ITINERARI - IL MONDO ATTUALE - STORIA - AMERICA E RUSSIA: MITI A CONFRONTOGLI USAGli Stati Uniti sono l'America per antonomasia. Per quanto inesatto, e ingiusto nei confronti degli altri Paesi del vasto continente americano, dall'inizio dell'Ottocento gli USA hanno rappresentato pressoché in esclusiva, per lo meno nel mondo occidentale, quel che di mitico (e di positivo o minaccioso, a seconda dei punti di vista) il nome ha racchiuso: benessere diffuso, mobilità sociale, democrazia politica, tensione incessante verso il progresso tecnico e scientifico. Prima società di massa, e prima su dimensioni così grandi, gli Stati Uniti sono stati percepiti per circa un secolo come l'avanguardia permanente di ciò che compendia il termine "modernità". Tuttavia, l'attitudine nei confronti dell'America così intesa non è mai stata univoca: negli stessi intellettuali e viaggiatori europei, che nel XIX secolo scorgevano le potenzialità e il fascino della nuova Unione nordamericana, l'ammirazione era assai spesso sfumata dalla perplessità per le contraddizioni e le ingiustizie della società statunitense e per le manifestazioni di cattivo gusto che la contrassegnavano. Antico è perciò in Europa un "antiamericanismo" conservatore e snobistico, per il quale la modernità americana è sempre stata sinonimo di scarsa cultura, gretto materialismo, culto del denaro e volgarità di massa: ovvero disvalori rispetto alla cultura, alla storia, al buon gusto, al senso della misura e della tradizione che caratterizzerebbero la civiltà europea. Questo atteggiamento, tuttavia, proprio perché coglieva fenomeni degenerativi reali, ha permeato di sé anche una frangia critica delle stesse élite americane, attratta a ogni generazione dall'Europa come luogo privilegiato dello spirito e meta di un volontario esilio; e ha coinciso in parte nei presupposti, anche se non negli esiti, con l'antiamericanismo "politico" di sinistra, che nell'America ha riconosciuto, e detestato, il cuore del capitalismo mondiale e più recentemente, a cavallo dei secoli XX e XXI, anche di un nuovo aggressivo imperialismo. All'attitudine nei confronti dell'America ha fatto per molto tempo da parallelo quella nei confronti della Russia. Per tutto l'Ottocento tra gli intellettuali europei serpeggiò la consapevolezza che i due Paesi erano le potenze del futuro: solo che alla Russia andava ancora associata un'immagine di barbarie asiatica, di arretratezza, di dispotismo, temperata dall'apprezzamento delle sue immense risorse naturali e delle grandi riserve di energie umane e morali. La Prima guerra mondiale rivelò, da un lato, la supremazia economica americana sulla stessa Europa occidentale, dall'altro fece della Russia rivoluzionaria, ormai Unione Sovietica, il centro di un movimento mondiale, quello comunista, che sfidava l'ordine costituito di tutti i Paesi capitalisti. Questo non impedì agli stessi dirigenti sovietici di nutrire per l'America un rispetto tinto di ammirazione: la scommessa dell'esperimento sovietico era di conquistare la modernità, e con essa un benessere di massa propiziato dal dispiegamento di ogni risorsa scientifica e tecnica, realizzando nel contempo un ideale di eguaglianza sociale. Ma le vicende successive al 1945, relegando in seconda fila i parallelismi e le analogie che erano invalsi sino al 1917, e privilegiando l'opposizione tra modello capitalista americano e modello collettivista sovietico, finirono con l'attenuare la percezione della comune distanza dei processi di modernizzazione e industrializzazione dei due Paesi rispetto alle esperienze europee. L'Europa occidentale, del resto, entrata stabilmente negli anni Quaranta nell'area d'influenza militare ed economica della potenza nordamericana (appartenenza sancita in successione dagli accordi di Bretton Woods, dal piano Marshall e dal Patto Atlantico), avrebbe mutuato dall'America anche stili di vita e mode culturali. Modelli sociali contrapposti, America e Russia (intesa come Unione Sovietica) si proposero attivamente nel XX secolo come miti politici. Il fallimento delle democrazie europee di fronte ai fascismi si tradusse, all'indomani della Seconda guerra mondiale, nel favore con il quale gran parte dell'opinione pubblica moderata europea guardò agli USA come a una sintesi rassicurante di libertà, democrazia politica e benessere; mentre la parte di orientamento comunista e socialista guardava con altrettanto favore all'URSS, come patria di una democrazia formalmente più limitata di quella parlamentare, ma sostanzialmente più reale, perché garante degli interessi della stragrande maggioranza della popolazione lavoratrice. Durante la guerra fredda i due miti vennero irrigiditi, e spesso deformati in caricature, dalle opposte propagande. Filoamericanismo e filosovietismo non erano tuttavia esattamente speculari. Tra chi avversava il modello sovietico, molti (conservatori, nazionalisti, cristiani, socialdemocratici) e per ragioni diverse non erano affatto entusiasti di quello americano e ne riconoscevano ampiamente i limiti e le mistificazioni. Di circolazione e di credito molto più ristretti, privo com'era del sostegno assicurato all'America dalle forme di comunicazione di massa (dal cinema alla musica), il mito sovietico aveva corso all'interno dei partiti comunisti dell'Europa occidentale, oltre che in alcuni movimenti di liberazione coloniale, ai quali offriva l'esempio di un Paese arretrato giunto rapidamente allo sviluppo industriale sotto la guida ferrea di un'avanguardia rivoluzionaria (inizialmente, per esempio, fu questo il corso seguito anche dalla Cina popolare di Mao Tse-Tung). Inoltre era un mito difficilmente verificabile, vista la scarsa trasparenza della società sovietica; ma poiché visitavano l'URSS soprattutto coloro che cercavano conferme a posizioni già favorevoli al socialismo "realizzato", era tanto più fideisticamente accettato e ripetuto da quadri di partito, militanti di base e simpatizzanti. Le informazioni sui livelli di vita della società sovietica, fornite dalle autorità moscovite e riecheggiate dai sostenitori stranieri, erano generalmente abbellite; e se i dirigenti sovietici avevano ogni ragione di vantare i grandi progressi materiali realizzati, tenuto conto del punto di partenza del Paese e delle enormi difficoltà attraversate, assai meno ragionevole era la mera riproposizione della loro propaganda nel contesto europeo occidentale. L'erosione e la disintegrazione dei miti americano e sovietico avvenne per gradi, a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta e poi, più decisamente, a cavallo dei decenni Sessanta e Settanta, anzitutto tra gli intellettuali e gli osservatori politici occidentali più accorti, in seguito anche nella coscienza comune. Contribuirono a questo processo di disillusione da un lato la semplice realtà dei fatti, dall'altro la stessa ripresa economica dell'Europa occidentale, favorita dal piano Marshall. La "realtà dei fatti" sovietica (dal rapporto Krusciov agli interventi militari in Polonia, Ungheria e in Cecoslovacchia, alla diffusione della letteratura del dissenso) causò uno stillicidio di abbandoni e ripensamenti tra gli intellettuali di sinistra (l'anno 1956, con il duplice impatto delle rivelazioni di Krusciov sui crimini staliniani e della repressione operaia di Budapest, segnò un vero e proprio spartiacque nel rapporto tra movimento comunista filosovietico e intellettuali); mentre, in anni più recenti, la migliore conoscenza (anche grazie al turismo) delle condizioni di vita vigenti nei cosiddetti Paesi dell'Est generalizzò il disincanto. Quanto agli USA, il vergognoso sistema della discriminazione razziale, l'evidente sostegno in tutto il mondo a dittature militari e regimi oppressivi fascistoidi, e soprattutto la "sporca" guerra del Vietnam, tolsero via via all'America, anzitutto davanti a se stessa, ogni possibilità di porsi a pietra di paragone. Così l'Europa occidentale della crescita economica del secondo dopoguerra (per quanto sia stato alto il costo sociale della stessa e contraddittori i suoi esiti) finì lentamente col riacquistare l'antico, sottile senso di superiorità nei confronti di America e Russia. Tanto più in quanto si generalizzava la percezione delle due grandi superpotenze non già come Paesi modello, fecondi di esempi positivi per l'umanità, ma come puri e semplici imperi moderni, regolati dalla logica dell'interesse dei rispettivi ceti dominanti e della sopraffazione sui Paesi più deboli: Stati, insomma, con i quali bisognava fare i conti, e gli affari, ma non più da mitizzare. Forse qualcosa è cambiato dopo l'11 settembre 2001, giorno del sanguinoso attacco terroristico all'America, quando si riscoprirono vicinanze e legami, il più delle volte emotivamente solidali, con la popolazione statunitense. Ma forse, in seguito, il risvolto meno immediato di tale condivisione del dolore è stato ancora più profondo, e ha innescato una riflessione critica sulla trasformazione in senso sempre più aggressivo e sciovinista della "Nazione Americana", contribuendo a infliggere un nuovo, decisivo colpo al mito a stelle e strisce di cui abbiamo detto. E tuttavia, sul piano dei modelli culturali è stata sicuramente l'America a prevalere nel XX secolo. La società dei consumi, la disponibilità di beni, la mobilità, la differenziazione, l'esercizio presunto del dissenso, la competizione, l'individualismo: nonostante l'illusorietà cento volte smascherata e la funzione mistificatoria di questa immagine, la modernità americana proposta a tutto il mondo dai mezzi di comunicazione di massa, cinema e televisione in primo luogo, ha finito con l'attrarre un po' tutti, compresi non pochi protagonisti degli esperimenti di tipo sovietico. Fino a far sospettare che, se un esempio poteva offrire l'URSS di Stalin e dei suoi successori (e le sue repliche nel resto del mondo), era forse solo quello di una industrializzazione accelerata e forzata (a direzione autoritaria) in un Paese arretrato: un modello che non appena raggiunge l'obiettivo diventa insopportabile. Il confronto tra i due sistemi politici e ideologici è venuto meno con l'implosione della Russia comunista, che anche formalmente è stata ratificata con lo scioglimento dell'Unione Sovietica nel dicembre del 1991. La disgregazione dell'URSS ha avuto una conseguenza di enorme portata storica e psicologica, perché non si è trattato solo della crisi di una potenza; in quella entità politico-economica si era voluto vedere la realizzazione di un ideale socialista, di eguaglianza e fraternità (il cosiddetto "socialismo reale", appunto perché storicamente attuato), che fino al 1917 era stato solo un'aspirazione vaga, una meta utopica, un traguardo da raggiungere (se e chissà quando) per le masse sfruttate dei lavoratori, per il proletariato mondiale. E a poco valsero le critiche di coloro che, da sinistra, denunciarono per tempo l'involuzione burocratica, autoritaria e nazionalista di quell'esperimento rivoluzionario, che troppo presto si era ridotto a mero capitalismo di Stato. Così il crollo del 1989-91 ha portato con sé anche il crollo di speranze e aspettative ben più ampie, legate a una visione complessiva della politica e della vita; la caduta del modello sovietico ha messo in crisi l'idea stessa di comunismo, sconvolgendo anche in altri Paesi i partiti comunisti di ispirazione sovietica, ma anche quelli socialisti o comunque di tutte quelle formazioni che si richiamavano al marxismo, lasciando sgombro il terreno a ciò che l'America oggi rappresenta. L'IMMAGINE DELL'AMERICA... Il primo cinema a Eboli fu costruito subito dopo i bombardamenti, lo chiamarono Supercinema e lo fece fare Pezzullo, il padrone del più grande mulino e pastificio... e ci volevano i carabinieri tanta era la folla per regolare l'entrata...Così un modesto allevatore, Cosimo Montefusco, aiuto bufalaro della piana di Eboli, in Lucania, ricordava l'arrivo del cinema in questo sperduto Paesino meridionale subito dopo la Seconda guerra mondiale. Quanto alla programmazione, non doveva essere molto diversa da quella rievocata dal gestore di una sala popolare nello stesso periodo in un piccolo centro della Puglia: ... Il cinema americano, il western fu il nuovo campo di battaglia... John Wayne, Randolph Scott, Clark Gable divennero presto popolari... Il film mitologico e il film storico furono i nostri beniamini... Sansone e Dalila e Via col vento furono proiettati per ben cinque volte... Le immagini proiettate su teloni di fortuna facevano scoprire che «laggiù, in America, c'erano posti come Tombstone, generali come Patton, ballerini come Fred Astaire e ragazze come Ginger Rogers!», attivando quei meccanismi di identificazione con i modelli di vita di oltre Atlantico che avrebbero trovato nel personaggio di Nando Meniconi, il protagonista del film di Steno Un americano a Roma, interpretato da Alberto Sordi, la più compiuta e maniacale realizzazione. Dello straordinario potenziale di fascinazione sulle masse di quella che è stata definita assai opportunamente la «diplomazia del cinema» erano ben consapevoli gli osservatori americani che sin dal 1943, subito dopo lo sbarco in Sicilia, segnalavano nelle popolazioni del Sud una fame crescente di film statunitensi. E indicavano nella riapertura del dialogo con il pubblico italiano, delle grandi città come della provincia, già instaurato con successo da Hollywood negli anni tra le due guerre e bruscamente interrotto dal conflitto, un essenziale veicolo di propaganda e defascistizzazione, oltre che, naturalmente, un mercato che andava riconquistato e difeso dalla concorrenza interna ed esterna. Come avrebbero ribadito qualche anno più tardi i funzionari del Piano Marshall, il cinema era uno strumento insostituibile per mettere in comunicazione la realtà statunitense con una società come quella italiana, soprattutto meridionale, dove la parola scritta non era spesso ancora arrivata. Così Hollywood rinsaldava vecchi legami già operanti negli anni Trenta, quando nella Rimini di Federico Fellini «erano i divi e le dive della Mecca hollywoodiana a portare... nel natio borgo selvaggio... il fascino del mondo esotico e a creare il mito dell'America... favolosa di cowboy e pellirosse, di miliardari... e di bellissime vamp». Al tempo stesso, però, essa risuscitava e rafforzava antiche remore e rancori, parte di quell'antiamericanismo, diffuso in tutto il vecchio continente nel periodo fra le due guerre come sintomo di rifiuto della modernità e delle sue sfide, che in Italia si era caricato degli accenti nazionalistici e magniloquenti della cultura del regime. I residui di questi atteggiamenti si combinavano ora alla diffidenza, quando non all'aperto rifiuto, del mondo ecclesiastico nei confronti della spregiudicatezza di costumi che le immagini cinematografiche e gli echi letterari e giornalistici attribuivano alla società Usa. A livello popolare, del resto, l'indubbio fascino di cui si è detto non andava disgiunto sia da un tentativo di trovare mediazioni tra il nuovo e la tradizione (si pensi al Sordi-Meniconi di Un americano a Roma che cerca di conciliare spaghetti e mostarda), sia da un qualche senso di invidia e risentimento nei confronti della superpotenza egemone e, per traslato, della sua cultura di massa. Sentimenti, questi, che, a mano a mano che avanzavano la «guerra fredda» e la spaccatura del mondo in due blocchi, potevano trascolorare in ostilità più o meno dichiarata, alimentando il conflitto tra modelli di società e di sviluppo che attraversava il Paese. Tutto questo non impedì comunque l'ampia diffusione dei miti hollywoodiani e il riproporsi anche in Italia dei meccanismi contraddittori propri della cultura di massa. Tra schermo e platea si giocava una complessa partita, fatta da una parte di aspirazioni, spesso indistinte, ad un'esistenza migliore e dall'altra, di modelli di comportamento che si risolvevano nella semplice esaltazione del successo e della ricchezza, e tuttavia inevitabilmente segnalavano lo scarto tra la vita reale e altri mondi possibili. In essi, come era accaduto negli Usa nel periodo tra le due guerre, ci si rifugiava alla ricerca di pure compensazioni simboliche come quelle che provenivano da un lieto fine. Ma è pur vero che quel lieto fine aiutava a tirare avanti, giorno dopo giorno, e poteva anche essere interpretato come una promessa (e una garanzia) di tempi migliori. Tutti questi fenomeni si riproponevano con una forza e un'ambiguità amplificate quando anche nelle case italiane, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, arrivava la televisione. E con essa l'universo dei consumi di massa che abbattevano le tradizionali barriere tra pubblico e privato, dissolvendo l'usuale senso dello spazio e aprendo la strada ad inaudite forme di manipolazione delle coscienze, non meno che a più ampi processi di alfabetizzazione e circolazione delle informazioni. Anche l'«americanizzazione del quotidiano» che passava attraverso il nuovo medium non andava esente dalle contaminazioni e sovrapposizioni operate dalla cultura dell'establishment cattolico e nazionale. Favorevole ad un sistema di immagini prive di connotazioni di classe, esso intendeva comunque difendere, non senza una certa flessibilità, quei valori religiosi, familiari e tradizionali che una commercializzazione troppo spinta, con i suoi tratti individualistici, laici e in una certa misura «egualitari», sembrava mettere a repentaglio. Il che non toglie che, per quanto attutito e reinterpretato alla luce dei residui di cultura umanistica che suggerivano una più pudica esibizione dei prodotti nei programmi televisivi rispetto all'originaria formula d'oltre Atlantico, il modello consumistico si diffuse anche nel nostro Paese. Ne emergeva l'immagine di un'America che, prima e più che terra della libertà, tornava ad essere, come nelle lettere degli emigranti d'inizio secolo, sinonimo di abbondanza. Con la differenza che ora questo valore perdeva i connotati familiari e vaghi del «paese di cuccagna» per ancorarsi in maniera esplicita, nella propaganda pubblicitaria e politica, al mondo del mercato e della libera impresa. Ricostruire attraverso quali complessi meccanismi mentali, di rifiuto e al tempo stesso recupero e selezione della propria memoria, la generazione cresciuta con la televisione in casa sarebbe arrivata, attraverso le immagini del Vietnam e dei ghetti neri, a scoprire l'«altra» America delle cartoline precetto in fiamme e delle università occupate, è stata una sfida stimolante e quanto più difficoltosa per lo storico. L'AMERICA NELLA «GUERRA FREDDA»Fra il 1941 e il 1945 gli Usa si erano affermati come la prima potenza mondiale, impegnata in Europa e in Asia, dotata del più forte arsenale convenzionale e della nuova, terribile arma nucleare. Beneficiavano inoltre di un boom economico impensabile alla fine degli anni Trenta, che aveva pressoché eliminato la disoccupazione e comportato grandi trasferimenti di forza lavoro verso le grandi città industriali del Nordest, del Middle West, e della California, e l'impiego massiccio di manodopera femminile. Gli accordi economici di Bretton Woods (1944) avevano sanzionato il primato statunitense fra i Paesi dell'Occidente industrializzato e proiettato gli interessi Usa in aree tradizionalmente dominate da Gran Bretagna e Francia. La politica statunitense dell'immediato dopoguerra perseguiva perciò non solo la competizione aperta con l'Unione Sovietica, ma anche l'estromissione incruenta delle vecchie potenze europee dalle loro tradizionali aree di influenza. Solo con la Seconda guerra mondiale, del resto, gli Usa assunsero definitivamente quell'orientamento internazionalista (cioè di intervento politico ed economico in tutto il mondo, contrapposto all'isolazionismo di una larga parte dell'opinione conservatrice) che fra le due guerre aveva sollevato forti dissensi all'interno del Paese, ma che era sostenuto dai fautori del riformismo rooseveltiano. Il New Deal e poi la politica di guerra erano stati legati al nome di Roosevelt. Ma nell'aprile 1945 egli era morto, lasciando la presidenza al poco noto, e da lui diversissimo, Harry Truman, le cui prime decisioni di rilievo furono l'impiego della bomba atomica contro il Giappone (su Hiroshima e Nagasaki) e la netta contrapposizione ai Sovietici alla conferenza di Potsdam (agosto 1945). La politica estera di Truman si compendiava nella formula del containment, secondo la quale gli Stati Uniti dovevano assumere la guida del «mondo libero» e contenere l'espansione dell'influenza sovietica: col sostegno economico e politico ai Governi amici dove possibile, con aiuti militari dove necessario. Il varo della Alleanza atlantica (Nato), il mantenimento di un fortissimo esercito appoggiato a una rete di basi terrestri e navali sparse in tutto il mondo, il perfezionamento delle armi atomiche andarono perciò di pari passo con il varo del Piano Marshall e l'invio di aiuti economici ai Paesi non controllati da Governi comunisti. Con la fine della guerra si temeva che si interrompesse anche il boom dell'economia ad essa collegato. Il piano Marshall venne pensato per assicurare il proseguimento della crescita grazie al rilancio complessivo dell'economia mondiale e degli scambi internazionali. All'irrigidimento