ITINERARI - IL MONDO ATTUALE - GEOGRAFIA - L'ECONOMIA MONDIALE

IL REDDITO NAZIONALE


Dall'analisi dei dati riguardanti il reddito pro capite delle diverse nazioni emerge l'ineguaglianza della distribuzione della ricchezza mondiale.
Un cittadino statunitense disponeva nel 1991 di un reddito annuo di 22.560 dollari, pari a 225 volte il reddito di un abitante della Tanzania; uno Svizzero aveva 33.510 dollari, 167 volte quanto percepito da un Cambogiano; a un Italiano spettavano 18.580 dollari l'anno, mentre un Cinese ne aveva 370 e un Indiano 330.
Si tratta naturalmente di astrazioni statistiche: il reddito pro capite è una media che non rivela le differenze sociali e regionali, nascondendo le fasce di povertà nei Paesi ricchi e le aree di privilegio in quelli poveri; è utile tuttavia mettere in evidenza il fatto che un ristretto gruppo di Stati (quelli con un reddito superiore a 5000 dollari per abitante) detiene la maggior parte della ricchezza mondiale. Si profila qui la disparità economica esistente tra il piccolo numero di economie industriali avanzate e i Paesi che vengono definiti «sottosviluppati», «in via di sviluppo», «Terzo mondo» o anche, con una metafora geografica, «Sud» del mondo.
Le espressioni «Paesi sottosviluppati» o «in via di sviluppo» sono cariche di un significato ideologico non esplicitato: presuppongono che esista un unico binario di crescita economica e che i Paesi del «Sud» siano in movimento per raggiungere prima o poi gli stessi indici di sviluppo del «Nord». Ma questo schema non corrisponde all'esperienza storica degli ultimi 60 anni, in cui, come afferma l'economista ed ecologo tedesco contemporaneo, Wolfgang Sachs: «i corridori in testa hanno distanziato il resto dei partecipanti, aumentando sempre più il margine di vantaggio. Nonostante tremendi sforzi e sacrifici inenarrabili da parte delle nazioni in via di sviluppo per raggiungere il livello dei Paesi con un forte Prodotto Interno Lordo (Pil), il divario aumenta inesorabilmente». I Paesi già ricchi si muovono sempre più velocemente degli altri perché «partecipano ad un gioco che consiste nello sminuire i risultati di ieri e scartarli per far posto ai miglioramenti di oggi».
In altre parole, il nostro pianeta soffre contemporaneamente di sottosviluppo e sovrasviluppo: occorre riesaminare l'intera organizzazione economica, modificando i meccanismi della produzione e del commercio internazionale, trasferire ai Paesi in via di sviluppo non le tecnologie inquinanti e obsolete, ma quelle più recenti. Per dare corpo alle teorie dello «sviluppo sostenibile» è però necessario sottoscrivere, da entrambe le parti, impegni che sicuramente avrebbero conseguenze rilevanti su stili di vita e politiche economiche ormai consolidate. Nel 1992 è stata approvata a livello mondiale una linea di condotta comune che tenga conto anche dei diritti dei Paesi in via di sviluppo. «Trade not aid» (commercio, non aiuto) è la nuova formula secondo la quale deve essere impostata l'economia futura. Per esempio bisognerebbe evitare di smaltire le eccedenze agricole, sotto forma di dono, a quegli stessi Paesi contro i quali sono state innalzate barriere doganali. Se le nazioni industrializzate rinunciassero a incentivare la sovrapproduzione agricola ed eliminassero le forme più ingiustificate di protezionismo, secondo recenti stime Onu, i Paesi del Terzo Mondo potrebbero aumentare le esportazioni di almeno 40 miliardi di dollari all'anno. Infatti, l'arrivo delle eccedenze produttive sui mercati delle nazioni in via di sviluppo provoca un vero e proprio collasso dei prezzi delle derrate alimentari locali.
Per crescere i Paesi poveri esportano materie prime e prodotti di basso valore, mentre sono costretti a importare macchinari sofisticati e costosi. In un'economia di mercato così organizzata, questi Paesi contraggono un debito sempre maggiore nei confronti dei Paesi ricchi. Questa impostazione economica non manca di avere serie ripercussioni dal punto di vista ambientale. Nel tentativo di arginare il loro debito i Paesi in via di sviluppo sottoutilizzano il loro lavoro e sfruttano in modo esagerato e distruttivo le risorse naturali a loro disposizione: un'agricoltura depauperante (incendiare, seminare, raccogliere e cambiare campo l'anno seguente) e una pastorizia intensiva sono l'origine di quel processo di deforestazione e desertificazione che tanto preoccupa gli esperti. Il risultato inoltre è una spirale di degrado e miseria che coinvolge necessariamente i Paesi ricchi, un processo che tende ad alimentare flussi migratori sempre più inarginabili, che rischia di innescare nuovi conflitti per la conquista del potere economico e che rende difficile l'espansione commerciale verso il Sud.
Al di là dell'evidenza del dualismo tra Nord e Sud, occorre chiedersi se gli alti livelli di reddito dei Paesi avanzati abbiano un segno solo positivo e se il loro modello economico meriti di essere imitato. Diventano infatti sempre più evidenti l'incapacità di questi sistemi di assicurare un effettivo benessere sociale e le conseguenze distruttive che essi producono sulle risorse terrestri. Gli alti consumi individuali (si veda ad esempio l'uso di massa dell'automobile) avvengono a prezzo di un deterioramento della vivibilità complessiva dell'ambiente, e in generale la crescita ininterrotta della produzione, innalzando il consumo di energia, di materie prime e di sostanze di sintesi, è in ultima analisi responsabile sia dei crescenti inquinamenti settoriali (dell'aria, dei suoli, delle acque) sia della rottura di equilibri complessivi (effetto serra, buco di ozono).
Il Prodotto Interno Lordo è sempre stato considerato la misura del benessere economico di un Paese e la sua crescita il fine dell'attività economica. Ora si va diffondendo la consapevolezza che si tratta di un indicatore puramente quantitativo, che misura il valore globale dei beni prodotti senza discriminare fra utilità e danno e senza quindi fornire una valutazione del rapporto costi/benefici a livello sociale ed ambientale. Il Pil, ad esempio, registra positivamente gli effetti di un ingorgo automobilistico, perché provocano un aumento dell'impiego di carburante e quindi del livello della produzione totale. Se nel corso di un anno la produzione di una fabbrica determina un grave inquinamento ambientale e, successivamente, si impiegano lavoro e risorse per porvi rimedio, il Pil sommerà i risultati delle due attività, registrandole entrambe all'attivo.
Il problema posto dalla crisi ambientale costringe a riconsiderare criticamente l'intera questione dello sviluppo economico e degli indicatori che lo misurano. Secondo l'economista italiano contemporaneo Claudio Napoleoni: «è necessario ridimensionare il ruolo della produzione dentro la vita sociale e rovesciare l'attuale prevalenza del momento produttivo su quello distributivo».
Fino ad oggi nessuno ha mai messo in dubbio che fosse bene produrre quanto più possibile. Ipotesi politiche diverse si sono scontrate sulla distribuzione della ricchezza prodotta tra classi, gruppi sociali e aree, ma l'obiettivo dell'aumento quantitativo del prodotto è stato considerato un valore in sé tanto per i Paesi sviluppati che per quelli poveri. Si fa ora pressante l'esigenza di ridurre la produzione dei beni «negativi» che provocano delle disutilità sociali ed ambientali e di arrivare alla produzione di una ricchezza diversa, più «utile». A questo scopo il Pil si rivela un indicatore inefficace ed occorrerebbe costruire a tavolino degli indici che parlino della «qualità» della produzione.

QUALCHE DEFINIZIONE


PRODOTTO INTERNO LORDO (Pil)

è il valore complessivo di tutti i beni e i servizi prodotti da un sistema economico nel corso di un anno. Lo si ottiene valutando le quantità prodotte di beni e servizi e sommando i valori così ottenuti.

PRODOTTO NAZIONALE LORDO (Pnl)

Corrisponde al Pil aumentato del reddito proveniente da investimenti esteri di cittadini residenti nel Paese e diminuito del reddito ottenuto all'interno del Paese da persone residenti all'estero.

REDDITO NAZIONALE

è la somma di tutti i redditi ottenuti in un anno dai soggetti economici (famiglie e imprese) nello svolgimento del processo produttivo. Il suo ammontare coincide con quello del Pnl.

BILANCIA COMMERCIALE, BILANCIA DEI PAGAMENTI

è il conto delle entrate e delle uscite di valuta dovute alle esportazioni e alle importazioni di merci di un Paese nel corso di un anno (commercio visibile), e ai proventi e spese per servizi, come quelli delle banche, delle assicurazioni, del turismo, della marina mercantile, ecc. (commercio invisibile). La bilancia commerciale è una parte della bilancia dei pagamenti, che è il prospetto complessivo delle transazioni di un Paese con l'estero.

