IL SUD OBERATO DAI DEBITI
Per i Paesi in via
di sviluppo il problema economico principale è diventato, da alcuni anni,
quello del pagamento del debito estero, che ammonta ormai a diverse migliaia di
miliardi di dollari.
La situazione è peraltro differenziata anche
all'interno degli stessi Paesi, dove se ne contano alcuni la cui situazione
è più grave di quella degli altri. Si tratta di Argentina,
Bolivia, Brasile, Colombia, Costa d'Avorio, Ecuador, Marocco, Messico, Nigeria,
Perù, Filippine, Uruguay, Venezuela. Alla fine degli anni Ottanta, il
debito di questi Paesi rappresentava circa la metà di tutto il debito a
lungo termine, con una somma di servizio del debito pari a circa 250 miliardi di
dollari e interessi per più di 100 miliardi. Più precisamente i
soli Paesi dell'Africa sub-sahariana e quelli latino-americani hanno accumulato
un debito che rappresenta più del 360 per cento delle loro esportazioni.
Purtroppo, col tempo, ad essi se ne sono aggiunti molti altri, soprattutto
africani (Angola, Burundi, Benin, Camerun, Ciad, Etiopia, Gambia, Ghana, Guinea
Bissau, Kenia, Liberia, Madagascar, Mali, Mauritania, Mozambico, Niger,
Repubblica Centrafricana, Repubblica del Congo, Repubblica Democratica del
Congo, Ruanda, Sierra Leone, Senegal, Somalia, Tanzania, Togo, Uganda, Zambia)
ma anche americani (Honduras, Nicaragua) e asiatici (Laos, Myanmar, Vietnam)
Per ricostruire un po' di storia del debito, si può partire dalla
constatazione che nel 1980 il debito complessivo era di 485 miliardi di dollari.
Ed è proprio nel corso dei primi anni Ottanta che cominciano a
manifestarsi i primi segnali di crisi, infatti i Paesi più indebitati
sono obbligati a indebitarsi ulteriormente per far fronte alle scadenze.
L'aumento progressivo dei tassi d'interesse e del dollaro, fa sì che i
nuovi prestiti diventino poi sufficienti alla sola copertura degli oneri del
debito, cioè ai soli interessi, generando così una spirale di
crescita vertiginosa. Tale situazione è andata vistosamente peggiorando
nel corso di tutti gli anni Ottanta e Novanta.
Un'altra tappa importante
nella storia del debito si ha nel 1984, quando incomincia ad invertirsi il
flusso dei capitali in entrata e in uscita dai Paesi debitori. Questo saldo
(denominato “net transfer’’) diventa cioè negativo nel
senso che ciò che viene pagato sotto forma di interesse e capitale supera
il flusso dei capitali in entrata.
Per affrontare questa situazione si sono
avute diverse iniziative, o da parte di singoli Paesi, come il Messico che ha
dichiarato la sua condizione di insolvibilità nel 1982, o da parte degli
organismi finanziari internazionali.
In particolare il Fondo Monetario
Internazionale (Fmi) ha proposto delle politiche di aggiustamento ai diversi
Paesi.
Uno degli strumenti più importanti proposto è la
riduzione dell'offerta interna di moneta attraverso il controllo del credito,
della spesa pubblica e l'abbassamento del tasso di inflazione. Poiché lo
squilibrio delle bilance commerciali dei Paesi debitori è inoltre spesso
dovuto a scarse esportazioni in rapporto alle necessità di pagamento del
debito, i suggerimenti contengono di sovente richieste di svalutazione della
valuta nazionale per rendere le merci più appetibili e l'incentivazione
di attività rivolte all'esportazione, contemporaneamente all'adozione di
misure per contrastare le importazioni.
