioni climatiche e geografiche molto dissimili, grazie alla grande varietà di specie vegetali. Ciò è possibile perché in una foresta, a differenza di altri ecosistemi, le comunità vegetali (autotrofe) danno una produzione di energia fortemente superiore a quella delle comunità animali (eterotrofe); la biomassa vegetale in una foresta tipo rappresenta un'energia 250 volte superiore a quella della biomassa animale. Solo una piccola parte dell'energia prodotta dalla vegetazione forestale viene ceduta alle comunità eterotrofe sotto forma di cibo. Se si aggiunge ad essa l'energia perduta nel processo di respirazione, si arriva ad appena il 10 per cento dell'energia prodotta con la fotosintesi. Il restante 90 per cento viene immagazzinato e serve ad aumentare la quantità della biomassa stabile sia con la formazione di humus sia con l'effettivo aumento della quantità di vegetazione. L'ecosistema si provvede così di una specie di serbatoio di energia. I momenti difficili per questi ecosistemi sono dati dalla variazione prolungata di temperatura e umidità, fattori determinanti per la vita della foresta, oltre all'azione dell'uomo. Dove esistono valori sufficienti di temperatura e di umidità, la foresta rappresenta un ecosistema stabile, verso cui tende ad evolversi ogni altro ecosistema terrestre. Non si trovano foreste dove la temperatura media del mese più caldo è inferiore ai 10° C e dove le precipitazioni annue sono inferiori ai 400 mm di pioggia. Verso i poli l'area delle foreste confina con quella delle tundre artiche; sui rilievi montuosi le foreste possono giungere fino alla tundra alpina. Oggi l'area coperta da foresta è molto diminuita, soprattutto ad opera dell'uomo; questo ecosistema occupa tuttavia ancora il 29 per cento della superficie delle terre emerse. Esistono diversi tipi di foresta, ognuno dei quali caratterizzato da una diversa distribuzione geografica e soprattutto da una diversa composizione della flora e della fauna; in base a questi criteri si possono distinguere foreste di aghifoglie, di latifoglie, di sclerofille e tropicali. FORESTA, FUSTAIA, CEDUO I primi sistemi di classificazione delle foreste sono stati proposti dalla silvicoltura, una branca specializzata dell'agricoltura nata in Europa fra il XVII e il XVIII secolo. Essi erano caratterizzati dal prevalente interesse economico di questa disciplina, diretta a elaborare forme razionali di sfruttamento della foresta. Successivamente i botanici hanno proposto definizioni più appropriate, ma ancora oggi non esiste un sistema di classificazione universalmente accettato. Alcuni scienziati vorrebbero riservare la denominazione di foresta agli ecosistemi di tipo tropicale nei quali lo strato arboreo risulta pluristratificato con chiome degli alberi intrecciate, ricchi di piante epifite (dal greco epi = «sopra» e phytón = «pianta», cioè «pianta che vive appoggiandosi agli alberi»), come le liane, e con uno strato erbaceo quasi assente. Gli ecosistemi più aperti e monostratificati, provvisti di uno strato erbaceo sviluppato sarebbero meglio definiti col nome di boschi o selve. Ormai però è entrato nell'uso il termine foresta per indicare generalmente tutti questi tipi di ecosistema. Termini come ceduo o fustaia appartengono alla silvicultura e alle scienze forestali e si riferiscono alla presenza più o meno sensibile di un'attività umana all'interno dell'ecosistema, come quella dell'agricoltore che ha trasformato nel corso dei secoli gli ambienti forestali primitivi. Una fustaia è un'associazione vegetale che si avvicina molto all'aspetto della foresta naturale e in cui gli alberi si riproducono per impollinazione, cioè per disseminazione naturale. Nel bosco ceduo invece il taglio continuo degli individui maturi impedisce la riproduzione sessuata e l'accrescimento del bosco è possibile solo per gemmazione: l'albero tagliato alla base emette dei rami particolari (i polloni) che danno origine al nuovo individuo. LA FUNZIONE DEI BOSCHI Il rapporto che ciascuna comunità umana ha con i boschi e le foreste è diverso per ogni cultura e diverso anche nel corso della storia delle culture stesse. Il bosco è stato guardato come sorgente di materia prima (legname), come luogo di pascolo o di caccia o più generalmente come un territorio da cui ricavare cibo con la semplice raccolta. Ogni cultura ha sempre elaborato nei confronti di boschi e foreste sistemi di proibizioni e ha regolato gli interventi allo scopo di salvaguardare la vita di questi ecosistemi; a volte il rispetto per la foresta e per il bosco assunse addirittura l'aspetto di religione, di culto degli alberi. Ciò avveniva anche perché le popolazioni avvertivano che oltre alla utilizzazione economica, il bosco rivestiva un'importanza fondamentale nell'equilibrio ambientale del territorio. La stessa sopravvivenza delle comunità umane era sentita legata alla conservazione di questo equilibrio. Una delle principali funzioni dei boschi è la formazione del terreno. Il più povero ecosistema forestale ha un processo pedogenetico (di formazione degli strati del terreno) enormemente superiore a qualsiasi altro ecosistema terrestre. In un anno, ad esempio, una macchia di quercioli, che è uno degli aspetti meno produttivi del bosco, è in grado di arricchire un ettaro di terreno di due tonnellate di lettiera, che verrà trasformato in humus. Il bosco protegge il suo substrato e in parte anche quello delle regioni circostanti dai fenomeni dell'erosione. La protezione si ha perché le piante si oppongono direttamente con tronchi, rami e foglie all'azione delle acque ruscellanti dei temporali e anche perché un bosco è come una grande spugna che assorbe l'eccesso d'acqua piovana che altrimenti scenderebbe a valle erodendo i deboli terreni coltivati. Quando le condizioni climatiche sono tornate normali un bosco è in grado di restituire l'acqua immagazzinata sotto forma di umidità atmosferica. Ma perché un bosco possa esplicare queste importanti funzioni occorre che sia integro, completo in tutti i suoi strati. Un ruolo importantissimo in questo tipo di protezione è esercitato dai muschi, abbondantemente presenti nello strato erbaceo delle foreste di latifoglie. Un chilogrammo di muschi allo stato secco può trattenere oltre cinque litri di acqua; si è calcolato che una foresta di latifoglie di 10.000 ettari può trattenere più di mezzo milione di metri cubi d'acqua, come una vera e propria diga. Quasi tutte le alluvioni sono state determinate o rese più catastrofiche dal cattivo stato o dall'assenza di ecosistemi boschivi sulle regioni montuose o collinari: secoli di attività umana hanno distrutto ecosistemi originali senza sostituirli con altri sistemi di controllo del territorio. La traspirazione dell'umidità e le zone d'ombra degli ecosistemi boschivi influenzano anche il clima delle regioni circostanti. L'umidità all'interno di un bosco è sempre superiore rispetto all'ambiente esterno, la temperatura è sempre più alta rispetto agli strati d'aria immediatamente superiori alle chiome degli alberi. Tutto ciò favorisce la conservazione di un clima stabile equilibrando con scambi di temperatura le improvvise avverse condizioni meteorologiche. Un bosco esercita bene queste funzioni se è vecchio; d'altra parte una comunità vegetale vecchia è poco produttiva e l'interesse delle comunità umane è quello di avere un ambiente naturale stabile e produttivo al tempo stesso. In un ambiente ben equilibrato comunità vegetali giovani e produttive (come campi coltivati a fondo valle) dovrebbero alternarsi a comunità vecchie costituite da frutteti e boschi sulle pendici collinari e montuose. Bosco di larici LA FORESTA DI AGHIFOGLIE La foresta di aghifoglie è presente dove c'è una situazione climatica particolarmente rigida: nelle zone sub artiche, dove le nevicate sono frequenti e l'estate è umida e fresca, e nelle zone alpine. In questo tipo di foresta non mancano alberi con foglie caduche, come pioppi, betulle, salici, ma vi prevalgono le conifere sempreverdi, come i pini e gli abeti, vegetali perfettamente adattati a condizioni termiche di poco superiori a quelle della tundra. L'adattamento più evidente alle basse temperature si rileva nelle foglie. Queste hanno la forma di ago (aghifoglie), presentano una superficie molto ridotta, sono indurite e provviste di una cuticola di protezione formata da uno strato di cellule appiattite e impregnate di sostanze cerose. L'apparato vascolare in cui circola la linfa è ben difeso dal freddo perché è circondato da un vero e proprio manicotto di cellule protettive che manca nelle latifoglie e che dà agli aghi una particolare resistenza. Negli alberi di questo tipo di foresta le parti più esposte sono ricoperte di uno strato di resina che protegge dal freddo. La resina delle aghifoglie è ricca di sostanze aromatiche che si diffondono facilmente nell'atmosfera e conferiscono il caratteristico profumo delle pinete e delle abetaie. La produzione di questo ecosistema non è distribuita uniformemente perché al suo interno i rapporti tra le diverse popolazioni vegetali sono vari; il sottobosco delle aghifoglie è povero sia nello strato arbustivo (si trovano mirtilli, lamponi) sia in quello erbaceo che spesso manca o è sostituito da muschi e licheni. Gli aghi delle conifere avendo una superficie ridotta esposta ai raggi solari dovrebbero svolgere un'attività fotosintetica molto minore rispetto a quella delle foglie delle latifoglie. Essi però sono provvisti di un'alta concentrazione di clorofilla che permette di fotosintetizzare in condizioni di bassa temperatura e scarsa intensità solare. Per questo le aghifoglie appaiono intensamente verdi. Per questi stessi motivi la foresta di aghifoglie ha una produzione primaria superiore addirittura a quella della foresta tropicale: un metro quadrato di foresta di aghifoglie può produrre in un anno 1200-1300 g di carbonio. Ad altitudini particolarmente elevate o ai confini con la tundra solo poche specie arboree sono in grado di resistere alle condizioni ambientali proibitive e la foresta di aghifoglie assume un aspetto più monotono. L'attività dei batteri e dei funghi del terreno della foresta di aghifoglie è estremamente bassa a causa della temperatura e inoltre gli aghi resinosi difficilmente imputridiscono. Questi due fatti contribuiscono a formare un terreno particolare, ricco di acidi umici (dal latino humus = «terra») e coperto da un alto strato di detriti non trasformati. Questo tipo di terreno pare elastico ed i passi di chi vi cammina si trasformano in altrettanti saltelli. È un suolo poco fertile, chimicamente molto povero a causa di questa lenta e quasi inesistente mineralizzazione. Non tutte le aghifoglie formano ecosistemi forestali; vi sono specie, del genere pinus ad esempio, che si presentano a gruppi di individui in altri ecosistemi anche in ambienti caldi e secchi. La vera e propria foresta di aghifoglie è quella dei climi sub artici, la taiga siberiana o il north wood (foresta nordica) canadese, un ecosistema chiuso, con grande uniformità di specie vegetali ed un popolamento animale nel complesso povero: un territorio poco propizio all'insediamento umano. Il fattore ambientale della temperatura assume grande importanza per gli organismi animali di questo ecosistema; il clima rigido che perdura per gran parte dell'anno è sfavorevole alla riproduzione ed anche alle normali attività metaboliche (respirazione, digestione, ecc.) che vengono rallentate. È noto che esiste una stretta relazione tra la temperatura dell'ambiente e quella corporea: molti mammiferi assumono uno stato di quiescenza (il letargo) quando la temperatura esterna scende sotto determinate soglie che variano da genere a genere, ma che comunque sono sempre sotto i 10° C. Così molti grossi mammiferi della foresta di aghifoglie cadono in un letargo invernale: l'orso, il ghiottone, lo scoiattolo, la puzzola, ecc. È un lungo sonno che dura parecchi mesi, a cui l'animale si è preparato accumulando una gran quantità di grasso sotto la pelliccia che si fa più bella e più folta durante l'inverno. Negli animali in letargo le attività metaboliche, i cicli biochimici, si riducono al minimo indispensabile alla vita vegetativa (metabolismo basale). I movimenti della respirazione rallentano, l'attività delle ghiandole endocrine si fa ridottissima. Al momento del risveglio, in primavera, questi animali subiscono delle alterazioni fisiologiche nella respirazione, nella sudorazione simili a quelle provate al momento della nascita: è come se rinascessero una volta all'anno. Altri animali, come la renna e il caribù americano frequentano le foreste di aghifoglie solo in certi periodi dell'anno, quando la cattiva stagione li costringe ad abbandonare i pascoli estivi delle tundre. Allora in mandrie di una certa consistenza e sotto la guida dei maschi più robusti, raggiungono le foreste di aghifoglie dove trascorrono l'inverno nutrendosi di licheni, muschi e cortecce d'albero. Durante il periodo estivo i semi delle conifere, le radici, le poche erbe servono da nutrimento ad un numero maggiore di animaletti, soprattutto roditori e uccelli. Tra questi ultimi ve ne sono di specializzati nell'estrarre i semi dalle pigne. I rettili sono poco rappresentati e mancano del tutto i serpenti. Numerosi sono invece i predatori carnivori: vi sono l'orso, il ghiottone e il lupo che si cibano di roditori, lepri, conigli e che assalgono anche grossi erbivori come alci, renne, cervi. Non mancano felini particolarmente adattati alla caccia a roditori e uccelli, tanto che hanno abitudini arboricole come il gatto selvatico, la lince e il coguaro della foresta americana. Le abbondanti nevicate rendono per lunghi mesi il paesaggio totalmente dominato dal bianco. Le aghifoglie, grazie al loro portamento, cioè alla forma conica ed agli aghi che non offrono presa alla neve, non rimangono coperte dal manto nevoso che è uniformemente distribuito sul terreno. In queste condizioni ambientali molti animali presentano un fenomeno di albinismo stagionale. La lepre, l'ermellino, il visone, la pernice bianca che popolano la foresta anche d'inverno, assumono in questa stagione una livrea particolare, tutta bianca che li mimetizza con il paesaggio. CERVO È un erbivoro di grosse dimensioni che può raggiungere anche 150 cm di altezza alla spalla. Vive principalmente ai margini di foreste ricche di grandi radure. Il maschio, caratterizzato da un notevole palco di corna, si sposta su un'area molto ampia, mentre la femmina è piuttosto sedentaria. I cervi sono animali molto attivi nelle ore crepuscolari. Si nutrono di erbe, gemme, fogliame, frutta selvatica e non disdegnano ramoscelli e cortecce di alberi. In Italia questo animale è presente soprattutto nelle regioni orientali, mentre in Sardegna esiste una specie caratteristica ed esclusiva di minori dimensioni. VISONE È un carnivoro mustelide di media taglia che può raggiungere i 60 cm di lunghezza complessiva. Piuttosto feroce si nutre di topi, uccelli, rane, pesci a cui dà la caccia sia di notte sia di giorno. Ha il corpo rivestito da una morbida pelliccia ed è per questo assai ricercato. Vive nel Nord America, ma ne esistono anche specie europee un po' più piccole. Fin dal secolo scorso questi animali vengono allevati a scopo commerciale; negli allevamenti si ottengono pellicce di vario colore: argentate, bianche, ecc. GATTO SELVATICO È l'unico felide che vive oggi in Italia allo stato selvaggio. Può essere lungo fino a 80 cm, alto 45 cm e raggiungere il peso di 18 kg. La pelliccia è a strisce che si presentano ridotte sulla nuca e sulle spalle; la coda è piuttosto corta e tronca. Esistono alcune varietà distinguibili in base al colore che va dal grigio fulvo al grigio nero o grigio giallognolo. Il gatto selvatico vive nei boschi o nei terreni boscosi; ha abitudini notturne; è un abilissimo saltatore, corridore e arrampicatore; è capace di nuotare, ma lo fa molto malvolentieri. Adatta la sua tana tra cavità della roccia, in un albero cavo o tra cespugli. Miagola e fa le fusa come un gatto, ma non è addomesticabile. SCOIATTOLO Lo scoiattolo comune è diffuso ovunque in Italia ad eccezione della Sicilia e della Sardegna. Ha dimensioni variabili tra i 33 e i 50 cm, compresa la coda, e può pesare fino a mezzo chilo. Le orecchie durante l'inverno sono munite di un vistoso ciuffo di peli dello stesso colore della pelliccia, generalmente bruno rossiccia. Preferisce abitare i boschi di conifere, ma frequenta anche quelli di latifoglie, soprattutto le faggete dove ci sono alberi giovani e fitti. Ha abitudini diurne. È in grado di emettere grida di richiamo simili a squittii, ma anche grugniti e gemiti. I nidi, costruiti a forma di palla con rametti rivestiti di erba e di muschio, sono posti molto in alto sugli alberi. È un animale molto attivo, in grado di correre velocemente sugli alberi e sul terreno e di scendere dai tronchi a testa in basso, tenendo sempre la coda sollevata in alto. Si nutre di ogni tipo di semi, frutti (ghiande, noci, nocciole, pinoli, ecc.) e di gemme; apprezza anche uova, insetti e piccoli uccelli di nido. In estate gli scoiattoli fanno provviste di frutti e gemme che ripongono in magazzini. Se l'inverno non è rigido queste riserve non vengono utilizzate e i semi immagazzinati germogliano favorendo l'espandersi della foresta. Nemici naturali dello scoiattolo sono i rapaci ed i carnivori capaci di arrampicarsi; tra i nemici c'è anche l'uomo anche se la commestibilità della carne e il valore della pelliccia sono scarsi. I TSIMSHIAN La costa occidentale del Canada, dall'Alaska alla foce del Columbia era la sede di diverse tribù accomunate da un identico modo di vivere nel proprio ambiente e di utilizzarne le risorse. I Tsimshian facevano parte del gruppo più settentrionale di queste culture; abitavano la regione situata tra i fiumi Nass e Skeena, che scorrono quasi paralleli da Nord-Est a Sud-Ovest per gettarsi nel Pacifico. I Tsimshian erano un popolo ricco: il mare, i fiumi, i monti ricoperti di foreste di abeti e di cedri formavano un complesso armonico di risorse. Il pesce è molto abbondante in queste regioni ed i Tsimshian erano abili pescatori nel mare e nei fiumi. Nelle foreste era praticata la caccia alle capre di montagna e agli orsi. La fine dell'inverno rappresentava un brutto momento: le provviste di pesce e di carne si esaurivano e potevano sopraggiungere periodi di carestia. Ai primi di marzo, quando il pesce cominciava a risalire il Nass ancora in gran parte gelato, tutta la popolazione si spostava sulle sue rive ed iniziava la pesca che era rigorosamente praticata nelle zone di proprietà di ogni famiglia. In giugno i Tsimshian si spostavano sulle rive dell'altro fiume, lo Skeena, dove aveva inizio la pesca del salmone. Terminata anche questa attività, gli uomini partivano per la caccia sulle montagne e le donne provvedevano alla raccolta di bacche e di frutta. Al sopraggiungere dei primi geli tutta la popolazione si ritirava nei villaggi permanenti; c'erano ancora alcune spedizioni di caccia, poi iniziava il periodo invernale caratterizzato dall'organizzazione e dalla celebrazione di grandi cerimonie. I villaggi invernali, costruiti spesso sulle spiagge, erano composti da grandi case abitate da diversi nuclei familiari; esse erano ornate di pitture e di intagli nel legno eseguiti con arte raffinata. La grande abilità nell'intaglio e nella carpenteria in legno costituisce uno dei tratti caratteristici di queste culture che proprio per questo, sono state definite dagli studiosi di etnologia «culture del legno». Era questa abilità che permetteva di costruire imbarcazioni capaci di spingersi in alto mare per la pesca del merluzzo. Da un solo cedro si ricavava una canoa in grado di portare cinquanta o sessanta uomini. Gli alberi, anche quelli altissimi venivano abbattuti e lavorati senza bisogno di utensili di metallo, venivano trasportati per via d'acqua fino ai villaggi dove erano suddivisi in assi seguendo le venature del legno. Connessioni, intagli e decorazioni erano realizzate con gusto e abilità in modo che non apparissero esteriormente i segni dell'utensile adoperato. Venivano anche innalzati caratteristici pali totemici intagliati con figure zoomorfe o antropomorfe. I Tsimshian come altri popoli della costa nord-occidentale avevano un'organizzazione sociale che può ricordare per molti aspetti la società feudale del medioevo europeo. Erano divisi in caste ereditarie: le cosiddette vere persone, ossia gli appartenenti alle famiglie regnanti, la piccola nobiltà e il popolo. Ogni gruppo di parenti aveva grandi possedimenti costituiti da vaste estensioni di terreno adatto alla caccia o dove crescevano bacche selvatiche e radici, e da tratti di mare dove veniva esercitata la pesca e la raccolta dei molluschi. Il possesso di queste proprietà era ereditario (in linea materna, dal fratello della madre ed anche in linea paterna) ed era difeso da severe leggi. La politica matrimoniale tendeva a non disperdere i possessi ereditari e piuttosto a concentrarli perché per una famiglia maggiori possedimenti equivalevano a maggior potere. Si praticava spesso il matrimonio con la figlia del fratello della madre, in modo da aver la possibilità di aumentare i beni ereditari. Le prerogative trasmesse ereditariamente non consistevano solo in beni materiali: la proprietà di miti, canti, nomi era considerata ancor più preziosa perché conferiva grande prestigio ai possessori. I nomi in particolare erano titoli di nobiltà che si trasmettevano ai membri del gruppo familiare per eredità ma che si potevano ottenere anche per la posizione economica raggiunta. Si spiega in questo modo l'usanza del potlac, cerimonia che aveva lasciato assai stupiti i primi europei che vi avevano assistiti. Durante questa festa che veniva ripetuta in diverse occasioni il possessore di molti beni (canoe, conchiglie pregiate, stuoie, coperte, ecc.) regalava le sue ricchezze ai partecipanti ricavando grande onore da questa operazione. Quanto più ricca fosse stata la distribuzione, tanto più elevata sarebbe stata la posizione sociale conquistata e i titoli nobiliari guadagnati. Per questo gli uomini erano spinti ad accumulare grandi quantità di oggetti di valore. LE GESTA DI ASDIWAL Nelle gesta di Asdiwal, un eroe mitico dei Tsimshian, si possono riconoscere le fondamentali proprietà dell'ambiente geografico: il contrasto tra acqua e terra, valle e monte, Sud-Ovest e Nord-Est (le direzioni degli spostamenti che si tenevano annualmente per la pesca). Vi si possono riconoscere anche le caratteristiche attività economiche, con l'opposizione fondamentale che i Tsimshian concepivano tra la pesca in mare e la caccia in montagna. Nella valle dello Skeena era inverno: il fiume era gelato, la carestia regnava. Una madre e una figlia, i cui mariti erano morti di fame, decidono di riunirsi. La madre parte dalla foce della Skeena, a Sud-Ovest, la figlia da un lontano villaggio a monte (Nord-est) e si incontrano a metà del corso della Skeena. Nella notte Hatsena (termine che significa «uccello di buon augurio») fa loro visita, comincia a fornirle regolarmente di cibo e sposa la donna più giovane. Presto nasce Asdiwal; il padre accelera in modo soprannaturale la sua crescita e gli dà alcuni oggetti magici per la caccia in montagna: arco e frecce, lancia, racchette da neve. Asdiwal dopo la morte della donna più anziana prosegue con la madre il viaggio verso Sud-Ovest. Sposa la Stella della Sera, figlia del Sole, che gli era comparsa e lo aveva condotto in cielo sotto forma di Orsa Bianca. Ma per nostalgia della terra Asdiwal la abbandona. Tornato tra i Tsimshian sposa la figlia di un capo della Gente degli Abeti e in primavera inizia insieme coi cognati e con la moglie lo spostamento in barca verso il Nass. Nasce tuttavia una disputa con i cognati sui rispettivi meriti di cacciatori. Ha luogo una gara: Asdiwal, cacciatore di montagna, ritorna con quattro orsi, mentre i cognati, cacciatori di mare, rimangono senza preda e umiliati abbandonano Asdiwal portando via la propria sorella. Un altro gruppo di pescatori, quattro fratelli e una sorella delle «Genti del Canale», lo accoglie ed egli sposa la donna. Raggiunto finalmente il fiume, il gruppo fa una pesca abbondante e quindi ritorna sulla propria isola alla foce del Skeena. Ma qui un giorno Asdiwal si vanta di saper cacciare il tricheco meglio dei propri cognati. Allora si recano insieme in mare. Grazie ai suoi oggetti magici, Asdiwal riesce a salire su uno scoglio e fa una pesca eccezionale. I cognati offesi lo abbandonano sullo scoglio mentre si leva una tempesta. Lo salva la Signora Topo che lo conduce nella dimora sotterranea dei Trichechi. Asdiwal li cura dalle ferite che egli stesso aveva procurato e si guadagna il loro amore tanto che il loro re gli presta il suo stomaco come imbarcazione per tornare a terra. Qui giunto Asdiwal uccide i cognati e lascia la moglie. Poi torna nei suoi luoghi natali nella valle dello Skeena dove lo raggiunge il figlio avuto dall'ultima moglie. Ai primi dell'inverno Asdiwal parte per la caccia in montagna ma dimentica le racchette da neve. Senza di queste egli è incapace di scendere e di salire, così bloccato a metà di un pendio insieme con la sua lancia ed il suo cane viene tramutato in pietra e lo si può sempre vedere in cima alla grande montagna. Giunto in alto mare, cioè all'estremo limite del suo viaggio verso occidente, Asdiwal inverte la direzione del suo cammino e risale la valle dello Skeena. Asdiwal, l'eroe che aveva affrontato tutte le principali opposizioni che i Tsimshian vedono nella vita e nel mondo viene tramutato in pietra a metà strada tra la vetta e la valle, così come era nato a metà strada fra terre interne e terre costiere. LA FORESTA DI LATIFOGLIE Nella foresta di latifoglie la struttura verticale della vegetazione rispetta abbastanza la suddivisione nei tre strati tipici degli ecosistemi forestali; lo strato arboreo è tuttavia nettamente prevalente sul quello arbustivo e su quello erbaceo. Gli alberi si presentano monostratificati, formano cioè uno strato ad uguale altezza con le chiome, ampie e ben sviluppate, senza però che i rami di ciascun albero giungano a intrecciarsi. Così il sottobosco (lo strato erbaceo e quello arbustivo) non è distribuito uniformemente. Le piante del sottobosco si trovano per lo più concentrate lungo eventuali corsi d'acqua o ai margini della foresta. Questa caratteristica è una conseguenza della competizione che esiste tra i vecchi e grandi alberi, alti anche 20-30 m e con uno sviluppo dell'apparato radicale molto ampio che si spartiscono tutto lo spazio disponibile sottraendolo alle altre specie. In queste condizioni può sopravvivere solo la vegetazione meno esigente come quella erbacea provvista di un apparato radicale superficiale. All'interno della foresta di latifoglie rimane così molto spazio vuoto. La luce solare penetra abbondantemente tanto che non si registrano variazioni rilevanti rispetto all'ambiente esterno; di conseguenza la luce è un fattore ambientale meno importante rispetto ad altri ecosistemi forestali. Quando poi in inverno il manto fogliare è caduto, la quantità di luce che raggiunge il substrato è identica a quella degli spazi aperti. Questo fatto va a tutto vantaggio dello strato erbaceo che in genere si presenta compatto ed uniforme. La competizione tra le specie forestali, cioè il complesso delle interazioni esistenti tra gli individui dello strato arboreo, influenza anche la forma stessa dell'albero, quello che con termine specialistico si dice il portamento. Nel genere quercus, ad esempio, gli individui che vivono isolati hanno una chioma di forma differente rispetto a quelli che formano un querceto. Una caratteristica della foresta di latifoglie è che una stessa area può essere popolata da una sola specie arborea o ospitarne diverse, con conseguente aspetto differente anche degli strati sottostanti. Variazioni anche minime dei fattori ambientali (tipo di terreno, esposizione, umidità, altezza sul livello del mare, ecc.) permettono ad una specie di dominare sulle altre presenti: si hanno così, ad esempio, castagneti, querceti, tiglieti, faggeti, ecc. Questo fatto rende vario il paesaggio vegetale. Per le foreste di latifoglie le basse temperature (medie, annue, basse) costituiscono generalmente un fattore limitante verso Nord; nelle località particolarmente favorite da una temperatura mite si può incontrare la foresta di latifoglie anche oltre il limite imposto dagli altri fattori ambientali. A Sud invece è la disponibilità d'acqua a segnare il limite dell'ecosistema; in Italia, ad esempio, il limite climatico passa all'incirca all'altezza della città di Milano, mentre grazie alla ricchezza d'acqua la foresta di latifoglie copre buona parte della pianura Padana e raggiunge l'Appennino Ligure e quello Toscano. La foresta di latifoglie è un ecosistema favorevole alla vita animale che si presenta spesso con forme proprie. Si incontrano numerosissimi