nei confronti dell'Urss corrispondeva all'interno una svolta conservatrice, che gli ambienti industriali alle prese con la riconversione produttiva e con una mobilitazione della sinistra politica e sindacale ancora vivace, sostenevano vigorosamente. L'offensiva della destra politica e intellettuale nel decennio postbellico, manifestatasi nel fenomeno del maccartismo, riuscì in effetti a distruggere la sinistra americana. La coalizione rooseveltiana (democratici del Sud, ebrei, cattolici irlandesi e italoamericani, sindacati) prevalse ancora, di misura, alle elezioni presidenziali del 1948, benché il partito democratico fosse spaccato in tre tronconi. Ma il secondo mandato di Truman (1948-1952) fu segnato dallo scoppio, nel 1950, della guerra di Corea e si concluse con l'aperto contrasto tra il presidente e il generale MacArthur, comandante delle forze statunitensi in Corea. MacArthur, destituito da Truman, non ottenne, come sperava, la candidatura presidenziale per il partito repubblicano. Quest'ultimo candidò un altro generale, Dwight («Ike») Eisenhower, già comandante in capo delle forze statunitensi nella Seconda guerra mondiale, al quale un Paese rassicurato dal boom che la stessa guerra di Corea contribuiva a sostenere, e dove il riflusso conservatore aveva prevalso, assicurò il successo su un candidato democratico progressista e intellettuale, Adlai Stevenson. Durante la doppia (1952-1960) presidenza di Eisenhower (un conservatore scialbo, affiancato da un aggressivo repubblicano di destra, Richard Nixon) la politica estera americana, diretta da John Foster Dulles, fu ispirata alla dottrina del roll back, del contrattacco nei confronti dell'influenza comunista nel mondo. Fu Eisenhower ad autorizzare l'invio dei primi consiglieri militari statunitensi in Indocina, dopo il ritiro della Francia, e i marines in Libano; e sul finire della sua presidenza i servizi segreti prepararono l'invasione di Cuba, dove aveva vinto la rivoluzione di Fidel Castro. L'America di Eisenhower, mentre combatteva la guerra fredda con i Sovietici, attraverso il cinema conquistava con la propria immagine rassicurante e propagandistica le platee di mezzo mondo, alimentando l'immaginario collettivo. L'immagine mascherava i processi sotterranei e le inquietudini reali che attraversavano la società americana e sarebbero emersi di lì a poco: la rivoluzione dei costumi portata dal benessere economico, sovvertitrice dei modi di vita tradizionali; movimenti culturali anticonformisti in quel momento ancora marginali e bohémien; il problema nero, destinato a sfociare in protesta aperta e spesso violenta. Proprio la questione razziale rappresentava la contraddizione più stridente, e la vergogna, dell'America agli occhi dell'opinione pubblica mondiale. Dalla fine dell'Ottocento la legislazione adottata dagli Stati del Sud imponeva ai neri un regime di segregazione razziale nei locali pubblici, nelle scuole, nei trasporti. Scuole e autobus furono i campi della battaglia legale e pacifica ingaggiata dalle organizzazioni nere, e confortata nel 1954 da una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti contro la segregazione nelle scuole statali. La resistenza delle autorità locali segregazioniste provocò clamorosi incidenti nel 1956 all'università dell'Alabama e nel 1957 a Little Rock, nell'Arkansas. Dai problemi scolastici il movimento si allargò negli anni seguenti al complesso delle relazioni razziali: nella lotta per i diritti civili facevano le loro prime prove i giovani della «nuova sinistra» americana. Il movimento dei neri, assai variegato al proprio interno e ricco di personalità radicali, trovò nel Sud il leader più autorevole (e l'interlocutore più accettabile per i governanti) nel pastore protestante Martin Luther King, fautore di metodi nonviolenti, dell'alleanza con l'opinione pubblica progressista bianca e con il partito democratico. Il problema nero, come quelli di Cuba e dell'Indocina, passò tuttavia irrisolto alla successiva amministrazione, del democratico Kennedy. DAL CROGIOLO ALL'INSALATIERAIl luogo comune dell'America come crogiolo di gruppi etnici, presto dimentichi delle loro origini e rivestiti di una nuova identità nazionale, è stato a lungo una componente non secondaria del mito americano e dell'ideologia delle classi dirigenti del Paese. La americanizzazione degli immigrati, e il loro sradicamento dalle originarie identità etniche è stato perseguito e promosso dall'alto assai più di quanto non fosse desiderato dal basso. In realtà il processo di omologazione non è stato esente da difficoltà nemmeno quando ha riguardato immigranti dell'area culturale anglosassone, germanica e scandinava, accomunati dalla religione protestante. Già l'integrazione degli Irlandesi cattolici provocò delle reazioni di rigetto, che si riproposero tanto più forti quando la grande ondata di immigrazione dall'Europa orientale e mediterranea di fine Ottocento e primo Novecento portò in America masse di Italiani e slavi, in gran parte cattolici ed ebrei, e i primi nuclei di asiatici. Pregiudizi anticattolici ed antisemiti sono rimasti vivi ed operanti sino al ventennio tra le due guerre mondiali. In tempi più recenti i pregiudizi si sono spostati verso i nuovi immigrati, provenienti per la maggior parte da Portorico, dal Messico e dagli altri Stati dell'America latina di lingua spagnola (accomunati perciò sotto la definizione di «ispanici»), e più recentemente ancora dall'Asia (Coreani, Cinesi di Taiwan, Vietnamiti, Filippini, indù). Pregiudizi, va precisato, consistenti, a seconda dei casi, nel disprezzo verso le minoranze ai gradini più bassi della scala delle occupazioni (neri, portoricani), e nell'invidia, mista al timore, nei confronti dei gruppi etnici più coesi e organizzati e, all'apparenza almeno, di più rapido successo negli affari e negli studi (ieri gli ebrei, oggi alcuni gruppi di asiatici). L'arricchimento del panorama etnico americano ha portato sociologi e statistici a ridefinire le classificazioni stesse: tutti gli americani di origine europea, ebrei compresi, vengono ormai spesso denominati nel loro complesso «caucasici», e distinti come tali da neri, ispanici (per altro anch'essi in parte di origine caucasica), asiatici. Per quanto empirica e imprecisa, questa classificazione prende atto che la mescolanza delle genti è avvenuta e continua ad avvenire soprattutto all'interno di grandi compartimenti culturali e, in misura sempre minore, religiosi: i matrimoni tra Irlandesi, Italiani e Polacchi cattolici, anglosassoni protestanti, slavi ortodossi ed ebrei non praticanti oggi non sono rari; molto di rado, invece, almeno per ora, questi gruppi si mescolano agli ispanici, agli asiatici e, soprattutto, ai neri. Come risultato, si è riprodotta una segmentazione della società, e persiste, soprattutto tra i gruppi sociali più poveri e di più recente immigrazione, l'addensamento degli immigrati in quartieri etnici (come le Little Italy e le Chinatown rese popolari dai film). E resta forte in alcuni gruppi etnici (i Messicano-americani, gli asiatici) la rivendicazione della difesa delle proprie radici culturali, che l'ideologia dell'assimilazione avrebbe preteso di cancellare. Questo ha fatto sì che l'immagine del crogiolo abbia lasciato il posto a quella dell'insalatiera, dove tutti gli ingredienti stanno assieme, ma ciascuno col suo sapore. Ma, per riprendere questa immagine, non tutti gli ingredienti sono egualmente apprezzati. Le divisioni etniche hanno finito col ricalcare in larga misura quelle di reddito, qualificando le due grandi minoranze nera e ispanica (assieme, il 20 per cento scarso della popolazione degli Usa; mentre gli asiatici sono oltre il 2 per cento, e in uno Stato degli Usa, le Hawaii, i «caucasici» sono una minoranza della popolazione) come quelle maggiormente svantaggiate. Anzi, gli ispanici, pur essendo statunitensi di più fresca data, stando alle statistiche avrebbero scavalcato i neri quanto a reddito medio, e soffrono di pregiudizi nonostante tutto forse meno forti di quelli che ancora pesano sulla popolazione per antonomasia detta «di colore». Il problema nero, al tempo stesso culturale e sociale, a oltre cent'anni dall'abolizione della schiavitù, non ha perciò perso nulla della sua drammaticità.C'ERA UNA VOLTA LA SINISTRA IN AMERICACommentando la difficoltà di conservare e trasmettere l'eredità del passato in un Paese come gli Stati Uniti da sempre sinonimo di modernità e futuro, uno storico ha notato come gli Usa sembrino inconsciamente impegnati, in questa corsa incessante a bruciare ogni esperienza sull'altare del mutamento, ad «organizzare l'amnesia». Ci sono stati dei momenti nella storia americana nel corso dei quali, però, tale «amnesia» è stata, piuttosto che il risultato oggettivo di processi di cambiamento particolarmente rapido nella società e nel costume, il prodotto di un'azione più o meno sistematica delle classi dirigenti. Un'azione volta a distruggere nella realtà e poi a cancellare o distorcere nella memoria collettiva, grazie al consenso di una parte della popolazione, esperienze di vita e forme di mobilitazione che avevano messo in forse il potere di tali classi. Una delle pagine più tragiche e significative in questo senso viene scritta nell'immediato secondo dopoguerra, un periodo passato alla storia come maccartismo o «caccia alle streghe». Dal conflitto mondiale gli Stati Uniti escono come una potenza cui si schiudono le opportunità e gli oneri di un impegno globale nello scacchiere internazionale. Lo impongono il contributo decisivo fornito alla causa alleata, gli impegni, economici e diplomatici, sottoscritti durante la guerra per la ricostruzione di un ordine mondiale, la straordinaria macchina produttiva messa in moto dalla domanda bellica, che ha consentito alla nazione di scacciare definitivamente lo spettro della crisi, e che sollecita la ricerca di sbocchi adeguati sui mercati internazionali. La parola chiave dei progetti postbellici governativi è «stabilizzazione». Sia sul fronte interno che su quello esterno si tratta di garantire il consolidamento e lo sviluppo equilibrato di una società non dissimile da quella che si è venuta costruendo col New Deal. Al centro di essa vi è la grande impresa in cui si lavora come fa Chaplin in Tempi moderni fra catene di montaggio e cronometri; un'impresa che è alimentata da un universo di consumi di massa in espansione, nell'ambito di uno stato sociale che garantisce alcuni diritti e servizi di base all'intera popolazione e che ha contribuito all'allargamento dei confini della cittadinanza al mondo del lavoro col riconoscimento delle organizzazioni sindacali. Il tutto, proiettato nella sfera internazionale, significa libero scambio, all'interno di un'interdipendenza economica che si auspica diventi planetaria, fra Paesi la cui cooperazione sarà assicurata da strumenti istituzionali di integrazione e risoluzione delle eventuali contese quali il Fondo Monetario Internazionale o l'Onu. L'esigenza di stabilità va a cozzare sul piano interno con l'inasprirsi dello scontro politico e sociale. Neppure la guerra e gli impegni sindacali di blocco delle agitazioni sono valsi ad interrompere la marea di mobilitazione collettiva, organizzata e non, che ha caratterizzato gli anni del New Deal. L'elevata conflittualità, che ha visto scendere in campo negli anni Trenta disoccupati del Nord Ovest e braccianti sudisti, operai dei nuovi grandi settori di massa (auto, elettrici) e portuali, non si interrompe, ma anzi si intensifica nei quarantaquattro mesi di guerra. Mercato del lavoro relativamente favorevole all'offerta, nuove opportunità di impiego e di qualità della vita, ma anche nuove contraddizioni di status e di ruolo che si presentano per le donne e i neri chiamati in fabbrica o emigrati al Nord: tutto ciò non fa che condensare un magma di domande (di giustizia sociale e parità razziale e di sesso) che in parte si esprime già durante la guerra, per poi esplodere alla fine del conflitto. Un'esplosione resa tanto più inevitabile dall'atteggiamento di crescente intransigenza del mondo imprenditoriale. Già prima dell'armistizio, nella primavera del 1945, i datori di lavoro non fanno mistero della propria intenzione di ridimensionare la presenza sindacale, che corrisponde al 35 per cento del totale degli occupati, e il protagonismo operaio, al cui interno le forze della sinistra giocano un ruolo tutt'altro che secondario. Le richieste di aumenti salariali e il tentativo di allargare il terreno dello scontro ai grandi temi dell'organizzazione del lavoro e della gestione dell'economia sia attraverso la microconflittualità d'officina su ritmi e carichi di lavoro, sia mediante l'instaurazione di un sistema di controllo dei prezzi con la mediazione governativa preoccupano non poco la Confindustria americana. L'intento padronale è quello di recuperare terreno rispetto alle concessioni fatte in tema di contrattazione collettiva e di stato sociale ad un esecutivo che nel frattempo, nell'aprile del 1945, appare indebolito dalla perdita del suo leader carismatico Franklin Delano Roosevelt. Né stupisce che nel mirino dell'azione padronale ci siano anzitutto le piccole e frastagliate formazioni di sinistra. Non c'è dubbio sul loro carattere decisamente minoritario in termini strettamente quantitativi (il partito Comunista degli Usa, la struttura più organica e coesa, non supererà mai i 100.000 iscritti). Così come, perennemente oscillanti tra settarismo e subalternità al New Deal, esse risultano incapaci di elaborare una strategia realmente alternativa a Roosevelt. Tuttavia non si può disconoscere il notevole impatto da esse esercitato nelle sfere più disparate della società. Basti pensare, ad esempio, alle centinaia di migliaia di disoccupati organizzati nelle apposite leghe di ispirazione comunista negli anni Trenta. O alla popolarità di cui i comunisti e l'Urss godono durante la guerra, al punto che nella propaganda di massa Stalin è ricordato come lo «zio Joe». Per non parlare della notevole diffusione di convinzioni di sinistra nel mondo intellettuale, nei giornali, a Hollywood. O del fatto che secondo un sondaggio del 1944 il 28 per cento dei dirigenti sindacali dichiara il proprio favore per partiti e candidati indipendenti di sinistra. O, ancora, della presenza di militanti di base comunisti e trotskisti attivi in alcuni degli scioperi più significativi dell'epoca e con radici ben salde nei settori più diversi: dai siderurgici, ai portuali, agli edili, agli elettrici. La prima grande occasione di resa dei conti si presenta nel 1946, anno che segna la punta più elevata di conflittualità nel settore industriale nella storia degli Stati Uniti, e ha come teatro il comparto minerario. Lo scontro, che si protrae per mesi, si svolge contro uno sfondo di rapporti di forza, nazionali e internazionali, in via di rapido e profondo mutamento. Ed è proprio la dimensione internazionale, con lo scoppio della «guerra fredda» e la divisione del mondo in due blocchi contrapposti, a fornire la cornice entro la quale matura l'opera di repressione contro le forze popolari, sindacali e di sinistra. Il sindacato, sconfitto e prostrato dal lungo conflitto nelle miniere, si vede rovesciare addosso dall'erede di Roosevelt, il moderato Truman, a sua volta incalzato sulla destra dalle forze reazionarie politiche e imprenditoriali, la legge Taft-Hartley. Essa ne restringe considerevolmente gli spazi di azione e impone una rigida scelta di campo anticomunista. Ad accettarla sono non solo gli esponenti più conservatori del mondo sindacale, ma anche e soprattutto quei dirigenti progressisti impegnati a salvare in qualche modo la propria organizzazione, e pronti a saldare per questa via vecchi conti con i comunisti, talvolta sotto l'impulso di quelle divisioni etniche e religiose, interne alla compagine operaia, che le vicende internazionali non fanno che esaltare. Si tratta, d'altra parte, di un canovaccio che sta operando e opererà all'interno dell'intera società. A guidare la battaglia anticomunista, infatti, saranno in un primo momento, in parallelo all'incarnazione più rozza dell'isteria nativista costituita da Richard Nixon e Ronald Reagan che sparano a zero sulla «teppa rossa» di Hollywood, proprio i cosiddetti «liberali della guerra fredda». Ovvero tutta una serie di intellettuali progressisti che ben conoscono i loro avversari di oggi per aver spesso, se non proprio collaborato con loro, comunque scambiato idee in un clima di libero confronto. E che adesso, preoccupati come sono di recuperare un margine di manovra, culturale e politica, di centro, che eviti loro di scivolare nel mirino degli «americani al cento per cento» tipo John Wayne, non esitano a rilanciare in chiave moderata la tradizione politica statunitense, declinandola secondo i dettami di un livido antimarxismo. Una tendenza questa, in cui rientrano alcuni dei migliori storici statunitensi dell'epoca, con in testa Arthur Schlesinger jr., e che vede studiosi come Daniel Boorstin piegarsi al compromesso della delazione di propri colleghi alla commissione governativa incaricata di perseguire ogni comportamento in odore di antiamericanismo e di tradimento della causa nazionale. Esattamente come fanno a Hollywood, investita in pieno dalla «caccia ai rossi» che vuole dimostrare così che gli unici veri «non Americani» sono degli intellettuali, dei privilegiati, registi di spicco o attori. Entro questa breccia si inserirà con le sue crociate volte a denunciare presunti complotti filosovietici contro la sicurezza nazionale nelle scuole, nelle fabbriche, addirittura all'interno del Congresso e dell'esecutivo, il senatore del Wisconsin Joseph McCarthy, approfittando del clima creato nel Paese e nel mondo dallo scoppio della guerra di Corea. Il risultato di questa vera e propria «distruzione della ragione» che attanaglia gli Stati Uniti per un decennio, dal 1946 al 1955, si può riassumere in due punti. Per un verso c'è il costo spaventoso di vite e intelligenze distrutte dalla logica del sospetto, della delazione, della «lista nera». Che significa perdita del lavoro, degli amici, non di rado della libertà, e in ogni caso impossibilità di comunicare e far sentire la propria voce. In secondo luogo, si assiste ad un clamoroso effetto di dissipazione e divisione delle forze popolari e dei loro alleati e di blocco della trasmissione di memoria. Le leggi antisindacali e liberticide approvate in questo periodo costituiscono uno spartiacque decisivo nella storia delle organizzazioni dei lavoratori e della sinistra statunitense. Esse bloccano ogni tentativo di avanzata ulteriore e anzi con la netta spaccatura prodotta tra chi è già organizzato e chi non lo diventerà mai, tra aree geografiche sindacalizzate e non sindacalizzabili, tra i bianchi che combattono ormai solo per la difesa del posto di lavoro e chi come i neri si trova improvvisamente senza neppur più quel poco di aiuto che la sinistra aveva cercato di dar loro, segnano l'inizio di una pesante emorragia di iscritti e militanti destinata a non più rimarginarsi. Inoltre, viene a spezzarsi così quel legame tra intellighenzia liberale, movimento operaio e forze della sinistra che in qualche modo e non senza difficoltà si era radicato in vaste aree del Paese. Infine, e conseguentemente, il clima di sospetto e distruzione del diritto di cittadinanza per parole come «sinistra» e «comunismo», mentre segna una caduta della tensione ideale all'interno delle organizzazioni dei lavoratori, rende sempre più settarie e chiuse le organizzazioni della vecchia sinistra come il Pc degli Usa, aprendo un vallo tra esse e quella generazione di studenti che negli anni Sessanta attorno ai temi dei diritti civili e del Vietnam occuperanno le Università. DECLINO (E RIPRESA?) DELLA POTENZA AMERICANANelle elezioni presidenziali del 1960 il repubblicano Richard Nixon fu battuto dal democratico John Kennedy, giovane, molto ricco, di origine irlandese, cattolico: capace, nonostante questo handicap, di catturare una frangia decisiva di elettorato moderato e conservatore. Eletto con una irrisoria maggioranza del voto popolare, Kennedy si presentava, sulla scia di Roosevelt e dello sfortunato Adlai Stevenson, come un «patrizio democratico»: sia pure appartenente ad una famiglia di ascesa sociale piuttosto recente e ad un gruppo etnico a lungo subalterno. Il gruppo dirigente kennedyano imputava all'amministrazione Eisenhower di non aver saputo tutelare in modo adeguato e moderno la sicurezza del Paese, di averlo fatto partire in svantaggio nella corsa allo spazio con i sovietici, di aver fatto sbiadire l'immagine dell'America come guida della democrazia occidentale, di aver praticato uno sterile immobilismo. «Rimettiamo l'America in cammino» fu perciò uno degli slogan del nuovo presidente, che additò al Paese l'obiettivo della «nuova frontiera» (quella interna, della democrazia, dei diritti civili, della lotta contro la povertà ancora persistente in vaste aree del Paese e non soltanto tra la popolazione nera) e di un dinamismo dagli esiti alterni. All'interno Kennedy favorì l'applicazione delle disposizioni contro la segregazione. Ma sia in questo campo, sia in quello dell'estensione dell'assistenza