Le politiche di aggiustamento
suggerite dal Fmi, non tenendo conto a sufficienza delle diverse situazioni dei
Paesi in questione e quindi di particolari carenze strutturali, e nemmeno dei
risvolti sociali che tali misure restrittive avrebbero avuto, hanno molto
sovente fallito il loro obiettivo e peggiorato le condizioni complessive dei
Paesi. Nel 1985 è stato lanciato il Piano Baker, dal nome del ministro
del Tesoro statunitense di quel periodo: l'obiettivo è quello di
promuovere contemporaneamente la crescita dei Paesi, riformandoli
strutturalmente al loro interno, e di incentivare nuovi prestiti per permettere
il pagamento del servizio del debito. Nel 1987 si è però
constatato che gli obiettivi del piano non erano stati raggiunti. Nel 1989
è la volta del Piano Brady che prevede, per la prima volta, una riduzione
del debito dovuto insieme ad un intervento maggiore del Fmi e della Banca
Mondiale. Nel 1990 la crisi dei debiti esteri del Terzo mondo è smorzata
e meno acuta rispetto agli anni precedenti, ma tende nuovamente a riemergere a
causa dell'onere imposto dai Paesi in via di sviluppo. Secondo i dati della
Banca Mondiale, nel '90 il debito di questi Stati è salito del 6% per un
totale di 1341 miliardi di dollari. Un incremento consistente, in gran parte
derivato dalla svalutazione del dollaro che ha gonfiato il debito dei singoli
Paesi nelle valute nazionali. In compenso per queste nazioni è stato
segnalato un miglioramento degli indicatori quali il rapporto tra debito ed
esportazioni, tra servizio del debito ed export, nonostante un incremento dei
tassi di interesse sul debito in valute diverse dal dollaro. Il 1993 e il 1994
sono invece stati anni di cerniera, influenzati dalla forte crisi economica
mondiale. In questo periodo si è assistito ad una brusca frenata da parte
dei Paesi industrializzati, mentre le economie emergenti dei Paesi in via di
sviluppo, hanno premuto sul mercato con prodotti a prezzi concorrenziali e
vantaggiose offerte di investimento. Contrariamente a quanto si erano aspettati
gli esperti, i Paesi del Terzo Mondo non sono andati a rimorchio dello statico
andamento dei Paesi ricchi; al contrario, sono balzati in avanti facendo segnare
forti tassi di crescita. Paradossalmente, i Paesi in via di sviluppo hanno
creato (grazie anche all'approvazione dell'Uruguay Round) i presupposti per la
ripresa anche dei Paesi sviluppati. La motivazione di questo nuovo orientamento
è da ricercare nel fatto che in molti Paesi dell'Asia del Sud-Est e
dell'America latina sembrano essersi riunite le condizioni per costruire un
nuovo modo di produrre che è sfociata in un'esplosione della
capacità di offerta a prezzi competitivi rispetto a quelli proposti dai
Paesi sviluppati. Alla fine il gioco dovrebbe, sempre a detta degli economisti,
risultare a somma positiva. Il progresso registrato dai Paesi emergenti ha come
conseguenza immediata un aumento del reddito, che diventerebbe sufficiente ad
assorbire beni durevoli ad alto valore aggiunto; in altre parole, dopo
l'esplosione delle esportazioni si dovrebbe assistere a un incremento delle
importazioni, con beneficio dei Paesi industriali e un innalzamento del
benessere di tutti.
Alla fine degli anni Novanta un nuovo atteggiamento,
una nuova sensibilità a livello internazionale ha favorito la nascita di
un movimento che chiedeva ai Paesi creditori l’azzeramento, totale o
parziale, del debito dei Paesi debitori. Il movimento, denominato “Drop
the Debt’’ (in italiano “Cancella il debito’’,
vide impegnarsi in prima persona personalità dello spettacolo e della
cultura (ricordiamo, tra gli altri, i cantanti Bob Geldolf e Bono degli U2) e
ottenne l’appoggio, tra gli altri, di papa Giovanni Paolo II.
IL NOSTRO PANE QUOTIDIANO
L'apporto di calorie è la misura
più comune e più semplice dell'alimentazione. Il fabbisogno minimo
di calorie è stato definito dall'Organizzazione Mondiale della
Sanità e differisce da Stato a Stato, tenendo conto delle condizioni
climatiche (occorrono infatti meno calorie nei Paesi caldi che nei Paesi
freddi), del tipo di lavoro, del sesso e del peso medio.
