ITINERARI - IL MONDO ATTUALE - GEOGRAFIA - ASPETTI DELLA SOCIETÀ MONDIALE

IL SUD OBERATO DAI DEBITI


Per i Paesi in via di sviluppo il problema economico principale è diventato, da alcuni anni, quello del pagamento del debito estero, che ammonta ormai a diverse migliaia di miliardi di dollari.
La situazione è peraltro differenziata anche all'interno degli stessi Paesi, dove se ne contano alcuni la cui situazione è più grave di quella degli altri. Si tratta di Argentina, Bolivia, Brasile, Colombia, Costa d'Avorio, Ecuador, Marocco, Messico, Nigeria, Perù, Filippine, Uruguay, Venezuela. Alla fine degli anni Ottanta, il debito di questi Paesi rappresentava circa la metà di tutto il debito a lungo termine, con una somma di servizio del debito pari a circa 250 miliardi di dollari e interessi per più di 100 miliardi. Più precisamente i soli Paesi dell'Africa sub-sahariana e quelli latino-americani hanno accumulato un debito che rappresenta più del 360 per cento delle loro esportazioni. Purtroppo, col tempo, ad essi se ne sono aggiunti molti altri, soprattutto africani (Angola, Burundi, Benin, Camerun, Ciad, Etiopia, Gambia, Ghana, Guinea Bissau, Kenia, Liberia, Madagascar, Mali, Mauritania, Mozambico, Niger, Repubblica Centrafricana, Repubblica del Congo, Repubblica Democratica del Congo, Ruanda, Sierra Leone, Senegal, Somalia, Tanzania, Togo, Uganda, Zambia) ma anche americani (Honduras, Nicaragua) e asiatici (Laos, Myanmar, Vietnam)
Per ricostruire un po' di storia del debito, si può partire dalla constatazione che nel 1980 il debito complessivo era di 485 miliardi di dollari. Ed è proprio nel corso dei primi anni Ottanta che cominciano a manifestarsi i primi segnali di crisi, infatti i Paesi più indebitati sono obbligati a indebitarsi ulteriormente per far fronte alle scadenze. L'aumento progressivo dei tassi d'interesse e del dollaro, fa sì che i nuovi prestiti diventino poi sufficienti alla sola copertura degli oneri del debito, cioè ai soli interessi, generando così una spirale di crescita vertiginosa. Tale situazione è andata vistosamente peggiorando nel corso di tutti gli anni Ottanta e Novanta.
Un'altra tappa importante nella storia del debito si ha nel 1984, quando incomincia ad invertirsi il flusso dei capitali in entrata e in uscita dai Paesi debitori. Questo saldo (denominato “net transfer’’) diventa cioè negativo nel senso che ciò che viene pagato sotto forma di interesse e capitale supera il flusso dei capitali in entrata.
Per affrontare questa situazione si sono avute diverse iniziative, o da parte di singoli Paesi, come il Messico che ha dichiarato la sua condizione di insolvibilità nel 1982, o da parte degli organismi finanziari internazionali.
In particolare il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) ha proposto delle politiche di aggiustamento ai diversi Paesi.
Uno degli strumenti più importanti proposto è la riduzione dell'offerta interna di moneta attraverso il controllo del credito, della spesa pubblica e l'abbassamento del tasso di inflazione. Poiché lo squilibrio delle bilance commerciali dei Paesi debitori è inoltre spesso dovuto a scarse esportazioni in rapporto alle necessità di pagamento del debito, i suggerimenti contengono di sovente richieste di svalutazione della valuta nazionale per rendere le merci più appetibili e l'incentivazione di attività rivolte all'esportazione, contemporaneamente all'adozione di misure per contrastare le importazioni.