IL CONTROLLO DELLE RISORSE ALIMENTARI


Nell'ultimo secolo, soprattutto nei Paesi sviluppati, il consumo alimentare ha subito profondi mutamenti: l'aumento della popolazione urbana e la crescita, lenta ma progressiva, del potere d'acquisto della moneta di queste economie rispetto a quelle del Terzo mondo sono i fattori principalmente responsabili del cambiamento dei sistemi agricoli rivolti al fabbisogno interno. Come emerge chiaramente dai dati a disposizione riguardanti il commercio d'esportazione del frumento, per esempio, nel mondo vi partecipano pochi Stati ad economia sufficientemente sviluppata, fra cui Stati Uniti d'America (28.445 migliaia di tonnellate nel 1999), Francia (18.917 m/t), Australia (16.540 m/t), Canada (16.158 m/t), Argentina (8.797 m/t) seguiti da Germania, Ucraina, Kazakistan, Turchia. Al contrario, al commercio d'importazione partecipa la stragrande maggioranza degli Stati, con in testa il Brasile (6.895 m/t), l'Iran (6.156 m/t), il Giappone (5.973 m/t), l'Egitto (5.962 m/t) e l'Italia (5.953 m/t). L'insieme dei Paesi importatori si presenta comunque assai più eterogeneo di quello dei Paesi esportatori, in quanto se alcuni di essi fanno ampio ricorso a fonti esterne a causa di condizionamenti climatici e demografici (come nel caso del Giappone, oppure della maggior parte dei Paesi europei), altri (e costituiscono un gruppo sempre più numeroso) importano cereali per esigenze di pura sopravvivenza.
Se nel 1955 la quota di partecipazione dei Paesi in via di sviluppo al commercio mondiale, prodotti energetici esclusi, raggiungeva il 38 per cento, sul finire degli anni Ottanta si è dimezzata, continuando in seguito a diminuire, evidenziando senza alcuna riserva le difficoltà in cui il Terzo mondo continua a dibattersi. Infatti, come abbiamo già precedentemente accennato, se prima degli anni Settanta sembrava che tra Nord e Sud si dovesse instaurare una divisione del lavoro, che riservava al primo il ruolo di fornitore di beni industriali e al secondo di derrate agricole e materie prime, successivamente le maggiori potenze della Terra hanno rinnovato i loro sforzi per incrementare ulteriormente le loro produzioni agrarie e zootecniche: basta fare riferimento ai modelli adottati da Stati Uniti, Canada e Francia per comprendere come il controllo della tecnologia e della ricerca scientifica in campo agricolo e zootecnico sia in mano dell'Occidente. Così, se Stati Uniti, Brasile, Argentina e Cina sono nell'ordine i maggiori produttori mondiali di soia, soprattutto la Cina utilizza tale risorsa agricola per l'alimentazione umana; infatti, alla fine degli anni Ottanta, gli altri Paesi hanno deciso di destinare la maggior parte della loro produzione all'alimentazione del bestiame sotto forma di pannelli la cui esportazione veniva controllata dagli Stati Uniti. Questo tipo di mangime ha messo tra l'altro in crisi la produzione di arachide, di cui il Senegal costituiva il maggior produttore mondiale. Di fronte ad un'evoluzione del mercato delle materie agricole oleaginose, che si è spostato dal settore delle arachidi a quello della soia, il Senegal si è venuto a trovare impotente e ha dovuto subire le trasformazioni senza essere in grado di adattarvisi o di contrastarle. Paradossalmente la coltivazione delle arachidi ha avuto un successivo incremento, non, però, in Senegal che si è stabilizzato al settimo posto, con 8.280 migliaia di quintali nel 1999, preceduto da Cina (120.680 m/q), India (73.000 m/q), Nigeria (27.830 m/q), Stati Uniti (17.560 m/q), Indonesia (9.900 m/q) e Sudan (9.800 m/q).
In generale, il mercato dei cereali ha registrato in questi ultimi decenni profondi mutamenti: oggi la maggior parte della farina prodotta, che un tempo era destinata a un immediato uso domestico, viene trasformata dall'industria alimentare. Considerazioni analoghe potrebbero essere poi effettuate per i derivati del latte, per gli ortaggi e la frutta, quale conseguenza delle tecniche di surgelazione, liofilizzazione e conservazione, che consentono di immettere cibi già preconfezionati o comunque trasformati. Ne deriva pertanto che l'agricoltura tende ad allontanarsi sempre più dal mercato polverizzato dei consumatori finali per confrontarsi in misura crescente con un diverso mercato, al quale convergono poche grandi industrie alimentari. A condizionare la domanda contribuisce poi la distribuzione che, attraverso i suoi comparti all'ingrosso e al dettaglio, allunga e complica il percorso che le singole derrate compiono prima di soddisfare i bisogni della collettività.
Si comprende pertanto come nei sistemi più evoluti si assista ormai a vistosi fenomeni di integrazione verticale tra società che operano nel settore primario e che sono in grado di controllare i vari rami dell'industria alimentare, nonché catene di distribuzione e di ristorazione. Si tratta per lo più di imprese di enormi dimensioni, capaci di investire capitali in più continenti allo scopo di poter influire sull'andamento dei prezzi con la loro domanda di materie prime nei confronti dell'agricoltura e contemporaneamente con la loro offerta di prodotti finiti. Così, se da un lato l'industria alimentare è riuscita ad incentivare la razionalità produttiva, permettendo il recupero di scarti precedentemente eliminati, dall'altro la forza di cui dispongono le imprese multinazionali lascia intendere chiaramente quali saranno gli operatori economici costretti a subire: si tratta delle imprese agrarie che perderebbero buona parte dei loro raccolti qualora non fossero disposte a cederli all'industria, in un regime di mercato dove prevalgono politiche tendenti a spingere il prezzo in basso. Valga per tutti l'esempio dimostrato dalle industrie conserviere in Italia.

IL POTERE INDUSTRIALE


Mettendo a confronto i valori della produzione dell'industria manifatturiera mondiale riguardanti gli anni Ottanta e Novanta (utilizzando dati raccolti e resi paragonabili dagli uffici di statistica industriale dell'Onu) è stato possibile, anche con una certa cautela, evidenziare chiaramente le linee generali del quadro. L'industria manifatturiera statunitense era grande 10 volte quella del Brasile, 15 volte quella dell'India (che aveva il triplo degli abitanti degli Stati Uniti), oltre100 volte l'industria pakistana. Il valore della produzione manifatturiera italiana superava di 26 volte il dato dell'Egitto e di oltre 260 volte quello dell'Etiopia, entrambi Paesi con una popolazione di dimensioni paragonabili alla nostra; 24 Stati africani avevano una produzione di valore inferiore al limite minimo scelto e l'intera produzione manifatturiera dell'Africa e dell'America latina erano contenute più di una volta e mezzo in quella giapponese.
In sintesi, alla fine degli anni Ottanta (situazione a grandi linee riscontrabile anche nel decennio successivo) i Paesi sviluppati (e cioè le grandi economie capitalistiche che hanno dominato fin dal secolo scorso il processo di industrializzazione - Europa occidentale, America del Nord, Giappone - l'Urss e i Paesi ad economia pianificata dell'Europa dell'Est - e dagli inizi degli anni Novanta la sola Russia, insieme a poche altre ex Repubbliche, prima fra tutte l'Ucraina - ed infine Israele, Sudafrica, Australia e Nuova Zelanda), con il 25 per cento della popolazione mondiale, producevano l'86,2 per cento della produzione manifatturiera mondiale, esclusa quella cinese, mentre tutti gli altri Paesi latinoamericani, africani, asiatici ed oceanici, in cui viveva il 53 per cento della popolazione del mondo, fornivano insieme il restante 13,8 per cento. Nonostante i Paesi in via di sviluppo abbiano avuto in questo decennio un saggio medio di crescita industriale più elevato di quello dei Paesi sviluppati, i termini dello squilibrio non si sono sensibilmente modificati rispetto alla situazione esistente all'inizio degli anni Settanta. La sproporzione non è solo quantitativa. Le economie capitalistiche più forti, e in esse le grandi imprese, hanno stabilito la direzione di marcia e la velocità dello sviluppo industriale, determinando l'orientamento degli investimenti, il livello tecnologico e la struttura dei costi e dei prezzi; gli altri Paesi hanno dovuto adattarsi al quadro, generalmente con funzioni dipendenti o marginali.
Alcuni, come la maggior parte degli Stati dell'Africa tropicale, non sono riusciti neppure ad accedere ad una soglia minima di industrializzazione; altri, come i Paesi arabi del Vicino Oriente e dell'Africa settentrionale o ancora alcune Repubbliche ex-sovietiche, hanno avviato, a partire dalla disponibilità di materia prima, alcuni spezzoni di un'industria chimica di base (raffinerie, petrolchimica, fertilizzanti), ma sono rimasti dipendenti dall'estero per l'acquisto di macchinari, beni di consumo e tecnologie. L'India, per esempio, dopo aver sviluppato, a partire dagli anni Cinquanta, con politiche di pianificazione e forti investimenti pubblici, le principali produzioni di base (siderurgia, chimica, meccanica pesante), è dovuta ricorrere in seguito ad investimenti esteri per acquisire settori chiave dell'industria contemporanea come l'elettronica e l'informatica.
Sempre per quanto concerne questo periodo, il dato saliente è stato lo spostamento del centro propulsore della crescita industriale dalle sponde dell'Atlantico all'Asia sud-orientale, sulla scia dell'ascesa del Giappone a grande potenza industriale. Dopo due decenni di espansione ad un saggio costantemente superiore a quello degli altri grandi Paesi industriali, l'industria giapponese ha acquisito negli anni Ottanta un ruolo importante nell'esportazione di nuove tecnologie per la produzione dell'acciaio; è diventata la prima produttrice mondiale di automobili, ha scalzato la supremazia statunitense in tutti i principali settori dell'elettronica (dai beni di consumo di massa, alla componentistica, all'informatica dei piccoli sistemi) e ha progettato importanti sviluppi nel campo della ricerca di nuovi materiali e delle biotecnologie.
Di fronte alla perdita di quote del mercato estero ed interno, le altre potenze industriali, e in particolare gli Stati Uniti, hanno reagito con il protezionismo, con accordi, con l'imitazione dei modelli di organizzazione produttiva e commerciale dell'avversario. I maggiori produttori di acciaio statunitensi sono entrati in consociazione con le loro controparti giapponesi (Kawasaki Steel Corporation, Sumitomo Metal); le multinazionali dell'automobile hanno formato alleanze (Ford-Mazda; Chrysler-Mitsubishi, General Motors-Isuzu) e spesso hanno cercato di adottare i metodi organizzativi giapponesi; l'Ibm, per esempio, ha decentrato rapidamente una parte della sua produzione nel Sud-Est asiatico. Quattro Paesi, la Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong (fino alla riunificazione con la Cina nel 1997) e Singapore, dopo aver svolto in passato il ruolo di fornitori a buon mercato di componenti per l'industria automobilistica ed elettronica giapponese, a cavallo degli anni Novanta, si sono posti autonomamente sul mercato, spostando a loro volta le operazioni a più alta intensità di lavoro verso Indonesia, Filippine, Malaysia e Thailandia ed estendendo gli alti saggi di sviluppo industriale a tutta la regione.
Una situazione di ristagno ha invece caratterizzato in questo decennio la maggioranza degli Stati dell'Africa tropicale e l'America latina. I primi sono rimasti nel complesso centri esportatori di materie prime grezze, in cui erano ancora da avviare processi minimi di trasformazione per innalzare il valore delle risorse agricole e minerarie interne. In America latina vi è stata stagnazione e, per alcuni settori, addirittura un calo assoluto della produzione industriale rispetto al livello degli anni Settanta; ciò è avvenuto a causa del peso del debito estero e di processi incontrollati di inflazione, che in alcuni casi hanno portato i prezzi ad aumentare di più di 10 volte nel giro di un anno. Le condizioni di incertezza determinate dall'inflazione hanno poi scoraggiato l'afflusso di capitali esteri e spinto quelli locali alla fuga, abbassando ulteriormente il livello degli investimenti nell'industria.
I primi anni Novanta, segnati dalla fine della «Guerra Fredda» e dal crollo del comunismo, non hanno portato lo sperato beneficio di un'espansione economica trainata dalla distensione dei rapporti tra le due superpotenze. Il decennio, anzi, si è aperto sotto il segno della recessione, aggravata dalla crisi petrolifera scatenata dalla Guerra del Golfo. La crisi non ha risparmiato apparentemente nessuno, dai maggiori Paesi industrializzati, quali Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Italia e Giappone, a quelli del Terzo Mondo, stritolati dalla svalutazione del dollaro e dall'aumento del prezzo del petrolio che hanno gonfiato il debito delle singole nazioni. Destino migliore non hanno certo avuto i Paesi sorti dalle ceneri dell'ex impero comunista: calo dell'attività produttiva, inflazione, disoccupazione, deficit commerciale sono i fattori che hanno accomunato tutte le neonate nazioni alle prese con il difficile passaggio da un'economia pianificata a un'economia di mercato. Anni particolarmente difficili, dunque, per l'economia mondiale: un po' ovunque si è avvertita l'esigenza di cambiare, di modificare istituzioni sopravvissute ai cataclismi di inizio decennio, alla fine cioè di quel bipolarismo tra Est e Ovest che giustificava da anni i precari equilibri interni ad ogni Paese. Quasi tutte le nazioni europee hanno dovuto affrontare questa fase di grave crisi economica guidati da Governi fragili alle prese anche con trasformazioni istituzionali estremamente complesse. La caratteristica di questo periodo è data dall'universalità della crisi: era dalla metà degli anni Settanta, in seguito al grande shock petrolifero, che l'economia mondiale non si bloccava così all'unisono. Gli Stati Uniti fermi, la Germania alle prese con il fardello della riunificazione, Italia, Gran Bretagna, Spagna alle prese con la più dura recessione dalla fine della guerra e Giappone di fronte a un'attività produttiva stagnante se non in flessione. Necessariamente la crisi economica ha investito con violenza la produzione industriale, con decine di migliaia di posti di lavoro in meno, un po' dappertutto. Si è assistito ad una vera e propria trasformazione nel settore dell'industria che ha portato anche all'estinzione di grandi colossi aziendali (si prenda ad esempio la Pan Am americana), al ridimensionamento di industrie floride e ben avviate. In molti Stati, Usa in prima fila, l'economia ha dovuto anche fare i conti con un settore industriale trainante, quello militare, obbligato a ridursi drasticamente dopo il crollo dell'Unione Sovietica. Solo nella seconda parte del decennio si è assistito a una netta ripresa, in Europa stimolata anche dalla voglia dei Paesi di entrare al più presto nel gruppo "euro''.
Se per l'Occidente, per i Paesi in via di sviluppo e quelli dell'ex impero sovietico i primi anni Novanta sono stati drammatici, per contro l'Estremo Oriente e il Sud-Est asiatico (Giappone escluso) hanno vissuto un periodo di vibrante crescita. Indonesia, Corea del Sud, Singapore, Thailandia e Malesia sono sembrati uscire dal torpore e hanno registrato una crescita in termini produttivi circa sei volte superiore a quella dei Paesi dell'Ocse, l'organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo di cui fanno parte le nazioni più sviluppate. Questo fatto, in termini globali può rappresentare un cambiamento notevole, in quanto si tratta di aree densamente popolate, in tumultuosa crescita, che gradualmente stanno conquistando l'autonomia economica, allontanandosi dalle leggi di mercato europee e statunitensi. Esperti di tutto il mondo si sono interrogati in merito a questo cambiamento travolgente, focalizzando soprattutto la differenza tra questi Paesi e le nazioni africane e latinoamericane. A parità di mancanza di tecnologie e di minore disponibilità di materie prime, ciò che sembra aver permesso questo sviluppo è stata la capacità di sfruttare diversamente le risorse umane e i materiali acquisiti da altri Paesi, attitudine forse favorita dalla stessa cultura orientale, fondata sul rigido rispetto di ruoli sociali e gerarchie.