Partendo da questo
presupposto, si può affermare che per stare in buona salute sia
necessario assumere quotidianamente circa 2400 calorie al giorno (valore medio
sia per Paesi sviluppati che per Paesi in via di sviluppo). Nella maggior parte
dei Paesi industrializzati le razioni alimentari superano abbondantemente il
necessario raggiungendo in media il 40 per cento di calorie in più. Per i
Paesi del Terzo mondo sono in media disponibili il 10 per cento di calorie in
meno del fabbisogno.
Da un'analisi dei dati messi a disposizione dalla
Banca Mondiale e dall'Onu, appare una distinzione netta tra il Nord ed il Sud
del mondo: tutti i Paesi appartenenti al primo gruppo si trovano ai vertici
nella disponibilità di calorie. Oltre ad alcuni Paesi dell'America latina
(Bolivia, Ecuador), dell'Asia (Bangladesh, Nepal), i casi estremi di carenza di
calorie a livello di massa si trovano nel continente africano, con Mozambico,
Ruanda, Sierra Leone, Ghana, Guinea che corrispondono alla regione del Sahel
nell'Africa Occidentale, che ha subito gravi siccità e carestie. La
minaccia di queste ultime incombe tuttora su molte regioni africane. Ma solo in
parte il problema della fame può imputarsi alle condizioni climatiche. In
Africa, dal 1970 ad oggi, la produzione di cibo pro capite è diminuita in
generale.
La pressione demografica sarebbe potuta essere allentata con
appropriate politiche sociali ed economiche, mentre una rapida urbanizzazione ha
tolto uomini e risorse dalle campagne. Inoltre sono sorti, da parte delle nuove
élite urbane, bisogni di prodotti alimentari nuovi, non derivanti dalla
produzione locale che devono essere importati dall'estero aggravando la bilancia
commerciale. In molti casi le produzioni alimentari locali sono state
abbandonate per concentrarsi su produzioni destinate all'esportazione.
Le
cifre, pur interessanti, possono essere comunque ingannevoli. Le statistiche
riportano dei valori medi, che nascondono le situazioni estreme. Vi sono
abitanti dei Paesi "in surplus" che non hanno abbastanza con cui sfamarsi e
abitanti degli Stati "in deficit" con una disponibilità alimentare pari
al 10-20 per cento in più del necessario. Bisogna inoltre sottolineare
che vengono riportate le medie annuali. In molti Paesi del Terzo mondo vi sono
periodi in cui la carestia è particolarmente acuta; ciò accade ad
esempio nella fase di esaurimento del vecchio raccolto e di preparazione del
nuovo.
La denutrizione agevola notevolmente il diffondersi di molte
malattie, e questo è ancora più vero per i bambini, che sono
più sensibili alle infezioni. La soglia al di sotto della quale si
rischia una grave denutrizione è di 1500 calorie al giorno: nel periodo
1974-76 oltre 400 milioni di persone si trovavano in questa condizione e negli
anni Ottanta l'Onu dichiarava che almeno 800 milioni di persone vivevano in
condizioni di fame e di miseria tali da essere considerate un'offesa alla
dignità umana.
La cifra è stata peraltro confermata anche da
altre fonti durante la decade successiva.
Ai bisogni energetici
quantitativi (misurato in apporto calorico quotidiano) si aggiungono quelli
qualitativi. Certi regimi alimentari relativamente abbondanti possono mancare di
vitamine, sali minerali, e soprattutto di proteine, indispensabili al
mantenimento e alla formazione dei tessuti. Sono proprio queste insufficienze
qualitative ad essere le più diffuse, le più gravi e le più
difficili da risolvere. Così, guardando solo l'aspetto quantitativo,
cioè l'apporto calorico, alcuni Paesi ricchi, come la Norvegia, i Paesi
Bassi e la Svezia, sembrano meno privilegiati rispetto ad alcune repubbliche
dell'ex Unione Sovietica o della Romania, ma facendo un'analisi globale risulta
che l'alimentazione nel primo gruppo di Paesi comprende un maggiore apporto di
proteine, vitamine ed altri importanti elementi nutritivi. Se nel Sud del mondo
la malnutrizione riguarda la scarsa presenza nell'alimentazione di questi
elementi fondamentali, per contro nel Nord la malnutrizione consiste
nell'eccessivo consumo di zuccheri, grassi, e prodotti animali, che provocano
obesità, diabete e malattie di cuore.