sociale, i risultati più importanti furono conseguiti soltanto in seguito. I rapporti con gli altri Paesi del mondo industrializzato venivano regolati da un accordo complessivo sulle tariffe (il cosiddetto Kennedy Round) teso a ridare competitività alle esportazioni statunitensi nell'ambito dell'economia occidentale; mentre ad aiutare lo slancio economico interno soccorreva il potenziamento dei settori legati alla costruzione di armamenti ed ai progetti per l'esplorazione dello spazio diretti dalla Nasa (l'ente aerospaziale statunitense) che, avviati nel 1961, portarono in otto anni gli Usa a vincere la gara spaziale con i sovietici, facendo sbarcare un uomo sulla luna nel 1969. Nelle relazioni internazionali Kennedy, appena insediato, subì lo smacco della fallita invasione di Cuba; in seguito si scontrò con Chruscev a proposito del muro di Berlino e affrontò una grave crisi per Cuba nell'ottobre 1962. Solo nell'ultimo anno della sua presidenza rivolse i suoi sforzi al tema del disarmo atomico, al quale gran parte dell'opinione pubblica, in particolare giovanile e democratica, si mostrava sensibile. Kennedy tuttavia aumentò l'impegno militare degli Stati Uniti nel Vietnam, sostenuto da una parte dei suoi collaboratori e da alcuni settori della diplomazia e dei servizi segreti (anche se pare intendesse disimpegnare gli Usa una volta rieletto). La decisione era coerente con la nuova strategia americana, diretta a combattere guerre limitate nei più diversi punti del globo facendo assegnamento sulle armi tecnicamente sofisticate offerte dal rinnovamento, allora in corso, dell'arsenale aeronavale statunitense. In realtà, l'impegno nel Vietnam, anziché guerra limitata condotta da corpi speciali e con armi ad alto impiego di tecnologia (come l'aviazione), divenne nel 1964 una guerra convenzionale condotta dall'esercito di leva. In quel momento, però, Kennedy era già stato assassinato a Dallas, nel Texas (novembre 1963). L'assassinio, che seguiva una serie di scontri tra l'amministrazione democratica e alcuni potenti gruppi di pressione, compreso quello dei petrolieri texani, diede subito esca alle ipotesi più fantasiose e romanzesche. Esso suggellò una presidenza piuttosto controversa con l'aureola del martirio e associò definitivamente al ricordo di Kennedy dei connotati esclusivamente positivi: progressismo, coesistenza pacifica, sostegno ai diritti civili. L'assassinio di Kennedy accelerò l'approvazione dei provvedimenti progressisti sino ad allora tenuti in scacco. Il suo successore Lyndon Johnson varò le leggi sui diritti civili per i neri e lanciò il programma di una «Grande società», che avrebbe dovuto rinverdire le tradizioni democratiche del New Deal. Facile trionfatore, nel 1964, sul repubblicano di estrema destra Barry Goldwater, Johnson aumentò i sussidi per le famiglie con figli a carico, introdusse un servizio di assistenza sanitaria gratuito e un sistema pensionistico statale, fece approvare provvedimenti che abolivano ogni forma di segregazione e stanziò fondi federali per l'istruzione. Contemporaneamente, erano in pieno svolgimento i progetti spaziali varati da Kennedy e in espansione l'industria degli armamenti, per far fronte alla guerra del Vietnam. Johnson diresse la guerra in maniera personalistica e accentratrice, svincolata dai controlli del Congresso, e basata su valutazioni grossolanamente errate della situazione vietnamita. Con il risultato di condurre nelle giungle indocinesi gli Usa alla prima sconfitta della loro storia militare, e di sacrificare alle enormi spese militari la promessa della «Grande Società», in mezzo alla protesta degli studenti, ai tumulti nei quartieri neri delle grandi città, e alla vera e propria rivoluzione dei costumi che stava cambiando la vita americana. Quando, dopo tre anni di bombardamenti sanguinosi e inutili sul Vietnam del Nord e operazioni inconcludenti nel Vietnam del Sud, Johnson prese atto dell'insuccesso e rinunciò a candidarsi nuovamente alle elezioni presidenziali, nel 1968, tutte le tensioni interne della società americana erano venute allo scoperto, in un clima di violenza diffusa testimoniato dagli assassini di Robert Kennedy, fratello del presidente e a sua volta in corsa per la candidatura presidenziale, e Martin Luther King, e dal brutale pestaggio, da parte della polizia, degli attivisti pacifisti presenti alla convenzione del partito democratico. Il decennio aperto dagli entusiasmi della «nuova frontiera» si chiudeva con l'immagine dell'America irrimediabilmente in frantumi. La protesta degli anni di Johnson coinvolse, oltre ai giovani e alla minoranza nera, il movimento delle donne, le cui avanguardie intellettuali e politicizzate combattevano le diseguaglianze prodotte dalle differenze di sesso nel lavoro e nella vita quotidiana. Questo movimento, rafforzatosi soprattutto negli anni Settanta, è probabilmente il solo che ha avuto successo, modificando modi di pensare e modi di vita di decine di milioni di persone, e anticipando quanto è accaduto in Europa occidentale con qualche anno di ritardo. La ribellione giovanile e intellettuale americana ai modelli di comportamento e dei valori proposti dalla società dei consumi fu a sua volta eminentemente individualistica e libertaria, e investì in prevalenza le pratiche della vita quotidiana. La popolazione studentesca statunitense era, infatti, esente dai disagi materiali che affliggevano molti studenti europei, e, nonostante le tradizioni di dissidenza e di critica radicale proprie della cultura americana e la capacità di analisi lucide della realtà statunitense, priva di forti referenti culturali di opposizione, come quelli assicurati dai diversi filoni del pensiero socialista e comunista. La protesta studentesca, alimentata dall'opposizione all'intervento nel Vietnam, si diffuse nel 1965 nelle università californiane, in particolare a Berkeley. L'organizzazione degli Studenti per una società democratica (Sds), fondata nel 1960 e rapidamente radicalizzatasi, divenne il punto di riferimento e il centro motore del dissenso politico, collegandosi alle organizzazioni di sinistra sopravvissute al maccartismo o fondate in quegli stessi anni. Un certo numero di giovani (amnistiati solo dal presidente Carter, alla fine degli anni Settanta) si rifugiò in Canada o in Europa per non combattere nel Vietnam. Ai militanti radicali delle università mancava tuttavia il contatto con un gruppo sociale determinato: la classe operaia bianca veniva infatti giudicata integrata nel sistema e priva di capacità rivoluzionarie. Alcuni leader dell'Sds puntarono perciò all'alleanza con le avanguardie radicali del movimento dei neri. Ma la repressione che queste subirono e la loro limitata rappresentatività della massa della popolazione nera finirono con l'accelerare la crisi e la sconfitta delle organizzazioni nate dalla protesta studentesca. Una parabola per certi versi analoga compì il movimento dei neri dove esistevano già da tempo organizzazioni che mobilitavano gli strati meno disagiati e più colti della comunità nera. Martin Luther King basò la lotta, vittoriosa, contro la segregazione nel Sud sull'azione non violenta: marce pacifiche, sit-in, battaglie legali, appelli all'opinione pubblica progressista. Ma proprio quando il problema razziale nel Sud sembrava conoscere un inizio di soluzione, con l'approvazione delle leggi sui diritti civili, esplose la rivolta dei quartieri neri (i ghetti) delle città del Nord e della California: e non nei più miserabili, ma in aree urbane relativamente meno disagiate come Watts, a Los Angeles (estate 1965). Segno, appunto, che la condizione dei neri nella società americana risultava ormai intollerabile ovunque; e, soprattutto, che il problema nero non riguardava soltanto il Sud arretrato del Paese, ma era un grande problema nazionale. I tumulti di Watts, di Newark e delle altre città ricordarono all'opinione pubblica che i neri erano in fondo alla scala dei salari e in testa nelle statistiche dei disoccupati confinati nei lavori meno qualificati, concentrati in quartieri-ghetto, discriminati anche in assenza di norme apertamente segregazioniste. Dai ghetti del Nord veniva la voce del leader «musulmano nero» Malcolm X (Malcolm Little, così denominatosi con allusione alla discendenza, non più identificabile, dei progenitori schiavi provenienti dall'Africa), assassinato nel 1965. Lo slogan di Potere nero (Black Power) riassumeva la rivendicazione dell'identità culturale, dell'orgoglio etnico, di uno sviluppo separato, espressa dall'ala radicale del movimento nero. L'organizzazione paramilitare delle Pantere nere (Black Panther), nata in California, per qualche tempo considerata l'avanguardia rivoluzionaria di tutto il movimento, fu però decimata da una durissima repressione; mentre le organizzazioni non violente come quella di King diventavano gruppi di pressione legati al partito democratico, tanto che per la prima volta nel 1988 un nero, Jesse Jackson, si è presentato, con buon successo, alle elezioni per la scelta del candidato presidenziale democratico. L'applicazione delle leggi sui diritti civili ha portato all'assunzione negli uffici pubblici e nell'amministrazione federale di numerosi neri, rafforzando quella piccola borghesia impiegatizia e professionale nera, che tende a presentarsi come portavoce dell'intera comunità. Ma il ridimensionamento delle spese federali per i sussidi e dei programmi di aiuti attuato sin dagli anni Settanta (dal 1968, con l'intervallo della presidenza Carter, il governo federale è stato in mano ai repubblicani) e soprattutto negli anni Ottanta con la presidenza Reagan, ha ribadito la condizione di emarginazione economica dei neri. Nel 1968 la cosiddetta «maggioranza silenziosa», cioè la reazione conservatrice dell'elettorato alle delusioni della presidenza Johnson (una reazione espressa anche dalla presenza di un candidato democratico scissionista, George Wallace, con un programma nazionalista e populista), portò alla Casa Bianca il repubblicano Richard Nixon. Mentre conduceva, con la collaborazione di un professore di origine tedesca, Henry Kissinger, una politica estera di spregiudicata apertura ai Paesi comunisti, in particolare alla Cina, Nixon ridusse gli stanziamenti per l'assistenza sociale, bloccò i programmi di ricerca spaziale della Nasa, tagliò i fondi federali alle università, nominò giudici conservatori alla Corte Suprema (la massima istanza giudiziaria degli Usa). Una politica conservatrice, che trovava un limite nel fatto che il partito democratico aveva ancora la maggioranza nel Congresso e controllava molte amministrazioni locali. Grazie anche al ritiro delle forze statunitensi dal Vietnam (che fu completato interamente nella primavera 1973), Nixon ottenne nel 1972 una facile rielezione contro un candidato democratico di sinistra. Ai danni del quale egli promosse però delle operazioni illegali di spionaggio (intercettazioni telefoniche) che, scoperte e denunciate dalla stampa insieme ad altre malversazioni del presidente presero il nome di «scandalo Watergate», dal nome dell'albergo dove le intercettazioni dovevano essere effettuate. L'attenzione dedicata al caso da giornali e televisione, e l'ostilità nello stesso mondo politico statunitense verso Nixon e le sue tendenze accentratrici, travolsero il gruppo dirigente nixoniano. Nixon, di fronte alla prospettiva di essere messo sotto accusa si dimise (1974), salvo ottenere immediatamente un'amnistia dal successore. Il «caso Watergate», seguito con stupore dall'opinione pubblica in tutto il mondo, sintomo del malessere del sistema politico americano, pose bruscamente fine ad una presidenza autoritaria («presidenza imperiale», è stata definita, considerandola però come la degenerazione estrema di una tendenza in atto da tempo nella politica americana), che aveva prevaricato sul potere legislativo attraverso le operazioni illegali di un vero e proprio centro di potere occulto. Sulla scia dello scandalo Watergate, il Congresso riuscì a ristabilire alcune forme di controllo sui servizi segreti e sull'attività governativa. Nixon fu sostituito da Gerald Ford, figura di politico scialba, che nelle elezioni del 1976 venne battuto dal democratico James (Jimmy) Carter. Provinciale, predicatorio, rappresentante di una regione a lungo depressa, e finalmente in forte sviluppo economico, apparentemente estraneo ai giochi politici della capitale (ma appoggiato da influenti gruppi di pressione collegati alla grande finanza), uomo di principi, evidente antitesi di Nixon, Carter ricostruì, per un momento e in misura molto diseguale, il tradizionale blocco di alleanze del partito democratico. La congiuntura economica però non lo favorì, facendolo incappare nella seconda crisi petrolifera (1978-1979); particolarmente sfortunata (nonostante qualche successo, come gli accordi di Camp David tra Egitto e Israele, nel 1978) apparve la sua politica estera, oscillante tra la difesa dei diritti dell'uomo, che irritava l'Urss (cui veniva rimproverata la repressione del dissenso interno), e il proseguimento della distensione, tra i negoziati per la riduzione degli armamenti e la riorganizzazione dell'esercito Usa. Per giunta, l'opinione pubblica subì come una umiliazione nazionale, dopo la caduta del regime amico dello scià dell'Iran (1979), l'imprigionamento a Teheran, nell'Iran in rivoluzione, di un gruppo di cittadini statunitensi, che una maldestra operazione militare non riuscì a liberare (1979), proprio mentre l'Urss sembrava in piena espansione militare, invadendo l'Afghanistan. I mezzi insuccessi nella politica economica e gli scacchi nella politica estera, insieme alla ripresa dei gruppi di pressione nazionalisti e militaristi, propiziarono perciò la vittoria alle elezioni presidenziali del 1980 di un candidato della destra repubblicana, Ronald Reagan, già governatore del più importante stato dell'Unione, la California, ma in precedenza attore cinematografico di secondo piano. Le conseguenze della doppia presidenza Reagan (1980-1988) sull'economia e la società americane non possono ancora essere adeguatamente valutate: ma senza alcun dubbio il riarmo americano ha enormemente accresciuto il deficit statale, trasformando gli Usa, primo Paese creditore negli anni Sessanta, nel primo debitore mondiale; e la politica fiscale di Reagan ha penalizzato enormemente i gruppi sociali sfavoriti. Il successore George Bush, eletto nel novembre 1988, mentre si è mostrato favorevole a proseguire e accelerare la distensione con l'Urss, ha promesso una correzione di rotta nella politica interna, difficile da attuare da parte di un'amministrazione conservatrice, ma resa urgente dal pesante disagio sociale che il «reaganismo» ha prodotto, manifesto anzitutto nell'enorme diffusione del consumo di droga tra i gruppi sociali poveri, nella violenza endemica nella vita quotidiana delle grandi città del Paese, nell'aumento dei diseredati. La presidenza del repubblicano George Bush (1988-1992) si è presentata come continuatrice della politica reaganiana, corretta secondo uno stile più prudente; il ridimensionamento dell'ambizioso progetto di "scudo spaziale" è un esempio di questo modo più moderato di impostare le scelte. Bush ha mostrato migliori qualità di Reagan come uomo politico, ma partiva svantaggiato nel confronto col presidente-attore perché dotato di minore carisma. Paradossalmente è toccato proprio ad un moderato come Bush il compito di compiere scelte militari di forte impegno, prima con l'intervento a Panama con l'obiettivo di far cadere il dittatore Manuel Noriega (1989), appoggiato una volta dagli Usa, ma ormai troppo compromesso con il traffico di droga, e poi facendosi propugnatore di una specie di crociata contro Saddam Hussein nella Guerra del golfo (1991) La vittoria nella Guerra del golfo prima, ma soprattutto la disgregazione dell'Urss, hanno dato agli Usa il ruolo e l'immagine di unica potenza mondiale come mai era avvenuto prima. Con Bush gli Stati Uniti non hanno avuto più rivali del mondo realizzando un'aspirazione cui la politica americana aveva teso fin dalla fine della seconda guerra mondiale. A taluni osservatori è sembrato che l'inaspettata scomparsa (almeno in queste proporzioni) dell'avversario tradizionale abbia lasciato gli Usa a disagio, quasi stupiti e incapaci di svolgere il ruolo di prima e unica potenza mondiale. Gli indubbi successi internazionali ottenuti da Bush si sono accompagnati ad una congiuntura economica sfavorevole che ha fatto perdere consensi al presidente americano che si è trovato di fronte un'opinione pubblica fortemente preoccupata dai successi della concorrenza giapponese. Diversa la situazione dopo l’elezione del democratico Bill Clinton nel 1992. Se la sua immagine apparve inizialmente appannata, col tempo, grazie soprattutto alla sua attività in ambito internazionale (con attenzione particolare a Medio Oriente ed ex-Jugoslavia), Clinton divenne ben presto una figura emblematica del panorama politico internazionale. Nel 2000, dopo due mandati successivi, dovette abbandonare la Casa Bianca: il suo posto venne preso dal repubblicano George W. Bush, figlio dell’omonimo ex presidente, che intraprese una politica di tipo diverso, all’insegna della liberalizzazione economica e della forte moralizzazione. Maggiormente interessato a vicende interne, Bush si trovò ben presto costretto a operare in ambito internazionale dopo l’attacco terroristico agli Stati Uniti perpetrato da estremisti islamici nel settembre 2001. KENNEDY: MITO E REALTÀAnche a uno sguardo superficiale risulta evidente come nella vicenda presidenziale di John Fitzgerald Kennedy ci siano tutti gli ingredienti per farne, fin da subito, un mito, soprattutto in un Paese come gli Stati Uniti dei primi anni Sessanta. Questo rampollo di una ricca famiglia irlandese del Massachusetts è il più giovane presidente della storia di una nazione che da sempre ha fatto della propria gioventù e del dinamismo rispetto al Vecchio continente altrettanti simboli distintivi. Non solo: proprio nel decennio precedente gli Stati Uniti hanno scoperto e mostrato al mondo intero, attraverso modelli cinematografici come quelli incarnati da Marlon Brando e James Dean e fenomeni musicali come Elvis Presley, cosa significhi avere all'interno della popolazione una vasta massa di giovani. Ovvero di persone cui il relativo benessere diffuso anche tra gli strati medio-bassi e presso le classi lavoratrici consente di allungare la permanenza a scuola rispetto alle generazioni precedenti e il cui apprendistato alla vita non passa più perciò prima di tutto attraverso il lavoro o la famiglia, ma piuttosto affonda le sue radici nel gruppo dei coetanei che possiedono una moto, giocano a flipper, ascoltano una musica, il rock and roll, pensata e cantata da gente della loro età. A questi giovani non a caso si rivolge Kennedy nei discorsi tenuti nel corso della campagna elettorale e in seguito nei primi interventi da presidente, parlando appunto della necessità di «uomini nuovi» e «metodi nuovi», capaci di rispondere alle sfide poste dalla «rivoluzione generazionale» in corso negli Stati Uniti e sullo scacchiere internazionale, ove «il risveglio di nuove nazioni sprigiona più energia che la stessa fissione nucleare». Gioventù e novità, questi due valori così connaturati alla mentalità collettiva americana, sono del resto esaltati dal mezzo televisivo, di cui Kennedy mostra di saper fare un uso appropriato nel dibattito con il rivale Nixon che secondo alcuni autorevoli osservatori contribuisce non poco all'esito della contesa elettorale del 1960. Tali valori costituiscono i capisaldi della politica dell'immagine di una strategia presidenziale che ama riassumere i propri intendimenti nella formula della nuova frontiera, oltre la quale, nelle parole del presidente, «sono le zone inesplorate della scienza e dello spazio, gli insoluti problemi della pace e della guerra, le sacche ancora non vinte dell'ignoranza e del pregiudizio, le irrisolte questioni della miseria e dell'abbondanza». Allo stesso modo quando deve affrontare il tema degli interventi statali in campo economico Kennedy parla di «Nuova economia» e definisce come «Grande disegno» i propri progetti di politica internazionale. Si tratta indubbiamente di formule magniloquenti e non prive di autocompiacimento, ma non si può negare che la nuova amministrazione, arrivata a Washington con un margine strettissimo di voti, cerchi di affrontare con grande respiro i complessi problemi che si presentano alla nazione-guida dell'Occidente all'inizio del nuovo decennio. Sul piano interno le questioni cruciali sono rappresentate dal controfaccia di quella che l'economista John Kenneth Galbraith ha definito, in un libro dal titolo omonimo apparso nel 1958, la «società opulenta». Quali mali si nascondono dietro il benessere e la «tranquillità» che dominano i resoconti ufficiali sullo stato di salute del Paese negli anni Cinquanta? La povertà, di cui una rigorosa indagine rivela la forte persistenza, al punto che nel 1961-62 si parla di almeno 40-50 milioni di abitanti che vivono al di sotto del livello di sussistenza; il razzismo, contro il quale i neri hanno ingaggiato al Sud per tutti gli anni Cinquanta una serie