molluschi (lumache), opilionidi (ragni non filatori), lepidotteri (farfalle). Si è calcolato che in un ettaro di foresta di latifoglie possano esservi 158 ragni filatori, mentre in un ettaro di foresta di aghifoglie ve ne sono 16 e in uno di foresta di sclerofille solo 10. Numerosi sono i piccoli mammiferi che vivono a spese di queste popolazioni di molluschi e di insetti: talpe, ricci, tassi, ghiri e moltissime specie di topi. Questi animali hanno un ciclo di vita strettamente legato a quello della vegetazione dell'ecosistema; attraversano periodi più o meno lunghi di letargo invernale ritmato dalle variazioni stagionali di temperatura ed anche di cibo, cioè dall'abbondante microfauna, che a sua volta è strettamente legata al rigoglio della vegetazione. Nella foresta europea sono caratteristici grossi mammiferi erbivori come il capriolo, il cervo, che hanno abitudini alimentari assai simili e presentano anche un caratteristico comportamento mimetico di «fissità»: l'animale si mimetizza tra la vegetazione grazie al colore del manto restando assolutamente immobile. Prende una velocissima fuga quando il potenziale nemico supera il limite della distanza di sicurezza. Per questo è assai difficile individuare questi animali quando si trovano nella loro nicchia ecologica, cioè nel particolare punto della foresta dove amano abitare e dove si sentono più protetti. Tra i grossi carnivori legati alla catena trofica della foresta di latifoglie europea c'è l'orso bruno, una specie che è stata costretta a ridurre il suo areale e che oggi in Italia si trova solo nel Parco Nazionale dello Stelvio e del Gran Sasso, mentre fino al XVII secolo era diffuso su tutto l'Appennino. Nella foresta americana vive l'orso nero e il grizzly o orso grigio delle Montagne Rocciose. Gli orsi sono tipici di questo ecosistema, ma quando l'ambiente viene anche parzialmente modificato dall'uomo, si spostano facilmente più in alto, nella foresta di aghifoglie. Tra i mammiferi predatori legati a quest'ambiente si trovano il lupo, la volpe, il tasso, il gatto selvatico comuni al Nord America e all'Europa. Se l'ambiente è ricco di corsi d'acqua si trovano anche castori e lontre. Si incontrano anche alcuni uccelli predatori, come il falco e l'aquila, ed altri con comportamento notturno, come il gufo e la civetta. Nella foresta di latifoglie della Cina Settentrionale è presente un caratteristico felino predatore, la tigre della Manciuria, di taglia più piccola rispetto a quelle delle regioni più calde. Tra l'avifauna forestale cinese ritroviamo il fagiano dorato e quello argentato, oggi importati anche nelle nostre regioni, e particolari rettili e anfibi, come vipere, salamandre giganti, tartarughe, animali che non si incontrano invece nelle foreste di latifoglie d'Europa e d'America. La foresta di latifoglie è un ecosistema caratterizzato da un periodo stagionale di riposo, l'inverno, in cui rallentano tutte le funzioni vitali ed in cui viene a cessare la fotosintesi. Tale periodo è contrassegnato dalla caduta delle foglie; per questo motivo la foresta è detta decidua. La sua composizione per quanto riguarda le specie vegetali ed animali è in fondo molto povera rispetto alla ricchezza degli ecosistemi forestali tropicali; la sua produttività, paragonata con quella di un metro quadrato di foresta tropicale, è esattamente la metà: circa 600 g di carbonio per metro quadrato all'anno. Questo ecosistema copre un'area della superficie terrestre pari a 5 milioni e mezzo di chilometri quadrati, suddivisi tra l'America del Nord, l'Europa Occidentale e l'Asia Orientale. Dopo le glaciazioni quaternarie, la foresta decidua di latifoglie, si è stabilizzata come ecosistema, soprattutto nell'emisfero settentrionale, dove i fattori ambientali sono più favorevoli alla sua esistenza. La riconquista di questo ambiente geografico da parte delle varie popolazioni vegetali fu lenta. È opportuno parlare di riconquista perché agli inizi dell'era glaciale vi era stata una rapida ritirata verso le zone equatoriali delle specie vegetali, che non sopportavano il clima freddo. Il ritorno delle diverse specie nell'età post glaciale è stato studiato attraverso l'analisi dei pollini contenuti nei depositi di torbiera; è stato così possibile, soprattutto per la foresta europea, individuare varie fasi che hanno preso il nome dalla specie più diffusa. Si ha così una fase della betulla che dovette prendere il posto della tundra artica che si estendeva via via che i ghiacci si ritiravano. Venne poi la fase del pino silvestre e di montagna, specie che amano il freddo e che hanno seguito il fronte di ritirata dei ghiacci. Queste specie ai nostri giorni si sono stabilizzate oltre il limite delle foreste di latifoglie formando un nuovo sistema indipendente, la foresta di aghifoglie. In un periodo successivo predominò il nocciolo, sopraggiunto da Sud, mentre la temperatura si avvicinava sempre più alle medie attuali. Seguì un'altra fase, chiamata della «quercia mista», in cui la foresta di latifoglie fu popolata soprattutto da tre specie vegetali: il tiglio, l'olmo, la quercia. La fase di quercia mista risale a circa 7000 anni fa; il clima dell'Europa era allora leggermente più secco dell'attuale e la quercia, una pianta piuttosto termofila (dal greco thermòs = «caldo» e philéo = «io amo») si spinse a colonizzare anche località poste ad altezze superiori rispetto al suo limite attuale. Il clima si fece poi più umido avvicinandosi sempre più alla situazione climatica dell'emisfero boreale; specie più igrofile (dal greco hygròs = «umido»), già presenti in piccolo numero nella foresta mista, si moltiplicarono a spese della quercia: fu la fase dell'abete e del faggio. Circa 4000 anni fa il castagno conquistò vaste regioni soprattutto nell'area meridionale della foresta decidua, ma non è ancora ben chiaro quanto possa aver influito l'intervento dell'uomo nel favorire l'espansione di queste specie. Sappiamo che la sua diffusione attuale nel continente europeo coincide di solito con le zone dove fiorirono antiche civiltà. Con l'inizio del Neolitico in queste regioni, l'uomo divenne un fattore ambientale più importante della temperatura e dell'umidità. Basti pensare che la foresta di latifoglie dopo la riconquista doveva coprire il 75 per cento circa della superficie dell'Europa, mentre oggi non raggiunge il 4 per cento. L'evoluzione climatica della foresta di latifoglie in Europa è stata simile a quella del Nord America e dell'Asia; mentre però la foresta europea comprende oggi solo una trentina di specie, quella americana ne comprende 110 e quella asiatica 150. Ciò è avvenuto perché in quelle regioni le condizioni di riconquista sono state più favorevoli. In Europa le catene dei monti collocate nel senso dei paralleli, come le Alpi, hanno impedito alle specie forestali la fuga davanti ai ghiacci e così molte specie si sono estinte. LUPO La specie risulta suddivisa in 32 sottospecie, 8 delle quali vivono in Asia ed Europa e 24 nel Nord America. I lupi hanno dimensioni e colorazione variabili: esistono lupi totalmente bianchi nelle zone artiche e lupi totalmente neri nelle regioni nord-occidentali dell'America. Il lupo che vive nelle regioni appenniniche italiane assomiglia a un pastore tedesco: è lungo 100-140 cm, alto al garrese tra i 60 e i 70 cm ed ha un peso tra i 25 e i 40 kg. Il maschio è solitamente più grande della femmina. Il colore del mantello è marrone rossiccio nella stagione estiva. È un carnivoro di abitudini notturne che vive in branchi costituiti attorno ad una coppia di lupi dominanti. Se non vi sono sufficienti prede soltanto la coppia dominante si riproduce. Questo autocontrollo delle nascite mantiene proporzionato il numero dei predatori rispetto a quello delle prede. Nel branco dei lupi esiste una rigida gerarchia per cui ogni animale viene dominato da un altro; questa gerarchia viene mantenuta per mezzo di giochi e di combattimenti non cruenti. Dal 1976 il lupo è specie particolarmente protetta in Italia e i danni che provoca al patrimonio zootecnico vengono indennizzati. Spesso però i lupi sono innocenti delle stragi di cui sono imputati e i responsabili di uccisioni di armenti sono cani abbandonati e rinselvatichiti. VOLPE È un canide di dimensioni mediopiccole, diffuso in America Settentrionale, Europa, Asia, Africa. La lunghezza complessiva può raggiungere gli 80 cm, di cui più di un terzo è rappresentato dalla coda. L'altezza alla spalla è di 35-40 cm; il peso è compreso tra i 5 e i 12 kg. Il colore del pelo può variare a seconda dell'ambiente in cui vive. La specie più diffusa in Italia ha colorazione rosso-fulva con orecchie ed estremità degli arti più scure. La volpe rossa presenta una grande capacità di inserirsi negli ambienti più diversi perché si adatta a cibarsi di tutto ciò che trova (rifiuti, frutta, insetti, piccoli animali) e si avvicina con una certa confidenza alle aree abitate dall'uomo. Esemplare di volpe rossa LONTRA È un carnivoro mustelide diffuso in tutto il mondo ad eccezione del Madagascar e dell'Australia. È un animale ben adattato alla vita acquatica: ha corpo allungato, arti corti, estremità con dita palmate, coda molto robusta. La lontra europea può essere lunga 60-85 cm, di cui più di metà rappresentati dalla coda. Il peso varia tra i 5 e i 15 kg. La pelliccia ha pelo corto ed è bruna superiormente, fulvo-biancastra inferiormente. Ha abitudini prevalentemente notturne; vive nei fiumi e nei laghi e si ciba soprattutto di pesci. Il gioco occupa gran parte della sua giornata. In Italia è diventata rara in seguito alla caccia, all'inquinamento e alla distruzione degli habitat. Si pensa che in tutta la penisola esistano meno di un centinaio di esemplari. Dal 1976 è soggetta a un regime di protezione totale. CASTORO Lungo fino a 1,30 m (di cui 40 di coda), con un peso di 40 kg, è il più grande dei roditori europei. Ha corpo tozzo, occhi e orecchie piccoli, zampe corte con cinque dita. Tra le dita delle zampe posteriori c'è una membrana che rende tali arti adatti al nuoto. La coda è larga, appiattita orizzontalmente, provvista di pelo alla base e ricoperta di squamette nella parte restante. Gli incisivi sono particolarmente robusti e servono al castoro soprattutto per rodere il fusto degli alberi e ridurre il tronco in pezzi di varia lunghezza. La pelliccia, piuttosto ricercata, è costituita da una lanugine fitta e morbidissima, lunga oltre 2 cm e da peli più radi, bruni, lucenti e più lunghi. I castori vivono lungo i fiumi o i laghi dove si trovano boschi aperti di querce, frassini, olmi, pioppi, ontani, salici e betulle. Piuttosto goffi sulla terra, si trovano a loro agio nell'acqua dove nuotano con abilità riuscendo a restare immersi anche per 15 minuti. Conducono vita prevalentemente notturna. La loro abilità nel costruire tane e dighe è proverbiale. La tana, a forma di cupola, ha un ingresso subacqueo ed un canale di areazione che serve anche da uscita di sicurezza. Sembra che le dighe costruzioni spesso imponenti (lunghe anche decine di metri ed alte fino a quattro), abbiano la funzione di mantenere costante il livello dello specchio d'acqua dove sorgono le tane. Una volta il castoro era diffuso in tutto il continente europeo; oggi si trova solo in alcune zone della Scandinavia e del Rodano. È ancora piuttosto abbondante nella Siberia Occidentale (la maggior parte delle pellicce arriva dalla Federazione Russa). In Canada vive una specie caratteristica. FALCO Il nome indica numerose specie di uccelli rapaci dell'ordine degli accipitriformi. La femmina è più grande del maschio. I falchi sono abilissimi e resistenti volatori, capaci di afferrare la preda in volo o sul terreno. Vi sono specie stanziali e specie migratorie. Il più comune è il falco pellegrino che ha il capo nero e vive in zone boscose dove utilizza i nidi abbandonati da altri uccelli. È una specie che si addomestica facilmente e che è stata adoperata con successo nella caccia. MILLEPIEDI Appartiene all'ordine dei miriapodi (dal greco myrioi = «moltissimi» e pùs = «piede»). Ha il corpo cilindrico suddiviso in segmenti, ognuno dei quali è dotato di due paia di zampe (da ciò deriva il nome con cui comunemente e noto, mentre julus è quello scientifico). Ha colore scuro. Può essere lungo fino a 6 cm. Il millepiedi vive nascosto sotto le pietre e nel terriccio da dove esce durante la notte in cerca di cibo costituito da erbe. Se disturbato si avvolge su se stesso. PAUROPO È un miriapode caratterizzato da corpo suddiviso in segmenti e dalla presenza di 9 paia di zampette. Ha piccole dimensioni (può raggiungere i 2 mm). Vive nei terreni umidi ed ha abitudini notturne. CIVETTA Uccello rapace dell'ordine degli strigiformi. Ha il capo grosso e tondeggiante, corpo piuttosto tozzo (può misurare 25 cm). Costruisce nidi nelle cavità dei muri o degli alberi. Esce alla notte quando va a caccia di uccelli, topi, bisce, rane. insetti. Per questa sua attività deve essere considerato animale utile, anche se le credenze popolari associano al suo verso un significato funesto. TALPA È un mammifero insettivoro. Ha corpo cilindrico, lungo da 12 a 15 cm. Possiede zampe anteriori fornite di unghie robustissime, adatte allo scavo e tenute generalmente con le palme rivolte all'indietro. Gli occhi sono piccolissimi e nascosti dal pelo; in alcune specie sono addirittura ricoperti di pelle per cui possono dare all'animale solo la percezione della presenza o dell'assenza della luce. La talpa ha il corpo rivestito di pelo nero, morbido, simile a velluto. Vive in quasi tutti i tipi di terreno ad eccezione di quelli completamente sabbiosi; preferisce tuttavia i luoghi ricchi di vegetazione. È attiva di giorno e di notte, in estate e in inverno, ma difficilmente si lascia vedere (esce solo di notte); ben visibili sono invece i monticelli di terra buttati in superficie nel lavoro di scavo. Le talpe scavano gallerie di due tipi; una costituisce l'abitazione (una cavità con un nido di foglie, erba, radici attorno a cui si sviluppa un complicato sistema di gallerie secondarie), l'altra serve per la caccia, per ricercare cioè il cibo di cui la talpa si nutre: lombrichi, insetti, piccoli vertebrati. La continua attività porta questi animali a consumare una notevole quantità di cibo, giornalmente pari al peso del proprio corpo. La caccia alla talpa una volta era praticata per ottenere le pellicce che avevano un certo pregio. La caccia era giustificata anche dal presunto danno arrecato dagli animali alle colture, ma tale danno è ampiamente ricompensato dalla distruzione di insetti e dal benefico rimaneggiamento del terreno che il lavoro di scavo comporta. ORSO BRUNO È il più grande carnivoro terrestre d'Europa. Ha struttura tozza, testa grande, orecchie piccole e occhi minuscoli. Nell'animale adulto l'altezza al garrese può raggiungere i 90 cm e la lunghezza totale è compresa tra i 130 e i 160 cm. Il peso oscilla tra i 50 e i 250 kg ed è molto variabile anche nello stesso individuo a seconda della stagione: in autunno l'animale accumula grasso di riserva per i mesi invernali. Pur appartenendo all'ordine dei carnivori e apprezzando molto la carne, l'orso bruno è onnivoro; in primavera si nutre principalmente di piante erbacee e in autunno di frutta. L'orso bruno viveva in tutto l'emisfero settentrionale; oggi si può considerare abbondante solo nella Federazione Russa, in Alaska, in Canada. ln Italia sono presenti due popolazioni, quella dell'Appennino Centrale con almeno un centinaio di esemplari e quella del Trentino con una quindicina di individui. TOPO Vengono comunemente chiamati topi tutti quei mammiferi roditori che hanno una morfologia esterna simile a quella del topolino delle case: dimensioni piccole, muso appuntito con lunghi baffi (vibrisse), occhi rotondi, coda lunga con scarsi peli e anelli ben visibili. In generale gli arti anteriori sono più brevi di quelli posteriori e muniti di quattro dita (a volte c'è un pollice rudimentale), mentre quelli posteriori ne hanno cinque. Numerosissime sono le specie e le sottospecie che hanno abitudini e caratteristiche diversissime. Simili ai topi, ma più grossi sono i ratti, anch'essi suddivisi in numerosissime specie. Sono anche chiamati topi di fogna. I topi arrecano danni enormi all'economia umana: basti pensare alle grandi quantità di cibo e di prodotti agricoli divorati o contaminati con feci e urine e alle malattie che possono trasmettere. La loro enorme prolificità e la difficoltà con cui vengono distrutti li rende un vero e proprio flagello soprattutto nelle grandi città, nei posti affollati e dove sono maggiori le carenze igieniche. GUFO È un rapace notturno con corpo grosso e collo corto. Ha grandi occhi fissi nelle orbite cosicché, quando sposta lo sguardo, è costretto a muovere tutta la testa. Il disco facciale è piatto e circolare e nasconde i padiglioni auricolari esterni che in alcune specie sono sovrastati da ciuffi di piume. Vola silenziosamente cacciando roditori e piccoli mammiferi, uccelli, rettili e insetti. Solitamente la femmina è più grande del maschio. Il colore del piumaggio, bruno fulvo con striature scure, gli permette di mimetizzarsi durante il giorno che trascorre posato sugli alberi. È diffuso nelle foreste e nelle zone rocciose d'Europa, Asia e Africa. Il gufo reale, con i suoi 150 cm di apertura alare, è il più grande rapace notturno. LA FORESTA DI SCLEROFILLE La foresta di schlerofille (dal greco sklerós = «duro» e phyllon = «foglia») costituisce un ecosistema in equilibrio con i fattori ambientali fisici e biotici tipici delle regioni mediterranee. Si ritrova, anche se con variazioni, in California, in una fascia di circa 400 km sul Capo di Buona Speranza ed in una vasta zona dell'Australia Sud Occidentale. Tutte queste località hanno un identico clima, con estati calde e aride, mitigate però da stagioni abbastanza piovose: è quello che si definisce un clima mediterraneo. Per questo la foresta di sclerofille viene anche detta mediterranea. In questo tipo di foresta il fattore ambientale più importante e la temperatura e la conseguente aridità estiva, ma il suo fattore limitante è l'attività dell'uomo. Le foreste di sclerofille della California, dell'Australia e del Sud Africa sono composte quasi esclusivamente da specie endemiche (cioè caratteristiche ed esclusive di una zona geografica); l'isolamento nel caso dell'Australia (e forse anche del Sud Africa) e la mancanza di glaciazioni in Sud Africa hanno impedito che vi entrassero altre specie. Nella macchia mediterranea invece si trovano specie, come il pino e il castagno, che appartengono ad altri ecosistemi. Nella struttura verticale della foresta di sclerofille predominano gli strati arboreo ed arbustivo, ma spesso in conseguenza dell'azione dell'uomo è scomparso lo strato arboreo ed è rimasto uno speciale tipo di vegetazione a carattere arbustivo: la macchia. Questa importante modificazione dell'ambiente forestale primario si è diffusa in tutte le regioni dove la foresta di sclerofille è venuta a contatto con le attività agricole o pastorali praticate dall'uomo. Interventi continuativi e profondi dell'uomo hanno spesso fatto scomparire anche la macchia ed hanno lasciato un paesaggio degradato, subdesertico, petroso con radi e duri cespugli ed una cotica erbosa discontinua. Le specie arboree che costituiscono questo ecosistema presentano caratteri comuni facilmente identificabili, che rispondono alle necessità di difesa della vegetazione contro la siccità estiva ed il forte irraggiamento solare. Le foglie degli alberi hanno una superficie piuttosto piccola (in questo modo evapora meno acqua), sono dure (di qui il nome di sclerofille), hanno superficie lucida che riflette la luce e assorbe quindi minor calore. Molti alberi si difendono dall'eccessivo irradiamento presentando ai raggi solari il margine delle foglie, come accade nell'eucalipto, oppure la parte ventrale. Le querce sempre verdi, come il leccio e la quercia da sughero, dominano nello strato arboreo e spesso costituiscono associazioni forestali esclusive: leccete, sugherete. Anche le aghifoglie presentano una notevole importanza nel paesaggio della foresta di sclerofille; grazie ai loro adattamenti xerofili hanno una buona resistenza alla siccità ambientale; la temperatura favorevole ne permette una notevole diffusione soprattutto con specie particolari, come il pino marittimo e il pino di Aleppo. Specie arborea tipica di questa foresta è anche l'alloro, un arbusto sempreverde con foglie coriacee usate comunemente per aromatizzare le carni, che solo eccezionalmente raggiunge altezze notevoli (anche 10 m). Tipici della macchia mediterranea sono anche l'olivo e la vite, che, addomesticati dall'uomo in tempi lontani, fanno oggi parte del paesaggio agrario più che dell'ecosistema originale. Mentre gli strati arboreo ed arbustivo sono sempreverdi e cambiano le loro foglie in continuazione durante tutto l'anno, lo strato erbaceo è fortemente condizionato dal clima e dalle variazioni stagionali. Il suo periodo di fioritura è invernale o coincide con le piogge primaverili; per tutto il resto dell'anno lo strato erbaceo si presenta prevalentemente secco, giallastro ed è facile preda degli incendi. Molto diffusi sono gli arbusti aromatici e lattiginosi o con adattamenti xerofili spinti. Le piante grasse e gli arbusti spinosi, come il rosmarino, il timo e lo spigo, riescono a sopravvivere anche nella macchia dove si pratica il pascolo perché non sono apprezzati dal bestiame. La foresta di sclerofille non è un ecosistema molto produttivo e di conseguenza le popolazioni animali vi sono poco sviluppate. Tra i mammiferi della regione mediterranea si trovano prevalentemente erbivori, insettivori e microroditori, come conigli, topi e ricci. Un tipico abitante della foresta di sclerofille è il cinghiale. In California fino al secolo scorso le popolazioni erbivore erano rappresentate da specie di notevoli dimensioni, come l'alce, il cervo e il daino, che si spingevano a popolare le foreste di sclerofille anche in riva al mare dove leccavano i terreni salati. I carnivori erano rappresentati dal leone di montagna e anche dal grizzly che abbandonava volentieri le foreste di sequoia delle montagne. Nell'Australia Sud Occidentale la foresta di sclerofille ha rappresentato un'ottima nicchia per il canguro e altri marsupiali con abitudini erbivore. Nelle foreste di sclerofille sono ben rappresentati i rettili in genere, sia con ofidi (bisce e serpenti) sia con numerosissime specie di lucertole che preferiscono la macchia aperta alla foresta vera e propria. Le popolazioni di uccelli che nidificano in questo tipo di foresta hanno un'alta densità durante la fine della stagione produttiva (primavera) e diminuiscono molto di numero quando in piena estate gran parte della vegetazione erbacea ed arbustiva secca. COLEOTTERI Ordine di insetti che comprende centinaia di migliaia di specie; il termine deriva dal greco koleòs = «astuccio», «fodero» e pterón = «ala» e ricorda che questi insetti possiedono un paio di elitre rigide e chitinose che ricoprono le ali quando l'individuo è in posizione di riposo. Hanno dimensioni variabili da pochi millimetri ai 10 ed anche 15 centimetri di alcune specie tropicali. Spesso tra i coleotteri si nota un forte dimorfismo sessuale. I coleotteri sono animali molto antichi, hanno colonizzato tutti i possibili ambienti: ve ne sono di acquatici, che vivono sottoterra, nelle grotte, nei tronchi, nella sabbia, tra i rifiuti o gli escrementi, in simbiosi con altri animali, ecc. Molte specie non sono in grado di volare (come è il caso dello stafilino odoroso) mentre altre hanno un volo goffo e impacciato. Prendiamo ad esempio alcuni insetti tipici (vedi figura). Il ditisco ha abitudini acquatiche; è in grado di immergersi per parecchio tempo trattenendo sotto l'addome qualche bolla d'aria; è un feroce predatore. Il carabo è un animale notturno predatore; il prototorace è lungo e sottile, adatto per introdurre le forti mandibole dentro il guscio delle chiocciole. La coccinella vive su piante erbacee dove si nutre di afidi o pidocchi delle piante (per questo è considerata utile dai floricoltori). Lo scarabeo rinoceronte ha abitudini piuttosto curiose: all'epoca della riproduzione costruisce pallottole di sterco che vengono immagazzinate in tane sotterranee e sulle quali deposita le uova. Agli scarabeidi appartengono le specie forse più note, come il cervo volante, e quelle più grandi, come l'esotico Golia. Il cerambice vive sulle piante con fiori di cui si nutre; ne esistono moltissime specie, diverse per colore, forma, grossezza caratteristiche di ogni pianta, tipiche sono le enormi antenne che possono anche essere lunghe più del doppio del corpo. Il sigaraio della vite è un coleottero che come tutti i curculionidi, ha l'apparato boccale a forma di rostro e che gli serve per bucare e mangiare i frutti; è così chiamato perché arrotola le foglie della vite a forma di sigaro per deporvi le uova. Alcuni esemplari di coleotteri LUCERTOLA È il rettile più comune presente soprattutto in pietraie, luoghi incolti, boschetti. La lucertola può essere lunga anche 20 cm; ha una colorazione del dorso variabile dal bruno al verde; si nutre di insetti e di piccoli invertebrati. Trascorsi i mesi invernali sottoterra, riprende l'attività con i primi tepori. Essendo un animale con temperatura corporea variabile in rapporto all'ambiente, trascorre molte ore al sole per riscaldarsi. Molto facilmente si vedono lucertole senza coda; l'animale, in caso di pericolo, è in grado di distaccare parte della coda che, con i guizzi delle contrazioni nervose, serve a distrarre il predatore. Una elevata capacità riproduttiva assicura la rapida ricrescita della nuova appendice, lo sviluppo della coda bifida non è un caso eccezionale. Un esemplare di lucertola dal collare CINGHIALE È un agile e possente porco setoloso, veloce nella corsa, capace di penetrare in macchie e cespugli che sfonda senza subire danni grazie alla conformazione della testa conica molto sviluppata e allo spessore della pelle. Le sue dimensioni sono variabili a seconda della sottospecie. Il cinghiale è un animale onnivoro. I branchi sono formati da femmine con i piccoli: nel periodo degli amori si uniscono al branco anche i maschi adulti che negli altri periodi dell'anno vivono solitari. È considerato il progenitore di molte razze domestiche di maiale. In Italia solitamente i maschi non superano i 150 kg, mentre specie di cinghiali che vivono nell'Europa Orientale possono raggiungere i 300. FICO D'INDIA Appartiene alla famiglia della cactacee e presenta evidenti adattamenti xerofiti con cadodi spinosi. È comune sulle sponde del Mediterraneo, ma è originaria dell'America Centrale. In alcune regioni dell'Italia Meridionale viene coltivato per i frutti commestibili. RICCIO È uno dei mammiferi insettivori più noti. In Europa ne esistono due specie piuttosto simili, in Italia solo una. La lunghezza di quest'animale giunge fino ai 30 cm (di cui 2-3 spettano alla coda); il peso varia dai 300 ai 1200 g. Il capo non è ben distinto dal corpo il muso è appuntito; sull'estremità, nera e umida, si aprono le narici. Il corpo è sorretto da zampe corte con dita lunghe armate di unghie; nella parte ventrale presenta una peluria brunastra, mentre dalla fronte alla coda è ricoperto da aculei, grigi alla base e biancastri nella parte terminale, di circa 25 cm di lunghezza. Di fronte ai nemici i ricci si avvolgono a palla, contraendo un muscolo chiamato pellicciaio, e presentano le punte degli aculei, che di solito scoraggiano l'avversario. I ricci vivono prevalentemente in terreni secchi, al limite dei boschi, tra arbusti, siepi, macchie. Sono attivi verso il crepuscolo quando si mettono in caccia per catturare le loro prede: insetti molluschi, crostacei, anfibi che scovano rivoltando le pietre col musetto. Possono cibarsi anche di piccoli uccelli o mammiferi; sono ghiotti di uova. Completano la dieta con frutta. Non si allontanano dalla tana più di due o trecento metri. In inverno i ricci cadono in letargo; vivono isolati e solo in estate si forma la famiglia per l'accoppiamento e la nascita dei figli (da 3 a 10). I piccoli nascono con gli aculei, biancastri, molli ed estremamente elastici. CICALA L'insetto appartiene all'ordine degli omotteri. È grande circa 3 cm; ha due paia di ali membranose ed è caratteristico per lo stridio che il maschio può produrre rilassando di colpo due membrane tese. Le cicale depongono uova nella corteccia degli alberi che vengono punti con l'ovopositore; le larve hanno una vita sotterranea che può arrecare anche danni gravi alla pianta perché l'animale si insedia sulle radici e si nutre succhiandone la linfa. Al momento della muta si sposta alla base dei tronchi dove avviene la trasformazione dell'animale: si rompe l'involucro della ninfa ed esce l'insetto completo. PUMA Chiamato anche leone americano e coguaro, il puma è un carnivoro che può raggiungere i 2 m di lunghezza. Ha