IL DIRITTO ALLE CURE MEDICHE
Analizzando il rapporto tra numero di medici
ed abitanti e i dati riguardanti le aspettative medie di vita alla nascita si
cogliere una ampia disparità tra i diversi gruppi di nazioni. L'Africa
è l'area che presenta (con i più alti tassi di mortalità)
la più bassa speranza media di vita alla nascita. Nella classifica dei
Paesi con il più alto tasso di mortalità infantile, i primi posti
sono occupati prevalentemente da nazioni del continente africano. I Paesi
europei e Stati Uniti, Canada e Giappone si posizionano invece in fondo al
drammatico elenco. In questi ultimi, la speranza media di vita al nascere
è di oltre 75 anni contro i 45 anni di durata media della vita registrati
nei Paesi africani.
Il tasso di mortalità riferito alla popolazione
mondiale era del 19,7 per 1000 abitanti nel periodo 1950-55, del 10,6 nel
periodo 1980-85 e del 9,1 per 1000 nel periodo 1995-2000.
Negli stessi
periodi per i Paesi in via di sviluppo i tassi di mortalità erano
rispettivamente del 24,4 per mille, dell'11 per 1000 e del 9 per 1000.
La
mortalità infantile è il fattore singolo più importante
nella valutazione della speranza di vita alla nascita: un tasso di
mortalità infantile elevato abbassa notevolmente le cifre della speranza
di vita. Come abbiamo visto, il Sud del mondo è caratterizzato da una
elevatissima mortalità infantile. Se l'applicazione delle tecniche
sanitarie moderne ha consentito, in modi relativamente semplici, un abbassamento
considerevole dei tassi complessivi di mortalità nei Paesi del Terzo
mondo, altrettanto non può dirsi per la diminuzione dei tassi di
mortalità infantile. Essa richiede igiene, istruzione, alimentazione
soddisfacente e personale medico abbondante, condizioni non ancora disponibili
in buona parte dei Paesi del Sud del mondo.
Le statistiche dicono che al
Nord su 1000 bambini (da 0 a 12 mesi) ne muoiono 19, mentre al Sud ne muoiono
almeno 100, con punte estreme di 210 in alcune nazioni. La sproporzione appare
enorme ed è determinata dalla denutrizione e dalle conseguenze da essa
derivanti, quali diarrea e malattie infettive.
Secondo un rapporto
dell'Organizzazione Mondiale della Sanità riferito al 1983 su 122 milioni
di bambini nati nell'anno, circa il 10 per cento, pari a 12 milioni, sono morti
entro il primo anno di età, un altro 4 per cento entro il quinto anno. La
semplice e curabile diarrea ne avrebbe portati via circa 6 milioni, mentre altri
5 milioni sarebbero morti per malattie varie come morbillo, pertosse, polio,
tetano, tubercolosi. Anche i dati più recenti confermano questa triste
verità: se nel 2001 su 1.000 bambini nati vivi in Australia, Austria,
Belgio, Canada, Repubblica Ceca, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania,
Grecia, Hong Kong, Islanda, Irlanda, Lussemburgo, Macao, Olanda, Nuova Zelanda,
Norvegia, Portogallo, Regno Unito, Singapore, Slovenia, Stati Uniti, Svezia,
Svizzera ne sono morti cifre oscillanti tra 3,47 (Svezia) e 6,76 (Stati Uniti),
in altri Paesi le cifre erano notevolmente superiori (Afghanistan, 147,02;
Angola, 193,72; Bhutan, 108,89; Burkina Faso, 106,92; Repubblica Centroafricana,
105,25; Gibuti, 101,51; Guinea, 129,03; Guinea-Bissau, 110,4; Malawi, 121,12;
Mali, 121,44; Mozambico, 139,2; Niger, 123,57; Ruanda, 118,92; Sierra Leone,
146,52; Somalia, 123,97; Swaziland, 109,19; Tagikistan, 116,09). In alcuni di
questi Paesi, alle cause di mortalità infantile citate prima, si devono
aggiungere quelle legate a conflitti e guerre che purtroppo non risparmiano
nessuno, bambini compresi.