interminabile di battaglie in nome dei diritti civili e politici, andandosi a scontrare contro la resistenza armata e violenta dei bianchi e dei centri di potere da essi controllati; la disoccupazione che, nel clima di automazione spinta e di crescente centralità dei servizi e dei colletti bianchi, è passata dal 3,1 per cento del 1949 al 7,1 per cento del 1961. Ai problemi del mondo del lavoro, manifestatisi in maniera clamorosa nel 1959 con uno sciopero nel settore dell'acciaio che dura 116 giorni e mette a nudo gli effetti della prima seria recessione postbellica, l'amministrazione kennediana cerca di rispondere attraverso piani di spesa pubblica in cui al tradizionale volano degli investimenti militari dovrebbero intrecciarsi progetti di spese sociali contro la disoccupazione e alcuni sforzi di programmazione economica basati sulla politica dei redditi e sul controllo della spirale prezzi-salari. Questi programmi sono intesi a rinsaldare quel rapporto con le rappresentanze dei lavoratori che, pur in declino rispetto ai livelli di iscritti dell'immediato dopoguerra, costituiscono comunque un elemento ancora assai importante del blocco elettorale del partito democratico. Tuttavia il tentativo di controllo dei prezzi viene vanificato dalla sorda opposizione degli imprenditori nei confronti di ogni interferenza del potere federale e finisce per disperdersi nei meandri del Congresso. Né sorte migliore tocca, almeno finché Kennedy è vivo, ai progetti di legge riguardanti i diritti civili e politici dei neri, che un'enorme dimostrazione guidata da Martin Luther King a Washington nel 1963 ha posto definitivamente all'ordine del giorno come questione prioritaria. In effetti nei tre anni del suo mandato prematuramente interrotto in maniera così drammatica ciò che più assorbe l'impegno e gli interessi del giovane presidente sono le questioni internazionali. Una buona tradizione familiare di apertura a tali problemi (il padre è stato ambasciatore a Londra fra le due guerre) e un insopprimibile anticomunismo guideranno le scelte di Kennedy in uno scenario mondiale caratterizzato da quattro fattori. Si tratta, da un lato degli echi persistenti della guerra fredda; in secondo luogo, dei primi, timidi segnali di distensione che cominciano ad emergere come frutto delle modificazioni in corso all'interno dei due blocchi (basti pensare alla destalinizzazione), della stessa proliferazione di armi nucleari, che rende obsoleta la strategia di risposta colpo su colpo propria degli anni Cinquanta, dei processi di decolonizzazione e dell'emersione dei Paesi cosiddetti «non allineati»; in terzo luogo, va citata la forte ripresa economica di Paesi dell'area occidentale usciti a pezzi dal conflitto mondiale come Germania e Giappone; infine, non bisogna dimenticare i problemi di modernizzazione economica e sociale che alla decolonizzazione sono legati. Nel tentativo di unire la riaffermazione del ruolo statunitense, in un sistema diplomatico che rimane bipolare, alla creazione di forme di interdipendenza economica mondiale congrue con le esigenze di rilancio dell'economia Usa, Kennedy elabora una strategia di consolidamento delle forme di cooperazione economica all'interno dell'area occidentale e di risposta flessibile e anzi, ove possibile, di anticipazione rispetto alle iniziative delle forze del campo comunista. Una strategia, questa, che passa attraverso il rafforzamento delle armi convenzionali, la maggiore enfasi sulle tecniche antiguerriglia e controinsurrezionali, una nuova attenzione agli strumenti non militari del contenimento anticomunista (assistenza tecnica ed economica in Asia, in Medio Oriente e in America latina). Tutto ciò comporta un'espansione dei mezzi e della scala degli interventi. Il che, di fronte alle oscillazioni degli stessi sovietici fra disponibilità alla trattativa e improvvisi irrigidimenti, e alla variabile relativamente indipendente costituita dagli impulsi all'autonomia dei Paesi del cosiddetto Terzo mondo, porta gli Stati Uniti pericolosamente vicini in almeno tre occasioni (la crisi di Berlino e le vicende cubane della Baia dei Porci, dove era fallito un colpo di mano appoggiato dagli Usa per abbattere Fidel Castro, e dei missili) allo scontro diretto col grande rivale sovietico. Quel che più conta, la logica della risposta flessibile consegna il Paese a quell'impegno in Vietnam che provocherà un clamoroso vuoto di strategia e aprirà un conflitto di proporzioni impensate all'interno degli stessi Stati Uniti. Fra le mani del suo successore Lyndon B. Johnson, la «nuova frontiera» kennediana, pur trovando parziale realizzazione nelle leggi per i diritti civili del 1964-65 e in alcuni progetti di «guerra alla povertà», finirà dunque per arenarsi nelle giungle del Sud-Est asiatico in una politica di «burro e cannoni» che getta un'ombra inquietante sul mito del giovane presidente. Al di là di un giudizio puntuale sui singoli motivi delle mancate realizzazioni nelle politiche sociali interne o sugli errori di valutazione che sono alla base di episodi come la Baia dei Porci, ciò che più colpisce nell'esperienza kennediana è la sproporzione fra le dichiarazioni generali di intenti e le politiche effettivamente attivate. In questo presidente (che, nonostante qualche ambizione in proposito, non è un intellettuale e in privato non manca di manifestare a più riprese la sua insofferenza per le astrattezze di quelle «teste d'uovo», cui peraltro, come e più di Franklin Delano Roosevelt, si affida) sembrano riassumersi i limiti di fondo del liberalismo moderato degli anni Sessanta. Un liberalismo troppo fiducioso nelle possibilità taumaturgiche di una politica fatta di tecniche specializzate di produzione delle decisioni e del consenso per essere capace di comprendere e incanalare in una direzione realmente progressista e solidamente riformatrice le grandi energie di giovani, neri, donne e lavoratori che nel decennio si mobilitarono per una società migliore; troppo prigioniero dell'anticomunismo e dell'orgoglio «eccezionalista» americano per penetrare la complessità delle domande politiche e sociali che arrivavano dal Terzo mondo.TESTIMONIANZE DAL VIETNAMPiù di 3 milioni di uomini impegnati nelle operazioni sul territorio straniero, 58.000 morti, oltre 120 miliardi di dollari di costi secondo le stime più contenute: in queste cifre si riassume la partecipazione statunitense alla guerra del Vietnam, un conflitto non dichiarato che ha costituito la più lunga esperienza bellica nella storia degli Usa. L'impatto che esso ebbe all'interno degli Stati Uniti fu duplice. Da un lato il Vietnam ha rappresentato una formidabile occasione per il coagulo di energie e risorse volte a riaffermare ed estendere, contro la decisione del governo di proseguire questa guerra di invasione, la migliore tradizione democratica americana, a lungo mortificata dagli anni bui del maccartismo e della repressione a danno delle forze sindacali e di sinistra. Dall'altro, come le immagini di Taxi driver, Apocalypse Now, Full Metal Jacket o la saga di Rambo dimostrano, esso ha aperto una ferita ben difficilmente sanabile nel corpo della nazione. D'improvviso migliaia di famiglie di Americani comuni hanno sperimentato l'effetto devastante che gli impegni globali di una superpotenza potevano esercitare sulla vita di un altro popolo e sulla propria. Il collasso di ogni responsabilità individuale e di ogni significato collettivo, l'abbandonarsi all'ebbrezza disperata di percezioni sospese tra i residui dell'universo metropolitano dei consumi e l'insensata ferocia della guerra che caratterizzarono il mondo quotidiano dei soldati americani nelle giungle del Sud-Est asiatico sono efficacemente delineati in questo brano tratto dal romanzo di Michael Herr Dispatches, inedito in italiano. Scrive Herr:... più ti muovevi più vedevi, più vedevi e più rischiavi, e più cose rischiavi, oltre alla morte e alla mutilazione, meno te ne saresti ritrovate un giorno, come sopravvissuto. Alcuni di suoi si aggiravano per la guerra come pazzi finché non riuscivamo più a vedere dove ci portava quella corsa, solo la guerra su tutta la superficie e penetrazioni sporadiche, improvvise. Finché potemmo disporre di elicotteri come taxi ci volevano una vera spossatezza o una depressione al limite del collasso o una dozzina di pipe d'oppio per tenerci almeno apparentemente calmi, ma ancora scorrazzavamo dentro la nostra pelle come se qualcosa ci inseguisse, ha ha, La Vida Loca. Nei mesi successivi al mio ritorno le centinaia di elicotteri con cui avevo volato cominciarono a fondersi in un metaelicottero collettivo, e per me era la cosa più sexy del mondo, salvatore-distruttore, procacciatore-dissipatore, destra-sinistra, abile, fluente, astuto e umano; lama rovente, grasso, rete satura-di-giungla-, sudore che si raggela e si riscalda di nuovo, cassette di rock-and-roll in un orecchio e spari nell'altro, benzina, calore, vitalità e morte, la morte stessa, a stento un'intrusa... A questa testimonianza così immediata e viscerale dell'esperienza di guerra in prima linea può risultare utile affiancare quella di uno studioso buon conoscitore della società del Vietnam del Sud, delle ragioni del conflitto e del significato della presenza statunitense per avervi trascorso un lungo periodo di ricerca, per conto del governo Usa, tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio del decennio successivo. Ecco dunque come Jeffrey Race, esperto di relazioni internazionali e consulente del Governo, reagiva nel 1976 sull'autorevole Yale Review alla dichiarazione rilasciata oltre un anno prima dal presidente Gerald Ford di non voler aprire un'inchiesta sistematica sulla guerra. Nelle sue parole troviamo l'eco di una parte consistente dell'intellighenzia d'oltre Atlantico che si oppose con decisione al conflitto, in nome di quei valori di libertà e democrazia su cui la stessa indipendenza statunitense si era costruita, e che ora essa vedeva incarnati nella causa vietnamita. Così Race si esprimeva in un saggio intitolato Le lezioni del Vietnam che non abbiamo imparato, anch'esso inedito in italiano: ... All'inizio del 1975 i giornali riferirono che il presidente Ford si era opposto ad ogni indagine a posteriori sulla guerra del Vietnam, sostenendo che «le lezioni del passato in Vietnam sono già state apprese dai presidenti, dal Congresso, dal popolo americano. Dovremmo ora concentrarci sul futuro...» Dopo tanto tempo trascorso negli ultimi dieci anni a contatto più o meno diretto con gli sforzi americani in Asia mi colpisce che tanta parte delle lezioni, e di fatto le più importanti, non siano in realtà state apprese... Due secoli fa i dirigenti americani erano ben sintonizzati con il movimento della storia ed eravamo giustamente orgogliosi di trovarci all'avanguardia di questo movimento per un mondo migliore. In Vietnam ci siamo scoperti a tirare nella direzione opposta. Nel Sud-Est asiatico (e nel testo del Terzo mondo) si sono verificati dei cambiamenti massicci ed evidenti sui quali gli Stati Uniti sono inciampati. In che cosa consistono questi mutamenti? Nient'altro che in richieste di maggiore eguaglianza economica e politica. [...] Questi cambiamenti sono gli stessi che cominciarono a far tremare l'Occidente tre secoli fa, che abbatterono o modificarono profondamente le più potenti monarchie europee dell'epoca e gettarono le basi della nostra stessa rivoluzione americana. Le nostre tradizioni ci suggerivano di non opporci a questi stessi mutamenti in corso in Asia, ma di onorarli. [...] Paradossalmente, alcuni decenni fa i patrioti americani scolpirono un epitaffio per i soldati britannici uccisi a Lexington e Concord (teatro dei primi scontri armati della guerra d'indipendenza americana nel 1775). [...] esso dice: «Fecero tremila miglia per tenere il passato sul trono». è tragico pensare che due secoli dopo i dirigenti americani si sono assunti il compito di andare tre volte più lontano sulla stessa strada della follia. [...] Onorare i valori che ho proposto richiede dei sacrifici, è vero. E così, in risposta a questa obiezione devo porre un'altra domanda. Se non lo fanno gli Stati Uniti, il Paese più ricco del mondo, chi altri se lo può permettere? Se non lo si fa ora, mentre siamo di gran lunga i più potenti e i più sicuri, quando si potrà farlo?... REAGANNell'ottobre del 1980, a un mese dalle elezioni che avrebbero sancito l'inizio dell'era reaganiana, il «Wall Strett Journal», il più importante quotidiano economico statunitense, pubblicò una poesia scritta dal futuro presidente oltre mezzo secolo prima, all'epoca in cui era un semplice studente liceale in una cittadina di provincia del Medio-ovest. I versi di apertura recitavano così:... Mi chiedo cosa sia tutto questo, e perché/ soffriamo tanto quando le piccole cose ci vanno storte?/ Facciamo della nostra vita una lotta/ Quando la vita dovrebbe essere una canzone... In essi aggiungeva il giornale, si poteva cogliere in embrione «la formulazione di una filosofia personale». Una filosofia destinata per la verità a non diventare molto più profonda col passare del tempo, se solo guardiamo agli aneddoti con cui più spesso, negli otto anni trascorsi alla Casa Bianca, Reagan amava riassumere la sua visione della vita. Vi dominano un ingenuo ottimismo e valori tradizionali come la famiglia, l'individuo, il farsi da sé e la patria. Eppure sia la poesiola che gli aneddoti rinviano a quella funzione di «grande comunicatore», come Reagan fu definito, a quel filo diretto che egli seppe instaurare con almeno una parte della popolazione in un modo così profondo da spingere alcuni osservatori a paragonarlo, non senza un'evidente esagerazione, a Franklin Delano Roosevelt. Forte della dimestichezza con i media e contando sull'incidenza da essi esercitata ormai, nella cosiddetta società dello spettacolo, anche sulla vita politica, Reagan scelse di affrontare la società più complessa del mondo occidentale sul terreno simbolico. Ovvero, in una dimensione comunicativa volta ad unire, attorno ad un nucleo relativamente semplice di immagini e valori di grande presa, anche e soprattutto emotiva ed inconscia, sulle masse, una realtà economica, politica e sociale che sembrava altrimenti sottrarsi ad ogni ipotesi di sintesi. E' arduo immaginare una società più articolata di quella statunitense alla fine degli anni Settanta. Sul piano economico vengono al pettine i nodi di una lunga fase di declino nella produttività e nella capacità innovativa a vantaggio delle «locomotive» tedesca e soprattutto giapponese. Ciò avviene sotto i colpi della rivoluzione elettronica, che sposta il baricentro manifatturiero dalle tradizionali aree del Nord-Est, medio-atlantiche e del medio-Ovest, verso il Sud-Ovest e il Pacifico, con un incremento della popolazione sudista dai 40 milioni del 1945 agli 80 del 1980. Per non parlare della smaterializzazione dell'economia, ossia della proliferazione di operazioni speculative e borsistiche le più diverse, nell'intrico di interessi che conseguono alla globalizzazione della finanza, lungo l'asse che unisce ed oppone ad un tempo il Nord e il Sud del pianeta. Sviluppo e arretratezza convivono, d'altra parte, all'interno di ogni metropoli statunitense, nei mercati del lavoro più o meno rigidamente segmentati tra i settori forti delle nuove professioni emergenti, finanziarie e della comunicazione, di pubblico impiego gonfiatosi negli anni Sessanta e Settanta e che ora si tenta in vario modo di scremare, le grandi imprese manifatturiere in via di ristrutturazione, i comparti ad alta intensità di lavoro alimentati dall'immigrazione clandestina. A tutto questo non può che far riscontro una società che è in realtà un coacervo di bisogni parziali e interessi corporativi, che eludono i grandi canali quali il sindacato e il sistema dei partiti attorno a cui si è coagulata a livello nazionale la rappresentanza sociale a partire dagli anni del New Deal. Investito in pieno dalle modificazioni del sistema produttivo di cui si è detto, il sindacato ha più che dimezzato la sua forza, passando tra il 1945 e il 1987 dal 35 per cento al 17 per cento della forza lavoro industriale. Quanto ai partiti, e ben difficile per essi sfuggire al processo di polverizzazione e personalizzazione delle istanze e dei modi di far politica di una società divisa da problemi come l'aborto, il nucleare, la deindustrializzazione secondo linee di differenza sessuale, generazionale, di classe, in costante ridefinizione. Se c'è una qualche cerniera a livello nazionale in questo groviglio di impulsi e domande, essa è costituita, come impone l'allargamento di fatto delle prerogative dell'istituto presidenziale verificatosi con Nixon, proprio dall'esecutivo federale. Dare un'interpretazione forte di questo ruolo incarnando alcuni valori fondamentali che rispondono al bisogno di certezze di quel 25 per cento dell'elettorato, distribuito un po' fra tutti gli strati sociali e le diverse aree geografiche del Paese, che lo ha votato, è il compito di cui si fa carico Reagan. L'età (è il più anziano presidente della storia della nazione) gioca a suo vantaggio, facendone una sorta di patriarca, che si propone come garante della possibilità di riscattare le magre figure di Carte in Iran e di realizzare i sogni coltivati nell'immaginario collettivo da quella Hollywood che con il nuovo presidente sbarca a Washington. Le bufere ideologiche e politiche e i mutamenti nei modi di produrre e distribuire la ricchezza dell'ultimo ventennio hanno rafforzato o risuscitato convinzioni religiose regressive come il fondamentalismo e messo in moto una mistura di orientamenti progressisti e conservatori che possono convivere nello stesso individuo. Per cui il giovane professionista rampante che ha fatto il 1968 ne riproduce alcuni tratti nell'atteggiamento favorevole all'aborto o alla liberalizzazione delle droghe leggere, il che evidentemente lo allontana dal moralismo reaganiano. Ad avvicinarlo al carro della nuova amministrazione, tuttavia, possono contribuire le promesse governative di «deregolamentare» la società, facendo piazza pulita dello stato assistenziale a favore del mercato, e la riproposizione del tradizionale valore dell'individualismo in una versione particolarmente aggressiva, adatta, come del resto le politiche fiscali filoimprenditoriali, a giustificare le operazioni economiche più selvagge e predatorie. Facendosi paladino del cittadino comune contro le burocrazie di Washington che diceva di voler fortemente ridimensionare, ridicolizzando gli specialisti, esaltando i valori familiari e privati, Reagan si appellava al risentimento e alla sfiducia nei confronti dei grandi (e fallimentari) progetti assistenziali del liberalismo degli anni Sessanta; sentimenti adombrati sia nella contestazione studentesca, sia nell'immagine dell'operaio laborioso «tradito» dalle burocrazie pubbliche spendaccione, diffusa dai media. A un presidente così poco legato alle macchine di partito, ma anche così antintellettuale, fiero della propria condizione di non specialista in un mondo ipertecnicizzato, impegnato a rinnovare il vecchio mito per cui chiunque, anche un ex attore di serie B, può non solo «diventare», ma addirittura «fare» il primo cittadino della potenza egemone a livello mondiale, si poteva perdonare in fondo anche l'irrinunciabile «pennichella» quotidiana, una debolezza che contribuiva ad avvicinarlo all'uomo di strada. Purché, naturalmente, avesse poi abbastanza fortuna da attraversare, come in effetti a Reagan capitò a partire dal 1983, una congiuntura economica internazionale favorevole, e non mancasse di mostrare i muscoli in occasione di ogni incontro al vertice con l'«impero del male», come egli ribattezzò l'avversario sovietico. A giustificare questa condotta c'era il fatto che l'Urss nella seconda metà degli anni Settanta aveva sviluppato un notevole aumento delle spese militari e una politica di accentuazione della propria ingerenza nel Terzo Mondo, in ossequio all'illusione brezneviana di potersi sostituire come superpotenza egemone agli Stati Uniti fiaccati dalla guerra del Vietnam. Di qui la linea reaganiana di aspra e bellicosa, soprattutto nei metodi, contrapposizione alla forza sovietica, con una politica economica che faceva del raddoppiamento del bilancio militare e del consolidamento dei settori produttivi legati alla difesa, e grandi sostenitori, assieme ad alcuni ambienti petroliferi e finanziari, del presidente, i propri cardini. Resta difficoltoso stabilire il contributo fornito da Reagan agli accordi volti ad una distensione sostanziale che, a dispetto dell'aggressività manifestata durante il primo mandato, furono conseguiti, nel corso del secondo, grazie alle indubbie aperture del leader russo Michail Gorbaciov, frutto a loro volta delle minacce di sclerosi e collasso del sistema sovietico. Quanto alla cosiddetta «dottrina Reagan», il programma, elaborato dalla metà degli anni Ottanta, di appoggio alla formazione di regimi democratici in America latina, oltre ad ispirarsi ad un'interpretazione conservatrice del concetto di democrazia, appiattita di fatto sugli interessi economici e strategici americani, non solo non cancella lo spregiudicato avallo a dittature come quella di