INDUSTRIA MANIFATTURIERA


Comprende tutti i settori dell'attività industriale, ad eccezione dell'industria mineraria e di quella elettrica. Secondo la classificazione standard delle attività industriali usata dall'Onu, include i seguenti grandi raggruppamenti: industrie agricole ed alimentari; tessili ed abbigliamento; legno e prodotti affini; chimica e prodotti minerali; prodotti metallici, macchinari e mezzi di trasporto, strumenti professionali; altre industrie manifatturiere. Ogni raggruppamento è diviso in numerosi gruppi e sottogruppi.

IL POTERE ENERGETICO


La crescente disponibilità di sorgenti energetiche supplementari ha portato a un parallelo incremento dei consumi, soprattutto in alcuni Paesi quali gli Stati Uniti d'America, dove, ad esempio, il consumo di energia totale nel solo periodo 1900-1965 è aumentato di oltre 6 volte. Le fonti delle scorte di energia hanno anch'esse registrato profonde trasformazioni nel corso di oltre cent'anni: infatti, se nel 1870 il 70 per cento dell'energia utilizzata dall'uomo proveniva dal consumo di legname, attualmente si attinge a questa sorgente soltanto per una percentuale inferiore allo 0,5 per cento. Le fonti primarie per il presente e per l'immediato futuro sono costituite dai combustibili fossili (carbone, petrolio e gas naturali), tutte risorse non rinnovabili, seguite a distanza dall'energia idroelettrica. Anche l'uranio, risorsa necessaria per la creazione dell'energia nucleare, è abbondante sulla superficie terrestre, anche se in zone circoscritte. Altre sorgenti di energia come il sole, i venti, le correnti marine, sono per il momento utilizzate in parte, mancando di quella polivalenza e facilità di applicazione di cui godono i combustibili fossili e nucleari; per questo tali fonti di energia sono state in genere considerate di importanza secondaria e a diffusione locale.
Sempre nel corso di questi cent'anni abbondanti la relativa diffusione delle fonti energetiche e l'aumento vertiginoso dei conseguenti consumi si sono accompagnati ad un costante processo di sostituzione di una fonte con un'altra. Il consumo energetico mondiale è cresciuto in progressione geometrica, raddoppiando una prima volta fra il 1910 e il 1950, una seconda volta durante il ventennio 1950-1970, ed aumentando del 50 per cento nel solo decennio 1970-1980. Inoltre, il carbone, che ancora negli anni Trenta di questo secolo copriva il 60 per cento del consumo mondiale, è stato successivamente sostituito dagli idrocarburi: non a caso, a partire dagli anni Sessanta, il petrolio e il gas naturale hanno superato rispettivamente il 40 per cento e il 30 per cento dei consumi energetici mondiali, con un ritmo di accrescimento dei fabbisogni enormemente superiore a quello di rinvenimento di nuovi depositi. Così tutti i Paesi industrializzati hanno consumato ben più energia di quanta ne producessero, trasformandosi in importatori di quote crescenti di idrocarburi, come nel caso degli Stati Uniti d'America e del Giappone; questo tipo di considerazione, esclusi alcuni Paesi quali Norvegia, Regno Unito e l'ex Unione Sovietica, vale per tutti gli Stati europei.
In un suo rapporto del 1983 dal titolo The energy transition in developing countries (La transizione energetica nelle aree in sviluppo), la Banca Mondiale ipotizzava un maggior ruolo del Terzo mondo, sia come produttore che come consumatore di energia, già nel breve periodo. In particolare si affermava che i Paesi in via di sviluppo avrebbero contribuito, entro gli anni Ottanta, alla produzione di energia con una quota che dal 25 per cento sarebbe salita al 33 per cento, mentre i corrispondenti consumi sarebbero dovuti aumentare dal 20 per cento al 27 per cento. Nella realtà delle cose, invece, il crescente indebitamento dei Paesi produttori ed esportatori di fonti energetiche non rinnovabili ha ostacolato i programmi di ampliamento dei rispettivi apparati produttivi ed aumentato i vincoli di dipendenza economica nei confronti dei Paesi ad elevato tasso di sviluppo economico. Inoltre, se per tutti gli anni Settanta e nei primi anni Ottanta i Paesi dell'Opec (Iran, Iraq, Arabia Saudita, Kuwait, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Algeria, Gabon, Libia, Nigeria, Indonesia, Ecuador e Venezuela) erano stati in grado di controllare il mercato del petrolio, il cui prezzo era aumentato costantemente, alla fine degli anni Ottanta l'unità tra i Paesi produttori si è incrinata parallelamente alla caduta dei prezzi petroliferi. Questa situazione è stata determinata dalla diminuita domanda mondiale di greggio, sia per effetto delle politiche di risparmio energetico, sia perché molti Paesi industrializzati si sono gradualmente rivolti all'impiego di altre fonti (nucleare) e alla rivalorizzazione dell'utilizzo del carbone. Questo, dopo diversi anni di crisi, in questo periodo è ritornato ad essere considerato come una fonte di energia a basso costo. All'indubbia convenienza economica il carbone affianca, però, un grave tasso di inquinamento ambientale che difficilmente si riesce a contenere entro limiti di accettabilità, ricorrendo a sofisticate e costose tecnologie, accessibili solo dai Paesi più ricchi e che, comunque, non sempre vengono realizzate a causa degli elevati investimenti necessari. Nel Terzo mondo, invece, soprattutto in quelle economie favorite da adeguate riserve, se ne fa abbondante impiego ancora nei modi tradizionali altamente inquinanti.
Per la sua convenienza, negli anni Ottanta il carbone era ancora il secondo combustibile impiegato nel mondo, coprendo il 30 per cento circa del fabbisogno, nonostante a suo sfavore giocassero i forti costi di trasporto (soltanto il 10 per cento della produzione era oggetto di commercio internazionale). In questo ambito sono stati compiuti alcuni progressi; il ricorso alle navi per il trasferimento di questa merce è stato affiancato con un certo successo i carbonodotti: in essi il minerale fluisce per pompaggio dopo essere stato ridotto in polvere e mescolato all'acqua per renderlo simile ad altri fluidi, come il petrolio.
Nel passato i danni ambientali prodotti dal consumo di carbone, soprattutto da parte dei Paesi dell'Europa orientale, sono stati gravissimi e hanno favorito tra l'altro il manifestarsi delle cosiddette «piogge acide», che hanno devastato le foreste del continente. Per questo motivo si è cercato di eliminare questi inconvenienti; uno degli esperimenti più interessanti è stato realizzato facendo passare i fumi di scarico derivanti dalla combustione del carbone attraverso una soluzione di carbonato di calcio, acqua e acido formico, in modo che l'anidride solforosa contenuta nei fumi potesse reagire tramutandosi in solfato di calcio, ossia in gesso, diventando in pratica una produzione secondaria venduta all'edilizia. è comunque da osservare che anche nelle vecchie aree carbonifere delle nazioni dell'ex Europa occidentale il parziale esaurimento dei depositi di superficie e l'elevato costo di estrazione nei piccoli giacimenti di profondità (superiori ai 1000 metri) ha ridotto ormai il carbone ad un ruolo di fonte energetica sostitutiva. Anche negli Stati Uniti, che detengono la maggioranza delle riserve del mondo occidentale, il carbone copre una fetta piuttosto relativa della produzione energetica interna ed in parte alimenta una corrente di esportazione diretta soprattutto verso i Paesi dell'Ue.
La siderurgia costituisce il ramo dell'economia mondiale capace di assorbire le maggiori quantità di carbone, anche se attualmente le prospettive di utilizzo di questa fonte energetica appaiono migliori rispetto al recente passato. Ciò si deve ad un insieme di fattori: prima di tutto l'utilizzo di tecnologie economicamente più convenienti, e in secondo luogo la volontà dei Paesi industrializzati di contenere i consumi di petrolio. Inoltre le valutazioni sulle riserve di carbon fossile sono positive, tanto che, in termini energetici, vengono addirittura stimate cinque volte superiori a quelle di petrolio.
Per quanto riguarda il commercio del carbone, riferendosi a dati di fine 1993, di poco variati con gli anni a venire, è stato possibile dedurre un calo drastico delle importazioni europee, compensato da un sensibile aumento della domanda asiatica dopo l'entrata in servizio di alcune centrali termoelettriche in Giappone e in Corea del Sud. Questo fatto ha comportato un'inversione di tendenza del mercato: più della metà del carbone commerciato via mare è infatti attualmente diretto ai mercati del Pacifico.
Nei primi anni Novanta, la ricerca di fonti alternative al carbone e al petrolio è stata oggetto di numerosi e approfonditi studi. Recentemente, infatti, l'opinione pubblica e i Governi dei maggiori Paesi industrializzati si sono dimostrati favorevoli a una politica energetica rispettosa dell'ambiente. Il problema di trovare carburanti alternativi al petrolio si è particolarmente acuito nel 1990-91 come conseguenza immediata della crisi mondiale determinata dalla Guerra del Golfo. Gli Stati Uniti, in particolare, hanno dovuto far fronte al problema politico ed economico delle importazioni del greggio (un americano consuma in media il doppio di un europeo e circa 11 volte più di un africano). Quest'urgenza ha riportato alla ribalta numerosi progetti fino a quel momento rimasti nei cassetti per mancanza di finanziamenti e ha stimolato i Governi dei Paesi industrializzati a prendere in considerazione piani energetici mirati a un migliore sfruttamento delle risorse terrestri. In questi anni è emerso anche il fatto che lo sforzo deve essere indirizzato verso lo sviluppo di una cultura diversa, basata sul risparmio energetico e su un migliore sfruttamento delle risorse disponibili. La trasformazione nel modo di produrre e consumare energia deve ovviamente seguire strade diverse, tenendo presente il livello di sviluppo tecnologico, la disponibilità di materie prime e la situazione territoriale dei vari Paesi. Uno sforzo maggiore è stato richiesto ai Paesi industrializzati che consumano, pur rappresentando solo un quinto della popolazione mondiale, i tre quarti dell'energia disponibile. Inevitabilmente, queste nazioni devono ridurre i propri consumi e modificare gli attuali stili di vita, evitando gli sprechi e mettendo a punto nuove strategie per risparmiare energia. Non è necessariamente detto che questo cambiamento debba comportare sacrifici troppo pesanti: le diverse soluzioni adottate negli ultimi anni riguardanti la vita di tutti i giorni (migliore coibentazione delle case, elettrodomestici più efficienti, sistemi di cogenerazione di calore ed elettricità) non hanno assolutamente modificato lo standard di vita dei cittadini, portando per contro eccellenti risultati in termini di riduzione del consumo energetico. Per quanto riguarda i Paesi del Terzo Mondo il problema assume una valenza diversa: queste nazioni devono fare quello che gli esperti del settore hanno definito il «salto della cavallina», cioè passare direttamente a fonti di energia alternative e rinnovabili partendo da forme molto arretrate di produzione energetica. Un compito non facile, indubbiamente, che richiede la collaborazione anche da parte dei Paesi industrializzati, i quali devono evitare di trasferire nel Terzo Mondo i loro impianti obsoleti e inquinanti.
Per quanto concerne la ricerca di energie alternative purtroppo la strada è ancora molto lunga e sempre maggiori sembrano essere le difficoltà realizzative. Il primo problema è rappresentato dal fatto che, a detta degli scienziati, si nutrono seri dubbi sulla capacità delle fonti rinnovabili di fornire entro tempi brevi tutta l'energia di cui il mondo necessita. Nei primi anni Novanta esse riuscivano a coprire solo un decimo del fabbisogno mondiale e, nonostante tutti gli sforzi, le prospettive di sviluppo erano - e sono tuttora - piuttosto relative. Tra tutte, l'energia idroelettrica è una di quelle destinata ad essere maggiormente incentivata: infatti, se in Europa più del 50% dei corsi d'acqua sono già utilizzati, nel Terzo Mondo sono enormi le riserve potenzialmente sfruttabili. La costruzione di dighe e impianti in Africa, Asia e Sudamerica potrebbe portare a un aumento considerevole di gigawatt di energia derivata dall'acqua. Lo sfruttamento dell'energia solare, pur avendo attualmente costi decisamente poco competitivi, secondo le previsioni degli ultimi anni, potrebbe diventare una delle fonti del futuro. Per quanto concerne l'energia eolica, invece, si può dire che essa è la più conveniente, ma notevoli sono i problemi tecnici legati alla sua produzione. Per installare impianti eolici non è sufficiente disporre di macchine ad alta tecnologia ed elevato rendimento; occorrono luoghi idonei, che presentino adeguate condizioni climatiche, facilità di allacciamento alla rete elettrica e basso impatto ambientale.