testa piuttosto piccola, corpo slanciato e flessuoso; il colore del mantello è bruno rossastro. Ha abitudini notturne, va a caccia di mammiferi diversi. È un buon arrampicatore. Vive in tutta l'America dalle Montagne Rocciose alla Patagonia. GECO È un sauro di piccole dimensioni, lungo circa 15 cm, che vive nelle regioni mediterranee. Ha forma tozza con corpo appiattito e coda breve e fragile che si rigenera facilmente; le dita sono larghe e possiedono nella superficie inferiore pieghe che permettono l'adesione dell'animale a pareti e soffitti, ha occhi grandi. Ha abitudini notturne e si ciba di insetti; è assolutamente inoffensivo nonostante le credenze popolari che spesso lo hanno identificato con la tarantola. AGAVE Non può essere considerata una pianta della foresta di sclerofille. È originaria delle zone calde dell'America, ma una specie, si è acclimatata sulle sponde del Mediterraneo. Ha adattamenti xerofiti dal ciuffo di foglie, larghe e carnose, si alza un asse fiorale lungo anche qualche metro con in cima i fiori uniti in pannocchia o in grappolo. La pianta fiorisce una sola volta e poi muore. LA FORESTA TROPICALE Con il mare, la foresta di tipo tropicale è l'ambiente della biosfera in cui è insediata la maggior parte delle specie viventi. In questo ecosistema si trovano tutti gli animali e le piante che non sopportano il gelo o l'arsura e che sfruttano convenientemente il clima caldo umido dell'Equatore e della fascia tropicale dove oggi si è ristretto questo tipo di foresta. In un ecosistema dove i fattori ambientali legati al clima sono così favorevoli alla vita, il fattore che esercita la sua azione limitante è la quantità della luce. Può sembrare strano che nella fascia più soleggiata del mondo l'assenza di luce solare limiti in qualche modo la crescita delle comunità vegetali e di conseguenza quella di certi settori della comunità eterotrofa. Il motivo risiede nella struttura verticale di questo ecosistema. I tre strati fondamentali (arboreo, arbustivo ed erbaceo) nella foresta tropicale divengono estremamente complicati e la loro stessa divisione non è così netta come nelle altre foreste. Si dice che la foresta tropicale è pluristratificata. Con questo però ci si riferisce soprattutto alla situazione dello strato arboreo, formato da moltissimi alberi di diversa specie e di diversa altezza. Questo, per la sua complessità, viene suddiviso ancora in altri tre strati. Quello più elevato, comprende alberi che possono superare l'altezza di 60 m e determina le caratteristiche del popolamento vegetale della foresta sottostante. Queste piante altissime, dalle chiome folte ed intrecciate, formano una densa cupola al di sopra della restante comunità vegetale. Sotto si dispongono le altre specie arboree meno esigenti in fatto di luce, via via sino agli strati arbustivi. La quantità di luce che filtra dagli strati superiori è talmente esigua, che lo stato erbaceo viene a mancare ed è sostituito da muschi e da licheni. Liane, orchidee, radici subaeree sono caratteristiche della foresta tropicale e contribuiscono a darle un aspetto intricato. Le liane e le piante di orchidea sono specie epifite, che si appoggiano ad altre piante e in questo modo ricevono la quantità ottimale di luce e di umidità e in generale si adattano meglio all'ambiente. Le radici subaeree sono simili alle radici sotterranee delle altre piante, ma scendono dai rami. Nell'area geografica dove si trova questo ecosistema si può dire che non esistano variazioni stagionali: c'è una specie di estate perpetua in cui però possono improvvisamente scoppiare temporali torrenziali, come nelle foreste di tipo equatoriale. Se invece esiste una stagione delle piogge più o meno regolare si hanno foreste di tipo monsonico. In entrambi i casi però il fattore ambientale umidità è mantenuto costante durante tutto l'anno dall'ecosistema stesso. La massa enorme del fogliame sempre verde e continuamente rinnovato si oppone infatti all'azione diretta del sole e contemporaneamente trattiene le masse di vapor acqueo che si sprigionano dal substrato riscaldato: impedisce l'evaporazione dell'acqua piovana che anche molto tempo dopo il ritorno del sereno continua a gocciolare da uno strato all'altro della vegetazione. Nella foresta tropicale i cicli vitali non sono ritmati sulle stagioni. Vi sono piante che cambiano il loro fogliame solo ogni 15-20 mesi, cosicché l'aspetto del paesaggio può risultare un poco monotono. La produttività di una tale biomassa vegetale è più elevata che in ogni altro ecosistema terrestre o marino: si calcola che in un anno le foreste tropicali della Terra producano 24.000 milioni di tonnellate di carbonio. Questa enorme energia viene interamente usata dalla comunità eterotrofa per accrescersi: il materiale in decomposizione non si deposita a formare humus, ma viene rapidamente mineralizzato e interamente riassorbito perché l'attività dei funghi e batteri, è elevatissima grazie alle ottimali condizioni del clima. Così il substrato della foresta tropicale, quando non è acquitrinoso, risulta compatto e piuttosto povero di elementi nutritizi. Molte specie, presenti nei climi più temperati con piante erbacee o arbustive, nella foresta tropicale hanno forme e dimensioni arboree: è il caso delle felci arborescenti, del bambù, di alcune specie di palme. Spesso ai margini delle foreste tropicali in coincidenza con le coste marine basse o generalmente dove sono presenti paludi salmastre si incontra un popolamento particolare: le associazioni di mangrovia. Queste piante vivono anche ai margini della foresta su substrati asfittici, che non permettono cioè la respirazione dei tessuti vegetali. Nella foresta tropicale, dove assume grande sviluppo lo strato arboreo, vivono popolazioni animali particolarmente adatte alla vita arboricola. Molte diffuse sono le popolazioni di primati (scimmie) che pascolano e raccolgono i frutti degli strati alti della vegetazione, di felini (giaguaro, puma, tigre), predatori e carnivori, uccelli rapaci (aquila gridatrice africana, gufo, arpia delle foreste sud-americane) e onnivori (pappagalli, are). La grande varietà di colori, piumaggi e decorazioni delle livree degli uccelli che vivono in questo ecosistema tropicale è da mettersi in relazione proprio con la vita arboricola. In questo ambiente infatti ha enorme importanza la vista: i colori e le forme vistose hanno proprio la funzione di rendere gli animali più visibili. Gli stessi primati arboricoli, pur appartenendo a un gruppo di mammiferi generalmente caratterizzato da una colorazione bigia o marrone della pelliccia, hanno toni verdi e bluastri e persino rossi; insieme hanno riacquistato la capacità di percepire i colori che manca in molti mammiferi terricoli. Questi sono «fisiologicamente daltonici» perché nel corso dell'evoluzione il loro genere di vita ha acuito più l'olfatto che la vista. Molto rappresentati nella foresta tropicale sono gli insetti, che popolano indifferentemente il substrato o la vegetazione dell'ecosistema. Spesso raggiungono dimensioni notevoli: esistono specie di farfalle con individui anche di 30 cm d'apertura alare. Gli insetti hanno una importante funzione regolatrice; la capacità divoratrice delle formiche tropicali o delle termiti, che vivono in popolazioni di oltre 100.000 individui, limita l'accrescimento della biomassa. Questa attività, appena percepibile nell'economia della foresta, è uno dei tanti meccanismi regolatori dell'ecosistema. Certi artropodi, come ragni e scolopendre, presenti anche nei nostri climi, subiscono invece particolari adattamenti: nella foresta tropicale sono rappresentati da specie velenose. Per quanto riguarda le popolazioni eterotrofe terricole, il fattore che condiziona strettamente la loro vita è l'acqua. Ben rappresentati sono i rettili come gli alligatori, le tartarughe e l'anaconda. Vi sono anche forme animali decisamente acquatiche come certi irudinei (sanguisughe) o anfibi (rane e raganelle) che per la eccezionale umidità dell'ambiente riescono anche a riprodursi fuori dall'acqua deponendo le uova sulle foglie o i fiori degli strati di vegetazione più bassi, perennemente grondanti di pioggia. Generalmente però lo strato più basso della foresta tropicale rivela una notevole povertà di specie animali. I mammiferi terricoli sono pochi, sprovvisti di pelo ed assumono forme più piccole rispetto ai generi che vivono al di fuori di questo ecosistema. Si pensa che per essi la foresta tropicale sia solo un ambiente di rifugio. Ai margini della foresta tropicale si trovano tuttavia anche elefanti, formichieri, tapiri, armadilli. Spesso si associa all'idea di foresta tropicale l'espressione di «foresta vergine». In realtà l'uomo nella sua storia ha sempre avuto rapporti con questo ecosistema pur così difficile per la sua esistenza. Già prima della colonizzazione dell'uomo bianco le foreste tropicali erano utilizzate dalle popolazioni locali per le attività agricole non stabili. Ma il disboscamento praticato con poveri mezzi tecnici, non modificava molto profondamente l'ecosistema naturale. Oggi la colonizzazione ha profondamente cambiato la vita delle popolazioni umane della zona tropicale: la loro densità è in via di rapido aumento e i cicli di rotazione delle messe a coltura si sono fatti più brevi, non permettendo più la rigenerazione della foresta primitiva. Le colture specializzate (caucciù, cacao, banane), introdotte dagli Europei in Africa e nell'America Latina ed in certe regioni asiatiche per l'esportazione dei prodotti, sottraggono poi all'ecosistema una gran parte della sua produzione primaria e ne provocano una rapida regressione. Taluni stimano che la foresta tropicale in Africa dopo la colonizzazione europea del secolo scorso e dei primi decenni del nostro secolo sia diminuita di 2/3. Questo processo di sostituzione con ecosistemi modificati e più o meno bene controllati dall'uomo è in continua espansione: nel Ghana, ad esempio, le piantagioni di cacao si estendono con un ritmo di 75.000 ettari per anno a spese della foresta; nel Rwanda e nel Burundi ogni anno sui contorni della foresta viene distrutta una fascia spessa un chilometro. Nell'America del Sud e nell'Asia il disboscamento industriale della foresta tropicale è stato fortissimo anche in conseguenza di un'economia coloniale che mirava allo sfruttamento intensivo delle risorse. Il Brasile ha perduto il 40 per cento della copertura forestale originaria aprendo la strada in certe regioni ad un'irrefrenabile erosione del suolo. INSETTO FOGLIA O FOGLIASECCA L'insetto è classificato nel sottordine dei fasmidi (ordine degli ortotteri), che raggruppa insetti dotati di spiccata abilità mimetica. La forma assai strana, colori tendenti al marrone o al verdastro e movimenti lentissimi li rendono difficilmente individuabili nell'ambiente in cui vivono. L'insetto foglia abita nelle foreste delle isole della Malesia; ha abitudini notturne e si ciba di vegetali. FORMICHIERE È un mammifero privo di denti (appartiene all'ordine degli sdentati) che si nutre di insetti, quasi esclusivamente formiche e termiti, catturate con la lunga lingua vischiosa, vermiforme ed estroflessibile. Ha corpo allungato e robusto, arti ben sviluppati muniti di grossi unghioni con cui scava il terreno alla ricerca di insetti. Caratteristico è il profilo del corpo, assai allungato con muso quasi tubolare. La pelliccia è folta con peli lunghi e grossolani. Vive per lo più solitario o in coppia. Il formichiere gigante è lungo sino a 120 cm ed alto 60 cm alla spalla. È diffuso nelle foreste tropicali e nelle savane dal Messico all'Argentina. TERMITI Sono insetti appartenenti all'ordine degli isotteri caratterizzati da abitudini di vita spiccatamente sociale. Sono divisi in caste che comprendono re e regine dotati di ali, operai e soldati atteri. Solo i primi sono fertili e possono riprodursi; dopo l'accoppiamento la regina perde le ali e dall'addome diventato enorme (in alcune specie può essere lungo anche 15 cm) comincia a depositare le uova da cui nascono tutti gli individui del termitaio. La vita della regina può essere molto lunga e si svolge all'interno del nido. Gli operai, maschi e femmine sterili, ciechi e depigmentati, hanno dimensioni assai più modeste raggiungendo appena pochi millimetri; provvedono a tutte le esigenze della comunità. La difesa è affidata ai soldati, anche questi maschi e femmine sterili che hanno il capo dotato di strumenti di offesa: robuste mandibole o estremità appuntite. Le termiti si nutrono di legno e sono perciò molto dannose perché possono produrre enormi danni alle costruzioni e alle derrate alimentari. Vi sono specie che vivono nei tronchi ed altre che costruiscono con la terra impastata termitai a forma di cumuli che in certe specie possono raggiungere anche alcuni metri di altezza. ORCHIDEA È una pianta ben conosciuta per i suoi caratteristici fiori, solitari o a grappolo di aspetto carnoso, di forma complicata e dai delicati colori. Vive come pianta epifita nelle foreste tropicali molto umide dove si trova sui rami di altre piante con radici aeree che pendono e che servono ad assorbire direttamente l'acqua dall'aria. Esistono anche specie adattate ad ambienti freddi. La coltivazione avviene in serre con la pianta posta in vasi o su pezzi di tronco o di torba. Esemplare di orchidea TAPIRO È un mammifero perissodattilo che assomiglia ad un suino; ha il corpo allungato e il muso che termina con una specie di proboscide. Ha 4 dita nelle zampe anteriori e 3 in quelle posteriori. Può essere alto 1 m e lungo 2 e mezzo. I tapiri amano vivere in mezzo a macchie fitte vicino a corsi d'acqua. Sono attivi di notte quando vanno in caccia di cibo costituito da erbe e frutti. TIGRE È un grosso felino carnivoro di grandi dimensioni che può raggiungere anche i 3 m di lunghezza. Ha un mantello color rosso fulvo con strisce nere. È diffuso in Asia, in Cina, in Siberia, in India, nelle isole di Sumatra e Giava; vive in ambienti dove esiste una boscaglia umida (giungla), o dove la savana ricca d'acqua permette la formazione di una foresta detta a galleria. È un animale assai agile nel correre, saltare, nuotare, mentre non si arrampica. Si ciba di mammiferi ed aggredisce anche erbivori di grossa mole come i bufali ma all'occorrenza si accontenta di animaletti più piccoli; può essere pericolosa anche per l'uomo. In molte aree è quasi estinta per l'intensa caccia di cui è stata oggetto; la sua pelliccia è infatti assai ricercata. Oggi la specie è protetta. Esemplare di tigre ALLIGATORE Appartiene ad una famiglia dell'ordine dei Coccodrilli. È caratterizzato da muso largo, appiattito, a forma di spatola e da una corazza a placche ossee interrotta tra capo e dorso. Può presentare placche anche nella regione ventrale. Esistono due specie di alligatore: quello del Mississippi, verde scuro sul dorso e giallastro sul ventre, e quello della Cina, verde nero sul dorso e grigio sul ventre. Mentre il primo può raggiungere i 4 m, il secondo non supera i 2. Il primo è più noto perché adoperato negli spettacoli dei circhi e presente nei giardini zoologici; una volta era frequente allo stato libero in tutto il Sud America, mentre oggi è ridotto a pochi esemplari che hanno trovato rifugio in zone poco frequentate dagli uomini. L'alligatore può vivere una sessantina d'anni; l'accrescimento è rapido all'inizio, appena nato misura 25 cm, a 5 anni è lungo un metro e mezzo. Le femmine depongono le uova lungo le rive, in nidi costituiti da foglie ed erba che marcendo sviluppano il calore necessario all'incubazione; dopo circa 2 mesi si aprono le uova (una trentina). Gli alligatori sono generalmente più attivi dopo il tramonto; si nutrono di tutto ciò che riescono a catturare a fior d'acqua e di piccoli pesci. ANACONDA Si distingue dagli altri serpenti per il peso e per la lunghezza; a parità di lunghezza un'anaconda pesa più di un altro serpente perché ha una struttura del tronco molto massiccia. Con una lunghezza di 5 m può raggiungere un peso di 60 kg; esistono foto di un esemplare lungo circa 6 m e del peso di 107 kg. Nel secolo scorso molti esploratori parlarono di anaconde lunghe anche 12 m, ma vi è il sospetto che si trattasse di pelli tirate per allungarle prima di essere essiccate. L'anaconda vive nelle foreste del Brasile; ha abitudini acquatiche e può rimanere immersa a lungo. Nonostante le spettacolari dimensioni non è aggressiva; alla vista dell'uomo tende a fuggire in acqua. Si nutre di piccoli mammiferi e di uccelli, solo raramente di animali più grandi. Non è velenosa e si serve delle spire per stritolare la preda. Le madri possono mettere al mondo da 4 a 40 piccoli che alla nascita possono essere già lunghi più di 70 cm. IGUANA Con questo termine si indicano rettili simili a lucertole di grandi dimensioni che vivono nell'America Centrale e Meridionale in ambiente arboricolo o in vicinanza di acque. L'iguana dai tubercoli si ciba di sostanze vegetali e può raggiungere anche la lunghezza di 1 m e 75 cm. Lungo tutto il dorso ha una cresta spinosa. FARFALLA I disegni e i meravigliosi colori che adornano le ali di molte farfalle hanno diverse funzioni: di riconoscimento sessuale, di assorbimento del calore solare, di segnalazione di appartenenza a una specie di sapore sgradevole a eventuali predatori. Esistono più di 100.000 specie di farfalle adattate ad ogni specie di ambiente. Le più grandi sono quelle appartenenti alla famiglia dei saturnidi che vivono in Asia del Sud e in Malesia; le femmine di questa specie possono raggiungere i 17 cm di apertura alare. Le loro grosse uova vengono incollate alle foglie di molti alberi su cui troveranno alimento i bruchi giganti, forma larvale della farfalla. Esemplare di farfalla IPPOPOTAMO È un mammifero artiodattilo non ruminante. Può raggiungere la lunghezza di 4 metri e mezzo e un peso di 4 t. Ha struttura tozza e massiccia; occhi piccoli e sporgenti. Gli ippopotami vivono in branchi nei fiumi (da qui il loro nome che significa «cavallo da fiume», dal greco hìppos = «cavallo», potamòs = «fiume») prediligendo le zone dove le acque sono calme o stagnanti. Stanno per lungo tempo immersi col corpo lasciando emergere soltanto la testa per respirare. Si nutrono di erbe acquatiche. Una volta erano frequenti in tutti i fiumi africani; l'intensa caccia di cui sono stati oggetto per utilizzarne la pelle e la carne commestibile, li ha fatti quasi scomparire. Si trovano ancora nelle aree più interne. Esemplari di ippopotamo SCIMMIE Sono mammiferi suddivisi in due gruppi: catarrine o scimmie del Vecchio Mondo e platirrine o scimmie del Nuovo Mondo. Il termine catarrine (dal greco katà = «basso» e rin = «naso») sta ad indicare il gruppo di scimmie più evoluto caratterizzato appunto dalle narici rivolte più o meno verso il basso. Molte catarrine sono prive di coda e questa, se presente, non è prensile. Il sottordine delle catarrine comprende due famiglie: i cercopitecidi e i pongidi o antropomorfe. Della prima fanno parte tutte quelle scimmie che presentano sulle natiche aree prive di peli, piuttosto appariscenti perché di color rosso. Comprendono circopiteci, mandrilli, macachi. I cercopiteci hanno le dimensioni di un gatto; hanno muso piccolo, tronco elegante e robusto, arti slanciati, ma corti. Sono le scimmie più comuni del continente africano, divise in 12 specie e 70 sottospecie. Hanno colori che vanno dal grigio al verdastro o al rossastro. Sono tutte gregarie e arboricole; vivono in gruppi di 30-40 individui sotto la guida di un vecchio maschio. Il mandrillo può misurare un metro, compresa la coda che è ridotta ad un mozzicone. La testa è piuttosto grande rispetto al corpo ed è leggermente convessa, con muso grosso e allungato, attraversato da solchi di color rosso. Anche il naso è rosso scarlatto. Il labbro superiore è sormontato da peli simili a un paio di radi baffetti, il mento è ornato da una barbetta arancione. Il pelo del resto del corpo è bruno e bianchiccio. La più nota specie di macaco è la bertuccia, alta circa 50 cm e lunga 75 esclusa la coda. Ha dorso bruno giallastro e ventre giallo biancastro; la testa è bruna. È diffusa sul continente africano ed è presente anche sullo scoglio di Gibilterra. La bertuccia è l'unica scimmia europea. I pongidi o scimmie antropomorfe presentano una robusta struttura corporea, assenza di coda e tasche guanciali, arti anteriori più lunghi dei posteriori, ridotte o assenti callosità nella regione delle natiche. I loro feti hanno marcate somiglianze con quelli umani. Sono suddivise in due sottofamiglie: ilobati, di cui fa parte il gibbone, e pongini che comprendono le scimmie forse più conosciute come gorilla, scimpanzé, orango. Tra le antropomorfe il gibbone è la scimmia che meno assomiglia all'uomo. Ha abitudini gregarie ed arboricole, mostra una eccezionale abilità nel volteggiare tra i rami. I pongini hanno aspetto più umano; vivono solo in Africa e in alcune isole della Sonda. L'orango colpisce per la notevole lunghezza degli arti anteriori, per la caratteristica andatura un po' ondeggiante (dipendente dal tipo di articolazione del piede con la caviglia) e per il grande sviluppo della testa. Le dimensioni possono essere notevoli: un vecchio maschio può essere alto quasi 2 m e avere un'apertura di braccia di 3. Nonostante l'aspetto, gli oranghi sono miti; solo se feriti o nell'impossibilità di fuga diventano pericolosi. Lo scimpanzé è molto più piccolo; il maschio può al massimo raggiungere il metro e mezzo. È la scimmia dal muso più umanoide, quella che è stata più utilizzata in circhi, baracconi o fiere per la sua abilità, per l'intelligenza e per la capacità di adattamento. Vive sugli alberi in famiglie numerose costituite da un vecchio maschio, parecchie femmine e moltissimi giovani. Nel secolo scorso a causa dell'alto prezzo con cui era possibile vendere scimpanzé a istituti di ricerca e a musei, fu oggetto di intensa caccia. Oggi è rigorosamente protetto. Il gorilla è il pongide più grande. Più alto dell'orango, può raggiungere un peso di 300 kg. È piuttosto mite soprattutto da giovane; da vecchio diventa irascibile e più pericoloso, anche se tende a sfuggire l'incontro con l'uomo. Ha abitudini meno arboricole degli altri pongidi e si sposta frequentemente camminando. Vive in famiglie dove c'è un maschio ed una o più femmine con i piccoli che sono nati da loro. Le platirrine sono scimmie con largo setto nasale e narici poste ad una certa distanza l'una dall'altra. Sono piuttosto piccole e eleganti, meno evolute delle catarrine. Hanno testa tondeggiante e pollici che non sono mai opponibili alle altre dita. La coda piuttosto lunga, è prensile; in qualche specie è dotata di creste papillari che le danno capacità tattili. Le platirrine vivono solo nelle foreste tra il Messico meridionale e l'Argentina. La scimmietta leonina è lunga circa 70 cm, ha il musetto color carne circondato da una folta criniera giallo-rossastra, che le dà il nome. Il chichico o uitisti pigmeo è lungo solo 16 cm ed è il più piccolo primate. Le scimmie urlatrici hanno abitudini arboricole; sono barbute e dotate di un complicato sistema di sacche laringee che serve ad amplificare i suoni. I cebi cappuccini raggiungono i 40 cm ed hanno coda altrettanto lunga. Hanno pelo abbondante soprattutto sulla testa dove forma ciuffi, barba e cappuccio. Sono le scimmie più comuni nei giardini zoologici per la facilità con cui si acclimatano. Esemplari di orango MANGROVIA La mangrovia non è provvista di normali radici, ha soltanto delle particolari radici aeree, arcuate, che immerge nella fanghiglia salmastra. Nei periodi di alta marea la mangrovia rimane sommersa dalle acque sino alle fronde: durante i periodi di secca invece le sue stesse radici sono esposte all'aria. La respirazione delle radici durante il periodo di immersione avviene per mezzo di particolari formazioni dette pneumatofori (dal greco pnéuma = «soffio» e phérein = «portare» «portatori di aria») simili a rami senza foglie ma provvisti di numerosi forellini, che emergono dalle acque durante il periodo di immersione della pianta. Anche la riproduzione non si svolge secondo la normale germinazione delle piante superiori, le mangrovie sono vivipare cioè la pianticella figlia nasce e si accresce sul corpo della madre e se ne separa solo quando è ben sviluppata; una volta separata dal corpo materno cade nell'acqua sottostante, ma è già provvista di sue radici aeree che conficca nel fango del fondo. I NAMBIKWARA Immaginiamo un territorio grande come la Francia e in gran parte inesplorato, coperto da arbusti spinosi e contorti: è l'altopiano del Mato Grosso, nel centro del Brasile. Piccoli gruppi di indios nomadi percorrono questo territorio: sono i Nambikwara. Lévi-Strauss, un etnologo francese, vissuto per alcuni mesi nel 1938 con un gruppo di essi ha descritto come vivono, nel libro Tristi tropici. Nella stagione secca, che va da marzo a ottobre, i Nambikwara vivono dispersi in piccoli gruppi in accampamenti costituiti da 7 o 8 ripari fatti di foglie di palma infisse nel terreno, sotto i quali ogni famiglia ripone i propri oggetti. I Nambikwara non portano vestiti; gli uomini hanno solo un fiocco di paglia appeso alla cintura e le donne qualche ornamento di conchiglie o di cotone. Al mattino, quando sorge il sole, si attizzano i fuochi, si fa una leggera colazione con gli avanzi della sera e gli uomini partono per la caccia con arco e frecce. Donne e ragazzi, invece, armati di bastoncini appuntiti vanno in cerca di radici, uova, piccoli animali, insetti. I ragazzi si rendono presto conto del problema più grave della vita nambikwara, quello del cibo, perciò partecipano alle spedizioni di raccolta. Quando gli uomini tornano dalla caccia, spesso senza aver preso nulla perché la selvaggina è scarsa, si mangiano gallette di manioca o ciò che è stato trovato durante il giorno. Alla sera a turno le donne vanno a far provvista di legna. I rami vengono ammucchiati in un angolo e ognuno ne prende secondo il bisogno. Attorno ai fuochi si radunano le famiglie; la vita familiare è allegra e piena di tenerezza: si vedono spesso marito e moglie che scherzano e si accarezzano affettuosamente. Gli uomini trattano le donne con grande gentilezza e le aiutano nelle piccole faccende domestiche. Marito e moglie sono indispensabili l'uno all'altra: nella stagione della secca è la moglie che procura gran parte del cibo ed è lei che durante i lunghi spostamenti porta in una grande cesta tutti i beni posseduti dalla famiglia. Nella stagione delle piogge, quando i vari gruppi si riuniscono in un unico villaggio, è il marito che provvede alla necessità alimentare piantando e coltivando giardini in cui crescono manioca, mais, fagioli, cotone, arachidi, zucche, tabacco. Le coppie nambikwara hanno pochi bambini, uno o due, perché le difficoltà di procurarsi il cibo impedirebbe loro di allevarne di più. I bambini non vengono mai puniti: non si fa mai il gesto di picchiarli se non per gioco. I padri costruiscono piccoli archi per i loro figli e li portano a passeggio sulle spalle. Le mamme fanno divertire i piccoli: afferrano il bambino e ridendo fanno finta di buttarlo a terra: - Andam no tebu - (ora ti butto). - Ninui - (non voglio). Risponde il bambino con voce acutissima. Il capo ha il compito di cercare un luogo adatto per costruire il villaggio e di stabilire gli itinerari da seguire durante la stagione secca; ma le sue decisioni sono valide se sono accettate da tutti i membri del gruppo. Poco tempo dopo il viaggio di Lévi-Strauss, due missioni, una di Gesuiti ed una di protestanti americani, si erano stabilite accanto al villaggio di questo gruppo di Nambikwara. Un altro etnologo ha descritto dieci anni dopo lo stesso gruppo: «Di tutti gli indios che ho visto nel Mato Grosso, questo gruppo riuniva i più disgraziati. Tutti erano malati ed avevano l'addome gonfio per i parassiti intestinali. La loro avversione a lavarsi produce la formazione di un intonaco di polvere e di cenere sulla loro pelle. I Nambikwara sono attaccabrighe e ineducati. Quando andavo a fare visita ad uno di essi nel suo accampamento egli vedendomi mi voltava la schiena dicendo che non desiderava parlarmi. Non è necessario rimanere a lungo presso i Nambikwara per rendersi conto dei loro profondi sentimenti di odio, di diffidenza e di disperazione». Come mai lo stesso gruppo di uomini, che aveva suscitato tanta simpatia e amicizia in Lévis-Strauss per la sua gentilezza e spontaneità, appariva ora così diverso? Lévis-Strauss aveva conosciuto i Nambikwara quando nessuno ancora aveva cercato di sottometterli. Invece i missionari avevano imposto loro di cambiare abitudini, di vivere secondo i costumi europei. Perché i Nambikwara avrebbero dovuto indossare vestiti dal momento che erano sempre stati abituati a muoversi liberamente senza indumenti che li impicciassero? E i loro riti, le loro danze, i loro giochi? Perché dovevano rinunciare ad essi? I Nambikwara rifiutavano di distruggere i loro usi, le loro