Rios Montt in Guatemala o l'intervento armato a Grenada durante la prima presidenza, ma neppure può far dimenticare il sostegno costante ai contras in Nicaragua. Così come non si può sottacere che fu proprio la sfera estera a far crollare clamorosamente il mito del presidente attorno allo scandalo Irangate. Com'è noto, il caso scoppiò quando si scoprì che a dispetto della tanto conclamata offensiva senza quartiere dell'amministrazione nei confronti dell'ayatollah Khomeini, il governo e il Pentagono erano al centro di una complessa trattativa segreta che prevedeva forniture di armi agli iraniani, la liberazione degli ostaggi americani in Libano e il finanziamento dei guerriglieri contras, in una ridda di faccendieri, politici e servizi segreti sulle due sponde. Incalzato dalle domande della commissione inquirente, durante l'inchiesta che ne seguì, Reagan si trincerò dietro un'interminabile serie di «non ricordo». E l'attenuante dello stress e dell'età avanzata (il presidente aveva allora 76 anni) non impedirono alla sua popolarità, che era sempre stata assai elevata, di scivolare precipitosamente, toccando indici che sarebbero stati solo parzialmente risollevati, alla fine del 1987, dal vertice di Washington che portò alla firma dell'accordo con i sovietici sugli euromissili. Né è difficile immaginare cosa pensassero alla fine del suo secondo mandato, nell'autunno del 1988, i tre milioni di senza casa, i quaranta milioni di persone che vivevano al di sotto del livello di sussistenza, le vittime del processo di polarizzazione sociale che, auspici le politiche di taglio della spesa sociale e quelle fiscali, nettamente favorevoli alle grandi imprese, aveva investito la società americana, provocando una pericolosa contrazione proprio di quei ceti medi che di Reagan avevano costituito per una certa fase il referente principale di Reagan. L’UNIONE SOVIETICAL'URSS DELL'ULTIMO STALINDalla vittoriosa guerra contro la Germania nazista l'URSS, il solo Stato "degli operai e dei contadini", e il suo leader Josif Stalin uscirono con un prestigio rinnovato e immenso a livello internazionale. Tuttavia, la forza reale di un Paese le cui strutture economiche e sociali erano già state stravolte fra le due guerre (collettivizzazione delle campagne, industrializzazione a tappe forzate, epurazioni), e che aveva sofferto durante il secondo conflitto mondiale enormi perdite umane (tra 15 e 20 milioni di morti) e distruzioni materiali pesantissime, era fragile e tutta da verificare. Grande potenza, l'URSS si trovò in effetti alle prese con una difficile ricostruzione. Questa esigenza ispirò la condotta sovietica nei Paesi controllati dall'Armata rossa: spesso anch'essi prostrati, dovettero versare risarcimenti cospicui e furono pesantemente depauperati di materie prime, derrate agricole, impianti e macchinari industriali, non facendo troppa distinzione tra gli ex alleati e le vittime (al pari della stessa URSS) della politica hitleriana. Nella zona di occupazione sovietica in Germania il prelievo fu diretto; altrove fu attuato col sistema delle "società miste", che legalizzavano uno scambio ineguale a tutto vantaggio di Mosca. A partire dal 1949 i rapporti economici tra URSS e Paesi del blocco socialista vennero definiti sulla base di una sorta di divisione del lavoro (pur sempre vantaggiosa per il Paese più forte) tra i membri del COMECON (Consiglio di Mutua Assistenza Economica), nel quale si raggrupparono l'URSS e i Paesi satelliti. Il COMECON fu anche la risposta sovietica ai programmi di ricostruzione e di cooperazione nell'Europa occidentale sostenuti dagli USA attraverso il piano Marshall. In URSS la priorità negli investimenti fu ancora una volta attribuita all'industria pesante. La pianificazione, lo stimolo alla cosiddetta "emulazione socialista" (cioè a lavorare il più possibile per superare gli obiettivi del piano), l'uso di manodopera forzata (detenuti politici e comuni), la ferrea determinazione dei dirigenti sovietici, e soprattutto la capacità di sacrificio della popolazione permisero di superare in pochi anni i livelli di produzione d'anteguerra. Ma, come allora, a scapito dei contadini e della produzione agricola, che non fu migliorata né attraverso la sempre più spinta collettivizzazione delle terre, né in virtù degli interventi agronomici su vasta scala, volontaristici e fallimentari, ispirati alle teorie biologiche e agronomiche dello scienziato Trofim Lysenko. E a discapito, infine, dei livelli di vita e di consumo della popolazione, sempre distanti non solo da quelli dei Paesi occidentali, ma anche di alcuni Paesi satelliti. Gli ultimi anni di Stalin furono caratterizzati dall'esaltazione esasperata e grottesca del leader (detta anche "culto della personalità") e dall'applicazione di una soffocante ortodossia estetico-culturale che, dal nome dell'incaricato della sezione cultura e propaganda del comitato centrale, Andrej Zdanov, prese il nome di "zdanovismo": tendenza che pretendeva di imporre in arte e letteratura l'aderenza a modelli ritenuti vicini al gusto delle masse, il cosiddetto "realismo socialista". Per almeno un trentennio l'impronta di Zdanov rimase impressa sulle organizzazioni ufficiali della cultura sovietica, con effetti mortificatori sulla qualità della produzione artistica, che non a caso espresse il meglio di sé nell'opera degli intellettuali meno conformisti e dei dissidenti. Le rigidezze e l'autoritarismo della direzione staliniana erano ormai per la verità mal tollerate da gran parte dello stesso gruppo dirigente, sottoposto negli ultimi anni della vita di Stalin a nuove epurazioni, e diviso, sulle prospettive da seguire, fra stalinisti ortodossi come Molotov, dirigenti reputati più liberali come Malenkov, e personaggi non facilmente definibili come Krusciov. DESTALINIZZAZIONE E DISGELOMorto Stalin, nel marzo 1953, ed eliminato pochi mesi dopo Lavrentij Berija, l'odiatissimo capo della polizia politica che cercava di scavalcare i competitori assumendo posizioni concilianti con gli occidentali sul problema tedesco, si aprì una fase di direzione collegiale, che associava ai vertici Malenkov, Krusciov, Molotov e Bulganin (quest'ultimo in secondo piano). Mentre l'URSS si rafforzava militarmente (nel 1955 verrà costituito il Patto di Varsavia, in risposta alla NATO) e giocava un ruolo sempre più dinamico sulla scena mondiale, all'interno molte misure repressive staliniane furono revocate e molti prigionieri politici liberati. Il cambiamento di clima interno fu percepito prontamente dagli intellettuali: il romanzo di Ilja Erenburg intitolato "Il disgelo" (1954) regalò un simbolo puntuale al clima culturale e politico degli anni dell'incerta successione a Stalin (1953-1957), risolta infine con l'affermazione di Nikita Krusciov. Il nome di Krusciov resta principalmente legato alla demolizione del "culto della personalità" di Stalin, intrapresa nonostante le cautele alle quali lo richiamavano i colleghi della segreteria e non pochi leader comunisti degli altri Paesi. Sull'opportunità di restituire la figura di Stalin alle sue esatte dimensioni, abbandonando le manifestazioni di reverenza che non di rado sconfinavano nel grottesco, era invece d'accordo la maggioranza dei dirigenti sovietici. Ma la denuncia della politica staliniana nella sede e nelle forme più solenni, attraverso una relazione dalla tribuna centrale del XX Congresso del partito, nel febbraio 1956, fu un'iniziativa coraggiosa di Krusciov. Il "Rapporto Krusciov" sui crimini di Stalin, tenuto segretamente a fine Congresso, in una seduta riservata ai soli delegati sovietici, divenne poi noto in tutto il mondo agli inizi di giugno del 1956. Tra le reazioni più ambigue ci fu quella del leader comunista italiano Palmiro Togliatti, che, dopo vari tentennamenti, in un'intervista al periodico "Nuovi Argomenti" avviò un prudente ripensamento delle vicende del movimento comunista internazionale nel ventennio precedente. Fuori dell'URSS il rapporto provocò un indubbio disorientamento tra i militanti comunisti e tra i simpatizzanti, un certo numero dei quali, principalmente intellettuali, abbandonarono i partiti comunisti dell'Europa occidentale. Dinamica che si accentuò allorché il processo di ripudio delle posizioni e dei metodi staliniani incoraggiò la rivolta operaia di Poznan (in Polonia) e, soprattutto, l'insurrezione ungherese dell'ottobre 1956, per reprimere la quale Krusciov non esitò ad inviare l'esercito sovietico, rivelando ancora una volta il vero volto di Mosca. La "destalinizzazione" avviata da Krusciov non metteva in discussione l'esperienza sovietica tout court (Stalin, secondo Krusciov, aveva in realtà tradito gli insegnamenti politici di Lenin) e, d'altra parte, una denuncia aperta e netta dello stalinismo era ormai necessaria per chiudere definitivamente una fase tragica della storia del Paese. Krusciov e l'URSS, del resto, mostravano lo stesso dinamismo in ogni campo, dando consistenza alla fase della cosiddetta "coesistenza competitiva" con gli USA: i record produttivi nell'industria pesante (l'URSS superò addirittura la produzione d'acciaio statunitense), il lancio nel 1957 del primo satellite nello spazio (lo Sputnik), l'orgogliosa sfida al mondo capitalista, con la previsione (incauta e smentita dai fatti) che in vent'anni l'URSS avrebbe eguagliato e superato la prosperità degli USA, l'affermazione che era ormai chiusa la fase di transizione socialista e che stava per iniziare la realizzazione effettiva del comunismo intendevano ribadire la bontà e l'esemplarità emancipatrice dell'esperimento sovietico. L'ottimismo volontaristico, non esente da durezze e facilonerie, e condizionato da forti limiti culturali, portò Krusciov a una gestione personalistica del potere che ne accelerò la caduta. Ma fu con lui che l'URSS riuscì ancora a proporsi al mondo, specialmente ai Paesi che lottavano per liberarsi dal giogo coloniale, come modello politico da imitare, sebbene i fatti d'Ungheria (e poco dopo, nel 1960, l'interruzione degli aiuti economici e militari alla Cina popolare, e la conseguente -"innaturale" da un punto di vista socialista - rottura fra i due grandi esperimenti rivoluzionari del XX secolo) avrebbero dovuto mettere in guardia da facili entusiasmi. IL RAPPORTO KRUSCIOVDiamo qui di seguito la testimonianza di Antonio Giolitti, uomo politico italiano e intellettuale di sinistra (già iscritto al PCI, passato poi nel 1957 al PSI), in merito alle rivelazioni scaturite dal XX Congresso del Partito comunista sovietico.Avidamente io lessi da cima a fondo, con gli occhi sbarrati, il "Rapporto segreto" di Krusciov sul settimanale "Il Punto" del 9 giugno 1956 che lo pubblicava integralmente. Contemporaneamente quel documento esplosivo compariva in un inserto del settimanale "L'Espresso" con un titolo in lettere cubitali a tutta pagina "KRUSCIOV ACCUSA STALIN", seguito da questi commenti (che ci danno la sensazione dello shock immediatamente provocato): "In questo documento troverete personaggi che sembrano tratti da un romanzo di Dostoevskj - E troverete anche la raccapricciante spiegazione di confessioni che sinora parevano assurde". Quel testo era stato reso pubblico dal Dipartimento di Stato degli USA (e perciò molti comunisti lì per lì si ritennero autorizzati a giudicarlo falso) il 4 giugno, con un annuncio che vale la pena di riportare quasi integralmente perché dà il senso del sentimento di stupore e quasi di sgomento che suscitava l'incredibile evento: "Il Dipartimento di Stato ha di recente ottenuto da fonte confidenziale copia di un documento che si presume sia una versione del discorso pronunciato dal Primo Segretario del partito Nikita S. Krusciov alla seduta del 25 febbraio 1956 del partito Comunista dell'Unione Sovietica. A tale sessione parteciparono solo i delegati dell'Unione Sovietica. [...] Il Dipartimento di Stato non garantisce l'autenticità del documento e lo rende di pubblico dominio nella convinzione che esso non abbia bisogno di commenti". L'autenticità risultò subito confermata. Una bomba inattesa? No. All'indomani di quel XX Congresso erano trapelate indiscrezioni, si erano diffuse voci, ipotesi circa l'esistenza di un "Rapporto segreto", che per tale sua qualità era stato tenuto nascosto, almeno ufficialmente, ai delegati stranieri, agli invitati, che così avevano buon gioco a far mostra d'ignorarlo e guadagnar tempo per parare il colpo. Il Partito Comunista Italiano, per esempio, respingeva sdegnosamente quelle voci. Ricordo che anche in incontri confidenziali con autorevoli membri della delegazione del PCI al XX Congresso costoro negavano risolutamente - ma anche con un'aria un po' infastidita che a pensarci bene rivelava un certo imbarazzo - l'esistenza del "Rapporto segreto". Come subito doveva chiaramente apparire, il vertice del partito aveva deciso di sottoporre gli ignari a una sorta di terapia preventiva per attutire lo shock. Su "l'Unità" del 6 marzo 1956 veniva pubblicato il testo integrale della risoluzione approvata all'unanimità (così veniva sottolineato) dal XX Congresso del PCUS, nella quale si trovava una pacata esortazione al Comitato centrale a "non ridurre i suoi sforzi nell'eliminare i residui del culto della personalità" e a "ristabilire le norme leniniste nella vita di partito". Nella relazione di Togliatti al Comitato centrale del PCI il 13 marzo 1956 si poteva leggere una lunga dettagliata e vibrante esaltazione di Stalin, del suo pensiero e della sua opera; a proposito dei suoi "difetti" ed "errori" si deferiva il caso a chi di dovere: "Spetta ai compagni sovietici precisare le critiche con un rinnovato studio dello sviluppo della rivoluzione, del partito e della società socialista, con nuove, profonde analisi delle loro esperienze". Ma attenzione, ammoniva Togliatti concludendo: nessun dubbio, nessuna esitazione deve "diminuire né la disciplina, né la compattezza, né il fervore (sic) delle lotte che dobbiamo condurre contro i nemici esterni e contro i malviventi (sic) che minacciano dall'interno la saldezza delle nostre file". Questo era il clima. Qualche giorno dopo, il 21 marzo, un editoriale di Pietro Ingrao su "l'Unità" dà inizio al procedimento di anestesia per attutire l'urto del "Rapporto segreto". Scrive Ingrao: "Si ha notizia, inoltre, di un rapporto del compagno Krusciov a una seduta speciale del Congresso, di cui non è stato pubblicato il testo", e denuncia indignato le rivelazioni che di quel testo si trovano nella "stampa reazionaria" come "sozzure antisovietiche, che hanno fatto fiasco e fiasco clamoroso, dinanzi alla prepotente realtà dei fatti". Quello che davvero ha fatto fiasco è il tentativo di anestesia. Tant'è che dopo la pubblicazione del famoso rapporto un "comunicato dell'Ufficio stampa del PCI" constata "il turbamento dei comunisti italiani" ma lo attribuisce al "modo insolito con cui è giunta all'opinione pubblica la denuncia degli errori compiuti da Stalin" e annuncia l'intervista (poi famosa) di Togliatti alla rivista "Nuovi Argomenti" ("l'Unità", 13 giugno 1956). Turbamento, sgomento, e in certuni panico. Ricordo bene certi sfoghi, immediati, a caldo: dobbiamo essere il partito italiano, cambiare nome, partito delle riforme, basta con la rivoluzione e il modello sovietico e via di questo passo. Ma non posso documentare, non ho registrato. Reco la mia testimonianza, e parlo di me. A quella lettura rimasi esterrefatto. Ma come? Non avevo mai sentito né letto dei crimini di Stalin e delle perversioni del sistema sovietico? Sì certo, fin dai famosi processi già prima della guerra, fin dal famoso libro di André Gide tanto vilipeso dai comunisti. Ma c'erano stati anche i due giganteschi volumi di Sidney e Beatrice Webb sul comunismo sovietico come "nuova civiltà"; e soprattutto c'era stata la guerra, Stalingrado, i russi a Berlino. E poi, un conto è sentirsi rivelare quei crimini da avversari dichiarati del comunismo e dell'Unione Sovietica, altro conto è riceverne la proclamazione dalla cattedra dei custodi del dogma: un po' come se fosse il Papa dal balcone di San Pietro a proclamare che Dio non esiste. Bisogna anche rendersi conto del clima politico, internazionale e interno, di quegli anni. Eravamo in piena guerra fredda. Dopo il Piano Marshall gli Stati Uniti avevano adottato la linea dura, con l'esplicito sventolamento della minaccia nucleare, verso l'Unione Sovietica; questa, da parte sua, procedeva al totale assoggettamento dei Paesi inclusi nella sua sfera d'influenza. Dopo la morte di Stalin, nel gruppo dirigente sovietico si erano scatenate lotte sanguinose, culminate nell'arresto ed esecuzione del potentissimo Berija famigerato capo della polizia staliniana; Molotov e Malenkov vennero esautorati. Di tali eventi si ebbero ripercussioni nei Paesi satelliti, alla base e al vertice: tanto per limitarci a due avvenimenti emblematici, basterà ricordare che a metà giugno 1953 era scoppiata la rivolta operaia a Berlino Est e che il 4 marzo 1955 a Budapest il Presidente del Consiglio Imre Nagy (poi fucilato dopo la rivoluzione ungherese del 1956) veniva destituito e condannato "per deviazione di destra". In Italia (per nostra fortuna fuori dalla sfera d'influenza sovietica) il conflitto politico e sociale si era inasprito in conseguenza del tentativo di legge elettorale maggioritaria denominata "legge truffa". Quel clima politico aizzava lo schieramento anticomunista a sfruttare al massimo le rivelazioni terrorizzanti del "Rapporto segreto" e obbligava il partito comunista a fare ogni sforzo per minimizzare lo scandalo e il danno. Tale sforzo tenacemente perseguito fino all'inizio degli anni Ottanta, quando finalmente il PCI riuscì a prendere le distanze dall'Unione Sovietica - mirava soprattutto a far accettare una netta distinzione tra crimini di Stalin e mirabilie, invece, del sistema da lui instaurato - non valse, a decretarne il fallimento, nemmeno la rivoluzione ungherese del Cinquantasei e l'intervento brutale delle forze armate sovietiche; per voltare pagina, definitivamente, ci volevano gli eventi straordinari del portentoso 1989. L'URSS DA BREZNEV A GORBACIOVKrusciov fu deposto nell'ottobre 1964 soprattutto per il fallimento della sua politica economica. La nuova direzione collegiale comprendeva in primo piano Leonid Breznev, affiancato da Aleksej Kossighin e Nicolaj Podgornyj. Burocrate cauto, diversissimo per carattere da Krusciov, tutt'altro che liberalizzatore, Breznev perseguì un'ambiziosa politica estera di potenza, dando largo spazio ai vertici militari, sostenitori della ricerca a tutti i costi della parità con gli USA (il che comportava un costante sostegno dell'industria bellica e il sacrificio di quella leggera), e una politica interna di compromesso, tollerando la crescita del mercato nero e di forme larvate d'iniziativa privata nelle campagne, aumentando la produzione di beni di consumo (sia pure in maniera sempre insoddisfacente), rassegnandosi, anche per le proteste dell'opinione pubblica occidentale, ad allentare la repressione del dissenso intellettuale. Attraverso le voci dei dissidenti, esuli come Aleksandr Solzenitzyn (autore negli anni di Krusciov di un racconto sulla vita nei campi di concentramento staliniani, "Una giornata di Ivan Denisovic", e negli anni di Breznev di una riconsiderazione delle repressioni degli anni di Stalin, "Arcipelago Gulag") o rimasti in patria, come Andrej Sacharov e Roj A. Medvedev, l'intellettualità sovietica iniziò un'opera di ricostruzione non agiografica (ma nemmeno pregiudizialmente ostile) della storia dell'URSS. La politica di potenza perseguita da Breznev si rivelò alla lunga controproducente per la società e l'economia sovietica e disastrosa per l'immagine stessa dell'URSS. L'intervento in Cecoslovacchia (1968) suscitò proteste generali nel movimento comunista occidentale; quello in Etiopia (1977), per fronteggiare l'aggressione da parte della Somalia, servì a sostenere un regime oppressivo nei confronti della minoranza eritrea; l'intervento in Afghanistan (1979-1988), infine, risultò fallimentare non solo sul piano militare ma anche su quello morale, risultando presto evidente ai combattenti sovietici (giovani soldati di leva) la pretestuosità delle motivazioni ufficiali della guerra. In nome del prestigio militare di Mosca si sacrificarono così le esigenze dei cittadini, proprio quando la società sovietica cominciava a conoscere livelli di vita modesti secondo i criteri occidentali, ma mai raggiunti in precedenza, a maturare maggiori aspettative e a sviluppare veri e propri movimenti di opinione: riflesso, anche, della più ampia articolazione sociale raggiunta dall'URSS. Solo negli anni Settanta, infatti, gli effetti delle campagne di alfabetizzazione e gli ammodernamenti del sistema produttivo del ventennio precedente avevano ampliato significativamente la percentuale della forza lavoro impiegata nei servizi, e, tra gli occupati nell'industria, la percentuale dei quadri e degli operai specializzati. Solo polemicamente, perciò, il lungo Governo di Breznev, e soprattutto l'ultima fase (Breznev morì nel 1982), può essere definito "stagnazione brezneviana". Sembra che il successore di Breznev, l'ex capo dei servizi segreti Jurij Andropov, si proponesse di attuare delle riforme