ENERGIA: IL PETROLIO E LA SUA IMPORTANZA GEO-ECONOMICA


Com'è noto il petrolio grezzo ed i gas naturali sono composti essenzialmente da idrocarburi (ossia composti contenenti carbonio ed idrogeno) e come il carbone si trovano localizzati di preferenza in bacini sedimentari ricchi di materia organica. E poiché quasi tutti i sedimenti contengono resti organici, in corrispondenza dei quali sono stati trovati numerosi idrocarburi e perfino goccioline di petrolio grezzo, si è ormai quasi certi che le diffusissime sostanze organiche sedimentarie, originate a loro volta da piante e da animali microscopici, costituiscano la principale sorgente del petrolio. è inoltre da osservare che il petrolio, quanto più leggero e mobile diventa, tanto più facilmente riesce ad emigrare nel sottosuolo, anche se per il momento il meccanismo di migrazione non è stato esattamente definito. Si può comunque sostenere che in corrispondenza delle rocce sedimentarie l'olio, i gas e l'acqua tendono a muoversi lentamente verso la superficie e ad accumularsi quando incontrano barriere lungo le vie di migrazione. E poiché il più alto rapporto concentrazione petrolifera/volume di sedimenti è stata individuata proprio nel gruppo più recente di sedimenti petroliferi, quelli pliocenici, risalenti a non oltre 2 milioni e mezzo di anni fa, la maggior parte degli studiosi è concorde nel ritenere che la quantità totale di petrolio decresce man mano che si procede a ritroso nel tempo.
Analogamente a quanto accade per il carbone, il petrolio presenta una larga ma irregolare distribuzione geografica, dipendente tuttavia da cause assai meno ovvie: non si comprende infatti per quale ragione le rocce in Iran debbano essere petrolifere, mentre rocce della stessa età e tipo in Australia non lo siano affatto. In effetti, la questione della localizzazione è così incerta che molti specialisti sono giunti alla determinazione che si tratti soltanto di una diseguale intensità della ricerca in campo petrolifero, sostenendo pertanto che prospezioni adeguate dovrebbero poter confermare la presenza di petrolio in tutti i bacini sedimentari equivalenti, indipendentemente dalla loro posizione geografica.
Supponendo costante sia il ritmo attuale dei consumi mondiali, le riserve terrestri sfruttabili in modo economicamente vantaggioso si esauriranno, secondo le previsioni degli esperti, entro il 2050. Nella migliore delle ipotesi, entro il prossimo secolo l'umanità avrà consumato tutto il patrimonio di combustibili fossili. Se si pensa che attualmente l'80% dell'energia utilizzata è prodotta proprio grazie alla combustione di petrolio, gas naturale e carbone, le prospettive non sono molto tranquilizzanti. Per quanto riguarda in particolare il greggio è inoltre da osservare che le riserve che potrebbero appagare l'economia mondiale non soltanto a breve, ma anche a medio e lungo termine, sono concentrate nei Paesi del Vicino Oriente e comunque dell'Opec (Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio) che detiene tuttora i due terzi delle riserve mondiali, mentre l'industria di raffinazione del grezzo risulta concentrata soprattutto nei Paesi occidentali, forti consumatori di petrolio.
La produzione ed il consumo di petrolio hanno ormai raggiunto proporzioni così ampie, sia nell'industria dei combustibili sia in petrolchimica, da rendere quasi incredibile che la produzione commerciale sia iniziata appena un secolo e mezzo fa (nel 1857 in Romania, seguita due anni più tardi dagli Usa).
Come si è detto, gli attuali centri principali di produzione sono raggruppati in pochi Paesi e in alcune grandi regioni: il Vicino Oriente, gli Stati Uniti, il Golfo di Guinea, il Mar del Nord e l'ex Unione Sovietica. è inoltre da osservare che, nell'ambito dei Paesi industrializzati, Giappone, Stati Uniti e Paesi dell'Europa occidentale fanno ampio ricorso all'importazione, costituendo nel loro insieme i tre quarti della clientela mondiale. Questo fatto sembrerebbe scontrarsi con i dati che annoverano tra i principali produttori di greggio l'Unione europea, gli Usa, l'Arabia Saudita e l'ex Unione Sovietica. Non bisogna però dimenticare che, essendo i Paesi occidentali tra i maggiori consumatori a livello energetico, la produzione interna, soprattutto per quanto riguarda Stati Uniti e buona parte dell'Europa, non è di per sé sufficiente a supplire la richiesta. Da parte sua il Vicino Oriente, il maggiore esportatore di petrolio non raffinato, soddisfa oltre un quinto del fabbisogno mondiale, originando la principale corrente di traffico, che tende ad articolarsi in svariate direzioni (via del Capo, via di Suez, Mar dei Caraibi, Oceano Indiano, Stretto di Malacca e Oceano Pacifico).
Nonostante le crisi petrolifere del 1973 e del 1979, il consumo energetico mondiale per anni ha continuato, con alti e bassi, a rimanere sostenuto sul valore annuo di 7-8 miliardi di Tep (= «Tonnellate equivalenti di petrolio»), con una distribuzione geografica che, alla fine degli anni Novanta, vedeva oltre il 50 per cento del consumo mondiale concentrato nelle 7 nazioni più industrializzate, seguite immediatamente da alcuni Paesi dell'Est e del Nord Europa (30 per cento). Così, nonostante il manifestarsi di un aumento della domanda alimentata dai Paesi del Terzo mondo, lo scarto continuava ad essere stridente.
Nel 1999 il petrolio ha coperto ancora il 40 per cento della domanda mondiale di fonti energetiche, con eccedenze di mercato favorite da molteplici cause, quali lo sviluppo massiccio di una produzione al di fuori dell'Opec, l'incapacità dei Paesi dell'Opec di gestire le loro eccedenze, il crescente indebitamento registratosi presso alcuni Paesi produttori (Nigeria, Venezuela, ecc.), la politica tendente a ridurre le scorte, adottata dalle compagnie petrolifere. è poi da osservare che in tutti i Paesi importatori l'andamento della domanda petrolifera è direttamente proporzionale al prezzo del barile (unità di misura pari a circa 159 litri), tanto che i Paesi poveri di risorse energetiche hanno visto le rispettive bilance commerciali dipendere proprio dalle oscillazioni dei prezzi petroliferi espressi in dollari. L'economia dei forti esportatori di petrolio è stata invece condizionata dalla quantità delle vendite, che dipendono però dal livello dei consumi degli importatori e quindi dai prezzi. Non è pertanto azzardato affermare che il prezzo del petrolio è capace di condizionare in modo non marginale l'intera economia mondiale.
Nel caso dei grandi produttori, parecchi hanno senz'altro beneficiato delle enormi entrate derivanti dalle esportazioni, con un flusso di petroldollari tale da sconvolgere persino i circuiti finanziari mondiali. Se ciò può aver arrecato, in taluni casi, un certo progresso sul piano del reddito medio pro capite, è comunque da osservare che lo sviluppo si è quasi sempre manifestato con gravi squilibri sociali, come rivelano i Paesi del Vicino Oriente con il netto divario tra reddito e condizioni di vita della popolazione locale. Anche in altri Paesi produttori (Nigeria, Messico, Venezuela), che pure godono di consistenti entrate valutarie, si è assistito ad un parallelo e crescente esodo di popolazione in cerca di migliori condizioni di vita. In tutti questi Paesi non si è avuto alcun vero e proprio decollo: infatti, anche se da un lato i Governi locali hanno dato l'avvio alla costruzione di alcune infrastrutture di base, nel complesso è venuto a mancare l'effetto moltiplicatore capace di diffondere a cascata i benefici sull'economia locale. Ancor più negativi sono stati i risultati presso i Paesi del Terzo e Quarto mondo privi di risorse energetiche, dove si è assistito ad un ulteriore peggioramento delle loro già fragili bilance commerciali. Tali danni possono in apparenza sembrare minori del previsto se si considera che in queste economie i bassi livelli di importazione di petrolio non sono da mettere in relazione ad uno stato di crisi contingente, ma permanente.
Alla fine del 1990, la drammatica vicenda della Guerra del Golfo ha in parte modificato le leggi del mercato petrolifero soprattutto a causa dell'embargo Onu contro l'Iraq. I primi anni Novanta sono stati caratterizzati da una domanda stazionaria (dovuta ai grandi mutamenti socio-politici in atto e alla concomitante crisi economica) e da un'offerta endemicamente in surplus, nonostante l'embargo. Questi due fattori hanno fatto scendere i prezzi del petrolio sotto i 15 dollari a barile, uno dei valori più bassi degli ultimi decenni. Una crescita "zero" quindi il greggio, con una produzione mondiale per tutto il 1992 e 1993 inferiore ai 66 barili al giorno. In questo periodo i Paesi esportatori aderenti all'Opec hanno cercato di consolidare i prezzi ma senza di fatto riuscire a controllare il mercato. Questo andamento disastroso è stato anche in parte influenzato dalla riduzione della produzione da parte della Russia e di altre Repubbliche ex sovietiche e in parte da una crescente produzione europea. Grazie al Mare del Nord, infatti, l'Europa si è posizionata tra i più importanti produttori, merito anche dei nuovi primati tecnologici adottati. Sono infatti entrate in funzione nuove piattaforme off-shore meno costose, che richiedono meno personale e offrono una tecnologia decisamente avanzata. I costi di produzione europei, un tempo tra i più elevati del mondo, all'inizio degli anni Novanta, si sono praticamente dimezzati. Il forte calo dei costi e le nuove tecnologie hanno consentito di sfruttare risorse ulteriori, arrivando, nel 1997, a una produzione totale di 3.283.385 migliaia di tonnellate contro un totale di 2.977.409 m/t del 1993. Secondo le stime degli esperti, inoltre, il greggio economicamente recuperabile dai giacimenti già noti del Mare del Nord potrebbe aumentare del 25%. Nel prossimo futuro, infatti, il fattore tecnologico potrebbe essere determinante nel modificare la struttura della produzione mondiale di idrocarburi. è probabile che tutto ciò possa provocare aspre tensioni tra i produttori, interessati a difendere a oltranza la propria fetta di mercato, e causare ulteriori modifiche a livello di prezzi e di aree commerciali.