abitudini, cioè la loro cultura, e rispondevano ai tentativi dei missionari sfuggendo agli uomini bianchi; ecco perché sembravano poco socievoli. Resistevano passivamente, cioè non facevano nulla. Rifiutavano persino di lavarsi, proprio essi che, secondo quanto racconta Lévis-Strauss «erano abituati a bagnarsi nel fiume più volte al giorno, anche per divertimento». LA SAVANA La savana è un ecosistema che per il paesaggio aperto e i grandi spazi assomiglia alla prateria, ma la distribuzione geografica di questi due ecosistemi è molto diversa. La savana si trova nella fascia tropicale dove mancano totalmente le praterie, essa inoltre può apparire qua e là punteggiata da numerosi alberi e grossi arbusti che invece non si trovano nelle praterie. La storia naturale delle savane è piuttosto complessa; si tratta certamente di un ecosistema determinato dal clima, ma in molti casi è un ambiente secondario risultato dalla distruzione delle foreste tropicali umide ai cui margini si trova. Il clima della savana conosce tre sole stagioni: una calda e umida, una calda e asciutta ed infine una fredda e molto secca. La savana può assumere tre aspetti diversi in relazione alla disponibilità di acqua e alle variazioni di temperatura: si può incontrare una savana erbacea, una savana arbustiva, che può assomigliare ad una rada boscaglia con alberi non molto alti sempreverdi o con specie decidue, e una savana boscosa, dove gli alberi sono più fitti. Quest'ultima appare come una specie di foresta molto rada, dove la luce del sole penetra agevolmente anche nel periodo di fogliazione estiva. Insensibilmente questa savana boscosa trapassa nella vera e propria foresta tropicale umida. Nella savana erbacea il tappeto erboso è costituito per larga parte da associazioni di graminacee, erbe molto resistenti e prive di esigenze particolari, ma vi sono pure abbondanti altre erbe come quelle appartenenti alle famiglie delle composite e delle leguminose. L'altezza del manto vegetale si aggira attorno al metro, ma talune specie raggiungono facilmente anche i 2 e perfino i 4 m, come la canna da zucchero selvatica. Durante la stagione secca il manto erbaceo ingiallisce, si dissecca e molto frequentemente si incendia. Il fattore fuoco ha una grande importanza soprattutto nella diffusione e nel mantenimento della savana erbacea a spese della foresta tropicale umida. Se il passaggio tra la savana e la foresta tropicale appare netto, ciò si deve appunto al fuoco che si arresta al margine della zona arborea e ne limita nello stesso tempo l'espansione. Nella savana erbacea le fiamme impediscono inoltre la nascita di arbusti. Nella savana erbacea vivono in mandrie numerose erbivori, come bovini, antilopi, zebre e giraffe alla continua ricerca di pascolo e vi si incontra anche il rinoceronte: nella savana arbustiva l'ambiente è meno adatto alla vita animale; ci sono grossi erbivori come gli elefanti, che si spostano dalla savana arbustiva a quella boscosa. Nella savana arbustiva e in quella boscosa vivono forme arboricole come le scimmie che trovano un habitat favorevole soprattutto nelle zone meno secche. Qui, in associazioni molto sparse, si incontra il baobab, un albero che presenta adattamenti particolarmente efficaci all'ambiente secco. L'enorme tronco è formato da tessuti spugnosi che trattengono riserve d'acqua; il ridotto sviluppo dei rami e le foglie piccolissime limitano la traspirazione del prezioso elemento. Esiste una spiccata tendenza nelle popolazioni di erbivori della savana a vivere organizzati in comunità: mandrie e branchi piuttosto compatti. Questo fatto si spiega con la necessità di organizzare una difesa contro il pericolo comune: l'aggressione da parte dei grossi carnivori predatori. Nel continente africano questi sono rappresentati soprattutto dal leone, dal leopardo e dalla iena. Nella savana l'unica salvezza per gli indifesi erbivori è la fuga; a questo scopo si creano spesso delle alleanze tra specie diverse, come si è notato tra le giraffe e gli elefanti che si aiutano in un reciproco compito di vigilanza. Gli elefanti hanno un ottimo olfatto, ma una vista piuttosto debole, al contrario delle giraffe; vivendo insieme le due specie cumulano questi vantaggi. La savana erbosa è un po' considerata la tavola di banchetto del re degli animali, il leone. A piccoli gruppi questi felini trascorrono la maggior parte del giorno, anche 20 ore, dormendo sdraiati all'ombra nelle zone dove la vegetazione è più fitta. Poi per giorni e notti sono in grado di rimanere in caccia; i loro cicli biologici di riposo ed attività non sono strettamente legati al ciclo giornaliero, al susseguirsi del giorno e della notte, ma si sono adattati al particolare ambiente della savana, alle sue grandi distanze, alle sue cacce fatte di interminabili, spossanti inseguimenti. I carnivori della savana asiatica erano rappresentati soprattutto dal leone, ma a questo felino è stata data una caccia così spietata che oggi è scomparso quasi completamente da quell'ecosistema. Si trovano ancora, tigri e pantere. L'utilizzazione agricola delle savane da parte dell'uomo è stata piuttosto bassa a causa del suolo poverissimo di humus che caratterizza questo ambiente. Le popolazioni indigene praticano ancora, in certi casi anche intensivamente, un tipo di agricoltura itinerante. Molto attiva è stata invece la caccia, non solo ai grossi felini, ma anche a zebre, giraffe ed elefanti, condotta a scopo di lucro per ottenere l'avorio delle zanne e le pellicce. Proprio a causa della dissennata caccia del passato, il numero di questi animali è estremamente ridotto. Oggi la loro caccia è proibita e i grossi, caratteristici animali della savana vivono in parchi nazionali. GIRAFFA È un mammifero erbivoro ruminante caratterizzato dalla vistosa lunghezza del collo dovuta all'eccezionale allungamento delle 7 vertebre cervicali. Ha arti molto sviluppati e slanciati che le conferiscono un'altezza di quasi 6 m. Il peso varia tra i 500 e i 1000 kg. Il tronco è grosso con dorso molto inclinato e in proporzione molto corto. Il mantello è bianco giallastro solitamente ricoperto da macchie scure e irregolari. Le giraffe vivono in branchi composti normalmente da 10-20 capi sotto la guida di un maschio adulto. Si nutrono di foglie e prediligono l'ambiente della savana a boscaglia rada. La specie è ampiamente diffusa nell'Africa subsahariana con 8 sottospecie. Esemplari di giraffa LEONE È un grosso mammifero caratteristico delle savane africane; un tempo era diffuso anche nel bacino del Mediterraneo Orientale. Attualmente esistono piccole popolazioni in Asia Minore e in India. Questo felide, lungo fino a 2 m e del peso di 150-200 kg, è alto al garrese sino a 1 m. Le femmine sono più piccole e non hanno la folta criniera caratteristica dei maschi. Il leone vive in gruppi familiari composti da uno o più maschi adulti, svariate femmine e molti giovani. Ogni gruppo caccia su un vasto territorio entro il quale si sposta irregolarmente. Solitamente durante la caccia sono le femmine che attaccano gli erbivori di grosse e medie proporzioni che costituiscono le prede abituali. ZEBRA È un equide diffuso in Africa Orientale, Meridionale e Centro Meridionale. È contraddistinta dal mantello, ornato da numerose bande trasversali nere o bruno-rossastre su sfondo bianco-giallastro. Si pensa che questa insolita livrea sia utile a rendere più difficile per i predatori la localizzazione dell'animale. Le zebre vivono in grandi branchiformati da numerosi gruppi familiari del tutto autonomi, generalmente costituiti da un vecchio maschio e da alcune femmine con i piccoli. La zebra di Grant, che vive nel Kenia Settentrionale, è una delle sottospecie più note. Le strisce del suo mantello, nere e bianche, sono larghe ed estese sino agli zoccoli. È alta fino a 140 cm al garrese; ha un collo molto robusto sormontato da una criniera corta ed eretta. ANTILOPE È un nome usato per indicare diversi mammiferi appartenenti alla famiglia dei bovidi ruminanti: orice, saiga, gazzella. Nell'uso comune sta a indicare la cervicapra dei canneti che vive in Africa vicino a fiumi, stagni o laghi. È alta al garrese 90 cm ed è molto agile e snella. Il maschio è dotato di corna curvate in avanti di circa 30 cm. Ha mantello con pelo corto di color rossastro dorsalmente e biancastro sul ventre. Vive in branchi di 6 o 7 individui; all'avvicinarsi di un pericolo si acquatta al suolo rimanendo perfettamente immobile, ma, se scoperta, si dà a fuga velocissima. L'antilope nera ha corna che nel maschio possono raggiungere i 120 cm. IENA La iena macchiata è un mammifero di medie dimensioni, lungo circa 160 cm, alto al garrese fino a 90 cm. Ha abitudini notturne e vita di gruppo. Il pelame irsuto e rado le conferisce un aspetto sgradevole, ma per un animale che introduce la testa nel ventre delle prede per divorarne le interiora, risulta funzionale in quanto sangue e liquidi organici si staccano facilmente dal pelo appena essiccati. Contrariamente a quanto si credeva le iene cacciano direttamente (zebre, gnu e gazzelle) e quindi le carogne di animali abbattuti da altri predatori rappresentano solo un completamento della loro dieta. A volte gli stessi leoni sottraggono alle iene la preda. La iena è diffusa in tutta l'Africa subsahariana. RINOCERONTE Appartiene all'ordine dei perissodattili; dopo l'elefante è il più grosso mammifero terrestre. Può raggiungere alla spalla un'altezza di quasi 2 m ed una lunghezza di quasi 5 m (di cui circa 60 cm appartengono alla coda). Ha corpo massiccio e testa molto grande con cranio stretto e muso lungo. Caratteristica è la presenza di uno (nel rinoceronte indiano) o due (nel rinoceronte bianco) corni fatti di un insieme di fibre. Il corno anteriore del rinoceronte bianco può essere lungo anche 1 m. La pelle dei rinoceronti è spessa, sprovvista di peli e segnata da profonde pieghe che suddividono il corpo in aree ben delimitate. I rinoceronti sono dotati di buon udito e olfatto, ma hanno vista limitata. Sono di solito di indole pacifica, ma alcune specie sono facilmente eccitabili. PRATERIE E STEPPE La prateria è un ecosistema proprio delle zone temperate con una piovosità intermedia tra quella delle zone desertiche e quella delle zone boscose. L'equilibrio naturale della prateria è determinato da due fattori ambientali: il fuoco e la piovosità occasionale. Nelle regioni più aride il fuoco agisce come regolatore favorendo la crescita dell'erba ed impedendo invece quella degli arbusti. In tal modo viene protetta e si estende la vegetazione erbosa che non invecchia mai grazie agli incendi. Di conseguenza risulta favorita anche la vita di tutta la numerosa fauna erbivora che è propria appunto della prateria. Il suolo della prateria è completamente diverso da quello delle foreste: le erbe infatti avendo una vita molto più breve degli alberi, arricchiscono rapidamente il terreno di sostanze organiche: per questo si forma una grande quantità di humus. La presenza di questo strato di humus molto alto, impedisce però l'assorbimento dell'acqua negli strati più profondi e non permette la vita di alberi o arbusti di grandi dimensioni. Nelle regioni con precipitazioni relativamente elevate l'erba raggiunge anche l'altezza di 2 m; dove invece il clima è più secco la vegetazione si eleva di pochi centimetri dal suolo. Alcune specie che costituiscono il tappeto erboso germogliano nei periodi freschi dell'anno, in primavera e in autunno, altre nel periodo caldo. Quindi a differenza degli altri ecosistemi che presentano vegetazione erbacea, la prateria risulta coperta durante tutto l'anno da una vegetazione continua e sviluppata. Questo tipo di ambiente è assai adatto alla coltivazione di alcune specie di grano e mais che non sono altro che erbe addomesticate. Proprio per questo la maggior parte delle praterie è stata utilizzata a scopo agricolo; ciò è accaduto in Nord America dove le antiche praterie dell'Illinois, dello Iowa e del Nebraska, sono tra le regioni cerealicole più produttive del mondo. Sino alla fine del XIX secolo tuttavia questi territori erano ancora ricoperti dalla vegetazione originaria e percorsi da mandrie di bisonti e da altri ruminanti selvatici. La fauna originaria era rappresentata dai grossi erbivori come i bisonti, le antilopi e i canguri. In corrispondenza al grande sviluppo delle popolazioni erbivore erano numerosi anche i carnivori, come i lupi, i coyotes, le volpi. Nella prateria si incontrano in gran numero animali di piccola taglia, che vivono in tane e cunicoli sotterranei come scoiattoli di terra, talpe e altri roditori. Numerosi sono i rettili che comprendono il terribile crotalo o serpente a sonagli. Le alte erbe della prateria sono inoltre il paradiso per le cavallette. Queste periodicamente emigrano, compiendo invasioni devastatrici in altri ecosistemi che non sono in grado di provvedere al loro mantenimento. Mentre gli animali erbivori e carnivori, che trovavano nelle praterie le condizioni ideali per la loro esistenza, scomparvero quando l'uomo intervenne modificando l'ambiente vegetale, l'innumerevole massa di insettivori e di roditori trasse vantaggio dal diffondersi delle coltivazioni; nelle praterie americane e russe sono diventati gli animali più numerosi anche se poco visibili. La trasformazione subita dalle praterie per l'intervento dell'uomo è stata pressappoco analoga in tutte le regioni della Terra anche se è stato diverso il modo con cui le civiltà umane hanno conquistato questo ambiente naturale. Questo processo si è compiuto con grande lentezza in Europa durante il Medio Evo; è stato invece estremamente veloce nell'America del Nord a causa della rapida diffusione dell'uomo bianco, che aveva a disposizione mezzi di intervento e di distruzione particolarmente efficaci, fornitigli dalla civiltà tecnologica. Nelle praterie nord-americane l'estinzione della fauna non fu determinata solo dalle trasformazioni dell'ambiente vegetale; dipese in gran parte dalla caccia spietata che portò alla quasi estinzione dei grossi erbivori, che oggi sopravvivono solo nei parchi nazionali. La distruzione dei bisonti rappresentò uno degli aspetti tragici della colonizzazione delle praterie, ma anche altri animali furono decimati, come le antilopi e molte specie di uccelli incapaci di adattarsi ad un ambiente vegetale profondamente alterato. Nell'America del Sud gli ambienti originari sono invece ancora piuttosto estesi. La caratteristica prateria argentina, la pampas, è stata sfruttata dall'uomo soprattutto per l'allevamento bovino, un tipo di utilizzazione, più vicino alle funzioni naturali dell'ecosistema, che ne ha permesso una migliore conservazione. Nelle praterie della Nuova Zelanda la distruzione delle specie animali ha avuto aspetti drammatici. L'assenza di carnivori in questo ecosistema aveva fatto sì che gli animali delle praterie non avessero elaborato nel corso dell'evoluzione attitudini alla lotta (ne sono un tipico esempio gli uccelli che hanno perduto la capacità di volare). È facile immaginare le stragi di questi animali quando la colonizzazione europea introdusse in quest'isola cani, gatti ed altri piccoli, ma feroci carnivori, come i furetti. In alcune regioni temperate la prateria può assumere un aspetto leggermente diverso, più povero e con vegetazione discontinua. Questo tipo di ambiente è la steppa, che si trova principalmente in Russia e in Ungheria. La vegetazione di questo ecosistema si spinge anche ai margini dei deserti ed è abbastanza varia. Mentre nelle steppe europee predominano le graminacee, in quelle dell'Asia Occidentale vivono principalmente erbe perenni, in quelle africane si incontrano, più povere, le forme della savana. Anche nelle steppe gli interventi dell'uomo hanno portato all'estinzione di molte specie animali. Tipico è il caso dell'antilope Saiga che fino al XVII secolo occupava una zona steppica vastissima compresa tra la Polonia Occidentale e la frontiera cinese. Nel 1920 questa specie era ridotta a qualche centinaio di individui. Un destino analogo subì il cavallo selvaggio, diffuso nelle stesse regioni ed oggi ridotto a sopravvivere in aree molto ristrette ormai incrociato con il cavallo domestico inselvatichito. CAVALLETTA È un insetto dell'ordine degli ortotteri, caratterizzato dalla capacità di spiccare salti e di mimetizzarsi. Ha comportamento gregario. Con lo strofinio delle ali emette suoni che funzionano come segnali aggressivi o sessuali. Le cavallette possiedono anche un organo uditivo composto da un timpano collocato sulle zampe anteriori. Tra le più importanti specie troviamo la cavalletta verde, diffusa in Europa, Africa Settentrionale ed Asia che può raggiungere dimensioni notevoli e grazie alla sua livrea verde splendente può mimetizzarsi nell'erba dei prati. È onnivora e, se presente in gran numero, può arrecare danni alle coltivazioni. SERPENTE A SONAGLI Caratterizzato da un vero sonaglio composto da una successione di scaglie cornee all'apice della coda, il serpente a sonagli appartiene al genere crotalus, di cui esistono circa 25 specie diffuse dagli Stati Uniti all'America del Sud. Il crotalo, lungo da 50 cm fino a oltre 2 m, vive normalmente in territori aridi molto sassosi o cespugliosi, dove esistono molte possibilità di ripari. Nella stagione fredda iberna in tane comuni dove possono raggrupparsi anche centinaia di individui, I serpenti a sonagli cacciano mammiferi e uccelli di piccole dimensioni. Se il crotalo viene molestato si prepara allo scatto fulmineo e al morso velenoso disponendo la parte anteriore a S e facendo vibrare il sonaglio. AVVOLTOI Appartengono all'ordine dei falconiformi, di cui fanno parte anche aquile e poiane. L'avvoltoio monaco è lungo più di 1 m ed è uno dei più grandi rapaci diurni d'Italia. Ha grande becco a forma di uncino, compresso ai lati; narici rotonde ed apertura uditiva visibile attraverso la rada lanugine che riveste il capo collo nudo e rugoso; piedi con unghie ricurve; coda corta. Si trova in zone poco abitate e ricche di lucertole, serpi e piccoli vertebrati di cui si nutre. È ormai rarissimo in Italia. L'avvoltoio grifone è più piccolo; ha un vistoso collare di piumino bianco alla base del collo. Ha colore cenere, gialliccio sul tronco e bruno scuro sulle ali. Era frequente anche a stormi in Sicilia e in Sardegna. L'avvoltoio degli agnelli o gipeto è più grande dell'aquila reale raggiungendo un'apertura alare di oltre 250 cm. Il piumaggio è grigio bruno dorsalmente con le penne percorse da una linea bianca, mentre il ventre e la parte superiore delle zampe sono bianco-gialliccio. Non avendo artigli poderosi il gipeto si nutre nel modo più svariato, approfittando di casi fortunati per divorare animali smarriti o feriti oppure accontentandosi di ossa o di rettili che rompe o uccide sollevandoli a grande altezza per lasciarli poi cadere sulle pietre. Estinto sulle Alpi dal 1913, vive ancora su qualche zona montagnosa della Sardegna dove è rigorosamente protetto. BISONTE Bovino di mole imponente è caratterizzato da un forte sviluppo della parte anteriore del tronco rispetto alla posteriore e da una gibbosità nella regione del garrese. Un cuscinetto di peli copre la fronte dei maschi adulti ed è utile per attutire i colpi che i bisonti si scambiano nel corso dei combattimenti ingaggiati durante il periodo degli amori. Il bisonte americano è il più grosso mammifero terrestre dell'America Settentrionale: i maschi possono essere alti 190 cm e pesare anche 1000 kg. Il bisonte europeo, che popolò in epoca storica le regioni forestali di quasi tutta l'Europa, sopravvive attualmente nel parco nazionale di Bialowieska, all'estremità orientale della Polonia. LO STERMINIO DEI BISONTI Si calcola che prima che i bianchi iniziassero la marcia verso Ovest, cinquanta milioni di bisonti pascolassero nella immensa pianura che si estende fra il Mississippi, le Montagne Rocciose, il Rio Grande e il Gran Lago degli Schiavi, nel cuore dell'America Settentrionale. Essi insieme con il mais erano la principale risorsa di vita delle tribù indiane che vivevano nelle pianure: Apache, Comanche, Arapaho, Cheyenne, Sioux, Piedi Neri. La carne costituiva il nutrimento dei pellirosse; seccata e ridotta in polvere, mista a grasso e ciliege selvatiche, formava le provviste per l'inverno o per gli spostamenti e i viaggi e veniva chiamata pemmikan. Con le ossa si facevano utensili, punte di frecce e ornamenti. Dalle corna si ricavavano cucchiai e piccoli vasi. Con i peli si preparavano funi, mentre i tendini venivano usati per cucire. Dalla pelle si ricavavano vestiti, mocassini, tende, borse. Secondo una leggenda indiana, il Padre Cielo e la Madre Terra avevano generato il mais e la Madre del Grano insieme col Bisonte aveva insegnato agli uomini il modo di coltivarlo. In inverno i bisonti vivevano sparsi per tutta la pianura. In primavera si raggruppavano in mandrie numerose che risalivano verso il Nord dove si dividevano in piccoli gruppi. In autunno tornavano indietro seguendo la stessa strada. Molte tribù di pellirosse delle pianure avevano regolato la propria vita secondo gli spostamenti dei bisonti. In autunno seminavano il mais e quindi partivano per la caccia invernale. Tornavano in primavera per fare il raccolto e ripartivano nuovamente per la caccia estiva. Così per metà dell'anno i pellirosse seguivano la vita sedentaria dell'agricoltore e per l'altra metà quella nomade del cacciatore. Prima che arrivassero i bianchi, quando i cavalli non erano ancora conosciuti, la caccia si faceva a piedi, di solito in maniera collettiva. Certe volte la tribù al completo, uomini, donne e bambini, si disponeva intorno alla mandria e con urla e rumori la costringeva ad entrare in un recinto oppure verso un precipizio in cui gli animali cadevano. Altre volte si dava fuoco all'erba per spingere la mandria verso il luogo voluto, un burrone o una strettoia. Il bisonte era un animale goffo e lento, di vista corta, dotato di buon odorato solo se il vento soffiava dalla sua parte; bastava che uno di essi andasse nella direzione voluta dai cacciatori perché tutti gli altri lo seguissero. In alcuni casi un indiano si copriva con una pelle di bisonte e ponendosi alla testa della mandria la guidava nella direzione desiderata. Quando in seguito all'arrivo dei bianchi in America, tra gli indiani si diffuse il cavallo, la caccia diventò individuale, dapprima con arco e frecce e poi con i fucili a lunga portata forniti dai bianchi detti Buffalo Gun. Dopo il 1850, i coloni e i cercatori d'oro cominciarono ad attraversare i territori di caccia degli indiani; questo fatto danneggiò la regolarità degli spostamenti stagionali dei bisonti, che spaventati cominciarono a non seguire più le stesse piste nelle loro migrazioni. Fra il 1863 e il 1873 la costruzione delle ferrovie attraverso la pianura, da Est a Ovest, segnò la fine dei bisonti che furono massacrati a centinaia di migliaia per rifornire di carne fresca gli operai dei cantieri. In questo periodo William Cody si guadagnò il soprannome di Buffalo Bill per averne uccisi ben 4280 in 18 mesi. Spesso quelle enormi bestie venivano uccise solo per prendere la lingua, che era un boccone assai apprezzato dai buongustai dell'Est, mentre il resto del corpo veniva lasciato marcire. Quando nel 1871 fu scoperto un procedimento di conciatura che permetteva di trasformare la pelle in cuoio di ottima qualità, lo sterminio fu intensificato anche se solo un animale ogni tre o quattro di quelli uccisi possedeva una pelle adatta per la conciatura. Il massacro fu completato da coloro che uccidevano per il semplice piacere della caccia e che erano incoraggiati dai coloni e dall'esercito i quali sapevano che sterminare i bisonti significava costringere i pellirosse alla resa. I bisonti, massacrati al ritmo di 3-4 milioni all'anno, nel 1878 erano quasi del tutto scomparsi. Con essi erano scomparsi anche gli indiani delle pianure. Nel 1903 una spedizione scientifica organizzata dal governo degli Stati Uniti poté rintracciare soltanto 35 bisonti in quelle stesse pianure dove qualche decennio prima vagavano a milioni. LA CACCIA AL BISONTE Un antico sistema praticato dai Pellirosse per uccidere i bisonti consisteva nel costringerli a saltare da uno strapiombo. Quando fu introdotto il cavallo, si inseguivano gli animali lanciando frecce o sparando. Si abbattevano solamente i bisonti necessari e per questo agli indiani sembrava assurdo ucciderli solo per il gusto di andare a caccia, come facevano i bianchi che coprivano la prateria dei cadaveri di intere mandrie e li lasciavano imputridire. CANGURO Il nome viene usato per indicare un grande numero di marsupiali di taglia diversa; canguri veri e propri sono quelli appartenenti al genere macropus che vuol dire grandi piedi. I maschi di alcune specie di canguri possono raggiungere i 3 m dalla punta del naso a quella della coda. Grazie alla potenza dei piedi posteriori sono in grado di compiere balzi di 3 m di altezza e 9 di lunghezza e di correre a velocità piuttosto elevate (40-50 chilometri all'ora) anche se per breve tempo. Gli arti anteriori vengono usati per afferrare e difendersi; la migliore arma di difesa è però rappresentata dalle zampe posteriori che sono munite di grosse unghie. In genere i canguri preferiscono fuggire che attaccare o difendersi. Nelle femmine è caratteristica la presenza del marsupio una borsa ventrale dove i piccoli terminano il loro sviluppo dopo essere stati partoriti. I piccoli nascono dopo soli 38-40 giorni di gestazione; misurano appena 2,5 cm ed hanno capacità di movimento appena bastante per raggiungere il marsupio. Prima della scoperta dell'Australia e della Tasmania i canguri erano numerosissimi, ma poi furono oggetto di una spietata caccia. IL DESERTO Quando si pensa ad un ambiente ostile e quasi contrario alla vita, subito viene in mente il deserto; eppure la vita, nella conquista della superficie terrestre, è riuscita ad organizzarsi in ecosistemi desertici grazie ad organismi che hanno in parte trasformato l'ambiente e che in parte vi si sono adattati. Gli ecosistemi desertici hanno una struttura abbastanza semplice in quanto sono solo due fattori ambientali veramente importanti: la temperatura e la disponibilità di acqua. La maggior parte dei deserti, pur essendo distribuita in zone con clima estremamente arido, riceve pioggia ogni anno. Dove le precipitazioni atmosferiche sono scarsissime, come nella costa settentrionale del Cile, l'ambiente è assolutamente privo di vita. Gli acquazzoni nei deserti, benché molto rari, sono generalmente violenti ed esercitano sul terreno un'azione erosiva e di accumulo veramente cospicua. L'acqua però viene in breve tempo assorbita dal terreno arido e spaccato per cui durante tutto l'anno mancano acque alla superficie. È facile invece che l'acqua possa raccogliersi sotto la superficie del terreno, come accade nei deserti africani, sotto il letto degli uadi, che sono torrenti del deserto dal percorso estremamente breve in cui l'acqua piovana viene in un primo tempo raccolta e poi rapidamente inghiottita. In queste condizioni ambientali è molto attiva l'alterazione sulla superficie delle rocce e la loro disgregazione meccanica causata dal forte calore del sole, dall'acqua e dall'azione erosiva del vento. L'effetto dei venti è particolarmente intenso negli ecosistemi desertici africani; a questi venti che soffiano impetuosi dal Sud le popolazioni locali hanno dato nomi diversi: il ghibli in Libia, il chasmin in Egitto ed il simun in Arabia. Il terreno dei deserti privo di humus appare roccioso o sabbioso; inoltre non essendo regolarmente dilavato dalle piogge accumula sul suo strato superficiale tutti i sali derivati dalla scomposizione delle rocce. Poiché i fattori ambientali sono così ostili alla vita, la produzione primaria di questi ecosistemi è molto bassa: infatti la vegetazione superiore in grado di utilizzare l'energia solare è rada. Esistono perciò larghi tratti di terreno completamente nudi; normalmente le specie vegetali trascorrono la maggior parte dell'anno sotto forma di semi che germogliano solo in condizioni particolarmente favorevoli; sembra infatti che sulla cuticola vi sia una sostanza chimica capace di impedire la germinazione se non è portata via con il lavaggio ad opera della pioggia. In tal modo le piante sono in grado di germogliare immediatamente dopo il primo acquazzone. Gli ecosistemi desertici assumono aspetti molto diversi a seconda delle zone climatiche: possiamo infatti distinguere un deserto caldo da uno freddo. Questi due ambienti si differenziano tra di loro anche per altri fattori ecologici come la natura del terreno e la vegetazione. Nel deserto caldo le associazioni vegetali sono costituite principalmente da specie tropicali: queste piante si sono adattate mediante particolari accorgimenti alla mancanza d'acqua. Per questa ragione i cactus del deserto americano e le euphorbia del deserto africano, benché appartenenti a specie completamente diverse e che vivono in