moderate; ma già vecchio e colpito da una grave malattia, governò troppo poco; mentre il nuovo leader sovietico Kostantin Cernenko, morto anch'egli nel giro di un anno (nel marzo 1985), era un fedele seguace di Breznev. Nella seconda metà degli anni Ottanta toccò così a Mikhail Gorbaciov, segretario generale più giovane e preparato dei predecessori, rilanciare la riforma delle linee direttrici della politica interna e di quella estera sovietica: all'esterno, riconoscendo ormai l'impossibilità per l'URSS di tenere testa agli USA nella corsa agli armamenti e riaprendo quindi le trattative con i dirigenti statunitensi per una nuova e più compiuta "distensione", avviando altresì una parziale e progressiva riduzione delle truppe sovietiche nei Paesi dell'Europa orientale e il ritiro dall'Afghanistan (manovre utili, tra l'altro, a contenere le esorbitanti spese militari del bilancio di Mosca); all'interno, mettendo mano ad una revisione complessiva, e dagli sbocchi difficilmente prevedibili, del sistema politico, statale ed economico sovietico. Due vocaboli resero celebre in tutto il mondo (e probabilmente banalizzato oltre il dovuto) la politica di Gorbaciov: glasnost (tradotto, forse non del tutto precisamente, con "trasparenza"), a indicare l'apertura del dibattito sull'operato del partito a tutte le componenti organizzate della società civile sovietica: di fatto l'ammissione, se non della legittimità di una pluralità di partiti, almeno della pluralità delle correnti e delle tendenze all'interno del Partito comunista, nonché della libertà di critica; e perestroika ("cambiamento" o "ristrutturazione"), a segnalare la volontà di rompere con la gestione conservatrice, militarista e burocratica di Breznev e di inaugurare un nuovo corso più liberale e democratico. Nonostante le difficoltà e le contraddizioni che non risparmiarono nemmeno Gorbaciov (l'antico vizio della non-trasparenza, per esempio, fece sì che la gravità del disastro nucleare di Chernobyl, dell'aprile 1986, fu resa nota all'opinione pubblica occidentale molto prima che ai cittadini sovietici), l'esercizio della glasnost e della perestroika si tradusse nella fine del Soviet Supremo (il massimo organo dello Stato, in mano al PCUS) e nelle correlate consultazioni elettorali - le prime relativamente libere, e contestate, nella storia dell'URSS - per il nuovo Congresso (1989) dell'Unione e per le amministrazioni locali, e nell'avvio di un aperto dibattito politico che rappresentò un'assoluta novità per i cittadini sovietici. Le elezioni fecero emergere a loro volta una vivace opposizione all'apparato del partito: tanto che alcuni commentatori occidentali etichettarono quest'ultimo, intrecciato strettamente alla burocrazia statale, come la "destra" del nuovo arco politico sovietico, e i suoi oppositori (il più noto dei quali era Boris Eltsin) come la "sinistra" o i "radicali", riservando a Gorbaciov, che l'anno successivo sarebbe stato eletto dal Congresso presidente dell'URSS (15 marzo 1990), una posizione mediatrice. In questi termini, però, si trattava di una semplificazione confusa e di scarsa utilità. In un clima politico di aspro confronto, tra comunisti riformatori, comunisti conservatori, nazionalisti di destra e di sinistra, democratici occidentalisti, fautori del mercato capitalistico, e loro oppositori di varia gradazione, sarebbe forse stato meglio, semmai, parlare di conservatori e innovatori, oppure riprendere i vocaboli adoperati nella Francia della monarchia di luglio (1830-1848), e parlare di "movimento" contrapposto a "resistenza": con l'avvertenza che, mentre la "resistenza" ha l'obiettivo chiaro di difendere lo status quo, il "movimento" spesso raggruppa tendenze per il cambiamento anche contrastanti e persino, alla lunga, inconciliabili. Del resto, non appena la società civile cominciò a esprimersi abbastanza liberamente, vennero allo scoperto correnti, sia pure poco consistenti, nazionaliste russe e anche antisemite che l'eccesso di attenzione per le vicende del ceto dirigente aveva fatto trascurare. Allo stesso modo, la persistenza di contrasti etnici e di rivendicazioni nazionali, e l'insofferenza per la schiacciante supremazia russa all'interno di un Paese che non era abitato solo da Russi furono sottovalutate sino a quando la cronaca non le rese evidenti, anche se già nella seconda metà degli anni Settanta qualche studioso aveva osservato la crescita demografica delle popolazioni non russe, e musulmane, delle Repubbliche sovietiche dell'Asia centrale, e segnalato il problema della nazionalità, scrivendo, con provocatoria lungimiranza, di una futura probabile "esplosione" dell'Impero sovietico. In effetti, la liberalizzazione iniziata da Gorbaciov e lo scollamento delle strutture del Partito comunista resero palese la sopravvivenza nella regione del Caucaso di conflitti di nazionalità (tra Armeni cristiani e Arzebaigiani musulmani) vecchi di secoli, e l'esistenza di tensioni tra Russi e non Russi (Uzbeki, Kazaki e Tagiki musulmani) nell'Asia centrale. E, fatto più clamoroso, fornirono l'occasione per le rivendicazioni indipendentiste delle Repubbliche baltiche e per quelle autonomiste dell'Ucraina. Mentre, all'esterno dell'URSS, la politica di Gorbaciov favorì indirettamente la dissoluzione del blocco degli Stati alleati di Mosca (1989), premessa dello scioglimento del Patto di Varsavia. La forza e la compattezza apparenti dell'URSS sotto Breznev avevano in sostanza lasciato il posto a un panorama molto confuso. Lo stesso ruolo del Partito comunista finì col venir messo in discussione, tanto che Gorbaciov si decise ad avviare la trasformazione dell'URSS in una Repubblica presidenziale. La proprietà privata della terra (invocata da più parti per migliorare le prestazioni dell'agricoltura), lo stimolo all'iniziativa e alla responsabilità individuali, l'introduzione di incentivi salariali, la ristrutturazione e l'adeguamento di un apparato industriale sempre in ritardo sulle economie dell'Occidente (processi forieri di disoccupazione e mobilità della manodopera), il libero confronto delle idee e dei programmi: questi e altri ancora arano i difficili obiettivi che i dirigenti sovietici cercarono di perseguire attenuandone per quanto possibile i costi e la contraddittorietà. Il controllo esercitato sino a poco tempo prima sui visitatori, e la scarsezza di inchieste e informazioni statistiche attendibili e verificabili, resero assai difficile agli osservatori esterni la comprensione realistica dei processi in corso nell'URSS alla fine degli anni Ottanta. La convergenza di interessi tra propagande opposte indusse a lungo a sopravvalutare la forza del regime sovietico, appiattendone al contempo il senso delle trasformazioni inizialmente progettate sotto le categorie, vaghe agli occhi dei più, della "liberalizzazione" o della "modernizzazione". Inoltre, si tese a enfatizzare il ruolo del leader di turno (ora Gorbaciov, come in precedenza Breznev, Krusciov, Stalin o Lenin, e prima ancora gli zar), banalizzando processi sociali complessi che avevano per teatro il Paese più vasto del pianeta, con radici che affondavano spesso profondamente nei secoli. LA FINE DI UN IMPEROLa politica di Gorbaciov all'inizio degli anni Novanta appariva vicina a una stretta finale: da un lato lo statista sovietico, divenuto presidente dell'URSS, offriva un cauto appoggio alle forze liberalizzatrici e, dall'altro, cercava di dare soddisfazione alle pressioni che le Forze armate e l'ala dura del Partito comunista esercitavano per soffocare il nuovo corso. Nell'agosto del 1991, sotto la spinta di difficoltà economiche sempre più drammatiche, scoppiò la crisi che assunse la forma di un tentativo di colpo di Stato "conservatore", messo in opera da una parte del partito, del Governo sovietico e delle Forze armate. I congiurati probabilmente speravano in un assenso dello stesso Gorbaciov o almeno in un suo coinvolgimento. Ciò non avvenne, anche se il comportamento di Gorbaciov in quei giorni di agosto (durante i quali, peraltro, fu anche arrestato) diede adito a sospetti, segnando l'inizio del declino della sua fortuna politica. Con i congiurati non si schierò nemmeno il grosso delle Forze armate e soprattutto al colpo di Stato si opposero masse consistenti moscovite che avevano trovato provvisoriamente nel presidente della Repubblica federativa sovietica russa, l'ambiguo e spregiudicato Boris Eltsin (dimessosi poco prima, in luglio, dal PCUS), il proprio campione "liberale", deciso a portare fino in fondo il processo riformatore appena avviato e a dare maggiore autonomia politico-economica e militare alla Russia, lo Stato di gran lunga più importante dell'Unione Sovietica. Con la vittoria di Eltsin il Partito comunista venne messo al bando e i suoi beni confiscati. A questo punto Gorbaciov - che aveva sempre pensato a un passaggio per così dire morbido e graduale da un sistema autoritario a un sistema democratico - tentò di salvare la situazione proponendo la costituzione di una nuova Unione tra le Repubbliche sovietiche in grado di sostituirsi all'URSS, ma anche di continuarne la politica internazionale. Gli avvenimenti, però, avevano ormai assunto un ritmo incalzante e la mossa di Gorbaciov apparve tardiva; la fuoriuscita dall'URSS delle Repubbliche baltiche (Lituania, Lettonia ed Estonia nel settembre 1991), subito riconosciuta da Eltsin, la presa di posizione di Georgia, Armenia e Moldavia che avevano deciso la separazione da Mosca e quella dell'Ucraina, intenzionata a seguire l'esempio delle precedenti, decretò la fine dell'URSS e la creazione al suo posto della Comunità degli Stati Indipendenti (CSI, con sede amministrativa a Minsk, in Bielorussia), proclamata ad Alma Ata il 21 dicembre 1991. Delle 15 Repubbliche che costituivano l'ex URSS solo 11 decisero di confluire nella nuova entità statale, poiché Lituania, Lettonia ed Estonia preferirono mantenere la loro totale indipendenza e la Georgia non aderì perché divisa da una lotta civile (nel 1994, tuttavia, entrò anch'essa a farvi parte). Questi avvenimenti segnarono anche l'uscita dalla scena politica di Gorbaciov che, prendendo atto della fine dell'URSS e del suo progetto, si dimise da ogni carica istituzionale. Nella nuova situazione, la Russia (o Federazione Russa), il più grande degli Stati della CSI, capeggiata da Eltsin, cercò di presentarsi, quantomeno su un piano formale, come l'erede e la continuatrice della politica internazionale dell'URSS (la Russia, nel 1992, ereditò fra l'altro il seggio permanente dell'Unione Sovietica presso il Consiglio di Sicurezza dell'ONU); e ciò gli riuscì abbastanza agevolmente grazie all'atteggiamento degli USA e dei Paesi occidentali, che volentieri riconobbero a Eltsin un ruolo di primo piano sulla scena mondiale; ma ciò avvenne anche al prezzo di tensioni con l'Ucraina, il secondo Stato per importanza della CSI, che rivendicò contro la Russia un ruolo egemone nel mar Nero e in particolare il controllo della potente flotta. Con l'Ucraina nell'agosto del 1992 venne comunque trovato un accordo di compromesso. All'interno della Russia di Eltsin, inoltre, come del resto negli altri Paesi ex comunisti dell'Europa orientale, si affermò un sistema di corruzione e una corsa all'arricchimento a ogni costo, ad opera, soprattutto, di vecchi burocrati e nuovi affaristi, che seppero appropriarsi con tempestività delle risorse sottoutilizzate e dei settori sani e redditizi del sistema socialista (ora via via privatizzati), nonché degli aiuti economici provenienti dall'Occidente. Infine, le cosiddette "mafie russe" divennero potentissime proprio nel corso degli anni Novanta. Le vicende delle Repubbliche asiatiche non furono più facili: le spinte autonomistiche, sostenute anche da motivazioni etniche e religiose (in molti Stati vi erano consistenti presenze di musulmani) trovarono iniziale soddisfazione nella nuova unione della CSI. Ma non avrebbero tardato a riesplodere in tutta la loro gravità. Un problema a parte fu rappresentato invece dalla Cecenia che, nel 1991, si proclamò indipendente dalla stessa Federazione Russa (RSSF), scatenando la risposta militare di Mosca (che non voleva perdere un territorio ricco di petrolio e gas naturale) e dando origine a un conflitto drammatico destinato a protrarsi per anni, anche dopo l'abbandono di Elstin della scena politica alla fine del 1999, in favore del suo vice Vladimir Putin. In Georgia, come accennato, la guerra civile divise i sostenitori del cambiamento contro i nostalgici del vecchio regime; l'elezione a presidente di Eduard Shevardnadze, che era stato ministro degli esteri dell'URSS con Gorbaciov, segnò il riavvicinamento della Georgia alla CSI. Con l'appoggio della Russia di Eltsin, Shevardnadze vinse poi il confronto militare con gli avversari interni e chiese nel 1993 l'ammissione nella CSI, di cui entrò a far parte l'anno successivo. Nel complesso la Comunità degli Stati Indipendenti, che voleva in parte imitare la Comunità europea, si rivelò subito un'entità piuttosto debole, lacerata da difficoltà economiche drammatiche, tra cui la mancanza di generi alimentari e la svalutazione del rublo, che spinsero alcuni Stati a emettere monete proprie. Sul piano militare i diversi Stati chiesero anche la formazione di eserciti nazionali. Il tutto sullo sfondo epocale del passaggio da un'economia pianificata statalista a un sistema tendenzialmente di mercato. Eltsin stesso, in Russia, venne fatto oggetto di contestazioni per il forte aumento dei prezzi e fu accusato di svendere il potenziale bellico del Paese agli Americani. All'inizio del 1993, del resto, con l'accordo Start 2 la Russia s'impegnò, insieme a Stati Uniti, Ucraina, Bielorussia e Kazakistan, a smantellare il proprio arsenale militare di tre quarti. A Mosca e in altre grandi città (ma è un fenomeno che si verificò anche negli altri Stati del vecchio blocco sovietico) durante le manifestazioni della transizione, e soprattutto nei momenti di più profonda crisi, comparvero sostenitori dei vecchi partiti comunisti che erano stati sciolti. La crisi più drammatica della nuova Russia si verificò tra l'estate e l'autunno del 1993, quando Eltsin riuscì ad aver ragione di un tentativo di rivolta contro il nuovo regime oligarchico da lui instaurato; il vicepresidente della Repubblica, Aleksandr Rutskoj, e il presidente del Parlamento, Ruslan Khasbulatov, asserragliati nel palazzo con gli altri deputati (in seguito allo scioglimento dell'Assemblea stessa decretato da Eltsin), cercarono di mettere in atto il progetto di rovesciare il Governo sperando di sollevare la popolazione e di avere l'appoggio delle Forze armate. Ambedue questi calcoli si rivelarono però errati e Eltsin poté riconquistare il palazzo del Parlamento con un'azione di forza costata qualche centinaio di vittime e l'arresto dei due leader dell'opposizione. Più sorprendente per gli osservatori occidentali è l'aver visto ricomparire nelle manifestazioni e nelle piazze emblemi e simboli della vecchia Russia zarista; tra i ritratti più gettonati ci fu quello dello zar Nicola II. Le cerimonie religiose a loro volta assunsero un tono di forte partecipazione popolare e un carattere ufficiale sconosciuto all'Unione Sovietica; furono tutti segnali dimostrativi che, sotto l'aspetto di una società che si era definita a lungo comunista, continuavano ad agire anche ideologie considerate scomparse. Certo è significativo che tra i primi atti della nuova Russia vi sia stato quello di rimettere il vecchio nome di San Pietroburgo alla città di Leningrado: un tentativo di riallacciare la storia del nuovo Stato a quella della vecchia madre Russia prerivoluzionaria. GORBACIOV E LA CADUTA DEL MITO SOVIETICOPerché è avvenuto in pochi anni in URSS e in pochi mesi nei Paesi dell'Est europeo un cambiamento politico impensabile, e imprevisto dagli occidentali, sino all'inizio degli anni Ottanta? Forse non si conoscono ancora abbastanza le vicende di quasi mezzo secolo di vita delle cosiddette democrazie popolari. Certo l'Occidente ha vissuto i processi allora in corso con atteggiamento di simpatia verso i rinnovatori, ma spesso non è stato facile comprendere il senso di quello che è avvenuto. E' realistico vedere in Gorbaciov un modernizzatore dell'URSS, consapevole del fatto che negli anni Novanta l'adeguamento dell'economia sovietica doveva ormai essere condotto con criteri opposti a quelli della modernizzazione staliniana: stimolando la crescita della società civile anziché comprimendola, attirando capitali e investimenti dall'Occidente anziché isolando l'URSS, alleggerendo il peso del partito sulla società anziché accentuandolo, eliminando le occasioni di attrito con l'Occidente anziché moltiplicandole, catturando la simpatia dell'opinione pubblica europea anziché incutendo in essa timore. Se questa era la prospettiva politica di Gorbaciov si può pensare che le intenzioni gli siano sfuggite di mano. Il suo, in realtà, era un progetto di riforma graduale nella continuità dell'URSS. Si trattava, d'altra parte, di un'impresa assai difficile: modificare un complesso sistema economico e politico in un Paese privo di tradizioni parlamentari, e dove il dissenso e il libero confronto di opinioni era stato sempre represso, non era certo agevole.Si tenga presente che il processo di costruzione della società moderna, così come venne configurandosi in Occidente a partire dalle Rivoluzioni Americana e Francese, fu segnato dall'affermazione della borghesia e dal progressivo passaggio - quantomeno teorico - dalla condizione di "suddito" a quella di "cittadino", contestualmente allo stabilizzarsi del sistema produttivo capitalistico, della democrazia parlamentare e del diritto borghesi. Invece nel "blocco sovietico" dalle origini al crollo, la società civile aveva per così dire "saltato" tale passaggio, dal momento che il tentativo rivoluzionario bolscevico fu quello di passare direttamente dall'assetto feudale zarista all'avvento, per mezzo della dittatura del proletariato, di un'umanità pienamente, e non solo formalmente, libera (poiché detentrice dei mezzi di produzione e dei meccanismi di una redistribuzione equa della ricchezza socialmente prodotta). Saltando precisamente la mediazione delle istituzioni borghesi. Ma una volta evocati e suscitati la voce e gli interessi delle classi oppresse, proprio gli oppressi, per mezzo di una dittatura sul proletariato e di un "capitalismo di Stato", furono ben presto ridotti a "massa anonima". Il passaggio fu dunque, in questo caso, quello da suddito a massa anonima, deresponsabilizzata. E con tale limite dovette fare i conti in URSS anche il tentativo riformatore di fine anni Ottanta. Il quarantennio seguito alla Seconda guerra mondiale ha visto così l'ascesa e la caduta di un modello sociale e di un mito politico, legati (a torto) alla figura "eroica" di Stalin e (a ragione) alla prospettiva comunista di eguaglianza da cui, pur sempre, era germinata la rivoluzione d'Ottobre; e Gorbaciov è stato ammirato per aver promosso o preannunciato esattamente l'opposto di ciò che per mezzo secolo aveva caratterizzato l'esperimento sovietico. Ma il crollo del 1989-91, per le stesse ragioni sin qui accennate, portò con sé anche la mortificazione di speranze e aspettative ben più ampie, legate a una visione complessiva della politica e della vita; la caduta del modello sovietico ha quindi messo in crisi l'idea stessa di comunismo (troppo frettolosamente identificata con quella di "socialismo reale"), sconvolgendo anche in altri Paesi i partiti comunisti d'ispirazione sovietica, ma anche quelli socialisti o comunque di tutte quelle formazioni che si richiamavano al marxismo. Tuttavia, la storia non si ferma, in particolare quando persistono e si aggravano gli squilibri economici e le forme di ingiustizia sociale. Il grande scrittore brasiliano Jorge Amado, scomparso nell'agosto del 2001, a proposito del crollo sovietico scrisse parole illuminanti e per certi versi profetiche, che riguardano da vicino anche il nostro discorso sui due miti (l'America e la Russia) a confronto. "Apparentemente - disse Amado in un'intervista del 1993 - ha vinto la democrazia. Il capitalismo, però, continua a essere lo stesso regime miserabile, limitato, basato solo sui profitti di pochi, sul desiderio di potere che porta con sé i germi della guerra e del razzismo. Il capitalismo ha avuto un solo vantaggio sull'ottusità comunista: quello di essersi dato delle regole politiche democratiche. Il "socialismo reale", invece, ha tradito i suoi ideali e in un certo momento storico è diventato un'ideologia perversa, fino a trasformarsi in dittatura. Ma sono queste dittature che sono crollate nell'89, non l'idea socialista e la speranza che esista un mondo più giusto, dove tutti gli esseri umani abbiano finalmente cittadinanza e dove la parola solidarietà non sia nemica". LA RUSSIA DA ELTSIN A PUTINBoris Eltsin si trovò, nel 1994, a dover affrontare una delle fasi più acute della rivolta cecena, alla quale rispose con una fermezza e una determinazione feroce, tali che lo resero inviso anche agli occhi di parte dell'Occidente. Nel 1996 i Russi presero infine atto della sconfitta, costata loro migliaia di vittime (e 100.000 morti ceceni), e si ritirarono da Grozny. D'altra