ENERGIA: LA SCELTA NUCLEARE


Dal 1919, quando Lord Rutherford riuscì ad effettuare la trasmutazione dell'atomo, fino ai nostri giorni la scienza è riuscita a compiere enormi progressi: tra questi merita comunque di essere segnalata l'esperienza realizzata da Enrico Fermi il 2 dicembre 1942, mediante la quale venne finalmente stabilito il processo da seguire per liberare i neutroni e l'energia termica contenuta nell'atomo. Questo esperimento aprì la via per l'utilizzazione industriale; nel 1951 gli Stati Uniti riuscivano a produrre la prima elettricità nucleare; la realizzazione delle prime centrali, a partire dal 1955, si basava soprattutto sullo sfruttamento dell'uranio. Questa risorsa del sottosuolo appartenente dal punto di vista geochimico alla categoria dei metalli rari, nella realtà costituisce comunque il combustibile che ha polarizzato in modo essenziale l'interesse dell'industria atomica: infatti in questi ultimi anni i giacimenti di uranio sono stati sottoposti ad un'intensa attività di esplorazione e sfruttamento, in quanto la fissione di un chilogrammo di uranio produce un'energia termica equivalente ad oltre due milioni di litri di petrolio grezzo; modeste riserve di uranio sono quindi in grado di permettere la produzione di enormi quantità di energia termica.
Le crisi petrolifere registrate dalla maggior parte dei Paesi economicamente sviluppati, rispettivamente nell'autunno del 1973, nella primavera del 1979 e nell'inverno 1991 rappresentano la causa principale della «grande paura» che ha indotto i sistemi industrializzati a ricercare e sfruttare sempre più intensivamente le fonti energetiche alternative, in particolare quella nucleare. Ciò è avvenuto nonostante i crescenti movimenti di opposizione sostenuti da coloro che credono in una salvaguardia dei valori ambientali, anche se è da osservare che la corsa all'impiego del nucleare si è manifestata secondo ritmi diversi in relazione alle differenti volontà politiche degli organi di Governo dei vari Stati.
I maggiori produttori di uranio sono Canada, Australia, Sudafrica, Niger, Namibia, Russia, Stati Uniti, oltre ad alcuni Paesi dell'ex Unione Sovietica, Uzbekistan, Kazakistan e Ucraina.
Nella corsa alla produzione di energia elettronucleare non si possono dimenticare le due catastrofi verificatesi negli ultimi quindici anni: quella avvenuta nel 1979, riguardante la centrale di Three Mile Island (Stati Uniti), e soprattutto quella accaduta a Cernobyl (Unione Sovietica) nel maggio del 1986. Questi eventi ebbero come conseguenza immediata una maggiore sensibilizzazione al problema nucleare da parte di opinione pubblica e governi; molte centrali nucleari vennero chiuse o furono fatte funzionare a ritmo ridotto: se nel biennio 1984-85 la produzione di energia nucleare era cresciuta al ritmo del 20 per cento annuo, la paura che si diffuse dopo gli incidenti di Three Mile Island e soprattutto di Cernobyl, interruppe la poderosa tendenza all'aumento che sino allora non aveva incontrato altri ostacoli se non l'opposizione delle organizzazioni ambientali. Già nel 1986 l'incremento annuo rallentò all'8,5 per cento; da allora in alcuni Paesi si verificò una vera e propria inversione di tendenza, con il conseguente blocco di nuovi progetti oppure con la riconversione delle centrali in costruzione. Altri Paesi, invece, fortemente legati alla scelta nucleare, non hanno retrocesso dalle loro posizioni, continuando a sviluppare questo settore della ricerca scientifica. Per tutto il decennio 1980-1990 alcuni Stati hanno anzi incentivato massicciamente la produzione elettronucleare per coprire il loro fabbisogno di energia elettrica: per la Francia il nucleare è stato, da questo punto di vista, la fonte più importante. Situazioni analoghe si sono ritrovate in Belgio, a Taiwan, in Ungheria e in Corea del Sud. Il nucleare è stato fondamentale anche per la Finlandia e la Svezia: solo quest'ultima ha in un secondo tempo deciso di voler rinunciare completamente a questa fonte di energia non rinnovabile. Per cercare di quantificare lo sviluppo che questo ambito di ricerca ha avuto in quegli anni, si può ricordare che i 373 reattori nucleari in funzione nel mondo nel 1986 sono saliti a 416 all'inizio del 1989 (oltre ad altri 138 in fase di costruzione), mentre i megawatt elettrici prodotti, sempre nello stesso periodo, sono passati da 262.000 a quasi 310.000, con un'incidenza pari al 17 per cento di tutta l'energia elettrica prodotta. La tecnologia inerente all'installazione delle centrali nucleari è rimasta inoltre saldamente nelle mani di pochi Paesi: non a caso, all'inizio degli anni Ottanta, nel mondo occidentale, gli Stati Uniti fornivano il 70 per cento dei reattori, mentre l'80 per cento delle centrali in funzione si basava su progettazioni statunitensi.
Senza dubbio, almeno nel caso degli impianti più efficienti e collaudati, il costo di produzione di un kw elettronucleare risultava a prima vista «inferiore» a quello di ogni altra fonte rinnovabile e non rinnovabile, ma tale calcolo non prendeva in considerazione le difficoltà e i costi connessi con lo stoccaggio delle scorie radioattive, che rimangono tali per migliaia di anni. L'eliminazione di tali scorie o la loro sistemazione in modo che non risultino dannose, è un problema di non facile soluzione. Le vicende degli ultimi tempi, che hanno visto coinvolte navi occidentali alla ricerca di luoghi (spesso nel Terzo mondo) in cui collocare simili residui, o alla scoperta di depositi illegali di rifiuti radioattivi dimostrano quante altre questioni gravi, legate alla scelta nucleare, rimangano tuttora irrisolte. Inoltre una valutazione dei costi dell'energia elettronucleare non può non prendere in considerazione i danni alla salute umana e all'ambiente causati dai tanti incidenti, grandi e piccoli, accaduti nelle centrali nucleari, di cui sovente l'opinione pubblica non è neppure venuta a conoscenza. Un altro aspetto negativo legato all'installazione di impianti nucleari è il fatto che, nella fase di costruzione, ogni impianto nucleare esige un'elevata quota di addetti, che diminuisce bruscamente allorché la centrale diventa operativa. Un altro elemento da valutare con attenzione concerne la scelta del posto dove far sorgere l'impianto; occorre che il sito risponda a condizioni altamente vincolanti: le centrali devono essere istallate in aree isolate, poco popolose, non sismiche e prossime a corsi d'acqua, o sul mare, per assicurare il raffreddamento. Non a caso, anche a causa dei tempi di entrata in funzione eccezionalmente lunghi (dai 13 ai 16 anni negli Stati Uniti) e dei costi crescenti dovuti alle misure di sicurezza ambientale, alcuni Paesi, come si è già osservato, hanno rinunciato alla realizzazione di nuovi impianti e, talvolta, si è assistito addirittura alla chiusura delle centrali in funzione.
Per quanto concerne in particolare il quadro energetico dell'Unione europea, è da osservare che negli ultimi anni Ottanta l'energia nucleare ha rappresentato il 14 per cento dell'intera produzione comunitaria (contro un 2 per cento del 1970) e il 3 per cento della produzione di energia elettrica. Ovviamente bisogna tenere presente che la situazione risultava essere assai diversa da nazione a nazione.
L'Italia ha reagito all'incidente di Cernobyl sospendendo l'attuazione delle centrali e degli impianti sperimentali in costruzione. Nel contempo si è cercato di dare impulso alla ricerca volta a sviluppare tecnologie e impianti a fissione nucleare ad alto grado di sicurezza passiva (i cosiddetti reattori «a sicurezza intrinseca») ed inoltre di dar luogo a soluzioni, per gli impianti e per il ciclo del combustibile, tali da mitigare gli effetti sull'ambiente esterno e sulla salute della popolazione di un eventuale incidente nucleare.
Nel 1993, in particolare, alla luce delle notevoli e sempre maggiori difficoltà sorte nell'ambito delle ricerche alternative, il nucleare è sembrato riprendere la sua espansione dopo un periodo di stasi determinato dai motivi sopra esposti. Si è assistito, nel campo scientifico, a un cambiamento di rotta, con una conseguente ripresa delle ricerche in questo ambito. è necessario precisare, però che non si è trattato del nucleare tradizionale poiché, nonostante gli sforzi, sono rimasti insoluti i problemi relativi alla sicurezza degli impianti e all'eliminazione delle scorie radioattive. L'evoluzione scientifica in questo settore ha puntato invece l'obiettivo sui reattori nucleari di tipo avanzato, cosiddetti «evolutivi», migliorati dall'introduzione di sistemi a maggior sicurezza.
A livello europeo, nei primi anni Novanta si è lavorato sul progetto di Epr, un reattore ad acqua leggera in grado di offrire, in virtù di un più efficace sistema di contenimento, garanzie di sicurezza nettamente superiori a quelle dei reattori tradizionali, richiedendo inoltre tempi più brevi di realizzazione con conseguente riduzione dei costi di immobilizzo del capitale. A livello mondiale, il Giappone ha presentato, sempre nello stesso periodo, un ambizioso progetto in merito alla costruzione di 17 nuove unità elettronucleari nell'arco di dieci anni. Anche in questo caso, la ricerca ha puntato su reattori ad acqua leggera, di tipo perfezionato e di taglia grossa.
Nel frattempo, sia in Europa sia in America, si sono effettuati studi sui già menzionati reattori a sicurezza passiva o «intrinseca». Essi dovrebbero incorporare dei meccanismi di sicurezza funzionanti in base a leggi naturali, come per esempio la gravità, risultando in questo modo meno soggetti a rischi legati al cattivo funzionamento di circuiti e componenti o alla possibilità di errore umano. Inoltre questi reattori prevedono l'inserimento di dispositivi di auto-interruzione nel caso di errato funzionamento del sistema. Nonostante gli eccellenti risultati ottenuti dai ricercatori in questo campo, la concreta realizzazione di questi impianti non si pone nell'immediato futuro, lasciando quindi ancora senza soluzione il problema dell'utilizzo dell'energia nucleare. Nel 1999 i maggiori produttori di energia nucleare erano gli Stati Uniti (724,9 TeraWatt all'ora - TW/h), la Francia (374,9 TW/h), il Giappone (324,9 TW/h), seguiti da Germania (160,8 TW/h), Corea del Sud (103,1 TW/h) e Regno Unito (87,7 TW/h).