due continenti diversi, hanno un aspetto molto simile. Infatti entrambe si possono considerare dei piccoli serbatoi d'acqua che costituirebbero una vera golosità per gli animali desertici sempre assetati, se non fossero difesi da acute spine. Il paesaggio vegetale dei deserti freddi è diverso: escludendo le zone occupate dalle sabbie mobili, dove mancano quasi completamente forme di vita, l'ambiente risulta molto simile a quello delle steppe anche se più arido e discontinuo. Le comunità vegetali cioè non sono omogenee, ma costituite da arbusti la cui altezza varia da un metro a pochi centimetri. Il profilo verticale di questo tipo di associazione è perciò abbastanza complesso e presenta numerosi livelli: i più bassi sono quelli corrispondenti alle erbe annue, mentre quelli più alti corrispondono agli arbusti. Inoltre questi cespugli sono disposti ad intervalli abbastanza regolari: infatti la scarsità d'acqua permette la vita in una determinata area da un solo individuo di quella specie. Spesso negli spazi ricoperti da incrostazioni saline vivono piccole associazioni di alofite (dal greco als = «sale»; phytón = «pianta»), di piante cioè che richiedono nel terreno una forte concentrazione di sale. Queste sono le uniche forme vegetali che riescono a sopravvivere quando la siccità è massima. Mentre nei deserti caldi il principale fattore che impedisce la vita vegetale è la mancanza d'acqua, in quelli freddi anche la temperatura agisce negativamente. La crescita delle piante infatti può avvenire solo nel breve periodo che intercorre tra l'inverno freddo e l'estate secca, sempre che si siano avute precipitazioni. Per questo il periodo di fioritura e di crescita della vegetazione di questi due ecosistemi è diverso. In genere le piante proprie di un ecosistema desertico hanno consistenza legnosa e fibrosa che impedisce una loro utilizzazione come cibo per animali. Per questi ultimi però la principale difficoltà per sopravvivere non è tanto la qualità del cibo quanto la poca disponibilità d'acqua. Nei deserti prosperano infatti soprattutto rettili ed insetti che grazie all'impermeabilità dei loro tegumenti ed alla secchezza degli escrementi possono vivere a lungo utilizzando solo acqua di origine endogena, derivata cioè dalla demolizione dei cibi dell'organismo. I mammiferi sono scarsamente rappresentati; esistono alcuni roditori notturni che secernono un'urina molto concentrata e non si servono dell'acqua per la regolazione termica (come avviene in molti mammiferi con il sudore). Così possono sopravvivere in un ambiente tanto arido. In questi ultimi animali c'è un'inversione del ciclo biologico giornaliero; ossia il periodo di riposo corrisponde al dì, quello di attività alla notte; nascosti nelle loro tane sotterranee riescono così a sopportare temperature altissime altrimenti incompatibili con la vita. Altri animali superiori come i cammelli non possono vivere senza acqua, ma sono in grado di immagazzinarne in notevole quantità. VIPERA DELLA SABBIA Alcuni viperidi hanno scelto la vita nei deserti sabbiosi e sassosi e sono conosciuti nel loro insieme come vipere della sabbia. La ceraste cornuta presenta sulla nuca due squame allungate in forma di corna. Questo serpente ha elaborato un tipo di movimento particolare detto spostamento laterale molto adatto su terreni che non offrono appoggi laterali e che evita un prolungato contatto con la sabbia rovente del deserto. Si nutre di piccoli mammiferi che uccide quasi istantaneamente con il suo veleno. Depone uova che in poche ore si schiudono lasciando uscire dei piccoli già perfettamente sviluppati. È diffusa in Africa a Nord del Tropico del Cancro e nel Vicino Oriente secondo alcuni sarebbe l'aspide con cui Cleopatra si diede la morte. TOPO CANGURO Il topo delle piramidi o topo canguro è un mammifero roditore che presenta un forte adattamento al salto. Il grande sviluppo della coda e delle zampe posteriori permette un'andatura bipede a rapidi balzi lunghi anche 3 m. I topi canguro che vivono nelle zone desertiche nord-africane sono tutti notturni, in quanto non potrebbero resistere all'esposizione dei raggi solari o alle elevate temperature del giorno. Poco prima che il sole sorga si ritirano in tane sotterranee chiudendone subito le aperture per mantenere il più possibile un microclima umido all'interno del rifugio. Sono essenzialmente vegetariani e bevono solo in circostanze eccezionali, poiché utilizzano l'acqua assunta col cibo. SCORPIONE È uno dei rappresentanti meno evoluti degli aracnidi. La sua distribuzione geografica è limitata dalla temperatura e dall'altitudine: comune nelle regioni calde, non si trova nelle aree a clima freddo. Le femmine generano piccoli che vengono trasportati per alcuni giorni sul dorso. Alcune specie originarie dell'Africa raggiungono la lunghezza di 18 cm, mentre quelle che vivono nelle regioni italiane non superano i 6 cm. La coda è mantenuta in posizione ricurva per meglio colpire i nemici e qualche volta per catturare gli insetti e i ragni che costituiscono il cibo usuale. Solitamente la puntura dello scorpione, seppur dolorosa, non è mortale. Alcune specie del Nord del Messico e dell'Africa, possono però provocare la morte con il loro veleno. LA VEGETAZIONE DESERTICA Il problema delle piante nel deserto è di conservare l'acqua. Per questo alcune piante presentano radici lunghissime che ricercano la falda acquifera spingendosi alla profondità di 30 m; queste piante hanno contemporaneamente radici molto superficiali che servono per assorbire l'umidità eventualmente presente nell'aria. Questo fatto ovviamente contribuisce ad aumentare la distanza tra le varie piante. Altre piante hanno una scarsa traspirazione e conservano così una maggiore quantità d'acqua avendo ridotto la superficie delle foglie che sono perciò piccole, squamiformi o addirittura trasformate in spine. Talvolta nella pianta esistono parti destinate all'accumulo di liquido: queste possono spesso essere localizzate nelle radici determinando cosi tuberi acquiferi, oppure nel fusto e nelle foglie che in tal caso sono ricoperti di rivestimenti cerosi, oppure da secrezione calcaree, saline od oleose, tutte sostanze che li rendono impermeabili. LE OASI Paragonato con gli altri ecosistemi il deserto risulta poco adatto alla vita dell'uomo, ad eccezione delle oasi. Queste sono zone in cui l'acqua di una falda acquifera è affiorata naturalmente o mediante pozzi costruiti dall'uomo. Si forma in tal modo una nicchia ecologica con vegetazione spesso lussureggiante. Malgrado l'inospitabilità del deserto, la necessità di nuove terre da coltivare e lo sviluppo recente di nuovi mezzi di irrigazione hanno spinto l'uomo ad utilizzare a scopo agricolo sempre maggiori aree desertiche. Una veduta delle dune del Sahara Un esemplare di cammello I TUAREG Uno degli ambienti naturali più ostili all'insediamento umano è senza dubbio il Deserto. Non sembra possibile che nelle grandi distese sabbiose o sui tavolati bruciati dal sole possano vivere comunità umane; eppure nel cuore del deserto del Sahara da centinaia e centinaia di anni il popolo dei Tuareg conduce la sua esistenza quotidiana. I Tuareg appartengono ai popoli che formano il gruppo berbero, ma la loro origine non è stata stabilita con precisione dagli studiosi. Probabilmente già i Romani in epoca antica si scontrarono con queste popolazioni che forse proprio da quel momento cominciarono ad essere ricacciate verso l'interno del deserto africano. Per centinaia di anni i Tuareg hanno svolto attività di commercio ed anche di rapina sulle strade carovaniere del deserto. Alti sui loro dromedari rappresentarono per i mercanti un pericolo continuo con le loro scorrerie: il pericolo ingrandito dalle leggende di cui questo popolo era circondato. In definitiva essi erano commercianti che con i loro viaggi, lunghi a volte più di mille chilometri, soprattutto quando trasportavano il sale, stabilivano contatti tra popolazioni differenti. Oggi questa funzione non è più così importante come un tempo: gli aeroplani e i camion hanno sostituito le carovane anche nei deserti. Il sale, che rappresentava il più importante articolo del commercio, arriva attraverso le vie fluviali e il viaggio che i Tuareg dell'Hoggar compiono ogni anno per portarlo nei paesi del Sudan percorrendo più di 1000 km risponde più alla necessità di restare fedeli ad una tradizione che ad esigenze economiche. Le abitudini di vita dei Tuareg non sono molto cambiate dai tempi antichi; questo popolo è sempre stato geloso delle sue tradizioni ed ha cercato di conservarle sfuggendo per quanto possibile i contatti con le altre civiltà. La conversione all'Islam, avvenuta alcuni secoli fa, non è riuscita a eliminare del tutto abitudini e tradizioni che risalgono ad epoche remote. Proprio per questo i Tuareg hanno usi e sistemi assai differenti dagli altri popoli islamizzati. La prova più evidente di ciò è data dalla posizione della donna nella società dei Tuareg. Qui essa svolge un ruolo di particolare importanza e gode di grande considerazione: è depositaria della cultura antica, ricorda le tradizioni, i miti, le leggende e le trasmette ai figli che provvede ad educare direttamente. Inoltre conosce l'antica lingua e sa interpretare il tifinagh, la scrittura degli antichi Tuareg. Gode di una grande libertà e può facilmente divorziare dal marito, anche se in genere nella società dei Tuareg il divorzio non è comune. L'importanza della donna è accresciuta dal fatto che la discendenza delle grandi famiglie è calcolata in base alla linea femminile. La società dei Tuareg infatti è matrilineare e secondo il detto «il ventre colora il figlio» i bambini appartengono alla tribù e alla classe sociale della madre anziché a quella del padre. A differenza delle musulmane le donne Tuareg hanno il viso sempre scoperto, mentre fra i Tuareg sono gli uomini che lo hanno sempre coperto da una larga fascia colorata avvolta intorno al capo. Non si sa con precisione quale possa essere lo scopo di questa abitudine: potrebbe servire per riparo dal ventre del deserto, ma allora non si spiegherebbe perché le donne non lo portino. Probabilmente l'uso di velarsi il viso risponde a qualche prescrizione magica o rituale, tanto più che il velo non viene tolto nemmeno durante i pasti e di notte. L'abbigliamento ha senza dubbio la funzione di riparare dal gran caldo. I vestiti sono molto ampi in modo da permettere la circolazione dell'aria e difendere nello stesso tempo dalla ricchezza del vento, dalla sabbia e dal sole. Gli indumenti sono preparati in lana, che è un materiale isolante. La famiglia è di tipo monogamico; anche in questo quindi gli usi dei Tuareg differiscono da quelli dei popoli di religione musulmana che di regola sono poligamici. Gruppi di famiglie imparentate tra loro costituiscono la grande famiglia che si fa risalire ad un unico capostipite. Mentre nella grande famiglia conta la discendenza in linea femminile, nella piccola famiglia è considerata anche la discendenza patrilineare. L'organizzazione dei Tuareg si basa sulla divisione in tre classi sociali: i nobili, i vassalli e i servi. Le tribù nobili, che una volta si dedicavano al commercio e soprattutto alla guerra, oggi si occupano esclusivamente dell'allevamento dei dromedari, ritenendo ogni altra attività indegna di loro. Allo stesso modo si comportano le tribù vassalle, che tuttavia sono disprezzate dai nobili perché ritenute di razza non pura. I lavori di artigianato vengono svolti dai servi che si occupano anche dell'allevamento delle pecore e delle capre e della coltivazione della terra. I servi, che una volta erano tenuti nella condizione di schiavi, sono i discendenti dei neri vinti in battaglia che si sono mescolati ai Tuareg. Una posizione particolare hanno i fabbri, che sono tutti neri; essi sono circondati da un eccezionale rispetto. I Tuareg infatti ritengono che per lavorare il ferro gli artigiani neri usino la magia e perciò li temono. A capo della tribù c'è un sovrano che ha poteri simili a quelli che aveva un principe al tempo del feudalesimo. LA TUNDRA ARTICA Quando, durante le ultime glaciazioni dell'Era Quaternaria, gran parte delle terre emerse erano coperti di ghiacci, la vita trovò un ambiente particolarmente ostile per le basse temperature e l'aridità, dovuto alla presenza di vaste plaghe ghiacciate. Quale fosse il paesaggio di quell'epoca lontana è difficile da stabilire con precisione, ma una buona indicazione può venire dallo studio di un particolare ecosistema attuale: la tundra. Tundra in russo significa pianura paludosa, ma con questo nome gli ecologi indicano un ambiente di prateria umida, priva di vegetazione arborea, che rimane gelata per la maggior parte dell'anno. Le tundre artiche si estendono a formare, grosso modo, un grande anello attorno all'Oceano Artico nei territori contigui alla calotta polare. Si trovano tundre artiche nella penisola del Labrador, in Groenlandia, in Alaska e in Siberia. Nell'emisfero meridionale, nei pressi della calotta antartica, i fattori ambientali sarebbero favorevoli alla tundra, ma l'Antartide è completamente circondata dagli oceani, perciò la tundra si ritrova solo in alcune isole a Sud della Nuova Zelanda e dell'Oceano Indiano. Il clima della tundra artica è determinato dal succedersi del giorno e della notte polare: si ha un lungo inverno durante il quale il sole non sorge mai. Durante la notte polare il terreno della tundra cede continuamente calore nell'atmosfera e la sua temperatura diminuisce sino a ricoprirsi di un sottile strato di ghiaccio. Nel terreno l'acqua cessa di circolare e si ha la cosiddetta aridità fisiologica: cioè l'acqua è presente ma in uno stato per cui i viventi non possono assumerla. Durante l'estate, l'ecosistema capta dal sole una grande quantità di energia, benché per la latitudine il sole rimanga molto basso sull'orizzonte. L'energia viene utilizzata quasi totalmente per sciogliere in superficie il terreno ghiacciato, che diviene così più umido e caldo e permette la crescita delle piante. Queste sfruttano una piccola parte di radiazione per la fotosintesi ed infine una parte piccolissima di energia viene ceduta all'atmosfera sotto forma di calore; per questo la temperatura sale in media di qualche grado. Il suolo della tundra, può presentarsi in diverse forme: roccioso, ghiaioso, argilloso oppure essere costituito da torbiere paludose. Il particolare succedersi di periodi di gelo e disgelo produce sulla superficie del terreno delle conformazioni regolari di sassi che concentrano la vegetazione in chiazze di forma poligonale. Il paesaggio vegetale della tundra è dominato dalle piante erbacee come nella prateria, ma in questo ecosistema si tratta soprattutto di piante perenni e non annue. Durante l'estate queste sono in grado di immagazzinare notevoli quantità di sostanze alimentari di riserva che, conservate quasi intatte per tutto l'inverno, sono utilizzate per una rapida crescita nel primo periodo dell'estate successiva. Il manto vegetale della tundra, basso e compatto, offre poca resistenza al vento: gli arbusti assumono caratteristiche forme a cuscinetto; in genere le piante hanno foglie piccole e dure. Muschi e licheni sono vegetali caratteristici che hanno potuto sopravvivere alla concorrenza di piante più evolute perché si sono rifugiati nell'ambiente della tundra che risulta ostile ad un organismo complesso che invece è in grado di soddisfare le loro povere esigenze. I muschi sono vegetali che non hanno un sistema di circolazione per l'acqua, cioè non trasportano l'acqua all'interno del loro corpo, ma la utilizzano direttamente appena l'assorbono. Questo fatto impedisce una loro crescita verticale, mentre si estendono molto in larghezza alla ricerca dell'acqua. Formano cosi estesi tappeti vellutati che si incontrano facilmente in tutte le località fresche, umide e ombrose. I licheni, vegetali in grado di resistere bene alle basse temperature, sono un caratteristico caso di simbiosi. Si tratta di un'alga e di un fungo che vivono assieme sostenendosi nell'alimentazione e nella fotosintesi. Il fungo, che non è in grado di trasformare il carbonio, lo prende già trasformato dalle piante verdi, nel caso del lichene dall'alga che vive assieme. L'alga, dal canto suo, riceve dal fungo l'acqua necessaria alla fotosintesi. Molte sostanze prodotte dai licheni vengono utilizzate dall'industria farmaceutica. La popolazione animale che vive nella tundra artica è costituita da mandrie di erbivori come i caribù, gli alci, le renne ed i lemming. Questi animali però compaiono nella tundra con migrazioni stagionali. Ben rappresentate sono le popolazioni di carnivori, strettamente legate all'esistenza di erbivori: si trovano lupi, volpi, ecc. Sono molti i rettili e gli anfibi. Il numero delle specie viventi, sia vegetali che animali, nelle tundre è molto ridotto: solo qualche centinaio rispetto alle 100.000 e più specie che vivono, ad esempio, nelle foreste tropicali. RENNA Tipico abitante delle regioni fredde dell'emisfero boreale, la renna della tundra vive allo stato brado in branchi controllati dall'uomo, in uno stato di semiaddomesticamento. Viene impiegata in qualche caso come animale da trasporto. Esistono ancora esemplari selvatici o rinselvatichiti. In autunno migra verso regioni più a Sud dove trova la possibilità di cibarsi anche di cortecce d'albero. La renna è alta al garrese poco più di 1 m e lunga quasi 2. Ha tronco slanciato e zampe relativamente corte; ha sul collo una vistosa criniera. LEMMING È un roditore tipico delle aree settentrionali dell'emisfero boreale. È lungo circa 15 cm, ha capo grosso e coda corta. La grande prolificità è il motivo determinante dell'aumento vertiginoso delle sue popolazioni; le femmine possono avere tre parti all'anno, mettendo al mondo da 1 a 12 piccoli. Si riteneva una volta che l'esplosione demografica determinasse emigrazioni che terminavano con una specie di suicidio collettivo degli animali. Oggi osservazioni più complete hanno messo in dubbio l'esistenza di migrazioni di questa ampiezza. LA TUNDRA ALPINA Il clima della tundra alpina è abbastanza simile a quello della tundra artica, ma è determinato dall'altitudine e non dalla latitudine. Mentre nella tundra artica periodi di luce e di buio si succedono con durata assai diversa nel corso dell'anno, nella tundra alpina è mantenuta la normale alternanza di dì e notte nelle 24 ore. Nelle difficili condizioni ambientali le piante sopravvivono grazie a particolari adattamenti anche di carattere fisiologico, come la capacità di compiere fotosintesi a temperature inferiori a 0° C.; il congelamento dei liquidi cellulari viene impedito dall'accumulo di zuccheri. Spesso anche le radici sono particolarmente sviluppate rispetto alle foglie per favorire un'adeguata resistenza al vento e per accumulare abbondanti sostanze nutritive di riserva, visto che la pianta rimane per lungo tempo coperta di neve. Un'altra caratteristica delle piante alpine è la presenza nelle foglie di una superficie bianca e lanosa costituita da peli che formano una strato isolante che difende contro gli sbalzi di temperatura molto forti tra il giorno e la notte e che impediscono un'eccessiva disidratazione della pianta. Gli animali sono poco numerosi. I mammiferi sono quasi tutti erbivori; alcuni trascorrono i mesi più freddi in tane (come fa la marmotta), altri, come gli stambecchi, all'arrivo dell'inverno si spostano a quote meno elevate. STAMBECCO È un mammifero erbivoro distribuito in alcune parti dell'Europa, dell'Asia e dell'Africa. Ha forme pesanti con testa e collo forti. Il maschio può essere facilmente riconosciuto per le lunghe corna e le maggiori dimensioni. Può raggiungere i 130 kg, mentre le femmine pesano al massimo la metà. Lo stambecco abita le pareti rocciose interrotte da piane erbose, poste oltre il limite della vegetazione arborea. In estate raggiunge i 3000 m di altitudine dove rimane fino al sopraggiungere della stagione fredda; allora scende sui 1800-2500 m. È un animale gregario. Può spostarsi velocemente su terreni impervi grazie alla presenza di un cuscinetto elastico sotto gli zoccoli. In Italia è distribuito in tutto l'arco alpino. È considerato specie particolarmente protetta dal 1977. AQUILA Appartiene all'ordine dei falconiformi con avvoltoi, sparvieri, poiane, ecc. Questi rapaci hanno in comune la forma delle zampe e dello sterno, la divisione delle narici separate internamente da un setto osseo. L'aquila reale può raggiungere anche il metro di lunghezza; il suo piumaggio è bruno scuro, castano dorato nella parte superiore del capo e del collo. Vive in tutta Europa, nel Nord Africa, in Asia fino all'Himalaya ed in America Settentrionale. In Italia si trova sulle Alpi e sugli Appennini. Caratteristico è il modo di procurarsi il cibo: immobile sopra una valle, individua la preda (lepri scoiattoli, marmotte, uccelli). A differenza di altri rapaci che scendono a piombo sulle prede, le aquile reali si abbassano a volo radente per ghermirle. I nidi sono costruiti in luoghi inaccessibili. Le uova (una o due) schiudono dopo 5 settimane ed i piccoli sono curati dalla madre, che per alcune settimane non si allontana, mentre il padre provvede al cibo. In questo periodo i maschi possono diventare molto pericolosi perché hanno bisogno di molto cibo e non esitano ad attaccare anche animali domestici. CONDOR È un uccello rapace dell'ordine dei falconiformi. Può raggiungere i 3 metri di apertura alare e 1 metro di lunghezza del corpo. Ha piumaggio nero sul corpo, in parte bianco sulle ali; attorno al collo presenta un caratteristico collare di piume bianche. Ha il capo privo di piume; il maschio possiede una specie di cresta colorata. Vive a grandi altezze sulla Cordigliera della Ande dall'Equatore alla Terra del Fuoco. Si nutre di animali morti, ma assale anche quelli vivi. MARMOTTA È un mammifero roditore che sopravvive nell'ambiente montano, in condizioni atmosferiche e ambientali proibitive, grazie all'abilità nello scavare tane e alla facoltà fisiologica di trascorrere periodi in stato di letargo. Colonizza i pendii rocciosi privi di vegetazione arborea con buona esposizione al sole. Ha forme tozze e pesanti; a conferirgli aspetto voluminoso concorre la folta pelliccia. La marmotta è lunga da 50 a 60 cm e pesa da 3 a 8 kg. Si nutre principalmente di erba e a volte di insetti. Le tane sono spesso ravvicinate e formano colonie che vengono difese da sentinelle, pronte a segnalare i pericoli con un fischio prolungato. L'aquila soprattutto è un predatore di questi roditori. La marmotta è diffusa sulle montagne dell'Asia, dell'Europa e del Nord America. In Italia è distribuita su tutto l'arco alpino e in alcune zone dell'Appennino. I GHIACCI Anche per l'ambiente dei ghiacci e delle nevi perenni esiste una corrispondenza tra le regioni polari e quelle di alta montagna. Si comprendono tra i ghiacci e le nevi non solo le zone perennemente ricoperte, ma anche quelle aree meno fredde che si presentano come ghiaioni quasi privi di vegetazione e cosparsi qua e là da chiazze nevose. La vita è condizionata in questo ambiente da fattori limitanti piuttosto rigidi. La temperatura in genere molto bassa, permette l'esistenza di un numero limitato di forme di vita. Occorre anche superare le difficoltà e gli effetti disseccanti dell'aridità fisiologica, per cui gli organismi hanno difficoltà a utilizzare l'acqua che in quell'ambiente si trova normalmente allo stato di ghiaccio. Gli svantaggi del freddo intenso vengono compensati in vari modi. Viene sfruttata al massimo la radiazione solare, che è intensissima ai Poli ed alle altitudini elevate, captando la maggior quantità possibile di radiazioni, che vengono trasformate in calore. Talune specie di lucertole che vivono nei ghiacciai e gli insetti che vivono nelle nevi presentano una colorazione scura, spesso nero intenso, che permette una ricezione ed un immagazzinamento massimo di calore. Adattamenti di questo genere sono indispensabili in un ambiente dove non solo la temperatura si mantiene bassa, ma dà luogo anche a sbalzi eccezionali tra il giorno e la notte, tra le zone in ombra e quelle soleggiate con differenze anche di 60° C. Caratteristica generale dell'ambiente montano è la diminuzione del numero di specie viventi con l'aumentare dell'altitudine a causa soprattutto della diminuzione di temperatura. Un eguale comportamento si registra per gli ambienti polari. Classi di animali prevalentemente ovipare in questo ambiente appaiono con forme vivipare trasformazione che aiuta a superare le difficoltà dei primi momenti di vita. La viviparità, cioè il fatto che la madre trattenga l'embrione all'interno del proprio corpo sino a quando il piccolo non è capace di badare a se stesso, in un ambiente ostile alla vita come quello dei ghiacciai rappresenta un notevole vantaggio. Un esempio di viviparità è dato dalla salamandra nera che vive nei laghetti ai piedi dei ghiacciai e dalla lucertola dei ghiacciai. Sono anche molto diffuse le cure da parte dei genitori. Per superare i periodi più rigidi interviene poi il meccanismo di alternanza di stati di attività con stati di quiescenza. Ibernazione, letargo, muta sono tutti fenomeni ciclici che si riscontrano negli ambienti innevati perennemente e pare siano legati all'attività di particolari ormoni e al patrimonio genetico della specie. La conquista dell'ambiente dei ghiacciai e delle nevi è più facile per la vita animale che per quella vegetale. I collemboli sono insetti che rappresentano una forma di vita molto primitiva, e costituiscono la maggior parte della fauna dei ghiacciai e delle altitudini più elevate. Essi necessitano per sopravvivere della presenza di poca sostanza organica vegetale come piccoli residui vegetali e granuli di polline trasportati dal vento e dalle correnti ascensionali di aria calda. Mancano assolutamente le piante superiori che necessitano comunque di un minimo di substrato, humus, temperatura ecc. Oltre i 4000 m possono resistere solo i licheni che incrostano le rocce libere dai ghiacciai e a volte danno luogo negli ambienti propizi a formazioni anche cospicue. Le uniche forme però che possono sopravvivere nell'ambiente nivale vero e proprio sono le alghe microscopiche, unicellulari. Tuttavia le associazioni di queste alghe sono così vaste da colorare in rosso o in verde gli stessi ghiacciai. Le alghe ricche di pigmento respiratorio rosso sono in grado di sopportare agevolmente temperature di -36° C mentre altre alghe microscopiche muoiono già a -4° C. Tali organismi sono diffusi su tutte le alte montagne, nelle regioni artiche ed antartiche. Questi microorganismi rappresentano il cibo per alcune specie animali come la cosiddetta «pulce dei ghiacciai» che vive nelle spaccature dei ghiacciai ed a volte è così abbondante che le sue associazioni appaiono come grosse chiazze nere sul biancore dell'ambiente. Anche altri minuscoli animali (affini agli anellidi e agli artropodi e lunghi meno di 1 mm) come tardigradi o addirittura i microscopici infusori (protozoi) si cibano delle alghe rosse, cosicché quella che appare come una chiazza di neve rossa è in realtà una complessa associazione di vita animale e vegetale. Oltre alle alghe rosse altri vegetali microscopici possono sopportare le condizioni dell'ambiente dei ghiacci e delle nevi nei punti dove esso si fa meno ostile: troviamo così diatomee e fitoflagellati e non di rado anche batteri. Ma questi si diffondono e raggiungono altitudini anche eccezionali utilizzando l'attività delle correnti di aria calda e dei venti. Questi organismi trovano poi nell'ambiente dei ghiacci una temperatura ostile alla loro esistenza. FOCA I focidi rappresentano la più grande famiglia dei pinnipedi, uno dei due sottordini in cui si divide l'ordine dei carnivori. Questi animali sono ben adattati alla vita acquatica: gli arti sono trasformati in pinne; quelli posteriori, stesi all'indietro e torti sul proprio asse, non possono essere rivolti in avanti: per questo i focidi non sono in grado di camminare sul terreno dove procedono a salti o strisciando. In acqua invece proprio grazie alla posizione di questi arti nuotano con molta agilità. Possono restare immerse per parecchi minuti. Il corpo è fusiforme. La testa tondeggiante è priva di padiglioni auricolari gli occhi sono sporgenti, le narici in posizione di riposo sembrano fessure lineari mentre durante l'inspirazione si dilatano fino a diventare rotonde. Le foche possiedono ottima vista. Possono emettere un verso simile al latrato di un cane. Le foche sono state oggetto di cacce accanite, che ne hanno assottigliato il numero e in certi casi hanno anche portato all'estinzione di intere specie, perché il loro grasso era apprezzato. La pelliccia è piuttosto dura nell'animale adulto e non ha valore commerciale, mentre è ricercata quella dei piccoli, morbida e bianca. Tutte le specie di foca hanno sempre avuto notevole importanza per le popolazioni indigene delle zone fredde. Le foche