Le politiche di aggiustamento suggerite dal Fmi, non tenendo conto a sufficienza delle diverse situazioni dei Paesi in questione e quindi di particolari carenze strutturali, e nemmeno dei risvolti sociali che tali misure restrittive avrebbero avuto, hanno molto sovente fallito il loro obiettivo e peggiorato le condizioni complessive dei Paesi. Nel 1985 è stato lanciato il Piano Baker, dal nome del ministro del Tesoro statunitense di quel periodo: l'obiettivo è quello di promuovere contemporaneamente la crescita dei Paesi, riformandoli strutturalmente al loro interno, e di incentivare nuovi prestiti per permettere il pagamento del servizio del debito. Nel 1987 si è però constatato che gli obiettivi del piano non erano stati raggiunti. Nel 1989 è la volta del Piano Brady che prevede, per la prima volta, una riduzione del debito dovuto insieme ad un intervento maggiore del Fmi e della Banca Mondiale. Nel 1990 la crisi dei debiti esteri del Terzo mondo è smorzata e meno acuta rispetto agli anni precedenti, ma tende nuovamente a riemergere a causa dell'onere imposto dai Paesi in via di sviluppo. Secondo i dati della Banca Mondiale, nel '90 il debito di questi Stati è salito del 6% per un totale di 1341 miliardi di dollari. Un incremento consistente, in gran parte derivato dalla svalutazione del dollaro che ha gonfiato il debito dei singoli Paesi nelle valute nazionali. In compenso per queste nazioni è stato segnalato un miglioramento degli indicatori quali il rapporto tra debito ed esportazioni, tra servizio del debito ed export, nonostante un incremento dei tassi di interesse sul debito in valute diverse dal dollaro. Il 1993 e il 1994 sono invece stati anni di cerniera, influenzati dalla forte crisi economica mondiale. In questo periodo si è assistito ad una brusca frenata da parte dei Paesi industrializzati, mentre le economie emergenti dei Paesi in via di sviluppo, hanno premuto sul mercato con prodotti a prezzi concorrenziali e vantaggiose offerte di investimento. Contrariamente a quanto si erano aspettati gli esperti, i Paesi del Terzo Mondo non sono andati a rimorchio dello statico andamento dei Paesi ricchi; al contrario, sono balzati in avanti facendo segnare forti tassi di crescita. Paradossalmente, i Paesi in via di sviluppo hanno creato (grazie anche all'approvazione dell'Uruguay Round) i presupposti per la ripresa anche dei Paesi sviluppati. La motivazione di questo nuovo orientamento è da ricercare nel fatto che in molti Paesi dell'Asia del Sud-Est e dell'America latina sembrano essersi riunite le condizioni per costruire un nuovo modo di produrre che è sfociata in un'esplosione della capacità di offerta a prezzi competitivi rispetto a quelli proposti dai Paesi sviluppati. Alla fine il gioco dovrebbe, sempre a detta degli economisti, risultare a somma positiva. Il progresso registrato dai Paesi emergenti ha come conseguenza immediata un aumento del reddito, che diventerebbe sufficiente ad assorbire beni durevoli ad alto valore aggiunto; in altre parole, dopo l'esplosione delle esportazioni si dovrebbe assistere a un incremento delle importazioni, con beneficio dei Paesi industriali e un innalzamento del benessere di tutti.
Alla fine degli anni Novanta un nuovo atteggiamento, una nuova sensibilità a livello internazionale ha favorito la nascita di un movimento che chiedeva ai Paesi creditori l’azzeramento, totale o parziale, del debito dei Paesi debitori. Il movimento, denominato “Drop the Debt’’ (in italiano “Cancella il debito’’, vide impegnarsi in prima persona personalità dello spettacolo e della cultura (ricordiamo, tra gli altri, i cantanti Bob Geldolf e Bono degli U2) e ottenne l’appoggio, tra gli altri, di papa Giovanni Paolo II.