LA STRUTTURA DEL COMMERCIO INTERNAZIONALE


Se si ripartiscono tutte le merci che compongono le esportazioni mondiali in due grandi gruppi, quello dei beni primari (formato da prodotti alimentari, materie prime agricole, minerali e metalli, combustibili) e quello dei manufatti, appare evidente che la situazione del commercio mondiale è fortemente polarizzata tra Paesi esportatori di beni primari e Paesi che esportano prodotti industriali. Ad un estremo dello spettro si allineano l'Africa quasi al completo, gran parte dell'America latina, i grandi esportatori di petrolio del Vicino Oriente, l'Australia e la Nuova Zelanda; all'altro troviamo gli Stati Uniti, la maggior parte dell'Europa, compresi gli Stati una volta appartenenti al blocco comunista (Ungheria, Polonia, Romania, Repubblica Ceca) e altri nati dalla scissione dell'ex Jugoslavia (Croazia, Slovenia), Israele e il Giappone coi Paesi orientali di recente industrializzazione. Le classi intermedie sono poco frequentate. Un'attenzione particolare è da rivolgere alla Turchia e agli Stati asiatici che compaiono nella classi di prevalenza medio-alta dei manufatti: India, Pakistan, Nepal, Malaysia e Filippine. Sono Paesi tuttora a basso reddito e con un'alta incidenza del settore agricolo, che hanno avuto nei due decenni passati un fortissimo sviluppo industriale, rovesciando la situazione precedente che li vedeva esportatori di materie prime.
La prevalenza dell'esportazione di beni primari non è in senso stretto sinonimo di debolezza economica. Alcuni Paesi che si trovano in questa condizione appartengono alla fascia medio-alta della graduatoria internazionale dei redditi: è il caso di grandi esportatori di petrolio come l'Arabia Saudita, il Kuwait e gli Emirati Arabi, a cui si possono aggiungere Paesi industriali come la Norvegia e alcune Repubbliche dell'ex Urss. L'Australia è una forte esportatrice di materie prime agricole e di minerali di ferro; la Nuova Zelanda vende all'estero esclusivamente carne e lana. In genere, però, l'equazione funziona: predominio dei settori agricolo e minerario e basso reddito pro capite vanno di pari passo e caratterizzano economie con uno scarso grado di industrializzazione e dipendenti dall'estero per la formazione di capitale e l'acquisizione di tecnologie.
Osservando i dati concernenti la ripartizione del commercio mondiale e delle esportazioni di alcuni prodotti, si può dedurre come i Paesi sviluppati ad economia di mercato polarizzino i 2/3 dell'interscambio complessivo. L'Ue, che alla fine degli anni Ottanta deteneva la quota più alta tanto delle esportazioni quanto delle importazioni, sembra essere la maggior potenza commerciale a livello mondiale. In realtà, una valutazione più precisa richiede di analizzare, sia pure in maniera sommaria e semplificata, le grandi correnti di scambio internazionale che hanno caratterizzato l'ultimo decennio.
Prendiamo in considerazione i tre principali poli commerciali, i loro rapporti reciproci e quelli con i Paesi in via di sviluppo. Alla fine degli anni Ottanta, l'Europa occidentale (Cee ed Efta), detenendo una quota elevatissima del commercio mondiale, appariva centrata su se stessa e piuttosto al margine rispetto alle correnti di scambio intercontinentali: circa 2/3 dei suoi scambi avvenivano all'interno della sua stessa area; al secondo posto per importanza come partner commerciale trovavamo i Paesi in via di sviluppo, con un ruolo crescente dei Paesi petroliferi; seguivano l'America del Nord (Stati Uniti e Canada), ed infine il Giappone. Con l'unificazione del mercato europeo avvenuto nel 1993, il commercio tra gli Stati membri dell'Ue non viene più considerato solo dal punto di vista internazionale e, di conseguenza, il ruolo dell'Europa si ridimensiona ulteriormente.
In confronto l'area nord-americana appare molto più aperta: gli scambi tra Stati Uniti e Canada rappresentano 1/3 del loro commercio complessivo mentre i principali partner commerciali esterni (da un lato il Giappone e il Sud-Est asiatico, dall'altro l'Europa occidentale) detengono una quota di scambi paragonabile a quella del commercio tra i due Paesi americani (scambio intra-area).
Il Giappone ricava la maggior parte delle sue importazioni dall'Asia sud-orientale e dagli Stati Uniti che rappresentano anche il suo maggior mercato di esportazione.
Fino agli inizi degli anni Novanta l'Unione Sovietica e i Paesi europei ad economia pianificata hanno avuto un ruolo limitato nel commercio mondiale. La creazione di un modello di società alternativa a quella capitalistica, il confronto politico e militare col blocco di potere occidentale, la logica stessa di un sistema economico guidato da scelte centrali e non dagli impulsi del mercato, sono stati fattori che hanno spinto l'Urss a ridurre al minimo la sua dipendenza economica dall'estero, assegnando al commercio internazionale una funzione marginale.
La maggior parte degli scambi esteri sovietici (57 per cento delle importazioni; 52 per cento delle esportazioni a metà degli anni Ottanta) si è svolto coi Paesi dell'Est europeo membri del Comecon.
Durante l'impero sovietico, gli scambi dell'Urss e dei Paesi dell'Est con le economie di mercato avanzate (si può prendere come riferimento il commercio con i Paesi dell'Ocde) hanno avuto una curva ascendente durante gli anni Settanta, per poi declinare all'inizio dello scorso decennio. Per i Paesi del Comecon vi era la speranza di fronteggiare col ricorso all'importazione la bassa produttività e di ammodernare le attrezzature industriali, mentre, da parte loro, le imprese occidentali alla ricerca di nuovi sbocchi e le banche, che disponevano di un eccesso di liquidità, avevano interesse a favorire il processo con la concessione di crediti vantaggiosi.
Ben presto però è diventato evidente che i Paesi dell'Est non erano in grado di aumentare in maniera proporzionale le loro esportazioni verso i mercati occidentali, disponendo di merci (prodotti tessili e siderurgici, beni di consumo fabbricati con tecnologie semplici), per le quali la domanda era calante e forte la concorrenza dei Paesi in via di sviluppo. Si sono così avuti crescenti disavanzi commerciali, l'interruzione dei prestiti esteri e il varo di politiche di riaggiustamento. Durante gli anni Ottanta, l'Est ha ridotto drasticamente le sue importazioni dall'Ocde e ha riorientato le esportazioni verso la propria area e i Paesi in via di sviluppo.
A partire dagli inizi degli anni Novanta la dissoluzione dell'Unione Sovietica ha innescato processi a catena che hanno trasformato dalle fondamenta i sistemi economici dell'Europa orientale e di conseguenza la loro collocazione nelle relazioni economiche mondiali. La situazione nei Paesi dell'Est, a oltre una decina d'anni dalla caduta del muro di Berlino, si è però rivelata più difficile di quanto non ci si fosse aspettati. Calo delle attività produttive, disoccupazione, deficit commerciale e inflazione: queste le principali costanti del processo di apertura all'economia di mercato. Nel 1991, la Polonia e la Romania hanno registrato un crollo della produzione pari al 15-20% e i Paesi dell'ex Urss del 5%. L'inflazione ha raggiunto il 50% in alcune ex repubbliche sovietiche e la situazione non è sempre migliorata con gli anni, arrivando, a fine decennio, a percentuali di inflazione pari al 31% (Tagikistan), al 36% (Kirghizistan), al 43,7% (Moldova) fino a un allarmante 73% (Bielorussia).