sono distribuite nei due emisferi; vi sono specie ambientate anche in climi caldi; alcune vivono anche in laghi. Esemplare di foca TRICHECO È un mammifero di grosse dimensioni; il maschio può raggiungere i 4 metri e mezzo e un peso di 1000 kg. Le femmine, sensibilmente più piccole partoriscono dopo una gestazione di un anno, un solo piccolo che viene allattato per due anni. I trichechi si muovono tozzamente fuori dell'acqua, mentre sono agilissimi nuotatori. Si nutrono di molluschi, crostacei, vermi che catturano sott'acqua. Il muso, largo e con grosse setole che formano due baffi, è caratterizzato dalla presenza di due lunghe zanne: sono i canini superiori sporgenti verso il basso. I trichechi vivono nelle regioni artiche e nell'Atlantico Settentrionale. Dalla caccia a questo animale si ricavano la pelle, le zanne e la carne. PINGUINO È un uccello inetto al volo che ha struttura corporea perfettamente adattata alla locomozione in acqua. Lì si muove con scioltezza e velocità. Gli arti superiori sono utilizzati come le pinne dei pesci. Il piumaggio impermeabile ricopre uniformemente tutto il corpo dell'animale. I pinguini si nutrono di pesci, nidificano in grandi colonie depositando le uova direttamente sul terreno. Vivono sui ghiacci dell'Antartide e delle isole limitrofe e sulle coste meridionali del Sud America, dell'Africa, dell'Australia. Una specie vive alle Galapagos, all'altezza dell'equatore. Solitamente i pinguini delle zone più fredde hanno dimensioni corporee maggiori e soprattutto un peso molto superiore. Il pinguino imperatore, che vive sulle coste del continente antartico, raggiunge la lunghezza di 115 cm e un peso di 30 kg. Il pinguino salta rocce, che vive nelle isole dell'Antartico, è lungo 55 cm e pesa solo 3 kg. ORSO BIANCO È il più grande carnivoro artico; può raggiungere la lunghezza di 250 cm e il peso di 1 t. È una specie circumpolare, vive cioè nell'estremo Nord sulla banchisa e sui ghiacci galleggianti dove cammina agevolmente grazie alla presenza di peli sulla pianta dei piedi. Abile nuotatore riesce a rimanere immerso anche per un paio di minuti. L'orso bianco polare si nutre essenzialmente di foche, ma anche di pesci, di uccelli marini e delle loro uova. È un infaticabile camminatore, capace di percorrere enormi distanze alla ricerca di cibo. Divenuto raro a causa della caccia, è oggi specie protetta. GLI ESCHIMESI Gli Eschimesi vivono in quella larga striscia di terra che parte dalla Groenlandia e arriva sino allo stretto di Bering seguendo approssimativamente il Circolo Polare Artico. In queste regioni per quattro mesi all'anno il sole non si alza mai sull'orizzonte e solo per due mesi brilla tutto il giorno liberando le acque e le spiagge dai ghiacciai. Uno dei problemi più difficili da risolvere per gli Eschimesi è quello del vestiario, che deve essere ben caldo e impermeabile perché la neve possa essere scossa via e non vi geli sopra. Perciò i vestiti, sebbene notevolmente diversi da gruppo a gruppo, sono quasi sempre di pelle di vari animali e soprattutto di renna, adatta per indumenti invernali. Si portano almeno due strati di abiti: due giubbe, due paia di pantaloni, due paia di calzettoni, tutti molto ampi e comodi per permettere la circolazione dell'aria calda. In questo modo il sudore viene eliminato e non v'è il pericolo che geli rendendo rigidi gli abiti. Anche le donne portano di solito giubbe e pantaloni. Soltanto sul di dietro le loro giubbe sono molte più ampie in modo che possano esservi infilati, tutti nudi, i bambini lattanti. Attraverso il cappuccio della madre questi possono affacciarsi fuori pur restando caldi e sicuri. La casa degli Eschimesi deve avere requisiti particolari. Può essere costruita in pietra o in pelle o può essere anche il caratteristico igloo fatto di blocchi di ghiaccio. In ogni caso l'abitazione deve costituire un riparo efficace, dev'essere ben aerata perché le lampade possono bruciare senza difficoltà e deve trattenere il calore (perché il combustibile è scarso). L'igloo è un tipo di abitazione invernale che può essere costruita rapidamente tagliando blocchi di ghiaccio con un'apposita sega, sovrapponendoli e chiudendo le fessure con neve fresca. L'entrata, costituita da un corridoio in salita scavato sotto il livello del terreno, impedisce all'aria calda di disperdersi. Ma la temperatura interna non deve discostarsi molto dagli 0° C altrimenti il ghiaccio si scioglierebbe: un apposito sfiatatoio permette di far defluire l'aria calda. Di solito in una casa abitano due famiglie oppure una sola famiglia costituita da un marito e da due mogli. Ogni donna ha il suo focolare dove in una lampada di steatite brucia grasso di pesce o di balena che d'inverno rappresenta l'unico combustibile. La lampada fornisce insieme la luce e il calore necessario per cuocere i cibi e asciugare gli abiti. Ogni donna ne possiede una che l'accompagna per tutta la vita, tanto che quando muore viene sepolta insieme a lei. D'estate invece si possono utilizzare per far fuoco gli sterpi e la cucina si fa all'aperto. Il nutrimento dipende in ogni stagione dalla caccia e dalla pesca. Poiché molti sistemi di caccia eschimesi sono legati alle possibilità di trovare un gran numero di animali riuniti insieme, è necessario conoscere le abitudini degli animali che vivono in branchi, come le renne, certi uccelli e certi pesci, e le vie seguite dalle migrazioni stagionali. Per seguire gli animali nei loro spostamenti gli Eschimesi devono viaggiare molto; in inverno si spostano sulla terra e sulla neve gelata con la slitta trainata dai cani e in estate viaggiano con tutta la famiglia sulla umiak o barca delle donne, chiamata così perché nei trasferimenti sono le donne che remano; con un equipaggio maschile la barca è utilizzata per la caccia alla balena. La caccia in mare è praticata soprattutto con il caiak, una imbarcazione veloce e leggera adatta al mare aperto su cui prende posto una sola persona. Questa imbarcazione fatta di pelli è costruita in modo che il cacciatore infilandosi nell'unica apertura rende impossibile l'entrata dell'acqua anche se il caiak si rovescia. In questo caso il cacciatore riesce rapidamente a raddrizzarlo con opportuni colpi di pagaia. La vita è pericolosa per un eschimese: durante l'inverno corre continuamente il rischio di morire di fame perché il cattivo tempo lo costringe in casa e non sa quando potrà uscire per cercare cibo; la tempesta può sorprenderlo fuori dall'abitazione mentre è a caccia; la pesca sul caiak lo espone al pericolo del congelamento che può colpire soprattutto gli occhi sebbene siano protetti da occhiali di osso in cui è praticata una sottile fessura; un tricheco può trascinare la barca giù sul fondo o il ghiaccio può rompersi improvvisamente isolando il cacciatore dai suoi compagni e portandolo alla deriva. A contatto continuo con questi pericoli gli Eschimesi hanno sviluppato una grande forza di carattere e anche un atteggiamento fatalistico: il rischio della morte è sempre presente; si sa che non si potrà far molto per impedirlo. Quando un uomo viene separato dai compagni da un crepaccio e isolato su una lastra di ghiaccio dove morirà assiderato gli altri cacciatori dicono: - Non sarà altrimenti -. E allora una vecchia intona un canto: - Dimmi ora, era così bella la vita terrena? -. Sebbene l'esistenza quotidiana sia difficile e circondata da continui motivi di preoccupazione e di paura, la vita degli Eschimesi non ha un carattere chiuso e angosciato. Gli uomini sono allegri, amanti della compagnia e molto cortesi. Il lungo periodo invernale, quando la luce del sole non si fa mai vedere, diventa un momento di riposo dopo le faticose cacce estive ed autunnali e viene utilizzato per preparare feste, per fare visite agli amici o per godere la vita familiare nel caldo della propria abitazione. Il sistema di vita descritto non è quasi cambiato da quando nel XVIII secolo viaggiatori europei stabilirono i primi contatti, ma ormai è praticato solo da alcuni gruppi di Eschimesi. Molte tribù hanno abbandonato la vita nomade e hanno accettato modi di vita occidentale, abitando in case come le nostre, andando a scuola e lavorando nelle fabbriche. LE CAVERNE Le caverne costituiscono un ambiente molto particolare ed interessante sia per il geologo che può studiare il modo in cui si sono formate, sia per il biologo che ha nelle caverne un vero e proprio laboratorio specializzato per lo studio dei problemi ecologici ed evolutivi. Infatti in una caverna le popolazioni viventi possono essere studiate in toto, cioè globalmente, mentre vivono nel loro ambiente. Il compito del ricercatore è inoltre facilitato dal fatto che l'ambiente cavernicolo può essere controllato senza difficoltà: in esso infatti i fattori fisici come la temperatura, la pressione atmosferica e l'umidità presentano una notevole stabilità. In una caverna, da un punto di vista ecologico, si possono distinguere tre grandi zone. La prima è la zona di ingresso, luminosa, in cui si può trovare anche vegetazione; le forme animali sono molto numerose, ma generalmente non presentano nessun adattamento particolare all'ambiente. Più internamente c'è la zona media dove l'energia luminosa non è più sufficiente alla fotosintesi; qui mancano completamente organismi autotrofi ed in genere diminuiscono anche le specie poco adatte alla vita cavernicola. Ancora più profondamente c'è la zona interna completamente oscura; riescono a sopravvivervi solo animali che presentano particolari adattamenti. Da un punto di vista trofico le caverne non sono molto vantaggiose in quanto è assente la fotosintesi; per questa ragione non si possono considerare come un vero e proprio ecosistema. D'altra parte però i processi di deposizione e di accumulo di materiale organico sono favoriti cosicché il terreno viene molto arricchito. All'interno delle caverne possono vivere perciò solo animali carnivori o saprofagi (dal greco sapròs = «guasto» o «putrido» e phagéin = «mangiare») che si cibano di detriti. Il loro cibo è costituito da cadaveri di altri organismi o da funghi, alghe, batteri, che vivono nella fanghiglia traendo l'energia necessaria alla vita da processi chimici non fotosintetici. Data la presenza abbastanza frequente di corsi d'acqua, sono numerosi gli animali acquatici (pesci ed anfibi). Si trovano poi gli insetti specializzati alla vita cavernicola; vi si possono inoltre incontrare anche mammiferi che nidificano o svernano nelle caverne. Un esempio interessante è rappresentato dai pipistrelli, che conducono vita notturna e scelgono l'ambiente cavernicolo per il loro letargo invernale. Gli organismi che si trovano nelle caverne possono essere suddivisi in due grandi categorie: quelli specializzati per la vita cavernicola, detti troglobi (dal greco trògle = «caverna» e bíos = «vita» animali cioè che vivono nelle caverne) e quelli che invece non passano tutta la loro esistenza nelle caverne anche se possono trascorrervi periodi più o meno lunghi o che le hanno scelte come temporaneo rifugio. Questi animali sono chiamati troglofili (dal greco trògle e philèin = «amare» animale cioè che ama trascorrere periodi in caverne). La distinzione tra animali troglobi e troglofili è interessante perché le specie troglobe derivano da antiche specie troglofile costrette per lunghi periodi della loro storia evolutiva ad abitare l'ambiente cavernicolo. Ad esempio è dimostrato che gli animali che abitano le caverne delle attuali zone temperate europee, americane e giapponesi vi sono in gran parte penetrati per variazioni ambientali apportate dalle glaciazioni ed hanno subìto un progressivo adattamento specializzandosi per la vita in questo stabile ambiente di rifugio. Si è potuto studiare bene questo adattamento confrontando tra di loro attuali specie di animali troglofili con specie affini troglobe. Si può facilmente ritrovare in corsi d'acqua sotterranei un pesce non specializzato accanto a pesci specializzati. Questi ultimi presentano stadi larvali e giovanili molto lunghi che durano anche anni, depongono un solo uovo e presentano un particolare adattamento dei centri nervosi visivi e di tutti gli organi che per funzionare necessitano di impulsi luminosi. Sono provvisti però di un organo della linea laterale molto sviluppato che permette loro di percepire le più piccole variazioni nel movimento dell'acqua e quindi di evitare gli ostacoli senza «vederli». Il pesce troglofilo che conserva le funzioni visive depone 125 uova, ha uno stadio larvale molto breve ed ha un ciclo vitale che dura 1/5 rispetto a quello del pesce troglobio. Da ciò si può rilevare che quest'ultimo ha subito un'evoluzione simile a quella di altri organismi che abitano oggi ambienti stabili e poco differenziati come ad esempio gli abissi marini. La sua specializzazione ha prodotto però una riduzione della variabilità genetica delle popolazioni ed un più lento succedersi delle generazioni; questi fatti rendono le specie specializzate estremamente indifese verso le più piccole variazioni ambientali. +----------------------------------------------------------------+ ¦ Zona Zona Zona ¦ ¦ interna intermedia d'ingresso ¦ +----------------------------------------------------------------¦ ¦ scuro penombra chiaro luce ¦ +----------------------------------------------------------------¦ ¦ 30/90% 10/80% 10/60% umidità ¦ +----------------------------------------------------------------¦ ¦ +3°/ +3° 0°/ + 20°C -10/+30°C temperatura ¦ +----------------------------------------------------------------¦ ¦ 10 50 100/300 numero di ¦ ¦ specie ¦ +----------------------------------------------------------------¦ ¦ 100/500 300 1.000.000 biomassa gr./ ¦ ¦ ettaro ¦ +----------------------------------------------------------------+ PIPISTRELLO Appartiene all'ordine dei chirotteri, l'unico gruppo dei mammiferi in grado di volare. È provvisto di una membrana tesa tra le falangi molto allungate degli arti superiori. I pipistrelli hanno abitudini crepuscolari o notturne: la vista è poco sviluppata e riescono ad orientarsi nel buio captando con le orecchie gli echi degli ultrasuoni che essi stessi emettono. I pipistrelli che vivono nei climi temperati si nutrono di insetti che catturano in volo, mentre le specie tropicali sono prevalentemente frugivore (dal latinofrux =«frutto», cioè «mangiatori di frutti») o si nutrono del nettare dei fiori. Durante il giorno si riposano a testa in giù, in caverne o in ambienti poco luminosi. SPELERPES FUSCUS È un anfibio che mostra spiccate caratteristiche di adattamento alla vita nelle caverne. Gli occhi sono particolarmente sviluppati. Si incontra nelle caverne della Liguria, dell'Italia Centrale e della Francia Meridionale. L'AMBIENTE SOTTERRANEO Su tutta la superficie del nostro pianeta, ad eccezione delle zone coperte da mari, laghi, fiumi, stagni, paludi, ecc., si stende il vasto ambiente costituito dalla parte più superficiale della crosta terrestre: il terreno. La denominazione esatta di questo particolare mondo vivente nascosto ai nostri occhi è ambiente ipogeo (dal greco hypò = «sotto» e ge = «terra» cioè «che sta sotto terra»). Molti biologi ritengono che nell'ambiente ipogeo si sia svolta una tappa fondamentale nella conquista dell'ambiente delle terre emerse da parte della vita. Secondo questa ipotesi gli esseri viventi, dopo aver abbandonato l'oceano primigenio, si sarebbero «fermati» nel corso dell'evoluzione a colonizzare dapprima l'ambiente ipogeo e quindi solo successivamente sarebbero riusciti a diffondersi ed organizzarsi sulle terre emerse. Questa ipotesi pare particolarmente vera per quanto riguarda alcune classi di animali inferiori come gli insetti ed in genere per molti invertebrati attualmente terrestri. Le condizioni dell'ambiente ipogeo in effetti sono molto più simili a quelle riscontrate negli ambienti acquatici (acque profonde) che non a quelle presenti nell'ambiente delle terre emerse. L'ambiente ipogeo infatti, come quello marino, è poco differenziato. Ciò vuol dire che in tutti i terreni si trovano pressappoco le stesse condizioni ecologiche; esistono ad esempio trascurabili differenze ecologiche tra il sottosuolo di una prateria nord-americana ed il sottosuolo del praticello accanto a casa nostra. Nell'ambiente marino si verifica lo stesso fatto e così ad esempio gli abissi atlantici e quelli del Pacifico sono molti simili. Una delle caratteristiche più importanti del sottosuolo è la mancanza di illuminazione. Perciò mancano completamente gli organismi autotrofi e quindi in questo ecosistema non c'è produzione primaria. I materiali nutritivi provengono dalla cotica superficiale portati dalla circolazione delle acque o sono costituiti dai popolamenti di funghi e di batteri. La vita animale non è diffusa in tutti gli strati del terreno e pare limitata ai più superficiali: in genere si è notato che gli animali ipogei raggiungono la profondità delle radici delle piante che vivono in superficie. L'alimentazione della fauna ipogea è legata strettamente al processo di trasformazione delle sostanze organiche in humus. L'assenza di luce e la costanza degli altri fattori ambientali fisici come la temperatura e l'umidità, sempre altissima, imprimono alcune caratteristiche generali comuni all'aspetto degli animali ipogei. Innanzitutto c'è atrofia o addirittura assenza degli organi che ricevono le sensazioni luminose mentre c'è un aumento degli organi che sono in grado di dare sensazioni tattili come peli, setole o particolari terminazioni nervose. In genere gli organismi si presentano poco pigmentati, mancano di colore e sono poco protetti contro l'essiccamento e la perdita d'acqua. Il comune lombrico è uno dei più caratteristici rappresentanti della fauna ipogea. È facilissimo incontrare questo anellide in zone del terreno umoso, ricco di sostanze vegetali in decomposizione e di flora e fauna microscopiche. Perché l'ambiente sotterraneo sia adatto alla vita dei lombrichi occorre soprattutto che la percentuale di umidità sia molto alta. Un eccesso di acqua nel terreno è però nocivo e rischia di farli morire per annegamento; in occasione di forti acquazzoni è facile incontrare lombrichi anche in superficie: sono fuggiti dalle loro gallerie sotterranee invase dall'acqua piovana. Il lombrico, come la maggior parte degli animali ipogei, è completamente cieco: è però ben provvisto di organelli, gruppi di cellule specializzate che lo rendono sensibilissimo alle variazioni ambientali di temperatura ma soprattutto a quelle di tipo chimico. Le sue caratteristiche di abile scavatore sono indubbie: in condizioni favorevoli riesce a sprofondare nel terreno anche per 15 metri. La sua presenza nell'ambiente ipogeo è estremamente utile; tra l'altro provvede alla circolazione degli elementi tra i vari orizzonti pedologici, all'aerazione del terreno con le sue gallerie. Il lombrico avanza nel terreno «digerendo» la terra che gli si para davanti: il suo scavare incessante corrisponde ad una continua ricerca di cibo piuttosto scarso nell'ambiente ipogeo. Così facendo favorisce i processi di formazione dell'humus ed in genere la fertilità del terreno. Il contenuto di lombrichi nel terreno è un ottimo indice di fertilità. Il lombrico nel suo adattamento alla vita ipogea ha assunto dei comportamenti che potrebbero sembrare «intelligenti». La fecondazione è un aspetto della fisiologia degli esseri viventi particolarmente legato alle loro condizioni ambientali. Nel corso dell'evoluzione a questo importantissimo atto a cui è legata la continuità della specie si sono associati particolari meccanismi di difesa. Nell'ambiente acquatico la fecondazione è esterna. Ciò significa che l'uovo e lo sperma sono deposti nell'ambiente esterno all'organismo vivente. O meglio la femmina depone le uova che vengono irrorate dal maschio con il liquido seminale (tipica fecondazione dei pesci). Conquistato l'ambiente sub aereo anche il meccanismo della fecondazione cambiò completamente: oggi infatti gli animali terricoli presentano fecondazione interna. Gli elementi germinali non hanno praticamente alcun contatto con l'ambiente esterno al vivente. In esso infatti muoiono rapidamente. Uova e liquido seminale giungono a maturazione all'interno del corpo del vivente e nell'atto della fecondazione vengono a contatto all'interno degli organi sessuali femminili. Le femmine degli animali ipogei maturano le uova all'interno del proprio corpo mentre i maschi «depongono» in particolare «sacche» dette spermatofore, gli elementi germinali maschili che disperdono poi nel terreno. Provvederanno poi le femmine a far pervenire gli elementi germinali maschili sino alle uova mature, attraverso le loro vie genitali. Questo meccanismo di fecondazione può essere considerato come una prova che l'ambiente ipogeo rappresenta un ambiente «intermedio» tra le terre emerse e le acque. IL LOMBRICO Il verme ha due modi diversi di trascinare nelle sue gallerie le foglie che spesso raccoglie per protezione o per nutrimento. Se si tratta di una foglia laminare (latifoglia) l'afferra per l'apice, se si tratta di una aghifoglia (conifera) l'afferra per la base e in questo modo la trascina nel suo stretto cunicolo. È facile constatare che la maggior parte delle foglie laminari si lacera quando tentiamo di farle passare per un tubo sottile se si tirano per il picciolo, mentre tendono ad arrotolarsi ed a passare integre se si afferrano per l'apice. Viceversa, nelle foglie aciculari il modo più facile diremmo, di farle scendere nel tubicino è quello di introdurle per la base. In realtà il lombrico non percepisce assolutamente la forma della foglia e non sceglie i due modi diversi benché sia provvisto di qualche forma di memoria. Il verme si basa sul diverso sapore cioè sulla diversa «qualità chimica» delle cellule della base rispetto a quelle dell'apice della foglia e reagisce di riflesso. Il suo adattamento alla vita sotterranea comprende anche questo comportamento che permette di eseguire l'operazione nella maniera più efficiente. PALUDI E TORBIERE Sia verticalmente sia orizzontalmente la stratificazione della vegetazione di palude è complicatissima proprio perché la vita vegetale riempie letteralmente tutto l'ecosistema. La palude si presenta così come un vero e proprio tappeto fotosintetico: colpita dai raggi solari li trasforma incessantemente in energia biologica senza soste stagionali. Questi ambienti vanno soggetti ad improvvise variazioni del livello delle acque; è un fenomeno che si rivela estremamente utile perché grazie ad esso si possono operare scambi e circolazioni di sostanza organica e quindi di energia. In questo modo aumenta la produttività dell'ecosistema e, grazie all'apporto di ossigeno delle masse di acqua fresca, la palude si ringiovanisce. Per questo e altri più complessi meccanismi la produzione primaria di un metro quadrato di palude in regioni temperate è uguale al doppio di quanto possa produrre un campo coltivato con le più moderne tecniche agrarie. La vegetazione delle paludi ha molta importanza a questo proposito: data la poca profondità delle acque, la vegetazione si estende sul fondo delle zone sommerse; a questa vegetazione propriamente acquatica si deve aggiungere quella che galleggia sulla superficie con radici più o meno ancorate al fondo ed ancora tutti i vegetali che vivono nelle zone più asciutte o che pur avendo le radici immerse sporgono con il fusto all'aria. Per quanto riguarda i rapporti tra vegetazione palustre e popolazioni animali è opportuno distinguere nella palude due grandi zone: quella delle piante emerse e quella delle piante sommerse. Nella prima vanno anche comprese specie arboree che spesso si associano a formare all'interno stesso della palude veri e propri boschi impaludati, formati da specie che sono provviste di radici ben resistenti alla mancanza di ossigeno. Tali sono ad esempio l'ontano, il pioppo e anche qualche specie di quercia. La maremma toscana, prima della bonifica integrale, presentava interessanti aspetti di bosco impaludato che oggi è quasi completamente scomparso. In questa zona emersa rivestono notevole importanza anche le associazioni vegetali di tipo erbaceo, come i giunchi, le carici, i canneti. Strettamente legati a questa zona «emersa» vivono complesse associazioni animali: i più numerosi sono gli insetti; frequenti sono anche gli aracnidi (ragni, ecc.) e i molluschi (lumache, ecc.) con abitudini terrestri o acquatiche. Tutte le forme viventi animali che incontriamo nella palude hanno abitudini idrofile, cioè hanno capacità di resistere anche per lunghi periodi immersi in acqua. Spesso questi animali presentano vita anfibia con uno stadio larvale esclusivamente acquatico ed uno adulto terrestre subaereo. Tra gli insetti i ditteri sono l'ordine più rappresentato, quello che si può considerare tipico degli ecosistemi palustri: ad esso appartengono mosche e zanzare che hanno reso tristemente noto l'ambiente palustre per il fatto di essere portatrici di gravi malattie. L'ambiente emerso della palude è anche favorevole ai rettili; tipica ad esempio delle paludi della zona temperata è la testuggine delle paludi. Molte specie di uccelli, con abitudini acquatiche e no, scelgono la palude come habitat stagionale o definitivo. Tipici sono i rappresentanti della famiglia degli anatidi, come l'oca selvatica, l'anatra selvatica o germano reale, comuni nelle paludi europee superstiti, i cigni diffusi in Europa, Asia, Nord-Africa. Si tratta in questo caso di veri e propri uccelli acquatici con sterno carenato, a forma idrodinamica, zampe palmate adatte al nuoto e provvisti di glandole cutanee che secernono sostanze grasse idrorepellenti (che cioè respingono l'acqua, impermeabili) per cui il rivestimento di piume e penne non appare mai bagnato. Diffusi negli ambienti palustri dell'Asia, Africa ed Europa meridionale troviamo poi i fenicotteri rosa, di cui una tipica stazione di migrazione è la estesa palude della Camargue, alle foci del Rodano. I fenicotteri rosa, come gli anatidi, si raccolgono in numerose società e compiono lunghe migrazioni. I mammiferi che vivono nelle paludi hanno generalmente una taglia piccola e sono provvisti di una pelliccia molto folta. Hanno abitudini alimentari generalmente carnivore poiché si nutrono di pesci e sono tutti ottimi animali da pelliccia come la lontra, il castoro e la nutria. La massa d'acqua palustre, che risulta invasa dalla vegetazione e costituisce la zona della vegetazione sommersa, non è meno ricca di forme di vita animali. Meno legati all'esistenza della vegetazione macroscopica quanto a quella di abbondante fitoplancton e zooplancton di tipo lacustre, troviamo pesci come i barbi e le lamprede d'acqua dolce, rane di varie specie, tritoni, rettili acquatici (bisce d'acqua), molluschi ed insetti dalle abitudini decisamente acquatiche. Nella palude sono rappresentati un po' tutti i gruppi biologici. Perciò è un ambiente polivalente molto adatto alla vita; alcuni scienziati anzi hanno fatto l'ipotesi che dalle paludi la vita si sia mossa alla conquista dell'ambiente terrestre vero e proprio. Nella palude i fattori ambientali fisici piuttosto costanti permettono una produttività elevata e continua che risente poco delle variazioni stagionali. Le paludi assumono quindi una notevole importanza nell'economia della natura: rappresentano un ottimo ambiente per uccelli e pesci che vi trascorrono periodi riproduttivi e di svernamento trovandovi abbondanza di cibo. Le paludi costiere salmastre in particolare sono stazioni frequentate da uccelli e pesci durante le periodiche migrazioni stagionali. Più che un vero e proprio ecosistema autonomo, le torbiere rappresentano un particolare caso di terreno invaso da masse di acqua piuttosto profonda. Si trovano soprattutto nelle regioni a clima umido e freddo e negli ambienti di montagna dove questo clima è caratteristico. A differenza della palude, nella torbiera si raccoglie acqua limpida, non profonda, sempre piuttosto fredda. La vegetazione che vi si insedia è quella tipica della tundra e comprende soprattutto muschi che da soli sono in grado di formare enormi torbiere, ma anche licheni, carici, betulle ed ontani. In queste pozze di acqua fredda, su terreni molto acidi, in cui a volte gli acidi umici si concentrano al punto da impedire qualsiasi forma di vita, avviene un particolare processo che conduce alla formazione della torba. I residui della vegetazione che cadono nelle acque della torbiera non subiscono il normale processo di demolizione che conduce alla formazione del terreno umoso. A causa della bassa temperatura, dell'acidità dell'ambiente e della scarsa ossigenazione, restano infatti al 70-75 per cento del peso iniziale. Viene degradata solo la cellulosa e molto lentamente mentre la lignina (cellulosa e lignina sono i costituenti principali dei vegetali) rimane pressoché intatta e subisce un lento processo di ossidazione che la trasforma in torba. La torba si forma a partire dal fondo: ad ogni variazione stagionale si aggiungono