Il rapporto medico per numero di abitanti
è uno degli indicatori più utilizzati per valutare il livello
dell'assistenza sanitaria in un dato Paese. Un basso rapporto, uguale od
inferiore al valore soglia di un medico ogni 500 abitanti (come per i Paesi del
Nord del mondo), viene assunto come sinonimo di un livello di assistenza medica
elevato. La scelta di tale rapporto come indice del grado di assistenza medica
non significa ignorare l'esistenza di metodi di cura tradizionali o negare
l'efficacia di atteggiamenti medici diversi da quelli consolidati in Occidente,
come l'omeopatia. Non esistendo mezzi per valutare l'assistenza disponibile nei
sistemi tradizionali di medicina, non è possibile utilizzarli per un
confronto a livello internazionale, dove la medicina occidentale ha un
predominio assoluto. Per dare un ordine di grandezza di riferimento si
può considerare che, ad esempio, in un Paese come la Cina i medici
omeopati sono 15-20 volte di più di quelli tradizionali. In Africa
c'è un guaritore locale ogni 500 persone contro un medico ogni 40
mila.
Anche per questo indicatore la diseguaglianza Nord-Sud è
evidente, ed anche in questo caso è in Africa che si registrano i
più alti valori in termini di abitanti per ogni medico.
Se
consideriamo l'insieme degli operatori sanitari di tutte le categorie (medici,
infermieri, medici tradizionali), un operatore sanitario dei Paesi meno
sviluppati deve servire una media di 2400 persone, negli altri Paesi in via di
sviluppo 500 persone, mentre nei Paesi sviluppati circa 130 persone. Se nei
Paesi meno sviluppati abbiamo in media un rapporto di un medico per 17.000
abitanti (con punte di 36.000 in Eritrea, 47.000 a Malawi, 132.000 in Mozambico,
35.000 in Nigeria e 50.000 in Ruanda), nei Paesi sviluppati il rapporto è
di un medico ogni 520 abitanti (con i dati più bassi a Cuba, 176, in
Georgia, 182, in Israele, 206, in Italia, 175, in Russia, 215, in Spagna, 229, e
in Ucraina, 224). Nessuna di queste medie rivela comunque la grande
disparità nella distribuzione del personale sanitario esistente
all'interno di uno stesso Paese. Per esempio in molti Paesi il rapporto del
numero di abitanti per ogni medico è nelle aree rurali dieci volte
più alto di quello esistente nelle aree metropolitane. Le risorse
sanitarie sono concentrate principalmente attorno alle sofisticate istituzioni
mediche presenti nelle aree urbane. In questo modo gran parte della popolazione
mondiale non ha alcun accesso a strutture curative permanenti: circa i quattro
quinti della popolazione mondiale, che vive in aree rurali o in sobborghi
degradati delle grandi metropoli, si trova in queste condizioni.
In molte
regioni africane gli abitanti devono percorrere 30 km a piedi per raggiungere il
dispensario più vicino per una somministrazione, che dovrebbe essere
quotidiana, di medicinali di base come il collirio antibiotico o l'aspirina
così diffusi al Nord del mondo. In alcuni Paesi, poi, anche se i servizi
medici sono raggiungibili con facilità, sono le differenze culturali o
l'insufficiente reddito a renderli inaccessibili.
La situazione attuale di
mortalità e malattia nel Terzo mondo appare simile a quella che
presentavano i Paesi industrializzati nel XIX secolo.