DIPENDENZA E DIVERSITÀ


Nel corso degli ultimi anni si è verificato un riorientamento delle correnti commerciali intercontinentali. Nella prima metà degli anni Settanta queste erano centrate su un rapporto privilegiato, anche se in via di declino, tra Stati Uniti ed Europa occidentale; nel 1984 il volume degli scambi tra le due sponde del Pacifico aveva superato per la prima volta quello degli scambi transatlantici. Il Giappone e l'Asia sudorientale erano diventati i principali fornitori del Nord America, elevando da 1/5 a quasi 1/3 la loro quota sul totale delle importazioni dell'area. L'Europa era rimasta la principale destinataria delle esportazioni nord-americane, ma con una quota di partecipazione calante ed insidiata da vicino da Giappone e Paesi asiatici. Si era ridotto anche il peso dell'America latina, che in passato costituiva il polo principale degli scambi tra Stati Uniti e Paesi in via di sviluppo.
A questo riassestamento, che rifletteva i cambiamenti intervenuti nei rapporti di forza fra le principali economie di mercato, si erano accompagnate tensioni nel sistema commerciale, conflitti e richieste protezionistiche da parte di settori produttivi e di gruppi di interesse.
Il secondo dopoguerra ha visto l'espansione del libero scambio. Nel 1947 i principali Paesi industriali hanno dato vita ad un accordo generale sulle tariffe e il commercio (Gatt), impegnandosi a garantire uguali condizioni di scambio a tutti i Paesi (multilateralismo) e a ridurre ogni tipo di barriera commerciale, dagli accordi bilaterali alle quote di importazione, dai dazi alle esportazioni sussidiate. Verso la metà degli anni Sessanta il liberismo toccava il vertice con i negoziati del Kennedy Round, in cui le grandi nazioni industriali progettavano riduzioni medie del 30 per cento dei dazi applicati ai prodotti industriali.
Con gli anni Settanta è iniziata un'inversione di rotta caratterizzata da due tendenze contrastanti: da un lato la spinta a procedere sulla via della liberalizzazione, rinnovando la normativa del Gatt ed estendendola a campi rimasti finora ai margini dell'accordo: agricoltura, servizi, alta tecnologia, dall'altro il tentativo da parte di alcuni Stati di difendere interessi nazionali. La prima tendenza è giustificata dalla sempre maggiore complessità e compenetrazione fra industria e servizi, commercio e investimenti esteri, attività all'interno e all'estero delle imprese multinazionali, ma a premere in questa direzione sono soprattutto gli Stati Uniti che reclamano una maggior apertura dei mercati esteri, e soprattutto di quello giapponese, in settori come le telecomunicazioni e i servizi, in cui gli Statunitensi hanno un vantaggio competitivo.
Per contro la Cee, poco disposta a ridiscutere la sua politica agricola, e molti Paesi in via di sviluppo, convinti che la liberalizzazione dei servizi possa giocare a loro svantaggio, hanno frapposto resistenze, anche se alla fine sono prevalsi l'ideologia liberista e il timore di reazioni protezionistiche negli Stati Uniti. Nel settembre del 1986 si è così aperta una nuova e contrastata fase di negoziati (Uruguay Round).
Uno delle maggiori questioni di attrito fra Stati Uniti e Cee è stata proprio quella dell'agricoltura. Il governo statunitense ha preteso l'abolizione di tutti i sussidi alle esportazioni agricole europee, mentre la Cee si è dichiarata disposta ad arrivare al massimo ad alcune riduzioni.
Nei primi anni Novanta, si è potuto segnalare un aumento del tasso reale, a dimostrazione del fatto che le economie sono sempre più interdipendenti e che il commercio permane sempre più dinamico della produzione. Ma, in apertura di decennio, su questa importantissima componente di crescita, è gravata l'incognita del protezionismo, come hanno dimostrato le difficoltà in cui si sono svolti i negoziati dell'Uruguay Round e del Gatt.
Con l'approssimarsi della fine del secolo, poi, altre problematiche hanno contrapposto Stati Uniti e Unione europea in ambito agricolo, prima fra tutti la differenza legislativa inerente l'impiego di colture geneticamente modificate, molto più permissiva negli Usa.
Abbiamo già visto come, dalla fine della Seconda guerra mondiale, l'Occidente e il Giappone abbiano costituito il loro benessere sull'applicazione del principio della libertà di scambio. Alla fine degli anni Ottanta hanno cominciato a confrontarsi coloro che auspicavano l'estensione di questo principio ad aree fino a quel momento protette, quali agricoltura e servizi, e coloro che invece difendevano con fermezza interessi settoriali e regionali. Le difficoltà della trattativa nell'ambito del Gatt hanno riflesso questo contrasto che si è manifestato sia all'interno del mondo sviluppato sia nei rapporti tra questo e i Paesi in via di sviluppo. Questi ultimi, dopo notevoli perplessità iniziali, hanno richiesto che il modello di scambi internazionali da cui è scaturito il benessere del mondo occidentale venisse loro esteso. Una più ampia partecipazione al commercio mondiale è stata ritenuta dalle nazioni del Terzo Mondo una componente essenziale per riuscire ad attenuare il loro indebitamento estero. Un'apertura dei mercati in questo senso, senza un'organizzazione coordinata e coerente, potrebbe avere come conseguenza immediata il verificarsi di imponenti fenomeni migratori, con relativi problemi culturali, sociali, economici e politici. Fino ad oggi, in ambito di commercio internazionale, le forze operanti hanno creato grandi blocchi, caratterizzati da una continuità geografica e dalla presenza di una potenza economicamente predominante che fungeva da polo di attrazione per gli scambi. Solo ultimamente si è cominciato a prendere in considerazione un modello di relazioni mondiali improntato sull'apertura a Paesi differenti, su un'intensificazione degli investimenti dei Paesi più ricchi in quelli con abbondanza di mano d'opera e di materie prime. Una maggiore e ben regolata libertà di scambio, di merci e capitali, potrebbe permettere una diffusione del benessere con il consolidamento di rapporti tra aree diverse, preservando peraltro i connotati tipici delle popolazioni e delle culture dei nuovi Paesi coinvolti.
Il 1993 aveva segnato un tasso di sviluppo del commercio molto modesto rispetto ai precedenti (3%): questo fatto andava di pari passo con la grave crisi economica e finanziaria che quasi tutti gli Stati si erano trovati a fronteggiare. Quando la produzione è in calo e la domanda non tira, anche il commercio ristagna. In questo orientamento generale del mercato, non erano mancate alcune eccezioni, tra cui l'Asia che aveva continuato a esportare e importare a ritmi molto sostenuti.
Sempre in questo periodo il Parlamento americano ha spinto nella direzione di un asse commerciale preferenziale tra Nord-America e Asia; questo orientamento è stato combattuto aspramente dall'Europa che, in una simile prospettiva, si sarebbe trovata esclusa dai traffici con l'Asia, la parte del mondo in crescita più rapida. Il pericolo che si venissero a creare tre fortezze commerciali in aperto conflitto ha contribuito a superare l'impasse nei negoziati dell'Uruguay Round, che ormai si trascinavano da più di 7 anni.
Gli accordi dell'Uruguay Round, siglati nel dicembre 1993, hanno tendenzialmente segnato alcuni punti a favore del multilaterialismo commerciale: innanzi tutti con essi sono stati riportati in ambito Gatt i prodotti agricoli, quelli dell'abbigliamento tessile e i servizi. In base a questi accordi inoltre è stata creata un'Organizzazione mondiale per il commercio (Wto) destinata a sostituire il Gatt nella regolamentazione e risoluzione delle dispute commerciali. A parere degli esperti, però, l'Uruguay Round ha lasciato irrisolte alcune questioni fondamentali, in quanto non sono state previste aperture di mercato per alcuni servizi, tra cui quelli finanziari, marittimi e audiovisivi. I recenti accordi hanno di fatto attenuato, ma non risolto, la contraddizione di fondo esistente nella struttura commerciale degli anni Ottanta-Novanta. Nonostante l'Uruguay round, infatti, continuano a coesistere due principi organizzativi in contrasto fra loro: il primo basato sulla non-discriminazione e sul libero scambio, il secondo basato invece su procedure che favoriscono i partner regionali e i rapporti simmetrici tra nazioni. Negli ultimi anni, vi è stato un rafforzamento del secondo a scapito del primo, con il rischio di una limitazione poco producente dei flussi commerciali e una riduzione del benessere mondiale. Si è assistito, infatti, alla segmentazione del mercato internazionale, con il consolidamento di aree di libero scambio regionali (l'Ue; l'area Stati Uniti, Canada e Messico, chiamata Nafta) e la proliferazione di accordi preferenziali (il progetto di mercato comune fra Brasile ed Argentina, l'accordo fra gli Stati membri dell'Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico e quello fra Australia e Nuova Zelanda, per fare solo alcuni esempi).
Fino alla stipulazione degli accordi dell'Uruguay Round erano cresciute le misure di protezione non tariffaria, concentrandosi soprattutto nel settore tessile, in quello agricolo e in quello dell'acciaio, sottoposto durante gli anni Ottanta a una violenta ristrutturazione.
Un'altra pratica che è sfuggita alle regole del libero scambio è stata quella degli «scambi compensati» in base alla quale le esportazioni di un determinato Paese sono subordinate ad un acquisto di merci nel Paese che importa. Le compensazioni possono prendere forme differenti, dal «controacquisto», col quale le imprese esportatrici si impegnano ad acquistare un dato volume di prodotti del Paese acquirente, alla «compensazione industriale», un contratto che obbliga le ditte fornitrici di impianti e attrezzature ad accettare in pagamento i prodotti fabbricati grazie a quegli stessi impianti. Un tipo di scambio molto diffuso, per esempio, nel commercio di armi è la «compensazione per incorporazione» nel materiale esportato di elementi prodotti nel Paese importatore: vi fanno ricorso anche le nazioni sviluppate, in particolare i membri della Nato per i loro acquisti di armi dagli Stati Uniti.
Gli scambi compensati rispondono fondamentalmente allo scopo di ridurre al minimo l'esborso di valuta pregiata e sono diffusi soprattutto nei rapporti dei Paesi sviluppati con le economie dei Paesi dell'ex Urss e il Terzo mondo. Negli anni Ottanta essi hanno avuto un'importanza crescente per alcuni Stati dell'Est altamente indebitati come la Polonia e la Romania e per numerosi Paesi in via di sviluppo. Molte nazioni petrolifere, aggirando il prezzo fissato dall'Opec, hanno offerto ai loro fornitori esteri pagamenti in petrolio grezzo a condizioni più favorevoli di quelle vigenti sul mercato internazionale. Imprese industriali e banche si sono attrezzate per smerciare prodotti eterogenei, creando apposite filiali e dando luogo ad un settore a parte del commercio internazionale, dotato di proprie tecniche e di propri specialisti.
Gli scambi compensati sono particolarmente in contrasto con la logica del liberismo, perché, oltre a creare correnti commerciali e prezzi con procedimenti estranei ai meccanismi di mercato, si svolgono in condizioni poco trasparenti, note solo ai diretti interessati. Difficile è quindi avere un'idea precisa della loro importanza.
La situazione di debolezza è particolarmente grave per le economie la cui bilancia commerciale dipende dall'esportazione di uno o pochi prodotti agricoli facilmente coltivabili: un cattivo raccolto, un calo della domanda internazionale o l'estensione delle coltivazioni in altri Paesi, possono portare ad una drastica riduzione degli introiti, costringendo il Paese a privarsi di importazioni essenziali, oppure ad indebitarsi con l'estero. La situazione non è nuova: già negli anni Ottanta l'indice dei prezzi in dollari dei beni primari esportati dai Paesi in via di sviluppo (esclusi i combustibili) era diminuito, per un calo della domanda mondiale dovuto al rallentamento della crescita economica e alla sostituzione di alcune materie prime con prodotti di sintesi.
Particolarmente sfavorevole era stato l'andamento dei prezzi del gruppo «cibi e bevande tropicali», che rappresentava la metà delle esportazioni di beni primari non combustibili di buona parte dei Paesi in via di sviluppo. Alla fine degli anni Ottanta i prezzi del cacao e del caffè erano scesi ad un livello così basso da spingere i produttori di caffè a costituire nell'ottobre del 1987 un accordo di limitazione delle esportazioni.
Guerre, crisi, stagnazioni: il mercato internazionale ha dovuto attraversare varie fasi, di più o meno profonda difficoltà. Nonostante tutto il commercio mondiale riuscì a mantenersi a galla e nel 2000 il totale dei beni commerciati era pari a 1.905,3 miliardi di dollari, dato finale di un triennio di costante crescita (nel 1998 si era a un livello di 1.537,7 miliardi di dollari).