parte, la perdurante crisi economica interna, con un netto deterioramento degli standard di vita della popolazione, quella finanziaria del 1998 (legata alla caduta disastrosa dei mercati asiatici e culminata nel default del debito governativo russo), le accuse di corruzione lanciate al suo entourage - anche familiare - e le sue difficili condizioni di salute (che gli impedirono, spesso per lunghi periodi, di occuparsi personalmente del Paese) obbligarono Eltsin a rassegnare le dimissioni a favore del suo delfino, già primo ministro (nonché ex dirigente del KGB), Vladimir Putin. Questi, dopo un periodo di "reggenza" ad interim, vinse le elezioni presidenziali del marzo 2000. Sotto il "piccolo zar" Putin l'economia russa, nel periodo 1999-2002, riprese a crescere con un tasso medio del 6% annuale, supportata nelle esportazioni da un più alto prezzo del petrolio e dal rublo debole. Sul piano internazionale, Putin appoggiò gli USA di George W. Bush all'indomani dei fatti dell'11 settembre 2001 nella cosiddetta lotta al terrorismo internazionale e, nel 2002, si arrivò all'adesione formale (e storica) della Russia alla NATO (sebbene l'anno successivo Putin si sarebbe opposto alla guerra in Iraq scatenata dagli anglo-americani). Fu ancora Putin, invece, a scatenare, sul finire del 1999, il secondo conflitto in Cecenia (tutt'ora in corso), con il pretesto che i Ceceni appoggiassero gli indipendentisti islamici in Dagestan, altra Repubblica strategica ancora sotto il controllo di Mosca. Da allora si susseguirono una serie interminabile di stragi da parte dell'esercito e dell'aviazione russi e di attentati terroristici da parte di commandi ceceni (come quelli tristemente noti del teatro Dubrovka di Mosca dell'ottobre 2002 e della scuola elementare di Beslan, nell'Ossezia del Nord, del settembre 2004). Vladimir Putin fu confermato nella sua carica di Capo dello Stato russo nelle elezioni presidenziali del marzo 2004. LE DEMOCRAZIE POPOLARI E LA SOVRANITÀ LIMITATAGiunta nella primavera 1945 a controllare militarmente tutta l'Europa centro-orientale e parte di quella balcanica, l'Urss sostenne ovunque l'insediamento di Governi comprendenti, in posizione di rilievo, i partiti Comunisti. Nella Germania occupata dai Sovietici e in Cecoslovacchia questi avevano un effettivo seguito di massa (in Cecoslovacchia il Partito comunista era il più forte); altrove (Polonia, Ungheria, Bulgaria, Romania) erano formazioni nettamente minoritarie rispetto ai Partiti contadini e socialdemocratici. Nel clima di contrapposizione tra potenze occidentali e Urss, Stalin favorì l'instaurazione di regimi politici modellati su quello sovietico, per costituire una cintura di Stati satelliti come antemurale al territorio dell'Urss. Solo la Jugoslavia e l'Albania si erano liberate da sole, attraverso una guerra partigiana, che in Jugoslavia era stata anche feroce guerra civile e sordo conflitto etnico. L'Albania, piccola, arretrata e periferica, è rimasta ai margini della cronaca politica, e ha attirato l'attenzione sorpresa degli osservatori soprattutto per la scelta di schierarsi, nel grande conflitto ideologico degli anni Sessanta tra Urss e Cina, dalla parte della Cina, respingendo la destalinizzazione chrusceviana e proseguendo nell'isolamento, almeno sino agli anni Novanta, un esperimento di «socialismo in un solo Paese». La Jugoslavia ha svolto, invece, un ruolo internazionale certamente superiore al suo peso reale. La Lega dei comunisti jugoslavi aveva guidato la guerra di liberazione capeggiata da Tito, (pseudonimo di Josip Broz), leader indiscusso. Trasformatasi in partito unico, aveva rappresentato nell'immediato dopoguerra il più radicale e intransigente dei partiti legati all'Urss e riuniti nel Cominform (l'organismo costituito nel 1947 per coordinare i partiti comunisti sotto la rigida direzione di Stalin). L'estremismo jugoslavo in realtà disturbava la strategia internazionale del leader sovietico; e, più ancora, l'autonomia di decisione di Tito costituiva un esempio di «comunismo nazionale» che Stalin non intendeva tollerare per non vederne contagiati i partiti degli altri Paesi satellite. Il Partito comunista jugoslavo fu perciò clamorosamente espulso dal Cominform (1948), mentre falliva il tentativo dei filosovietici di rovesciare Tito. La Jugoslavia avviò così un esperimento nazional-comunista, sempre a partito unico, ma estraneo al blocco sovietico e perciò subito aiutato economicamente dall'Occidente. Solo nel 1955 Chruscev revocò la scomunica di Stalin; ma nel frattempo Tito si era già affermato come uno dei leader mondiali dei Paesi non allineati. Tito, rimasto al Governo sino alla morte (1980), impedì l'emergere di forze filosovietiche e centralizzatrici, e fermò i conflitti nazionali interni. Contro il modello della pianificazione centralizzata di ispirazione sovietica, la Jugoslavia ha adottato la formula dell'autogestione, cioè della decentralizzazione delle responsabilità della produzione, affidata ai dirigenti (pur sempre statali) delle singole aziende. L'autogestione (come idea, perché la sua applicazione jugoslava non è stata molto brillante) ha avuto qualche fortuna nella sinistra occidentale negli anni Settanta. In realtà, il carattere burocratico dell'autogestione jugoslava ha generato inefficienze e sprechi vistosi, un'inflazione a malapena controbilanciata dalla diffusione del lavoro nero e del secondo lavoro, tensioni nel mercato del lavoro allentate dalla libertà di emigrazione all'estero accortamente consentita dal Governo. Né il sistema ha impedito una crescita squilibrata tra le diverse Repubbliche della federazione, che ha riattizzato, e infine scatenato, la questione nazionale. Per tutti questi motivi, la Jugoslavia ha comunque seguito un cammino diverso da quello dei Paesi del blocco sovietico vero e proprio. Un blocco che in realtà riuniva Stati dalle storie diverse e dalle strutture economiche e sociali molto diverse, talvolta rivali di lunga data, accomunati soltanto, e casualmente, dalla subordinazione politica all'Urss. Questi Paesi (Germania Orientale - o Repubblica Democratica Tedesca -, Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria) sono stati approssimativamente e impropriamente accomunati sotto una quantità di definizioni generiche o imprecise: Paesi dell'Est (mentre di fatto sono Paesi dell'Europa centrale e balcanica), del «socialismo reale» (o «socialismo realizzato»: ed è una definizione che vale anche per l'Urss), «democrazie popolari», del Patto di Varsavia o del Comecon (dalla denominazione delle alleanze militari ed economiche che li hanno legati all'Urss e tra di loro), «blocco sovietico», «Paesi satelliti» (sottinteso: dell'Urss). Tutte denominazioni livellatrici delle differenze, anche molto profonde, esistenti tra loro e rispetto all'Unione Sovietica, della quale nonostante tutto non sono mai stati, come è stato argutamente osservato, riproduzioni in miniatura. Il loro principale tratto comune è stato lo sviluppo delle vicende politiche. Ovunque, fra il 1945 e il 1947-48, con l'aiuto sovietico i partiti comunisti abbatterono i Governi di coalizione, costringendo i Partiti socialdemocratici alla fusione, e instaurando, all'occorrenza con prove di forza (come il colpo di Stato a Praga nel febbraio 1948), regimi a partito unico, mentre i leader non comunisti venivano incarcerati o giustiziati. I capi comunisti saliti al potere in questo modo, pur fedelissimi all'Urss, intendevano tuttavia mantenere dei margini di autonomia rispetto alle direttive di Mosca. Presto perciò Stalin promosse l'epurazione, cioè la condanna a morte o la incarcerazione, dei «comunisti nazionali» e comunque dei dirigenti non controllabili (in Ungheria Rajk, in Bulgaria Kostov, in Cecoslovacchia, un po' più tardi, Slansky), sostituiti da altri rigidamente ossequenti alle direttive sovietiche, i cosiddetti «piccoli Stalin»: Gottwald in Cecoslovacchia, Bierut in Polonia, Rakosi in Ungheria, Ulbricht nella Germania Est, Gheorghiu-Dej in Romania. Se nella fase dei Governi di coalizione erano state promosse riforme democratiche rispondenti ai desideri di gran parte della popolazione (nazionalizzazioni delle grandi industrie e divisione delle terre tra i contadini), i «piccoli Stalin», imitando il modello sovietico, statalizzarono non solo tutte le industrie, ma anche il piccolo commercio, promossero la collettivizzazione dell'agricoltura, piani quinquennali ambiziosi per favorire un aumento della produzione industriale, o un'industrializzazione dove l'economia era prevalentemente agricola, a tappe forzate. Morto Stalin, il malcontento esplose a Berlino Est in un'aperta rivolta operaia, soffocata dall'esercito sovietico (1953). I successori di Stalin, fautori di un nuovo corso nell'Urss (Malenkov, Chruscev), ne sostennero l'estensione ai Paesi satelliti, e incoraggiarono (ma non sempre ottennero) la sostituzione dei «piccoli Stalin» con direzioni collegiali che facessero posto a dirigenti liberalizzatori (Imre Nagy in Ungheria, ad esempio). Questo non impedì che nel 1956 lo scontento popolare, ma anche di larga parte degli stessi dirigenti comunisti, si manifestasse in Polonia e in Ungheria. In Polonia la pressione popolare convinse i Sovietici ad accettare l'ascesa al potere di Gomulka, considerato un liberalizzatore e un «comunista nazionale». In Ungheria, invece, mentre i leader stalinisti ostacolavano tenacemente l'ascesa al governo di Nagy, l'opposizione al regime assumeva toni radicali. Nagy giunse a ventilare l'uscita dell'Ungheria dal blocco sovietico; ma lo scoppio a Budapest di un'insurrezione popolare diretta contro la polizia politica e lo stesso partito Comunista, diede il pretesto per l'intervento dell'Armata rossa, che domò nel sangue la rivolta (ottobre 1956). Nagy, catturato a tradimento, fu giustiziato qualche tempo dopo. Ma il nuovo leader Kadar, in cambio della fedeltà all'Urss, assicurò una cautissima liberalizzazione politica e una progressiva introduzione di elementi di economia di mercato, che hanno fatto dell'Ungheria un terreno di sperimentazione rispetto agli altri Paesi dell'Est (il cosiddetto «socialismo del gulasch», per indicare la promozione di un po' più di benessere materiale). Il rifiuto dell'Urss di allentare la dipendenza dei Paesi dell'Est trovò conferma nel 1968 in Cecoslovacchia. Alexander Dubcek, divenuto segretario del Partito comunista ceco come espressione dei rinnovatori, sostenne un programma di democratizzazione del dibattito all'interno del partito, di riforme economiche, e di rivendicazione dell'autonomia di decisione dall'Urss («via nazionale al socialismo»). Questo tentativo di prudente distacco dal modello sovietico (ma non dal sistema a partito unico e a economia statalizzata), definito di «socialismo dal volto umano», fu anch'esso stroncato nell'agosto 1968 dall'intervento (fortunatamente quasi incruento) delle forze sovietiche e degli altri Paesi del Patto di Varsavia. La sola forma di dissidenza (per altro di facciata e mai messa alla prova) che l'Urss tollerò fu quella della Romania di Nicolae Ceausescu, che dalla metà degli anni Sessanta coniugò autoritarismo interno di stampo schiettamente stalinista e spregiudicatezza nella politica estera per guadagnare aiuti economici e simpatia in Occidente. IL CROLLO DEL MURO DI BERLINOIl muro non separava solo gli abitanti di una città, Berlino. Della città, aveva detto la scrittrice Christa Wolf, divideva anche il cielo; e voleva dire che erano diverse, da una parte e dall'altra del muro, le vite e le ragioni di vivere. Da una parte il diritto e il coraggio di guardare in alto, dall'altra l'abitudine a guardare in basso, a «muoversi e brucare come le greggi», rinunciando «a vedere e a capire». Il muro divideva la Germania, dal 1961: quella Occidentale, integrata nella Comunità Europea e membro del Patto Atlantico, protetta dalla grande alleanza militare; quella Orientale, per decenni roccaforte del comunismo più intransigente, presidiata dalle truppe sovietiche. 340.000 uomini perfettamente addestrati e armati. Entrambe avamposti dei due blocchi si erano fronteggiate per decenni sotto la minaccia di una guerra atomica: sui loro territori erano le basi degli ordigni nucleari dell'una e dell'altra parte. In caso di guerra da basi tedesche dovevano partire missili per colpire città tedesche. Così i problemi di sicurezza per ciascuno dei due grandi blocchi facevano degli abitanti dello Stato della Germania Orientale dei prigionieri in patria e di quelli della Germania Occidentale, economicamente forti, gli inquieti cittadini di una «patria mutilata». La caduta del muro era stata preparata negli anni dall'erosione prodotta da una situazione insostenibile, cominciata ad apparire anacronistica dopo l'avvento di Gorbaciov in Unione Sovietica e l'avvio del processo di distensione tra i blocchi. Ma chi poteva esser sicuro che non ci sarebbe stato un ritorno indietro verso nuove tensioni e che l'Unione Sovietica non avrebbe difeso con i propri soldati l'ultima frontiera di un impero che era in crisi? Il muro rimaneva invalicabile dopo il crollo dei regimi comunisti in Ungheria e in Polonia, tra la primavera e l'estate del 1989. Ma l'Ungheria aveva aperto le frontiere con l'Austria e attraverso l'Ungheria, che ancora faceva parte del blocco sovietico, i Tedeschi dell'Est fuggivano verso Occidente. Era un esodo di massa: mille, duemila, tremila fuggiaschi al giorno, in gran parte giovani, in prevalenza tecnici ed operai specializzati, quelli di cui la Repubblica Democratica, cioè lo Stato della Germania Orientale, aveva più bisogno. Fuggivano mentre si succedevano, quotidiane, le manifestazioni di massa nelle città della Germania comunista: erano cominciate a Lipsia, partendo dalla cattedrale di San Nicola, incoraggiate dai pastori protestanti ed erano diventate abituali a Dresda, a Erfurt, ovunque. Dal mese di agosto culminavano, ogni lunedì, in una grande sfilata al tramonto, con le candele accese, dinanzi ai municipi. Decine di migliaia di persone in silenzio e nell'ordine assoluto. Si augurava buona fortuna a coloro che riuscivano a raggiungere l'Occidente, si chiedevano al Governo, che rimaneva intransigente nel comunismo più ortodosso, riforme radicali e la libertà «di uscire dalla prigione». Il Governo cominciò ad esplorare le vie di qualche concessione nel mese di ottobre. Sperava di fermare l'emorragia delle fughe. Ma nessuna riforma, nessuna promessa poteva bastare finché rimaneva, invalicabile, il muro di Berlino a ricordare che, per il potere, la pretesa di uscire dalla Germania comunista era illegale: significava il rifiuto del regime e di una ideologia. Il 4 novembre trecentomila manifestanti, a Berlino, corsero il rischio di subire la repressione sanguinosa della polizia e dell'esercito. Solo all'ultimo momento l'ordine di sparare fu annullato. Da quel momento il mondo seguì la vicenda del muro sotto l'incubo di una tragedia imminente. Una tragedia nel cuore dell'Europa, forse la fine del «nuovo corso» che, ispirato dal leader sovietico Gorbaciov, avvicinava l'Europa dell'Est a quella dell'Ovest. Che cosa indusse il Governo alla scelta della resa di fronte alle masse non si sa con sicurezza. Da Mosca Gorbaciov avvertiva che non avrebbe accettato la repressione violenta, le truppe sovietiche, accampate nelle foreste, non si sarebbero mosse. Rivelazioni frammentarie accreditano la versione di una rivolta dei capi dell'esercito e della polizia. Nella notte tra l'8 e il 9 novembre essi posero all'esitante Krenz un ultimatum: o il muro veniva abbattuto o essi sarebbero passati dalla parte dei dimostranti. Ormai, in silenzio, centinaia di migliaia di persone erano in attesa, da una parte e dall'altra. Il varco, all'altezza della porta di Brandeburgo, nel centro della città, fu aperto il 9 novembre, al tramonto, e, mentre migliaia di berlinesi dell'Est si riversavano nella parte occidentale della città, in Europa e in America fu festa. Per la Germania tutta, nelle città e nei villaggi, quella del 9 novembre 1989 fu la «notte del secolo». Finiva un'epoca. Le televisioni di tutto il mondo hanno diffuso le immagini di quella notte storica: i volti in lacrime, le famiglie intere in marcia lungo i viali che si dipartono dalla porta di Brandeburgo verso i grandi magazzini della Berlino occidentale rimasti aperti per l'occasione e i giovani, chi munito di torce, chi agitando bandiere, che andavano incontro di corsa ad altri giovani, e gli abbracci, il guardarsi, il ritrovarsi tra parenti, da trent'anni separati, il toccarsi come ad assicurarsi che non si trattava di un sogno, e le luci, i canti, le danze. Tutta la notte, e poi il giorno seguente, senza interruzione, e ancora per altre notti e altri giorni. Un instancabile andirivieni, dall'Est verso l'Ovest per fare acquisti, per aggirarsi nella Berlino occidentale luminosa ed opulenta e poi tornare nella Berlino Est a riposare poche ore, a raccontare nelle birrerie dall'altra parte della città come si trattasse di un continente lontano e sconosciuto: come se non lo avessero già conosciuto attraverso la televisione occidentale che potevano guardare già da anni. Nella Germania Est, come in tutti i Paesi dell'Europa occidentale, il regime comunista aveva come indebolito la capacità di percezione della gente; le immagini che venivano dall'Occidente non davano la sicurezza di riprodurre la realtà: erano poco attendibili come le parole e i dogmi del regime. Nelle notti e nei giorni che seguirono la caduta del muro gli abitanti di Berlino Est vissero un'avventura straordinaria: quella di riconquistare la possibilità di credere ai propri occhi, di potersi fidare delle immagini e delle parole. Erano stati come prigionieri, costretti a credere anche a ciò che appariva impossibile, dal 1933, da quando Hitler aveva assunto il potere: anche i vecchi di settanta anni non ricordavano niente della pratica della libertà. Nella Germania Est si era passati direttamente dal nazismo allo stalinismo: e, dopo Stalin, il regime era stato il più duro del mondo comunista. Fu uno shock per i Tedeschi dell'Est come per quelli dell'Ovest. Quelli dell'Ovest impararono a riconoscere dalla povertà degli indumenti e dall'ansia di acquistare frutta, verdura, stoffe, pile elettriche i loro compatrioti dell'Est. Quelli dell'Est, festosi ed euforici quand'erano in gruppo, isolati erano invece come smarriti. Si esprimevano con prudenza, manifestavano incomprensibili paure. Ed è ancora Christa Wolf che, piangendo, racconta ai giornalisti l'esperienza terribile da lei fatta, in quei giorni, insieme con gli intellettuali che avevano guidato la rivolta. Andava nelle strade, partecipava alle assemblee che si succedevano nella Berlino Est ed esortava la gente ad esprimersi liberamente: «Adesso potete parlare dire che cosa pensate, dite quel che volete che si faccia». Ma la gente, quella gente che aveva rischiato per settimane e mesi la repressione violenta, esitava: «Era in festa ma non voleva pensare». Non aveva paura, c'era qualcosa di peggio: «Nessuno - dicevano nelle assemblee, ed erano più spesso le donne a dirlo -, ci ha insegnato come pensare. Come possiamo pensare se non ci viene detto in che direzione?» Le devastazioni di quasi sessanta anni di dittature. Il giorno dopo la caduta del muro il celebre violoncellista Rostopovic, esule in Francia dalla Russia, raggiunse in aereo Berlino e stette per ore a suonare ai piedi del muro, dalla parte orientale. Gli si raccoglievano intorno folle di ragazzi e di donne: «Le folle - racconta il maestro - dei suonatori ambulanti, ma com'ero felice». Erano felici tutti i Tedeschi, dell'una e dell'altra parte: quelli dell'Occidente perché si avvicinava l'unità del loro Paese, e quelli dell'Est perché avevano conquistato, con una rivoluzione incruenta, la libertà. La ricchezza, la forza della moneta della Germania Occidentale e il richiamo della Comunità europea facevano dei Tedeschi dell'Est la sola gente del blocco comunista che potesse affrontare senza la paura le incognite del futuro e i rischi della libertà. Sono sorti nuovi problemi, lo «stato sociale» della Germania Orientale aveva abituato i cittadini a un minimo di sicurezza, almeno per il lavoro, la casa, la vecchiaia sia pure nello squallore dell'indigenza. Vantando quel minimo di sicurezza, il regime comunista aveva tentato l'ultima, inutile resistenza. Il muro, che era il simbolo e lo strumento della «guerra fredda», è caduto per tutte le genti, non solo per i Tedeschi. LA FINE DEL «SOCIALISMO REALE»Non ultima tra le contraddizioni dell'Europa dell'Est era il fatto di essere nonostante tutto relativamente più prospera dell'Urss, dalla quale dipendeva militarmente e politicamente, e nel contempo bloccata nelle sue potenzialità di sviluppo dai legami economici obbligati con l'Urss. Inoltre la mancanza di legittimazione interna dei regimi (nessuno dei quali portato al potere da elezioni libere) rendeva limitato lo spazio di manovra delle dirigenze locali, strette tra le spinte riformatrici interne e il controllo degli alleati sovietici. La crisi di fondo dei Paesi del socialismo reale cominciò a manifestarsi dove una combinazione di fattori (antico e radicato sentimento antirusso, forza della Chiesa cattolica, ricchezza