I problemi sanitari
del Nord del mondo oggi sono principalmente quelli connessi all'aumentata
longevità; c'è quindi necessità di cure a domicilio per
anziani che vivono da soli o in ricovero. Ci sono poi i problemi derivanti dalla
presenza di malattie mortali legate ai nuovi modelli di vita come quelle del
sistema circolatorio o il cancro.
I Paesi del Sud del mondo, come abbiamo
visto, devono invece combattere contro un'alta e diffusa mortalità,
soprattutto infantile, e in particolare contro le cause che la determinano:
malnutrizione e malattie infettive. Il problema principale per loro è
quello di provvedere alle infrastrutture per l'assistenza sanitaria primaria,
cosa che richiede una stretta alleanza tra operatori sanitari e comunità
locali.
Con gli anni Novanta sempre più grave si rivelava anche il
problema dell’Aids che, alla fine del 2001, colpiva circa 40 milioni di
persone.
IL DIRITTO ALL'ISTRUZIONE
Tra le variabili sociali un posto di rilievo
è occupato dal livello di istruzione della popolazione.
L'istruzione
può infatti considerarsi uno dei più importanti fattori che
favoriscono lo sviluppo produttivo e la sua localizzazione, ed essere
così un vero e proprio fattore attrattivo degli investimenti. L'idea che
l'istruzione costituisca una vera forma di investimento produttivo e non un
consumo di lusso da convogliare verso classi privilegiate è divenuta
cosciente solo in tempi recenti, anche se il valore economico dell'istruzione
è sempre stato avvertito, almeno inconsciamente.
Dal 1960 c'è
stato un aumento generalizzato del tasso di scolarizzazione: nel giro di 30 anni
è raddoppiato il numero degli iscritti, raggiungendo il miliardo di
persone. Anche il peso delle spese pubbliche per l'istruzione è cresciuto
nel tempo. Tuttavia nuovi orientamenti politico-sociali hanno fatto sì
che, negli anni Novanta, si innescasse un meccanismo di privatizzazione
dell’istruzione a discapito dell’istruzione pubblica.
Inoltre,
dal 1975, però, è stata registrata una riduzione del ritmo di
crescita del tasso di scolarizzazione, e l'educazione, posta in relazione allo
sviluppo economico, ha conosciuto negli anni Ottanta una stagnazione relativa,
fortemente dipendente dall’ingresso, nel computo totale dei dati, di
quelli relativi ai Paesi in via di sviluppo. Questi Paesi, infatti,
rappresentanti il 90 per cento dell'accrescimento assoluto, non sono stati in
grado, in base alle risorse disponibili, di raggiungere uno sviluppo ulteriore
del processo di scolarizzazione. L'ostacolo maggiore è rappresentato
dall'incremento demografico, che richiede maggiori spese anche nel campo
dell'istruzione, e dal crescente indebitamento che sottrae buona parte delle
già scarse risorse che questi Paesi sono in grado di dedicare al
settore.
Con il 75 per cento della popolazione in età scolare questi
Paesi dispongono solo del 15 per cento del budget mondiale per
l'istruzione.
Ciononostante uno sguardo globale ai dati evidenzia che nella
maggior parte dei Paesi le politiche di scolarizzazione hanno avuto successo:
l'80 per cento dei ragazzi con meno di 18 anni sono scolarizzati ed una
percentuale superiore al 5 per cento del Pnl viene destinata
all'istruzione.
Da sottolineare il già accennato fatto che queste
cifre non tengono conto degli investimenti privati nel campo dell'educazione,
investimenti che possono essere anche elevati nei Paesi ricchi. In questo quadro
generale abbastanza soddisfacente, solo l'Africa nera ed una parte del
continente asiatico si trovano molto indietro: un investimento nel campo
dell'istruzione di meno del 4 per cento di un Pnl già scarso ed una forte
crescita demografica spiegano senza dubbio l'insuccesso relativo soprattutto nel
campo dell'istruzione secondaria.
Ma queste cifre, da sole, non bastano.