e si stratificano nuove quantità di lignina. In questo processo interviene un fatto che ha reso interessantissime le torbiere per la storia del popolamento vegetale della terra. Ad ogni strato di torba infatti si interpongono i pollini che dalla vegetazione circostante ad ogni primavera vengono affidati al vento per la fecondazione delle parti femminili. I granuli pollinici contenuti nelle torbiere, rivestiti di sostanze particolarmente resistenti all'ossidazione in ambiente acido, si conservano vitali per intere Ere geologiche e permettono agli studiosi di stabilire esattamente quali piante vivevano in un determinato periodo. Un tipo particolarmente interessante di torbiera è quello che si forma negli invasi impermeabili che si riempiono di acque piovane. La massa torbosa galleggia e su di essa si insediano spesso delle associazioni vegetali più evolute. Nelle torbiere la vita animale è piuttosto povera se confrontata con quella delle paludi temperate o calde, ma comprende forme molto specializzate soprattutto tra gli animali inferiori. ANATRA Appartiene all'ordine degli anseriformi, uccelli caratterizzati dal becco ricoperto da un sottile strato di pelle coloratissima e da lamelle cornee trasversali sui margini interni. Le anatre sono tutte ottime nuotatrici. Tra maschio e femmina esistono forti differenze di aspetto. Ricordiamo alcune specie che si possono trovare in Italia. Il germano reale è diffuso in tutto l'emisfero settentrionale. Il maschio adulto ha collo e testa verde brillante e corpo grigio bruno separati da un collare nerastro; il becco è giallo e le zampe rosse. La femmina ha colore bruno-rossiccio. La marzaiola è simile per forma al germano reale da cui differisce per il colore del piumaggio. Il maschio in livrea nuziale si presenta con la sommità del capo bruno scuro, collo e guance rosso castano, becco nerastro e zampe verdognole. Una striscia bianca o giallastra spicca nella regione sopracciliare. Meno diffidente del germano reale è più facilmente oggetto di caccia, anche se la qualità delle sue carni è senz'altro inferiore. La canapiglia ha il becco grigio, le zampe arancioni, la testa grigia con venature nerastre e il collo bianco picchiettato di nero. L'alzavola è la più piccola tra le anatre italiane; raggiunge a malapena i 30 cm mentre le altre sono lunghe anche il doppio. Il capo e il collo del maschio in abito nuziale sono caratterizzati da una striscia verde brillante col bordo bianco tra l'occhio e la nuca, che spicca sul fondo rosso castano. Il fischione ha becco grigio azzurrino e zampe grigiastre. Ha una livrea nuziale coloratissima dove predominano i toni rossi e neri. È chiamato così per il verso udibile a grande distanza. AIRONE Fa parte dell'ordine dei ciconiformi. È caratterizzato dal lungo e morbido collo che nel volo è piegato a forma di S ed appoggiato al dorso. Il becco diritto e appuntito è più lungo della testa. Il corpo è compresso ai fianchi. Le ali sono larghe e lunghissime mentre la coda è corta, arrotondata, con una decina di penne timoniere. Il piumaggio è uguale nei due sessi con colori vivaci arricchiti di penne ornamentali più lunghe situate sul capo o sul collo e sul dorso. Gli aironi vivono in zone paludose a gruppi, nutrendosi di animali acquatici di piccole dimensioni ed anche di anfibi, mammiferi, uccelli. Sono presenti in tutto il mondo escluse le zone fredde. L'airone cinerino è elegantissimo, col piumaggio grigio azzurro picchiettato di macchie nere e bianche. Vive ovunque ci siano specchi d'acqua. L'airone bianco ha aspetto ancor più slanciato ed elegante; in Italia è solo di passaggio ed è molto raro. L'airone rosso è amante dei canneti; assomiglia all'airone cinerino, ma ha colorazione tendente al rosso bruno. La garzetta appartiene alla stessa famiglia, ma ha dimensioni minori. Lunga al massimo 60 cm, ha piumaggio bianchissimo ed il becco nero. Nel periodo della riproduzione presenta due lunghe piume sottili pendenti ai lati del capo. Le garzette sono uccelli di passaggio. RANA Tipico rappresentante degli anfibi sprovvisti di coda o anuri, ha un corpo approssimativamente a forma di globo con zampe posteriori molto sviluppate e pelle sottile e umida. Il maschio può emettere gracidii mediante il rigonfiamento di una sacca golare che ha funzione di richiamo, di riconoscimento di difesa del territorio. La rana verde comune è una delle specie a più vasta diffusione; è strettamente legata alle acque stagnanti, dove si immerge per tempi relativamente brevi, preferendo restare lungo le rive erbose in attesa di insetti che poi afferra con agili salti. Il colore dei singoli individui varia notevolmente, con risultati mimetici, in dipendenza degli ambienti: quelli lungo le rive erbose presentano colorazione verde, mentre dove la vegetazione è scarsa si osserva la prevalenza delle tonalità brune. La rana comune è attiva prevalentemente al crepuscolo o di notte. TESTUGGINE PALUSTRE Le tartarughe sono rettili che vivono in ambiente acquatico. Si differenziano dalle tartarughe terrestri perché sono prevalentemente carnivore e hanno aspetto più idrodinamico (il loro scudo è più piatto). In Europa è diffusa la testuggine palustre, lunga circa 20 cm, con una colorazione bruna ravvivata da macchie gialle. Vive in paludi fittamente popolate di piante acquatiche e galleggianti; trascorre i mesi invernali affondata nella fanghiglia. In primavera, dopo l'accoppiamento, depone in una buca scavata nella sabbia da 4 a 16 uova bianche dal guscio semirigido. Si nutre principalmente di insetti acquatici, piccoli pesci, girini. TRITONE Il nome indica un genere di anfibi urodeli della famiglia dei salamandridi che comprende diverse specie presenti in Italia: il tritone crestato, quello comune e l'alpino. Hanno aspetto piuttosto simile e si differenziano per la lunghezza che va dai 10 cm del tritone comune ai 15 del crestato e per il colore che può essere a macchie scure con ventre arancione (tritone crestato) o avere colorazione più verdastra. Nella stagione della riproduzione, in primavera, i maschi mutano colore ed assumono una livrea nuziale ricca di sfumature cromatiche, dall'azzurro al giallo. Nel tritone crestato la cresta sul dorso assume un maggior sviluppo. I tritoni depongono uova in cumuli spesso attaccati alle piante acquatiche. Da queste nascono dei girini che attraversano le caratteristiche fasi della metamorfosi degli anfibi. Anche da adulti continuano a vivere o nell'acqua, dove si muovono con grande agilità, o in ambienti vicini, sempre molto umidi. Si nutrono di piccoli animali e in particolare di girini. Durante l'inverno cadono in letargo. Si allevano facilmente in acquari e so no utilizzati nei laboratori di biologia LIBELLULA È un insetto appartenente all'ordine degli odonati. È un volatore agile e forte, dalla vista acuta, abile nel catturare la preda durante il volo. Anche le larve acquatiche hanno abitudini predatrici: afferrano le loro vittime proiettando parte dell'apparato boccale che termina a forma di pinza appuntita. Questi insetti hanno un corpo lungo e affusolato, una grossa testa ed enormi occhi. Le 4 lunghe ali trasparenti sono uguali e vengono tenute distese durante il riposo. Vivono in un territorio di caccia dai confini ben delimitati e fortemente difeso dal maschio che non sopporta l'intrusione di un'altra libellula. ZANZARA È un insetto dell'ordine dei ditteri diffuso in tutto il mondo. La maggior parte delle femmine ha bisogno di nutrirsi di sangue per portare a maturazione le uova. I maschi, che si cibano solo di nettare, si uniscono in grandi sciami nei luoghi frequentati dalle femmine. Il ronzio delle ali serve da richiamo sessuale. Le uova vengono deposte ovunque vi sia una raccolta d'acqua, le larve acquatiche rimangono appena al di sotto della superficie dell'acqua e respirano attraverso sifoni respiratori. Le zanzare del genere anopheles sono ospiti intermedi e vettori dei microorganismi che provocano la malaria. La zanzara anofele e quella comune si distinguono per la posizione assunta quando sono posate: la prima col corpo inclinato rispetto al piano d'appoggio, la seconda col corpo orizzontale. LA VITA NELLE ACQUE INTERNE Nella storia della civiltà i fiumi hanno assunto spesso un'importanza fondamentale; sono stati infatti sfruttati per il rifornimento d'acqua, come mezzo di comunicazione e per l'allontanamento dei rifiuti. Sono quindi tra gli ecosistemi più intensamente utilizzati dalla nostra specie ed in conseguenza di questo fatto risultano oggi profondamente modificati. Per rendersi conto di questo fatto è sufficiente pensare alle dighe, agli approdi, ai mulini, alle centrali idroelettriche e alle decine e decine di maniere con cui l'uomo ha tentato nel corso dei millenni di controllare l'ambiente delle acque correnti. L'ambiente delle acque continentali correnti si differenzia da quello delle acque stagnanti per i diversi fattori fisici che condizionano la vita che vi si svolge. Un elemento molto importante è la velocità della corrente. Nei torrenti e nei ruscelli le correnti, a volte molto forti, favoriscono le forme viventi che abitano i fondali oppure gli animali dotati di una attiva capacità di nuoto. Molto scarso è invece il plancton, che si può ritrovare solo nei punti dei corsi d'acqua dove le correnti sono molto deboli o del tutto assenti. Quando un fiume è emissario di un lago eutrofico (dal greco èu = «bene» e trèphein = «nutrire» lago cioè dove la vita si sviluppa abbondantemente) trascina con sé per un tratto anche grandi quantità di organismi planctonici lacustri che però lungo il percorso vanno via via scomparendo. Gli animali fluviali si oppongono alla forza delle correnti attivamente, cioè con il nuoto. Tipico a questo riguardo è il comportamento del salmone che risale in primavera torrenti impetuosi riuscendo anche a superare controcorrente le cascate che incontra sul suo percorso di migrazione. Un altro modo con cui gli animali si difendono dalla corrente è quello passivo: certi animali grazie ad appendici particolari (uncini, antenne, ventose), come ad esempio i girini, rimangono aderenti al fondo. Nei diversi tratti del percorso del fiume le condizioni ambientali cambiano in rapporto alla velocità della corrente, alla ossigenazione delle acque, cioè alla quantità di ossigeno che vi è sciolta, ed alla loro temperatura. In genere nella parte superiore di un corso d'acqua la velocità è maggiore e così pure l'ossigenazione, mentre la temperatura è più bassa. Inoltre la violenza dell'acqua erode il letto del torrente cosicché esso in genere è solido, sassoso o roccioso. Quando invece un corso d'acqua raggiunge zone pianeggianti, la velocità e l'ossigenazione diminuiscono mentre aumenta la temperatura. Per la diminuzione della corrente, il materiale trasportato via via si deposita, il fondo in questo tratto è in genere composto di sedimenti molli, fangosi o sabbiosi. In rapporto a queste differenti condizioni ambientali varia notevolmente la distribuzione della fauna. Nel tratto superiore del corso d'acqua si trovano specie abili nel nuoto ed esigenti per quanto riguarda l'ossigenazione delle acque, come ad esempio le trote. Nel tratto inferiore invece si trovano forme che hanno bisogno di una quantità minore di ossigeno sciolto nelle acque e che hanno forme più tozze, da nuotatori meno abili, come le carpe, i barbi, i cavedani. In questi tratti è più facile incontrare insenature dove la vegetazione acquatica è più ricca e spesso incrostata di plancton; queste zone offrono così maggiori possibilità alimentari. Questa è la zona che viene raggiunta di preferenza dalle specie marine che migrano nei periodi della riproduzione. Fiumi e torrenti da un punto di vista strettamente energetico non sono sistemi ecologici completi; infatti le popolazioni autotrofe produttrici primarie di materiale organico, sono insufficienti rispetto alla massa dell'acqua ed alle popolazioni consumatrici. Perciò il materiale organico primario viene importato sotto varie forme direttamente dagli ecosistemi terrestri adiacenti. Questa caratteristica è stata vantaggiosamente sfruttata dall'uomo per risolvere il problema dell'eliminazione dei rifiuti, che possono essere scaricati nei fiumi. In questo modo si arricchiscono le acque di materiale organico, proveniente dalle fognature, purché la quantità dei rifiuti scaricati non sia eccessiva. La presenza di comunità umane lungo il corso del fiume favorisce perciò lo sviluppo della vita in questo ambiente. Questa è una situazione ideale che nelle zone fortemente industrializzate non esiste più. Dove vi sono grandi concentrazioni urbane e molte fabbriche l'uomo attinge dai fiumi quantità enormi di acqua che restituisce con uno scambio così rapido che le sostanze organiche non hanno il tempo di essere utilizzate ed eliminate dalla fauna prima che raggiungano più a valle un altro centro abitato. Così il fiume si inquina. L'inquinamento ad opera degli scarichi urbani non è la forma più grave: le materie plastiche, corrosive, chimiche in genere riversate nel fiume dalle industrie e i detersivi che vengono dagli scarichi delle abitazioni resistono alla decomposizione biologica e inoltre uccidono la fauna. Vita animale e vegetale dei fiumi di montagna Le acque continentali stagnanti costituiscono un ambiente biologico molto interessante, soprattutto per la continua evoluzione cui sono sottoposti gli ecosistemi che vi si instaurano. Infatti il destino di ogni lago è quello di divenire più o meno lentamente uno stagno per il progressivo sedimentare del materiale apportato dall'immissario o, se si tratta di laghi di altra origine, per l'erosione delle acque meteoriche sul territorio circostante. Il destino geologico di ogni stagno così originato è quello di trasformarsi in una palude e questa a sua volta è condannata ad un progressivo essiccamento. Non è facile accorgersi di questa evoluzione, che coinvolge anche gli ecosistemi che si instaurano nei laghi, negli stagni e nelle paludi, perché si attuano in tempi molto lunghi. In base alla quantità, alla profondità e all'estensione le masse di acqua dolce possono prendere il nome di laghi, stagni e paludi. Le proprietà fisiche delle acque stagnanti sono molto diverse da quelle delle acque correnti. Per l'organizzazione degli esseri viventi, che si sono insediati soprattutto nei laghi, è molto importante la capacità che ha l'acqua stagnante di stratificarsi. Uno stagno, un lago non presentano caratteristiche ambientali simili sulla loro superficie, all'interno della loro massa d'acqua e sul loro fondale. La densità, la temperatura, la permeabilità alla luce solare sono molto diverse in ognuno di questi strati. Le acque stagnanti per quanto riguarda la loro produttività (produzione primaria) sono infine legate alla natura chimica del bacino geologico che le ospita, alla quantità e alla qualità del materiale importato dal territorio circostante. Lo studio ecologico delle acque interne ha dato origine ad una scienza autonoma, la limnologia (dal greco lìmne = «lago») che si occupa appunto dello studio dei laghi e dei loro ecosistemi. Esistono classificazioni basate sulla presenza della fauna ittica (pesci) che vive nel lago o sulla presenza di larve di insetti; la più utile dal punto di vista ecologico è quella basata sulla loro produttività della massa d'acqua: si parla così di laghi buoni produttori (eutrofici) e scarsi produttori (oligotrofici), con tutta una serie di situazioni intermedie. I laghi di formazione recente, i laghi alpini, che hanno di solito acque profonde, chiare, trasparenti, con rive rocciose, sono di tipo oligotrofico; sono generalmente poveri di plancton. Tipici pesci delle loro acque profonde e fredde sono la trota, che vi trova un buon contenuto di ossigeno, e il salmerino che ha un comportamento carnivoro ed è amante delle profondità e di temperature superiori ai 15° C. Generalmente l'ittiofauna è scarsa, come scarsa è la quantità di fitoplancton (plancton vegetale) perché i fosfati e le sostanze minerali necessari alla vita di questo livello trofico precipitano al fondo e non possono essere utilizzati. I laghi di pianura, di colore verdastro o giallastro a causa dell'argilla disciolta, con rive pianeggianti e ricche di vegetazione palustre sono invece di tipo eutrofico. La mineralizzazione dei detriti organici proveniente dalle zone superficiali del lago (materiale planctonico, vegetazione, ecc.) è molto rallentata rispetto ai laghi oligotrofici perché le sostanze mineralizzate tornano rapidamente in ciclo e vengono utilizzate dall'abbondante fitoplancton per la fotosintesi. La presenza dell'ossigeno nelle acque dei laghi eutrofici è un fattore ambientale importantissimo. Spesso durante le estati a causa della maggiore temperatura dell'acqua vi si scioglie una quantità minore di ossigeno ed allora anziché processi di mineralizzazione sul fondale lacustre avvengono fenomeni di putrefazione; ciò provoca la morte di molti animali, soprattutto dei pesci e del plancton. In genere i pesci che vivono in un lago eutrofico sono più abbondanti rispetto ai laghi del tipo precedente; la carpa, la tinca ed il luccio sono i tipici rappresentanti dei pesci adatti alle condizioni ambientali dei laghi eutrofici. Nella zona litoranea di questi laghi è abbondante una vegetazione di piante superiori con radici; più lontano dalla riva invece vi sono piante di tipo decisamente acquatico (alghe). Nelle zone più profonde dove la quantità di luce e la temperatura non sono sufficienti alla fotosintesi non si trova più vegetazione. È il regno dei batteri e degli altri microorganismi mineralizzatori. Lo stagno è un ambiente direttamente derivato dai laghi eutrofici. L'acqua ha una profondità molto scarsa cosicché tutto il fondale è coperto dalla vegetazione. I processi di putrefazione, che accadono solo saltuariamente nei grandi laghi eutrofici, sono la situazione normale degli stagni dal momento che le acque sono di solito povere di ossigeno. Tra i grossi pesci vi è la tinca generalmente accompagnata da cobiti e dal carassio, pesci tutti che sopportano bene le alte temperature e avvolgendosi nella melma acquosa resistono anche ai brevi periodi di prosciugamento frequenti negli stagni. Molto numerose poi sono le popolazioni di insetti e di anfibi. L'ecosistema dello stagno LUCCIO È un pesce teleosteo d'acqua dolce che può raggiungere dimensioni ragguardevoli e può pesare fino a 20 kg. Ha corpo snello, muso allungato e appiattito a spatola, fornito di denti forti e acuti e curvi all'indietro. Il corpo è ricoperto da piccole squame. Il colore è verdastro con macchie bianche. Si trova nelle acque interne dell'Europa, dell'Asia e del Nord America. Per la sua voracità è stato paragonato allo squalo. È un pesce dalle carni commestibili. CARPA Vive in acque poco profonde, a corso lento o anche stagnante. Questo ciprinide ha il corpo slanciato, compresso lateralmente, di colorazione variabile. Può raggiungere i 120 cm di lunghezza. Si nutre di piccoli invertebrati e di vegetali che vivono sul fondo. Le uova vengono deposte nei mesi estivi sulla vegetazione acquatica. La carpa, originaria delle regioni del mar d'Azov, mar Caspio, mar Nero, è oggi diffusa in molti stagni e fiumi europei. BARBO È un teleosteo d'acqua dolce che appartiene alla famiglia dei ciprinidi. Può essere lungo fino a 80 cm. Deve il nome ai bargigli che pendono presso la bocca. Ama le acque correnti col fondo sassoso. Ha colore verdastro sul dorso, bianco sul ventre. La femmina durante l'epoca della riproduzione non è commestibile perché le uova delle ovaie possono causare disturbi intestinali. TROTA È un pesce piuttosto sedentario, che predilige corsi d'acqua limpida e molto ossigenata, ricchi di anfrattuosità dove può nascondersi e deporre le uova nei mesi invernali. Raggiunge la maturità sessuale quando è lunga circa 20 cm, mentre la lunghezza massima è di 50. Gli alimenti preferiti sono larve di insetti, crostacei ed insetti alati che cattura saltando fuori dall'acqua. Non tollera acque inquinate rivelandosi così un ottimo indicatore biologico dello stato di salute dei corsi d'acqua. È diffusa ovunque vi sia un ambiente adatto, anche perché interviene il continuo ripopolamento da parte dell'uomo. LAMPREDA Nella forma esteriore le lamprede sembrano pesci: sono allungate, cilindriche ed hanno una pinna sulla parte dorsale posteriore del corpo. Possono essere lunghe fino a 90 cm. Sono vertebrati che appartengono alla classe dei ciclostomi, caratteristici per avere la bocca circolare, priva di mascelle, simile ad un imbuto dove si trovano serie di piccoli denti. Si nutrono di pesci che attaccano con la bocca che funziona come una ventosa e che serve per succhiare. Vi sono specie che vivono nell'acqua dolce e specie che vivono nel mare; anche queste ultime tuttavia si riproducono in acque dolci dove le lamprede migrano, raggiunta la maturità sessuale. Depongono uova da cui nascono larve cieche, prive di denti, con tentacoli boccali. STORIONE È un pesce di notevoli dimensioni può misurare 3 m, ma vi sono anche specie che raggiungono i 7. Ha un aspetto caratteristico per la testa lunga e appiattita e per il corpo affusolato, cosparso di piccoli scudi ossei. Vive nelle acque marine (è assai diffuso nei mari europei ed anche nel Mediterraneo), ma all'epoca della riproduzione risale i fiumi per deporre le uova. I piccoli rimangono in acque dolci fino a tre anni quando scendono verso i mari. La carne di questo pesce è ricercata; particolarmente pregiate sono le uova, che salate e compresse costituiscono il caviale. SALMONE È un pesce teleosteo che può raggiungere la lunghezza di 1 m e mezzo; ha corpo allungato e compresso lateralmente, bocca grande e denti robusti. Vive nelle acque del mare, ma nel periodo della riproduzione risale il corso dei fiumi per depositare le uova. In questa risalita (montata) è capace di superare a balzi anche dislivelli notevoli. Deposte le uova ritorna al mare; pare che durante l'esistenza (può vivere una decina d'anni) compia tre o quattro volte la montata. Le uova schiudono durante l'inverno ma i piccoli aspettano due anni prima di discendere al mare; in questo periodo modificano l'aspetto esteriore e cambiano di colore. Il salmone ha carni pregiate e viene per questo attivamente pescato, tanto che in molti mari è quasi scomparso. I LITORALI Se capita di passeggiare per una spiaggia in momenti diversi di una stessa giornata, si può notare ogni volta che il livello del mare è diverso rispetto alla terraferma. In una giornata di mare agitato, poi, le onde sommergono una fascia ancora più vasta della spiaggia e gli spruzzi ed il pulviscolo di acqua marina polverizzata si spargono anche molto all'interno della costa. In questo ambiente si instaura un ecosistema particolare: il litorale. Nell'ecosistema del litorale si trovano fattori caratteristici degli ambienti terrestri e altri propri degli ecosistemi acquatici, ma ve ne sono alcuni esclusivi. Tra questi ultimi sono importantissimi i movimenti delle maree e il moto delle onde che fanno sì che la fascia bagnata sia ora più vasta ora più ristretta. In relazione a ciò gli ecologi hanno diviso il litorale in tre zone: il sovralitorale, il mesolitorale e l'infralitorale. Il sovralitorale è quella parte dell'ecosistema che viene raggiunta dalle masse d'acqua solo in occasione di tempeste, maree particolarmente forti, spruzzi di ondate. La sua estensione varia naturalmente col variare della natura geologica del litorale, a seconda cioè che si tratti di una spiaggia o di una scogliera. Il mesolitorale o litorale vero e proprio è la fascia dell'ecosistema interessata dalle normali variazioni cicliche del livello dell'acqua (marea). L'infralitorale è quella parte dell'ecosistema che in condizioni normali non emerge: lo si può trovare asciutto in occasione di maree eccezionalmente basse. Ciò che nel linguaggio comune si chiama la spiaggia è un tipo di litorale con un terreno formato da sabbia o ciottoli; la scogliera invece è formata da rocce. La situazione ecologica di una scogliera è più ricca e variata; in essa si possono ritrovare particolari microambienti come le cosiddette pozze di scogliera. Queste si presentano come piccoli bacini tra le fessure delle rocce in cui si mantiene l'acqua in maniera incostante. L'acqua che vi si ferma può provenire sia dalle precipitazioni atmosferiche sia dagli spruzzi delle onde marine. Ovviamente queste pozze sono sottoposte ad intensissima evaporazione tanto che possono sparire poche ore dopo essersi formate lasciando un'incrostazione di sale. Anche senza arrivare a queste condizioni estreme questi ecosistemi sono sottoposti a continue variazioni di salinità e di temperatura. Si tratta di ambienti immaturi in cui non si raggiunge mai una situazione stabile ma in cui la vita è riuscita ad adattarsi. In questi minuscoli ecosistemi si possono vedere, ma non ad occhio nudo perché si tratta di esseri unicellulari, dei fitoflagellati non molto dissimili da quelli che popolano l'ambiente marino. Strettamente legati a queste popolazioni vi sono alcuni generi di zooplancton capaci di resistere alle brusche variazioni ambientali. Ad occhio nudo, osservando attentamente, si possono distinguere immerse nell'acqua piccole larve di insetti, che si rivelano particolarmente resistenti agli sbalzi di temperatura. La produzione primaria di questi ecosistemi è ampiamente integrata da una grande quantità di materiale organico proveniente dalla terraferma e trasportato dal vento e dalle acque. Quando la massa d'acqua ospitata negli incavi delle scogliere ha una profondità notevole o risulta particolarmente protetta dall'insolazione diretta, si possono trovare anche comunità di alghe pluricellulari e perfino una fauna più ricca di crostacei (granchi, gamberi, ecc.) e molluschi. Nel sovralitorale si possono trovare insediate delle particolari formazioni vegetali dette «costiere» che comprendono piante superiori in grado di vivere sulle spiagge sabbiose e nelle fessure delle rupi marittime. Sugli arenili vivono molte specie alofite, cioè amanti dei terreni salati, che assumono l'aspetto delle note «piante grasse». Queste hanno una notevole capacità di regolare la pressione osmotica e quindi gli scambi di materiale (sali, acqua) con il terreno. Altre piante pur non presentando gli adattamenti delle alofite, resistono bene anche su questi ambienti. Vi si può ad esempio trovare un genere di margherita che riesce a sopravvivere ad appena pochi centimetri di distanza dall'acqua salata grazie ai rapporti di comunità stabiliti con piante grasse del tipo salicornia: queste, con il groviglio delle loro radici, raccolgono il poco terreno umoso sufficiente alla vita della margherita (in genere di dimensioni molto ridotte e assai poco esigente). Il sovralitorale sabbioso presenta tuttavia una flora molto povera. Ricca invece è quella delle coste e dei sovralitorali rocciosi, su cui possono spingere piante appartenenti agli ecosistemi terrestri che si affacciano al mare. Tipico è il caso del pino marittimo, un'aghifoglia capace di impiantarsi sulla nuda roccia che viene spaccata dalle potenti radici alla ricerca del nutrimento. Gli animali che popolano il sovralitorale sono in genere provvisti di un robusto esoscheletro come insetti, aracnidi, crostacei; nei sovralitorali sabbiosi vi sono anche animali in grado di scavare delle gallerie. Tutti questi ed altri adattamenti sono dovuti al grosso problema di conservare l'acqua senza la quale queste popolazioni non sopravviverebbero. I granchi sono un buon esempio su cui verificare questo fatto. Questi crostacei, diffusissimi su ogni tipo di litorale, hanno un sistema di respirazione non dissimile da quello dei pesci: respirano per branchie. Perché sia possibile lo scambio gassoso a livello branchiale quest'organo deve essere perennemente coperto da un velo d'acqua in cui l'ossigeno dell'aria possa sciogliersi. Le branchie nel caso dei granchi sono protette dall'evaporazione grazie al carapace, il loro robusto esoscheletro. Si è constatato che le specie di granchi distribuite in tutte le fasce del litorale, hanno un numero di branchie diverso a seconda della posizione che occupano: se vivono nel sovralitorale ne hanno un numero proporzionalmente più basso rispetto a quelle del mesolitorale, che a loro volta ne hanno meno di quelle che vivono nello strato perennemente coperto dall'acqua marina. Nel corso dell'evoluzione ciascuna specie si sarebbe adattata alla disponibilità di acqua. I fattori ambientali che influiscono sulla vita del mesolitorale sono quelli strettamente legati alle maree. Il mesolitorale è però anche la fascia in cui maggiormente si risente l'effetto del moto ondoso. La marea comporta l'immersione e l'emersione periodica di questa zona ed influisce sul comportamento delle popolazioni animali. Questi infatti a seconda che appartengano all'ambiente terrestre o a quello marino sono costretti a seguire l'andamento del livello dell'acqua. Gli animali