di tradizioni culturali, complessità del tessuto sociale) rendeva il regime particolarmente vulnerabile: in Polonia. Nel 1970 gli scioperi operai e le agitazioni studentesche costrinsero al ritiro il leader, Gomulka, che un quindicennio prima aveva rappresentato l'apertura rispetto ai dirigenti stalinisti. Le riforme economiche e l'avvio della liberalizzazione politica attuati dal successore Gierek, ma sempre in misura insufficiente, non fecero che approfondire le contraddizioni. Nel 1980 una nuova ondata di agitazioni operaie, partita da Danzica e diretta da un sindacato autonomamente costituitosi, Solidarnosc (= «Solidarietà»), capeggiato dall'operaio elettricista Lech Walesa, e sostenuta da una vivace mobilitazione intellettuale e studentesca e dall'influentissima Chiesa cattolica (dal 1978 guidata da un papa polacco), portò al crollo di fatto del regime. Per evitare un intervento sovietico e, al tempo stesso, il collasso del Paese e il ritorno in forze della vecchia dirigenza, l'esercito attuò un colpo di Stato incruento (1982), che non riuscì tuttavia a distruggere il movimento politico e sindacale di opposizione. La svolta in politica estera attuata da Gorbaciov ha propiziato l'uscita di scena dei militari e il passaggio dei poteri a un Parlamento liberamente eletto, dove Solidarnosc ha ottenuto una schiacciante maggioranza (1989). Nel nuovo Governo, dove erano presenti tutte le formazioni politiche compreso il Partito comunista (Poup), per la prima volta dalla fine della guerra il presidente del consiglio è stato un non comunista, il cattolico Tadeus Mazowiecki. Alle elezioni presidenziali del dicembre 1990, indette per sostituire il generale Jaruzelski, si presentò il leader storico di Solidarnosc, Lech Walesa, che venne trionfalmente eletto. La formazione di un governo apparve tuttavia piuttosto difficile; il problema della Polonia come quello di tutti gli Stati ex comunisti era economico e non poteva non suscitare tensioni sociali ed anche contestazioni; di cui fu oggetto lo stesso Walesa. Contemporaneamente, seguendo un poco le vicende polacche, anche gli altri Paesi dell'Est si sono via via staccati dal modello sovietico. L'Ungheria ha seguito una strada di graduale trasformazione; in questa nazione che era stata drammaticamente colpita dalla repressione del 1956 vi era già stata l'iniziativa di Janos Kadar, leader del Partito comunista dal 1956 al 1988, che aveva avviato una cauta autoriforma del partito stesso. Le possibilità di cambiamento permesse dalla politica di Gorbaciov avevano accelerato le trasformazioni istituzionali senza causare gravi traumi; nel 1990 vi erano state libere elezioni vinte da formazioni di centro sinistra che avevano dato vita a un Governo di coalizione. Questo si era affrettato a chiedere l'allontanamento delle truppe sovietiche dal territorio ungherese e nel giugno del 1991 l'ultimo soldato sovietico aveva lasciato il Paese ponendo fine alla presenza dell'Armata Rossa dopo 40 anni di controllo. Il fatto che già con Kadar il Partito comunista ungherese si fosse rinnovato, le difficoltà economiche attraversate dal Paese, le disillusioni sopravvenute alle speranze di ottenere rapidamente il benessere promesso dalle società dell'Occidente possono spiegare un fatto apparentemente anomalo, ma presente anche in altri Stati dell'Est: le elezioni del 1994 hanno dato la maggioranza assoluta in parlamento al Partito socialista che altri non è che il vecchio Partito comunista. Nonostante tutto, nel 1998 la maggioranza passò a una coalizione della quale facevano parte forze liberali e di piccoli proprietari terrieri L'evoluzione polacca e ungherese era seguita con attenzione dagli osservatori occidentali: i tempi e i modi della trasformazione politica di quei Paesi erano imprevedibili, ma il cambiamento risultava evidentemente in atto. Negli altri Paesi dell'Est la solidità del regime non sembrava invece scalfita da movimenti di opposizione largamente indeboliti dall'esilio di molti dissidenti (in Cecoslovacchia buona parte dei collaboratori di Dubcek e degli intellettuali del «nuovo corso» avevano abbandonato il Paese). In Germania Est sembrava persino che il relativo benessere (sempre rispetto agli altri Paesi del blocco sovietico) assicurato alla popolazione rendesse il regime particolarmente solido. Ma la possibilità, facilitata dalla politica di buon vicinato inaugurata dal Governo tedesco occidentale all'inizio degli anni Settanta, di confrontare le condizioni di vita con quelle della Germania Federale, l'esodo ininterrotto di cittadini tedesco-orientali attratti dalle possibilità di lavoro all'Ovest, il crescente dissenso degli intellettuali e di organizzazioni politiche e religiose sino ad allora fiancheggiatrici hanno gradualmente eroso la stabilità del Governo. La decisione di Gorbaciov di abbandonare al loro destino i gruppi dirigenti dei Paesi dell'Est ha portato così al crollo rapidissimo del regime, e all'abbattimento del simbolo della divisione dell'Europa, prima ancora che della Germania, il muro di Berlino, eretto nel 1961. La revoca dalla protezione sovietica ha messo in risalto la forza della spinta alla riunificazione dei due Stati tedeschi, sotto l'inevitabile egida della più ricca e forte Repubblica Federale: alle elezioni tenute nella primavera 1990 la maggioranza dei voti è andata, contro ogni previsione, alla coalizione democristiana fautrice di una riunificazione rapida. L'unificazione delle due Germanie ha avuto una marcia più rapida del previsto: nel maggio del 1990 è stato approvato l'uso di un unico marco tra i due Paesi e nel giugno dello stesso anno con un voto storico i due Parlamenti tedeschi hanno dichiarato di accettare l'Oder-Neisse come confine con la Polonia. In questo modo la Germania ha mostrato di voler definitivamente chiudere una questione delicata, aperta dall'espansionismo hitleriano verso Est; il 12 settembre era possibile così firmare a Mosca il trattato che poneva fine alle conseguenze della seconda guerra mondiale. La Germania tornava ad essere un'unica nazione con l'approvazione delle potenze uscite vincitrici dalla guerra: Usa, Urss, Gran Bretagna e Francia. Il 20 giugno del 1991 è stato votato il trasferimento della capitale da Bonn a Berlino, avvenuto nel 1999. Tutto risolto dunque? Non tutto: anche in Germania la rapida unificazione ha lasciato problemi di non semplice soluzione, la disoccupazione prima di tutto: una statistica del 1994 faceva salire i disoccupati a più di 4 milioni, la cifra più alta dal dopoguerra. Inoltre i Tedeschi dell'Est non trovarono nell'unificazione gli immediati vantaggi in cui speravano, ma soprattutto sorsero inquietanti tensioni sociali alimentate dalla presenza di gruppi neonazisti particolarmente attivi nello sfruttare il malcontento sociale ed economico. Tra l'agosto e il novembre del 1992 violente azioni criminali che si verificarono in diversi punti della Germania contro gli immigrati e ebrei richiamarono tristi ricordi di un passato che si pensava fosse cancellato per sempre. Il Bundestag reagì con fermezza: nel 1994 vennero approvate dure leggi anticrimine contro gli attentati xenofobi e la delinquenza dei neonazisti. Anche in Germania si assistette al fenomeno di una ripresa del vecchio partito comunista: nelle elezioni nei Länder del 1994 l'ex partito comunista ottenne significativi successi. La situazione continuò a peggiorare. Nel 1997 i disoccupati arrivarono a oltre 4.800.000 (il 10% della popolazione attiva), con punte massime nelle regioni dell'Est. Tutto ciò, insieme al malcontento per le manovre di tagli finanziari del Governo, portò alla caduta dei consensi per Helmut Kohl e per il suo partito che, nel 1998, si videro sconfitti dal Partito socialdemocratico di Gerhard Schröder. Nello stesso anno si insediò il nuovo Governo rosso-verde, capeggiato da Schröder e composto, tra gli altri, dal leader dei Verdi Joschka Fischer. Anche la coalizione socialdemocratico-verde si trovò ben presto costretta a ridimensionare i numeri del consenso, che fermarono la loro corsa verso il basso solo davanti allo scandalo sui finanziamenti illeciti ai partiti che vide come protagonisti i vecchi rappresentanti della CDU, il partito dell'ex cancelliere Kohl. Intanto anche il livello di xenofobia aumentò vertiginosamente, arrivando a incrementi vicini al 40%. In tono minore è avvenuto il ripiegamento del regime bulgaro; qui il crollo del regime comunista (1989) non si è accompagnato a cambiamenti drammatici. Nelle libere elezioni tenute agli inizi del 1990 ha potuto presentarsi ed ottenere la maggioranza l'ex partito comunista; nelle successive elezioni del luglio 1992, dopo che la Bulgaria si è data una nuova Costituzione che l'ha trasformata in Repubblica parlamentare, il Partito comunista pur perdendo la maggioranza assoluta è rimasto una forza politica determinante per la formazione di un Governo. La successiva forte crisi economico-finanziaria (con tassi di disoccupazione e di inflazione pari al 20 e 120%), però, fece sì che la maggior parte dei consensi si spostassero verso aree politiche più conservatrici. Nonostante gli sforzi per farvi fronte (riconoscimento, nel 1999, della lingua macedone come entità idiomatica autonoma e non come semplice variante della lingua bulgara), in Bulgaria sussistono problemi di convivenza etnica rappresentati dalla presenza di una consistente minoranza musulmana e da una forte immigrazione turca. In Cecoslovacchia il vecchio gruppo dirigente comunista filosovietico fu sostituito da uomini politici legati alla precedente esperienza di Dubcek e dai leader della protesta intellettuale e studentesca. Proprio un intellettuale, Vaclav Havel, venne eletto presidente della Repubblica nel 1989 e riconfermato nel 1990. Iniziò da questo momento un avvicinamento della Cecoslovacchia al mondo occidentale, sottolineata dalla richiesta dello stesso presidente Havel che durante la visita del presidente americano Bush nel Paese aveva annunciato l'intenzione di aderire alla Nato. Ma il problema più grave del Paese era rappresentato dalla contrapposizione etnica e storica delle due regioni, la Boemia-Moravia e la Slovacchia. Dal primo gennaio 1993, dopo tentativi di tenere assieme le due aree introducendo una costituzione federativa, la spaccatura dello Stato cecoslovacco fu decisa con la formazione di due nuovi Stati, la Repubblica Ceca e la Slovacchia. Assai più drammatiche sono state le fasi che hanno accompagnato il crollo del regime comunista di Ceaucescu in Romania. Qui il regime era rimasto impermeabile alle caute liberalizzazioni e ai miglioramenti del livello di vita degli altri Paesi. Iniziata nella regione abitata dalla minoranza ungherese, la protesta si era trasformata nella capitale Bucarest in una sanguinosa insurrezione popolare sostenuta dall'esercito e da una parte degli stessi dirigenti e non sgradita all'Urss. Ceaucescu e la moglie vennero sommariamente giustiziati e il potere fu assunto da un Governo provvisorio alle prese con forti difficoltà economiche e sociali. Queste esplosero nel corso del 1990 e dell'anno successivo e raggiunsero momenti di forte drammaticità come quando i minatori invasero Bucarest e si scontrarono con la polizia (settembre 1991). Anche gli studenti manifestarono contro il Governo che avrebbe tradito la rivoluzione anti Ceaucescu, e Timisoara, il luogo di origine della protesta studentesca, divenne uno dei simboli del nuovo corso dei Paesi dell'Est. La maggioranza relativa in Parlamento fu ottenuta nelle elezioni del dicembre 1992 dai rappresentanti dell'ex Partito comunista che diedero vita al Fronte democratico di salvezza nazionale. Anche in questo caso le speranze della popolazione vennero disattese dalle nuove amministrazioni che, pochi anni dopo (1996), dovettero cedere il posto a coalizioni di centro-destra. Anche il presidente della Repubblica, Ion Iliescu, venne sostituito dall'ex rettore dell'Università di Bucarest Emil Costantinescu. La situazione non migliorò e, dopo aver toccato un tasso di inflazione del 50%, anche il nuovo Governo, già più volte rimaneggiato, fu pesantemente battuto nel 2000 dal Partito della democrazia sociale (nuova denominazione del Fronte democratico di salvezza nazionale). Presidente della Repubblica ritornò Ion Iliescu. L'Albania rappresenta un caso atipico nel panorama degli Stati del cosiddetto socialismo reale. Il Paese, al tempo della contesa tra Urss e Cina, si era schierato con quest'ultima e da allora, uscita dal Patto di Varsavia (1968), era vissuta nell'isolamento quasi completo. Le difficoltà dell'economia albanese fortemente legata ad attività agricole, di allevamento e poco industrializzata vennero rivelate improvvisamente nel 1990, quando il Governo fu costretto ad ammettere il multipartitismo sotto la spinta della protesta popolare; ancor più drammatica si rivelò la situazione nel 1991 quando decine di migliaia di cittadini albanesi fuggirono dal Paese verso l'Italia cui si sentivano legati dalla vicinanza geografica e dalle passate vicende storiche (l'Italia nel 1939 aveva annesso l'Albania). Le immagini degli Albanesi assiepati sulle navi che arrivavano nei porti italiani del Sud (Puglia) sono state tra i documenti più drammatici e significativi della crisi di un sistema politico che vedeva nei Paesi dell'Occidente un mondo capace di dare libertà e benessere. Le speranze di questi immigrati ben difficilmente avrebbero potuto realizzarsi; per la maggior parte di essi, infatti, il viaggio fu una disillusione rappresentata dalla scoperta degli aspetti meno piacevoli dell'Occidente: i campi profughi, i lavori sottopagati, lo sfruttamento. Le elezioni del 1992 videro la vittoria del Partito democratico che mandò all'opposizione il Partito socialista, erede del vecchio Partito del lavoro comunista. IL CASO JUGOSLAVOLa Jugoslavia, come si è già detto, rappresenta un caso a sé tra i Paesi dell'Europa balcanico-orientale. Aveva raggiunto la propria autonomia da Mosca già nel 1948 ed aveva saputo costruire un modello di comunismo, "dal volto umano" come si disse, capace di offrire un modello non privo di fascino anche in Occidente. La presenza di un personaggio carismatico come il maresciallo Tito e di una forza bene organizzata come la Lega dei comunisti era riuscita a controllare le tendenze centrifughe presenti nelle sei Repubbliche e nelle due regioni autonome che formavano lo Stato federativo. Le spinte autonomistiche erano alimentate da motivi etnici (la popolazione era composta da Serbi, Croati, Sloveni, Bosniaci, Italiani, Montenegrini, Albanesi), religiosi (vi sono cattolici, ortodossi e musulmani), ma soprattutto economici. Le due Repubbliche settentrionali di Slovenia e di Croazia possedevano un'industria ben sviluppata a differenza della Serbia che tuttavia aveva una situazione privilegiata dal punto di vista politico-militare. La morte di Tito prima e il crollo dei regimi comunisti dell'Est mise in evidenza le tensioni fino ad allora sopite; le prime manifestazioni si ebbero nel Kosovo, una delle due regioni autonome, dove la maggioranza albanese della popolazione sollevò il problema della rivendicazione autonomistica. Lo scontro divenne acuto con la sconfitta del Partito comunista nelle elezioni del 1990 e l'avvio di una politica autonomista in Croazia e Slovenia. Il conflitto, divenuto armato nel corso del 1991, fu ancor più incontrollato perché sul campo non si fronteggiavano solo le milizie croate, slovene e serbe; c'erano anche formazioni irregolari, i Cetnici, schierati con la Serbia ma di fatto autonomi, e gli Ustascia, croati, sostenitori della politica della destra. La Slovenia poté nel 1991 costituirsi in Stato sovrano senza pagare un prezzo di sangue troppo alto, cosa che non avvenne per la Croazia devastata dal conflitto. La Serbia, che non accettò mai la politica di indipendenza delle Repubbliche una volta federate perché interessata a mantenere l'egemonia politica in quella che era la Jugoslavia e a costruire la "Grande Serbia", si trovò di fronte alla dichiarazione di indipendenza anche di Macedonia (1991) e della Bosnia-Erzegovina (1992) con conseguente apertura di un altro conflitto, particolarmente sanguinoso, per riportare questo Stato sotto il suo controllo. La Serbia e il Montenegro decisero intanto di proclamare la Repubblica Federale Jugoslava (aprile 1992), cui però mancò il riconoscimento da parte della comunità internazionale. Inoltre i numerosi Serbi che abitavano in Croazia e Bosnia Erzegovina reclamarono la loro unione al nuovo Stato. Il 1995 vide intensificarsi lo sforzo della comunità internazionale per porre fine al conflitto in Bosnia-Erzegovina fra le diverse etnie (croata, serba e musulmana). Nel mese di giugno del 1995 la NATO e la UEO decisero l'invio di 10.000 uomini in appoggio ai Caschi Blu e il 17 giugno l'esercito bosniaco lanciò una controffensiva per rompere l'assedio di Sarajevo (in atto dal 1992). I Serbi, messi alle strette dall'intensificarsi della reazione bosniaca, accettarono l'avvio di un piano di spartizione etnica del territorio sotto il controllo dell'ONU, dal quale sarebbe dipesa la fine del conflitto. Il 21 novembre 1995 Serbia, Croazia e Bosnia, attraverso i leader delle tre etnie (Milosevic, Tujiman e Izetbegovic), stilarono un accordo (accordo di Dayton, negli Stati Uniti, il 21 novembre 1995) patrocinato da Bill Clinton e ratificato il 14 dicembre 1995 a Parigi, alla presenza dei capi di Governo delle principali potenze mondiali. Nel 1998 scoppiò un nuovo conflitto in Kosovo, regione abitata sia da Serbi sia da Albanesi. La comunità internazionale accusò i Serbi di perpetrare una vera e propria pulizia etnica, mentre furono migliaia i profughi che cercarono rifugio negli Stati confinanti, e in particolare in Macedonia e Albania. Nel mese di marzo del 1999, dopo mesi di pressioni, la Nato decise di intervenire militarmente nella zona, bombardando vaste zone della Serbia e del Montenegro. Dopo il ritiro da parte serba delle proprie milizie e l'entrata in Kosovo di truppe di controllo russe e della NATO, il 20 giugno cessarono i bombardamenti. Nel settembre 2000, nella Repubblica federale Jugoslava si tennero le elezioni presidenziali che contrapposero il vecchio leader Slobodan Milosevic al candidato del'Opposizione democratica serba (Dos) Vojislav Kostunica. Nonostante la vittoira di Kostunica con il 55% circa dei voti, Milosevic non volle riconoscere i risultati della consultazione elettorale, fissando un ballottaggio per il successivo 8 ottobre e spingendo la Corte costituzionale ad annullare le elezioni. La reazione popolare fu vastissima e il 6 ottobre la stessa Corte costituzionale riconobbe Kostunica come nuovo presidente. Pochi mesi dopo Milosevic venne arrestato e portato all'Aia per essere giudicato da un tribunale internazionale per crimini contro l'umanità. Rai StoriaMinistero degli esteri italianoLa Farnesina - Viaggiare sicuriU.S. Department of StateU. K. GovernDocumenti SlideDocumenti YumpuEarth Quake Live - TerremotiCnt Rm Ingv Centro Nazionale TerremotiMinistero della SaluteRai ScienzeRai CulturaRai EducationalLe ScienzeDiscovery ItaliaFocusYouTubeMuseo GalileoRai ScuolaYouMath MatematicaRai TecheTecnologia LiberoMuseo della ScienzaMinistero dell'Ambiente e della tutela del Territorio e del Mare-^
|
|
|
Ai sensi dell'art. 5 della legge 22 aprile 1941 n. 633 sulla protezione del diritto d'autore, i testi degli atti ufficiali dello Stato e delle amministrazioni pubbliche, italiane o straniere, non sono coperti da diritti d'autore. Il copyright, ove indicato, si riferisce all'elaborazione e alla forma di presentazione dei testi stessi. L'inserimento di dati personali, commerciali, collegamenti (link) a domini o pagine web personali, nel contesto delle Yellow Pages Trapaninfo.it (TpsGuide), deve essere liberamente richiesto dai rispettivi proprietari. In questa pagina, oltre ai link autorizzati, vengono inseriti solo gli indirizzi dei siti, recensiti dal WebMaster, dei quali i proprietari non hanno richiesto l'inserimento in trapaninfo.it. Il WebMaster, in osservanza delle leggi inerenti i diritti d'autore e le norme che regolano la proprietà industriale ed intellettuale, non effettua collegamenti in surface deep o frame link ai siti recensiti, senza la dovuta autorizzazione. Il webmaster, proprietario e gestore dello spazio web nel quale viene mostrata questa URL, non è responsabile dei siti collegati in questa pagina. Le immagini, le foto e i logos mostrati appartengono ai legittimi proprietari. La legge sulla privacy, la legge sui diritti d'autore, le regole del Galateo della Rete (Netiquette), le norme a protezione della proprietà industriale ed intellettuale, limitano il contenuto delle Yellow Pages Trapaninfo.it Portale Provider Web Brochure e Silloge del web inerente Trapani e la sua provincia, ai soli dati di utenti che ne hanno liberamente richiesto l'inserimento. Chiunque, vanti diritti o rileva che le anzidette regole siano state violate, può contattare il WebMaster. Note legali trapaninfo.it contiene collegamenti a siti controllati da soggetti diversi i siti ai quali ci si può collegare non sono sotto il controllo di trapaninfo.it che non è responsabile dei loro contenuti. trapaninfo.it |