Nei Paesi del Sud la percentuale di abbandoni della scuola prima del termine del
corso di studi è altissima: malattie, esigenze lavorative ed alti costi
sconvolgono i tassi di frequenza. Si calcola che su 100 bambini iscritti alla
scuola primaria al Sud, solo 61 riescano a portare a termine i quattro anni
previsti, gli altri vanno per lo più ad ingrossare le file degli
analfabeti. Nonostante la crescita generalizzata del tasso di scolarizzazione,
molti Paesi in via di sviluppo non son ancora riusciti a sconfiggere
l'analfabetismo sebbene siano stati fatti notevoli passi avanti. In questo senso
l'Africa presenta un tasso di analfabetismo del 40,3 per cento (contro il 71,6
del 1970) e l'Asia del 24,9 per cento (contro il 49,1 del 1970).
Il grande
numero di abitanti ed il tasso relativamente basso di analfabeti della Cina
esercitano una forte spinta verso il basso sulle statistiche riferite alla
regione asiatica, e per tutti i Paesi in via di sviluppo in generale, mentre il
Brasile e la Nigeria, gli Stati più popolosi nelle rispettive regioni,
non esercitano un analogo effetto sulle statistiche delle zone di
appartenenza.
Nel 1980 la percentuale di analfabeti sulla popolazione
adulta (al di sopra dei 15 anni di età) era stimata del 28,6 per cento,
pari a 814 milioni, confrontata con il 32,9 per cento, pari a 760 milioni, nel
1970, ed il 39,3 per cento, 735 milioni, nel 1960. Dai dati riguardanti i primi
anni Novanta è risultato che il numero di analfabeti nel mondo è
diminuito, seppure in modo esiguo, al 26,6% della popolazione mondiale, pari a
948 milioni di persone. Un rapporto dell'Unesco, presentato alla fine del 1990,
prevedeva entro il Duemila una diminuzione al 21,8%, dato, tutto sommato,
raggiunto. Nonostante questa diminuzione significativa in termini proporzionali,
il processo di eliminazione progressiva dell'analfabetismo risulta comunque
essere terribilmente lento, a causa anche e soprattutto del fatto che le
politiche di scolarizzazione non riescono a tenere il passo con l'aumento della
popolazione.
In molti Paesi i tassi di analfabetismo delle donne sono due o
tre volte quegli degli uomini. Le percentuali più elevate di analfabeti
si ritrovano tra i disoccupati e i carcerati. Per questi ultimi il disagio
conseguente all'impossibilità di scrivere è ancora più
grave, considerando che lo scrivere è per lo più l'unico mezzo di
comunicazione con l'esterno. Tra i giovani la proporzione di analfabeti è
più bassa come risultato della recente espansione della scuola primaria.
L'esperienza passata insegna comunque che coloro che non sono stati in grado di
apprendere le conoscenze di base al termine del normale periodo di studi in
età scolastica hanno una bassa probabilità di acquisirle in
età adulta.
Per quanto riguarda i corsi di istruzione superiore, in
molti casi nei Paesi del Sud del mondo, i corsi ed i programmi di studio imitano
i sistemi scolastici dell'Occidente e naturalmente riflettono le esigenze e le
condizioni di quest'ultimo.
Se si analizzano i dati disponibili riguardanti
la crescita del tasso di scolarizzazione, si può constatare un
accrescimento generalizzato di quest'ultimo, con le punte massime di crescita in
Africa e in America latina e Caraibi. I tassi più elevati di
scolarizzazione sono ancora appannaggio dei Paesi ricchi (Nord America ed
Europa), che sembrano aver raggiunto un livello stabile, con ancora una leggera
crescita del tasso di scolarizzazione delle ragazze che tende a superare quello
dei ragazzi. Il rallentamento nella crescita della scolarizzazione in
particolare negli Stati arabi ed in Asia, lascia presagire il mantenimento di
una certa differenza. Possiamo ancora confrontare la scolarizzazione dei ragazzi
e quella delle ragazze: pressoché identica negli Stati ricchi, tende ad
essere ancora marcata nelle altre regioni. In particolare la differenza è
assai sensibile negli Stati arabi, dove influente è la concezione
islamica della donna.