del sovralitorale o degli ecosistemi terrestri prossimi al mesolitorale si ritirano al sopraggiungere dell'alta marea, mentre altri, come ad esempio i granchi, seguono il salire dell'acqua marina alla ricerca del cibo. Nei granchi anzi si instaura un vero e proprio «orologio». Certe specie che abitano il mesolitorale, trapiantate in ambienti in cui non sono influenzate dalle maree compiono egualmente le loro migrazioni periodiche in sincronia con i tempi delle maree stesse. Il moto ondoso e soprattutto l'urto delle onde durante i periodi di mare agitato favoriscono l'insediarsi di popolazioni vegetali, ma soprattutto di animali incrostanti, chiamati così perché vivono attaccati agli scogli. Questi animali si comportano come filtratori per l'approvvigionamento del cibo, filtrano cioè grandi masse d'acqua che nel mesolitorale è perennemente rinnovata dal moto ondoso. Sono diffusi i generi mytilus, ostrea, i ben noti muscoli o cozze ed ostriche, tutti commestibili, ed il balanus, un crostaceo caratteristico del mesolitorale diffuso in un areale molto vasto. Altre popolazioni animali incrostanti sono date da gasteropodi che si cibano della pellicola di alghe microscopiche fissate sulle rocce immerse. Questi animali sono chiamati pascolatori perché le loro abitudini alimentari sono simili a quelle degli erbivori superiori. È facile rendersi conto che le popolazioni vegetali ed animali del mesolitorale hanno una distribuzione stratificata proprio per il variare notevole dei fattori ambientali tra la linea delle basse e quella delle alte maree. L'infralitorale è la parte dell'ecosistema che, almeno nei mari interni, è sempre sommersa dalle acque e nei litorali oceanici è soggetta a brevi e rare emersioni. I fattori ambientali che interessano l'infralitorale sono molto simili a quelli dell'ambiente marino vero e proprio. Si è potuto anche stabilire che esiste una «fuga» di energie dalle praterie dell'infralitorale verso popolazioni animali decisamente pelagiche (cioè abituate a vivere in mare; dal greco pélagos e dal latino pelagus = «mare»). Ad esempio, della produzione primaria di una prateria di zoostera, un'alga verde pluricellulare tipica dei fondali sabbiosi, 1/400 viene sfruttato attraverso una complicata catena trofica che comprende merluzzi ed altri grossi pesci pelagici, mentre circa 1/4 dell'energia prodotta dalle praterie è riservato all'interno dell'ecosistema litorale. Nell'infralitorale le popolazioni animali sono spesso sessili, cioè fisse al fondo del mare; i loro caratteri generali ricordano ancora molto quelli del mesolitorale, ma le forme di vita sono molto più variate. Vi è presente quasi tutta la fauna marina con forme e colori tra i più vistosi grazie all'abbondanza di luce; sono rappresentati poriferi, celenterati, gasteropodi, pesci. Questa parte del litorale termina infatti dove la quantità di luce è insufficiente alla vita delle alghe superiori. In questa fascia immersa i crostacei e i gasteropodi, che sono un po' gli animali guida per lo studio del litorale, hanno caratteristiche molto simili a quelli della fascia superiore, soprattutto se si trovano su un fondale roccioso. Nel fondale sabbioso le zoosteracee prevalgono su tutta la vegetazione e le forme animali si adattano a questo popolamento vegetale vivendo sessili sulle alghe che forniscono loro nutrimento ed ossigeno. Altri animali vivono sprofondati nella sabbia (costituiscono quella che si dice l'infauna) e crostacei e gasteropodi cominciano a presentare qualche caratteristica diversa: ad esempio le conchiglie sono meno robuste, in qualche caso trasparenti, la mineralizzazione del carapace (la «corazza») dei crostacei è minore ed aumenta il loro contenuto in grassi. Per essere più precisi, è stato notato che le specie che vivono sul fondo presentano una corazza o una conchiglia robusta, mentre l'esoscheletro (conchiglia, corazza) di quelle che galleggiano ha un alto contenuto in grassi. Questo accumulo di grassi riduce il peso specifico e permette un miglior galleggiamento. Il litorale è un ecosistema particolarmente adatto per la vita: la sua produzione primaria è in genere molto alta proprio perché vi sono numerosi organismi produttori; se ne possono distinguere almeno quattro categorie. Una prima molto importante, ma comune all'ambiente marino vero e proprio, è costituita dal fitoplancton, vi sono poi la microflora sessile, le alghe e le piante marine superiori anch'esse sessili (zoostera) ed infine le formazioni vegetali costiere. Così il litorale è un ambiente altamente produttivo; può avere una produzione primaria anche 50 volte superiore a quella del mare aperto. Raffigurazione schematica di litorale roccioso PELLICANO È un uccello che può raggiungere i 130 cm; è dotato di ali larghe, becco lungo. Caratteristica è la capace borsa di pelle che si trova sotto il becco e che viene utilizzata per catturare il pesce. Le zampe palmate gli permettono di nuotare sott'acqua per afferrare la preda; questo uccello è anche in grado di tuffarsi da altezze superiori ai 15 m. Il pellicano comune è diffuso nell'Europa Sud Orientale, nell'Asia Orientale e nell'Africa. In estate vive in baie e paludi, svernando lungo le coste e le foci dei fiumi. Costruisce con rami grossi nidi dove depone 2 uova che vengono covate dal maschio e dalla femmina. Ha abitudini sociali ben evidenti durante il periodo della nidificazione, che avviene in grandi colonie, e durante la cattura delle prede. Nell'America Centrale e Meridionale è diffuso il pellicano bruno che frequenta le coste rocciose in prossimità di acque limpide e poco profonde. Un pellicano ALBATROS L'albatros urlatore appartiene all'ordine degli uccelli procelliformi; può raggiungere un'apertura alare di più di 4 m ed è in grado di compiere viaggi lunghissimi, volando ore e ore senza interruzione. L'autonomia di volo è data dal fatto che questo uccello è capace di sfruttare le correnti d'aria o i venti, di mantenere la quota, scendere o salire compiendo solo i movimenti strettamente necessari. Gli albatros hanno bisogno di notevole quantità di cibo per compensare il grande dispendio di energia che comportano i lunghi voli. Il cibo è costituito da qualsiasi cosa commestibile che galleggi o affiori sulla superficie marina. A volte strappano la preda ad altri uccelli. Col buio si posano sulla superficie marina e galleggiano fino al sorgere del sole, quando riprendono il volo. Verso novembre si avvicinano alle coste disabitate per preparare i nidi. I CROSTACEI DEL MESOLITORALE Per studiare le cause della distribuzione ecologica delle popolazioni incrostanti del mesolitorale un ecologo scozzese ha preso in osservazione due generi di crostacei entrambi filtratori, le cui esigenze ambientali sono molto simili, il balanus e il chtamalus. La larve di questi due generi vivono mescolate e libere (divengono incrostanti e sessili solo da adulti) su tutto il mesolitorale; gli individui adulti però sono nettamente separati; il chtamalus vive in una zona più superficiale al limite con il sovralitorale; immediatamente sotto si insediano i balanus. Si suppone che i chtamalus si ritirino più in alto perché così sono meno facilmente predati. Quindi la predazione è un fattore limitante per questa specie. Invece i balanus temono l'essiccamento e preferiscono le zone del mesolitorale più a lungo immerse. Ma con un facile esperimento si è dimostrato anche l'esistenza di una "concorrenza" tra questi animali. Togliendo le larve dei balanus gli adulti di chtamalus invadono anche le zone di insediamento dei primi, mentre sottraendo le larve di chtamalus all'ambiente il balanus non si spinge ad occupare la fascia superiore. Evidentemente la distribuzione di questi due generi di crostacei nel mesolitorale deriva dà un compromesso fra i fattori limitanti per ciascuna e la competizione interna "costringe" (non si sa bene con quale metodo) il chtamalus ad insediarsi sulla parte più esterna. GLI AMBIENTI MARINI Fra tutti gli ecosistemi quello marino è probabilmente il più ricco di forme di vita; in modo particolare sono molto numerose le forme più primitive, che non sono giunte nel corso dell'evoluzione alla conquista dell'ambiente sub aereo. La vita è comparsa nei mari e di là ha invaso le acque dolci e le terre; per questa ragione gli organismi viventi nel mare comprendono tutte le linee evolutive secondo cui si è organizzata la vita sul nostro pianeta. Si può spiegare questo fatto tenendo presente che la diversificazione in linee evolutive si era già compiuta prima della conquista della terra emersa da parte dei viventi. La differenziazione in specie e in generi è invece molto maggiore tra le forme terrestri in quanto l'habitat terrestre è più vario ed ha richiesto nel corso dell'evoluzione maggiori adattamenti. Il mare infatti è un ambiente piuttosto uniforme; non vi sono molti fattori che influiscono sull'attività e sulla distribuzione delle popolazioni. La salinità ha un'importanza molto considerevole a questo riguardo; la maggior parte degli animali marini infatti sopporta soltanto piccolissime variazioni della concentrazione salina dell'acqua in cui vivono. Altri invece, soprattutto quelli che popolano gli estuari dei fiumi, presentano una più ampia tolleranza nei riguardi di questo fattore ambientale. Alcune specie migratrici come il salmone e l'anguilla riescono addirittura a vivere sia in ecosistemi di acqua dolce sia in mare. Anche la temperatura influisce notevolmente sulla distribuzione della fauna: quasi tutte le forme acquatiche sono eteroterme (dal greco héteros = «diverso» e thermòs = «caldo») ossia con temperatura corporea che si modifica in base a quella dell'ambiente in cui vivono: ovviamente il fatto di non possedere mezzi di regolazione interna li rende molto sensibili ad eventuali variazioni di temperatura. Alcune specie, come il tonno, si spostano con il variare stagionale della temperatura, altre, soprattutto quelle che vivono nel litorale dei mari temperati, risentono del cambiamento della stagione, cioè presentano un periodo estivo di rapido accrescimento alternato ad un rallentamento delle funzioni vitali nel periodo invernale. L'illuminazione è un altro fattore ambientale d'importanza fondamentale nel mare, poiché anche in questo ecosistema la luce del sole che viene assorbita dagli organismi vegetali autotrofi è indispensabile nella sintesi di composti organici. I raggi del sole possono essere utilizzati dalla biomassa vegetale soltanto negli strati più superficiali dell'acqua: attorno ai 150-200 m di profondità la vegetazione autotrofa scompare completamente. Con l'aumentare della profondità varia anche la pressione idrostatica, cioè la pressione esercitata dal liquido sull'organismo. Potrà sembrare strano che organismi fragili come la maggior parte dei pesci abissali riescano a sopportare forze così elevate; ciò accade perché la pressione esterna è equilibrata da un'uguale pressione interna. Qualora venissero portati alla superficie, per effetto della brusca decompressione si dilaterebbero fino a scoppiare. Proprio a causa di questo necessario equilibrio di pressione interna ed esterna, normalmente gli animali marini si mantengono nello stesso strato d'acqua e compiono migrazioni verticali soltanto dopo un particolare adattamento fisiologico. Rapide migrazioni verticali possono essere effettuate dagli squali e dai cetacei, ma soltanto se inseguiti. La zona eufotica (dal greco èu = «bene» e photòs = «luce») è la fascia più superficiale dell'ambiente marino, quella cioè più esposta ai raggi solari; questa posizione, assieme al fatto che la zona eufotica è la parte della massa d'acqua a contatto con l'atmosfera, ha un'importanza fondamentale: in questa zona infatti si attua una parte importantissima della catena alimentare. Nel mare la produzione primaria è effettuata principalmente da piante microscopiche unicellulari (il fitoplancton) che vivono in sospensione nell'acqua. Le piante pluricellulari hanno invece scarsa importanza a questo riguardo. Il fitoplancton costituisce il primo anello della catena alimentare; la sua maggiore concentrazione favorisce tutta la biomassa eterotrofa. Il fitoplancton infatti viene utilizzato prevalentemente come cibo da parte dello zooplancton erbivoro. Questo gruppo di animali pascolatori comprende artropodi (granchi, gamberi), celenterati, ctenofori (meduse) e animali in genere di piccole dimensioni, che hanno sviluppato sistemi per captare il fitoplancton filtrando grandi quantità d'acqua. Alcuni di essi sono inoltre forniti di ciglia, setole, tentacoli appiccicosi mediante i quali la cattura del cibo risulta più facile e richiede minor dispendio di energia. Lo zooplancton compie migrazioni giornaliere nella zona eufotica; raggiunge le zone più superficiali durante la notte e passa il giorno più in profondità seguendo gli spostamenti del fitoplancton. Gli spostamenti dello zooplancton funzionano come un meccanismo di difesa: la relativa oscurità della profondità protegge lo zooplancton dall'attacco dei carnivori, mentre durante la notte in superficie può tranquillamente cibarsi. Queste migrazioni giornaliere servono anche a regolare il metabolismo; infatti il trascorrere le giornate in acque più fredde riduce al minimo il consumo di energia. Oltre allo zooplancton esistono anche altri erbivori pelagici consumatori di fitoplancton come sardine ed aringhe che a loro volta costituiscono la preda diretta di vari carnivori. Questi ultimi vivono generalmente in gruppi, il che permette loro di aggredire e di difendersi più facilmente. La zona intermedia del mare è caratterizzata dalla completa quiete delle acque, dalla bassa temperatura, da limitate variazioni termiche e saline, dall'assenza di luce solare e quindi di vegetazione. La popolazione di questo strato è molto rarefatta, ma trattandosi di un territorio vastissimo il numero totale degli animali è ugualmente molto alto. Ci sono circa 2000 specie di pesci ed altrettanti di invertebrati tra i più grandi che si conoscano, come molluschi giganteschi e meduse; questi animali sono diffusi in un areale piuttosto limitato. In questa zona, accanto ad animali saprofagi, cioè di quelli che si nutrono di escrementi e cadaveri provenienti dalla zona soprastante, vivono prevalentemente specie carnivore. La mancanza di produzione primaria in questo settore dell'ecosistema rende l'alimentazione di questi animali saltuaria. Essi superano questo inconveniente comportandosi per la maggior parte come predatori, catturando cioè prede di notevoli dimensioni anche superiori al peso del proprio corpo. Potenti carnivori come squali, pesci spada, pesci lanterna e calamari che vivono fino intorno ai 500 m di profondità compiono infatti migrazioni giornaliere, soprattutto di notte, risalendo alla superficie in cerca di cibo. Altre specie invece, soprattutto quelle che vivono sotto gli 800 m di profondità, adottano particolari accorgimenti per procacciarsi l'alimento. Si tratta in genere di forme dotate di una debole muscolatura, fornite di mascelle enormi e di addome molto espanso che conferisce loro un aspetto mostruoso. Questi pesci attirano la preda con esche luminose e la catturano inghiottendola intera grazie alla loro enorme bocca. Benché anche il plancton presente in superficie sia talvolta luminescente, la maggioranza degli organismi capaci di emettere radiazioni luminose vive nelle zone profonde e buie; alcuni di questi animali sono dotati di organi luminosi particolarmente evoluti forniti di riflettori e lenti molto complesse. In conseguenza della quasi completa oscurità, alcuni pesci hanno occhi ridotti, mentre altri sono muniti di occhi molto grandi o telescopici capaci di raccogliere la poca illuminazione. La zona intermedia può avere uno spessore variabile a seconda della configurazione fisica e della profondità del fondale. Molto differente dalla zona eufotica e da quella intermedia è invece il fondale marino: questo è un ambiente straordinariamente costante che, escludendo la zona costiera, non ha subito notevoli variazioni dal periodo Cambriano (600 milioni di anni fa) fino ad oggi. In una zona abissale al largo del Perù è stata scoperta intorno al 1950 una particolare classe di molluschi, ritenuta estinta nel Cambriano. I fondali marini differiscono dagli strati più superficiali per la maggior concentrazione di cibo; inoltre mentre nella zona intermedia la maggior parte degli animali deve muoversi attivamente alla ricerca di cibo, sul fondo per la presenza di molte correnti e per la relativa concentrazione di sostanze organiche, gli organismi animali possono star fermi ad aspettare che il cibo venga loro incontro. Infatti molte delle forme di quest'ambiente sono sessili, vivono cioè quasi tutta la vita aderenti al terreno, come le spugne, i gigli di mare, oppure compiono solo piccoli spostamenti come le stelle marine ed altri echinodermi. Gli animali che vivono sul fondo costituiscono il benthos (in greco bènthos = «profondità»); questo è molto più numeroso nelle acque poco profonde al largo delle coste e specialmente alle foci dei grandi fiumi. Queste zone infatti sono solitamente più ricche di cibo per l'apporto di sostanze provenienti dalla terraferma. Sul fondo marino si compie un'altra importante fase della catena alimentare: qui infatti avviene la mineralizzazione delle sostanze organiche ad opera dei batteri. Si formano così dei sali. Questi vengono portati alla superficie dalle correnti ascensionali e favoriscono lo sviluppo del fitoplancton che costituisce il primo anello della catena trofica: così il ciclo risulta chiuso. La eventuale mancanza di nitrati e fosfati, cioè quei sali, costituisce un fattore limitante per lo sviluppo del fitoplancton. Se invece questi sali si fissano sul fondo sono in genere perduti per la produttività. Una parte della sostanza organica precipita sul fondale marino, dove non viene degradata, ma si accumula e forma imponenti sedimenti. Questi però sono costituiti principalmente da carbonati e silicati piuttosto che da nitrati e fosfati. Infine un'ultima parte di sostanze organiche viene utilizzata direttamente come nutrimento dagli animali viventi sul fondo. Vita animale nella zona tra le due maree L'habitat delle zone di marea DELFINO Lungo fino a 2 m e mezzo e con un peso di circa 115 kg, questo cetaceo ha corpo fusiforme con il capo che termina con uno stretto rostro, una specie di becco appuntito diviso con un solco dalla fronte. Gli occhi posti dietro e al di sopra della bocca hanno una pupilla a forma di cuore; vicino ad essi si trovano le aperture auricolari, molto piccole. I delfini hanno colore variabile con sfumature nere o bruno scure sul dorso, bianche inferiormente e bruno giallastre o grigie lateralmente. Sono animali assai socievoli e vivono abitualmente in gruppo. Sono abilissimi e veloci nuotatori (possono raggiungere i 35 km/h) ed è facile vedere le loro esibizioni in alto mare mentre saltano fuori dall'acqua o seguono qualche imbarcazione. Si nutrono di grandi quantità di pesci. CORALLO ROSSO, PENNATULA, ALCYONIUM Sono celenterati che vivono fissati sul fondo in colonie formate da numerosi individui. Gli scheletri calcarei hanno dato origine a scogliere anche imponenti come nel caso dei coralli. ACCIUGA Detta anche alice, è un osteitto, cioè un pesce fornito di scheletro osseo. Può misurare da 15 a 20 cm ed ha corpo allungato, compresso ai lati, coperto da squame, col muso slanciato e gli occhi coperti da pelle trasparente. La bocca è munita di piccoli denti ed è piuttosto grande. Il colore della parte superiore è bluastro o verde intenso mentre inferiormente e lateralmente è argenteo. Si nutre di altri pesci. Vive nel Mediterraneo e nell'Atlantico fino alle coste norvegesi. In primavera e in estate le acciughe si avvicinano alle coste in branchi più o meno grossi per andare a deporre le uova nelle acque basse. Dalle uova nascono larve che vengono in parte pescate e utilizzate col nome di bianchetti. In autunno e in inverno le larve lunghe alcuni centimetri raggiungono gli adulti che si tengono più in profondità. Tra i branchi che si avvicinano alle coste per riprodursi non si trovano individui di più di 2 anni d'età. Le acciughe possono essere mangiate fresche o consumate dopo essere state salate. MEDUSA È un celenterato che galleggia liberamente sull'acqua. Ha forma di ombrello da cui si dipartono tentacoli muniti di organi equilibratori e di cellule contenenti un liquido urticante che può essere mortale per piccoli animali. All'uomo provoca arrossamento. Alcune meduse hanno un velo sotto il margine dell'ombrello. TONNO È un pesce teleosteo di notevoli dimensioni che può raggiungere i 3 m. Ha corpo affusolato coperto di piccole squame. È un carnivoro. Vive nei mari aperti a grande profondità (può oltrepassare anche i 1000 m), ma durante la stagione primaverile si avvicina alle coste per la riproduzione; in questo periodo i branchi costituiti da numerosi individui sono oggetto di intensa caccia perché le carni sono pregiate, utilizzate fresche, salate o sott'olio. I tonni vengono pescati con grossi ami o con impianti fissi, le tonnare. In autunno i branchi si disperdono e gli individui ritornano in mare aperto a grande profondità. ARINGA Vi sono molte specie di aringa; quella più grande può raggiungere la lunghezza di 40 cm. Ha corpo piuttosto slanciato e ricoperto di squame che si staccano con facilità. Il muso è appuntito e la mascella inferiore è leggermente sporgente. I denti sono piccoli, ma numerosi, presenti anche sulla lingua. Il colore scuro della parte superiore diventa man mano più chiaro verso il ventre dove possono esservi anche riflessi dorati o bluastri. Si nutre di animaletti di piccola taglia come altri pesci, anellidi, molluschi. Si trova nell'Atlantico Settentrionale, nell'Oceano Glaciale Artico, nel mar Baltico, nel mare del Nord. I branchi appaiono in primavera per sparire in estate, quando migrano verso il fondo in questa fase sembrano smarrire l'istinto gregario, che ricompare quando maturano le gonadi ed inizia una vita in branchi composti anche da milioni di individui. Le aringhe, salate, affumicate o fresche, sono ampiamente utilizzate a scopo alimentare a partire dal Secolo XIV, quando si scoprirono metodi per la conservazione mediante salatura. FITOPLANCTON, ZOOPLANCTON Il fitoplancton è costituito da piante microscopiche che popolano tutte le acque. Lo zooplancton è formato da animali microscopici. Il fitoplancton varia da luogo a luogo, da stagione a stagione, da anno ad anno. Tutte le forme marine natanti sono munite di filtri collegati a particolari superfici assorbenti, capaci di captare le sostanze nutritizie durante il passaggio dell'acqua. Nelle piante terrestri le radici assorbono, mentre le foglie sintetizzano e respirano ed è necessario perciò un sistema di canali (sistema vascolare) per portare l'acqua in ogni parte. Nelle piante marine invece ogni parte sintetizza, assimila e secerne e non c'è bisogno di organi diversi per compiere queste funzioni. Il movimento delle acque è indispensabile alla vita di queste forme vegetali in quanto questi organismi per l'assunzione di sostanze organiche e per l'eliminazione dei rifiuti dipendono dal movimento dell'acqua. I meccanismi ecologici che regolano la distribuzione dei fitoplancton non sono ancora molto chiari; sembra che i flagellati preferiscano le zone più superficiali, le diatomee le zone più profonde. La densità di queste popolazioni segue generalmente cicli stagionali. Le diatomee, ad esempio, prevalgono in primavera e in autunno, mentre i flagellati in estate e in inverno. Le popolazioni di fitoplancton dopo aver compiuto il loro ciclo vitale cadono verso il fondo dove formano notevoli sedimenti che di solito non vengono riutilizzati. La percentuale di sostanza organica riutilizzata nel mare è molto bassa rispetto a quanto avviene nella catena alimentare terrestre. ATOLLO L'atollo si forma quando una colonia corallina si insedia su un'isola sommersa. Esso assume una forma ad anello circolare o ovale intorno ad una laguna che comunica col mare aperto attraverso uno o più canali. Intorno all'atollo si trova una scogliera detta piattaforma che emerge solo durante la bassa marea. Essa può essere molto larga e termina con un rilievo che ha funzione di diga. La fauna e la flora delle piattaforme sono ricche e rigogliose. GLI ATOLLI CORALLINI Una produttività molto elevata si ha nell'ecosistema che si instaura sui banchi corallini. Questi si trovano solo in mari caldi perché le comunità viventi che li elaborano richiedono una temperatura che non scenda mai sotto i 21° C. Le formazioni coralline si possono distinguere in scogliere, quando sono aderenti alla costa rocciosa, e barriere quando tra la formazione e la costa rimane un braccio di mare libero. Famosa è la Grande Barriera australiana che copre più di 200.000 chilometri quadrati, costituendo la più grande struttura costruita da un organismo vivente sulla Terra. Vi sono infine gli atolli quando queste colonie costruttrici si insediano su isole sommerse, normalmente di origine vulcanica, che per il continuo accrescersi del calcare corallino (fino a 20 cm all'anno in superficie) emergono senza alcun rapporto con la costa. Le scogliere coralline sono formazioni meno importanti e meno esigenti in fatto di temperatura; si trovano anche nei nostri mari ed anche nel mare del Nord, nei fiordi norvegesi. Gli atolli hanno una forma ad anello perfettamente circolare, ma spesso anche ovale che circoscrive una laguna centrale in comunicazione col mare aperto mediante uno o più canali. L'atollo è circondato esternamente da una scogliera detta piattaforma che emerge soltanto durante i periodi di bassa marea. La piattaforma può essere larga anche qualche centinaio di metri e termina solitamente con un rilievo che assume un poco la funzione di una diga. La piattaforma corallina è popolata soprattutto da echinodermi (ricci di mare), crostacei, molluschi o da pesci pascolatori delle associazioni vegetali e da pesci carnivori, come gli sceridi che si cibano dei coralli stessi triturandoli con le loro potenti mascelle. I madreporari (l'ordine che comprende le più importanti famiglie di coralli costruttori di banchi) hanno bisogno per sopravvivere di una concentrazione salina costante, di acque non turbolente perché movimenti troppo violenti dell'acqua asportano le larve, e non sopportano la presenza di fanghi troppo ricchi di sostanza organica. Per questo motivo le barriere che ci sono nel Mar Rosso o nell'Australia hanno delle larghe interruzioni in corrispondenza delle foci dei fiumi. Sulle formazioni emerse di calcare corallino si insediano con una successione ecologica tipica dapprima vermi, quindi insetti, piante superiori, uccelli. Quando questo ecosistema ha raggiunto una complessità tale per cui la sua parte emersa corrisponde all'ambiente della foresta tropicale, vi si possono insediare anche popolazioni umane. La laguna centrale dell'atollo presenta una fauna ed una flora meno ricca e rigogliosa di quella piattaforma perché la circolazione delle acque è minore e quindi anche l'alimento che viene scambiato è minore. LE ACQUE SALMASTRE Un ecosistema particolare, strettamente legato al mare, è quello che si instaura nell'ambiente delle acque salmastre. Queste risultano dal mescolamento di acque salse con acque dolci. Troviamo acque salmastre in alcuni mari più o meno chiusi in cui i fiumi riversano grandi masse di acqua dolce come nel Mar Caspio e nel Mar Nero, nelle lagune e negli stagni litoranei, alle foci ed agli estuari dei fiumi. In questo ambiente acquatico i fattori ambientali fondamentali sono gli stessi che si sono visti per il mare, però qui possono variare di intensità. L'apporto improvviso di grandi masse di acque dolci o di acque marine a causa di piene, inondazioni, mareggiate o semplicemente a causa delle maree, provoca sbalzi continui nella concentrazione salina e nella temperatura della zona salmastra. Rimangono invece abbastanza costanti la pressione e la luminosità. Le acque salmastre della laguna di Venezia ad esempio presentano variazioni di salinità dal 5 al 18 per mille. Le acque salmastre ospitano quindi ecosistemi in cui le biomasse, vegetali e animali, sono adatte a queste variazioni. La flora e la fauna sono più monotone di quelle marine, cioè più povere di specie, ma le popolazioni sono molto più ricche di individui a causa dell'abbondanza di sostanze organiche portate dalle acque interne dolci. Vi si trovano protozoi, rotiferi (vermi d'acqua) e polipi microscopici; tra gli animali più grossi si trovano crostacei ed anche pesci come il pesce ago della famiglia dei cavallucci marini. Le acque salmastre sono un ottimo ambiente per l'accrescimento di certi molluschi, che sfruttano l'alta produzione primaria per la loro nutrizione. Un metro quadrato di un ecosistema ad acque salmastre può avere una produzione primaria giornaliera pari o addirittura doppia di un metro quadrato di foresta tropicale.