LA NAZIONALITÀ DELLE MULTINAZIONALI


Le multinazionali sono enormi società che presentano una o più unità operative (fabbriche, raffinerie, strutture distributive, strutture amministrative, ecc.) all'estero, e che dispongono di migliaia di scienziati, pubblicitari ed esperti di mercato.
Esse non sono un fenomeno recente, avendo precedenti storici anche lontani nel tempo. Attualmente controllano il più del 30 per cento delle lavorazioni e del marketing mondiali. Pressate dalla concorrenza mondiale a superare i confini degli Stati, il loro ruolo non ha cessato di aumentare per l'importanza crescente di prodotti come il petrolio, per i vantaggi derivanti dalla concentrazione dei mezzi di produzione (industria automobilistica e costruzioni navali), e per la loro presenza nei settori industriali in espansione (come l'elettronica).
Le caratteristiche che fanno di un'impresa una multinazionale sono innanzitutto una pluralità di unità operative (di produzione, distribuzione, ecc.), in Paesi diversi e quindi con sistemi economici e politici pure diversi. Perché si tratti di una multinazionale occorre una strategia comune tra le varie unità operative: una multinazionale riconduce sotto una sola strategia generale le politiche di gestione delle varie unità operative, coordinando le fonti di materie prime con la produzione, la produzione con la distribuzione, la ricerca di prodotti nuovi con il marketing, la raccolta di fondi fatta in Paesi diversi con gli investimenti internazionali di tutto il gruppo. Infine le operazioni internazionali devono avere un certo peso sull'attività totale dell'impresa.
Una grande impresa che operi quasi esclusivamente sul mercato nazionale e abbia una rete di distribuzione all'estero, rete che alimenta con l'esportazione di prodotti, non si può considerare una impresa multinazionale. Sotto questo punto di vista sono le imprese multinazionali europee di antica data e di origine nordica (Unilever, Philips) ad avere i connotati maggiori di multinazionalità, mentre le imprese americane (tra le più grandi e storicamente importanti: General Motors, Mobil, Ibm), si dividono in due grandi gruppi: le petrolifere, le imprese elettroniche ed alcuni grandi conglomerati che possiedono pienamente le caratteristiche di impresa multinazionale, e un secondo gruppo, costituito in parte dall'industria automobilistica e meccanica, caratterizzato da scarsi connotati di impresa multinazionale.
Analizzando i dati riguardanti il periodo che si estende dalla fine degli anni Ottanta fino all’inizio del nuovo millennio, risulta evidente il peso preponderante degli Stati Uniti nel sistema delle multinazionali con la presenza di più di 200 tra le 500 principali aziende mondiali. In questo periodo, le multinazionali statunitensi, che si autodefiniscono “transnazionali’’ coprono oltre il 40 per cento del volume d'affari del totale delle imprese.
Troviamo poi il Giappone, le cui imprese multinazionali hanno realizzato negli ultimi anni una spettacolare crescita in numero e dimensioni: sul suo territorio hanno la loro sede principale 87 aziende (17 per cento sul totale di 500), con il 13 per cento del volume d'affari totale e l'8 circa di effettivi. Ulteriormente distanziato in questa classificazione è il Regno Unito, la cui posizione appare in questo senso superiore rispetto a quella normalmente assegnatagli dalle statistiche economiche.
Se per il loro nome ed il loro funzionamento le imprese multinazionali non sembrano essere legate ad alcun interesse nazionale specifico, esistono alcuni condizionamenti, quali la spinta al potere ed il bisogno di ricevere appoggi dal loro stato di origine, per i quali la loro nazionalità rimane un fattore importante.
Nel corso del tempo la geografia delle multinazionali è cambiata, esse non sono più appannaggio degli Stati Uniti e dell'Europa. Oltre all'affermarsi delle multinazionali giapponesi, negli ultimi trent’anni hanno fatto la loro comparsa le multinazionali asiatiche (Cina, Sud-Est asiatico) e dell'America latina (Brasile, Venezuela), sebbene la posizione di questi outsider nella classifica sia lontana dai primi posti.
Per cercare di concretizzare maggiormente questa analisi, si potrebbe fare un confronto tra il volume d'affari di alcune grandi compagnie multinazionali, il Prodotto Nazionale Lordo (Pnl) ed il bilancio nazionale di alcuni Stati. In diversi anni, il volume d'affari delle più grandi società multinazionali è risultato dello stesso ordine di grandezza del Pnl e del bilancio nazionale di Stati come la Corea del Sud, la Norvegia, l'Argentina: il fatturato della General Motors, per esempio, alla fine degli anni Ottanta aveva superato il Pnl dell'Arabia Saudita. Alla fine degli anni Settanta solo quattro Paesi del Terzo mondo (Cina, India, Brasile e Messico) avevano redditi nazionali superiori alle vendite della Exxon. Questi confronti possono dare un'idea dell'enorme potere economico, ed anche in qualche modo politico, di cui le multinazionali dispongono, e le possibilità che esse hanno di esercitare un'influenza notevolissima sullo sviluppo locale.
Esse possono promuovere lo scambio di conoscenze attraverso genti e Paesi e contribuire alla cooperazione tra gli Stati. Possono pure influenzare lo stile di vita, il sistema socioculturale e lo sviluppo politico di un Paese, come anche le relazioni tra nazioni.
D'altra parte le multinazionali possono occasionalmente promuovere delle influenze politiche sugli affari interni dei Paesi ospitanti, in particolare nel caso di Paesi in via di sviluppo, utilizzando il loro ampio potere finanziario e le loro relazioni strette con il potere politico locale.
La struttura delle multinazionali è assai complessa; le maggiori di esse hanno scelto la specializzazione in alcuni settori, creando filiali nei Paesi in via di sviluppo per produzioni a bassa tecnologia e ad alto impiego di lavoro, onde poter approfittare della disponibilità in loco di manodopera a basso costo e mantenere nei Paesi industrializzati produzioni a base tecnologica.
Nei primi anni Novanta, in concomitanza alla crisi economica che ha investito con violenza tutti i Paesi Più industrializzati, si è in parte modificato questo quadro. Anche le multinazionali hanno infatti risentito del crollo della produzione industriale e dei problemi da esso derivanti, primi fra tutti la disoccupazione e la situazione stagnante dei mercati commerciali. La crisi e la trasformazione del settore industriale ha portato infatti all'estinzione di grandi colossi aziendali (si prenda ad esempio la Pan Am americana, ufficialmente chiusa nel 1991) e al ridimensionamento di multinazionali floride e ben avviate, soprattutto nel settore automobilistico e informatico.

UN ESEMPIO DI STRATEGIA ECONOMICA: IL MARKETING


In inglese significa «compra-vendita». Nel linguaggio dell'economia il vocabolo è adoperato per indicare la tecnica delle ricerche di mercato. Ciò significa organizzare una razionale ed efficace distribuzione dei prodotti e una efficiente rete di vendita.
L'importanza del marketing è molto aumentata negli ultimi anni ed è operazione caratteristica della cosiddetta società dei consumi dove la proposta e la distribuzione di un prodotto appaiono non meno importanti del momento della produzione.

 

 

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