IL NOSTRO PANE QUOTIDIANO


L'apporto di calorie è la misura più comune e più semplice dell'alimentazione. Il fabbisogno minimo di calorie è stato definito dall'Organizzazione Mondiale della Sanità e differisce da Stato a Stato, tenendo conto delle condizioni climatiche (occorrono infatti meno calorie nei Paesi caldi che nei Paesi freddi), del tipo di lavoro, del sesso e del peso medio.
Partendo da questo presupposto, si può affermare che per stare in buona salute sia necessario assumere quotidianamente circa 2400 calorie al giorno (valore medio sia per Paesi sviluppati che per Paesi in via di sviluppo). Nella maggior parte dei Paesi industrializzati le razioni alimentari superano abbondantemente il necessario raggiungendo in media il 40 per cento di calorie in più. Per i Paesi del Terzo mondo sono in media disponibili il 10 per cento di calorie in meno del fabbisogno.
Da un'analisi dei dati messi a disposizione dalla Banca Mondiale e dall'Onu, appare una distinzione netta tra il Nord ed il Sud del mondo: tutti i Paesi appartenenti al primo gruppo si trovano ai vertici nella disponibilità di calorie. Oltre ad alcuni Paesi dell'America latina (Bolivia, Ecuador), dell'Asia (Bangladesh, Nepal), i casi estremi di carenza di calorie a livello di massa si trovano nel continente africano, con Mozambico, Ruanda, Sierra Leone, Ghana, Guinea che corrispondono alla regione del Sahel nell'Africa Occidentale, che ha subito gravi siccità e carestie. La minaccia di queste ultime incombe tuttora su molte regioni africane. Ma solo in parte il problema della fame può imputarsi alle condizioni climatiche. In Africa, dal 1970 ad oggi, la produzione di cibo pro capite è diminuita in generale.
La pressione demografica sarebbe potuta essere allentata con appropriate politiche sociali ed economiche, mentre una rapida urbanizzazione ha tolto uomini e risorse dalle campagne. Inoltre sono sorti, da parte delle nuove élite urbane, bisogni di prodotti alimentari nuovi, non derivanti dalla produzione locale che devono essere importati dall'estero aggravando la bilancia commerciale. In molti casi le produzioni alimentari locali sono state abbandonate per concentrarsi su produzioni destinate all'esportazione.
Le cifre, pur interessanti, possono essere comunque ingannevoli. Le statistiche riportano dei valori medi, che nascondono le situazioni estreme. Vi sono abitanti dei Paesi "in surplus" che non hanno abbastanza con cui sfamarsi e abitanti degli Stati "in deficit" con una disponibilità alimentare pari al 10-20 per cento in più del necessario. Bisogna inoltre sottolineare che vengono riportate le medie annuali. In molti Paesi del Terzo mondo vi sono periodi in cui la carestia è particolarmente acuta; ciò accade ad esempio nella fase di esaurimento del vecchio raccolto e di preparazione del nuovo.
La denutrizione agevola notevolmente il diffondersi di molte malattie, e questo è ancora più vero per i bambini, che sono più sensibili alle infezioni. La soglia al di sotto della quale si rischia una grave denutrizione è di 1500 calorie al giorno: nel periodo 1974-76 oltre 400 milioni di persone si trovavano in questa condizione e negli anni Ottanta l'Onu dichiarava che almeno 800 milioni di persone vivevano in condizioni di fame e di miseria tali da essere considerate un'offesa alla dignità umana.
La cifra è stata peraltro confermata anche da altre fonti durante la decade successiva.
Ai bisogni energetici quantitativi (misurato in apporto calorico quotidiano) si aggiungono quelli qualitativi. Certi regimi alimentari relativamente abbondanti possono mancare di vitamine, sali minerali, e soprattutto di proteine, indispensabili al mantenimento e alla formazione dei tessuti. Sono proprio queste insufficienze qualitative ad essere le più diffuse, le più gravi e le più difficili da risolvere. Così, guardando solo l'aspetto quantitativo, cioè l'apporto calorico, alcuni Paesi ricchi, come la Norvegia, i Paesi Bassi e la Svezia, sembrano meno privilegiati rispetto ad alcune repubbliche dell'ex Unione Sovietica o della Romania, ma facendo un'analisi globale risulta che l'alimentazione nel primo gruppo di Paesi comprende un maggiore apporto di proteine, vitamine ed altri importanti elementi nutritivi. Se nel Sud del mondo la malnutrizione riguarda la scarsa presenza nell'alimentazione di questi elementi fondamentali, per contro nel Nord la malnutrizione consiste nell'eccessivo consumo di zuccheri, grassi, e prodotti animali, che provocano obesità, diabete e malattie di cuore.

IL DIRITTO ALLE CURE MEDICHE


Analizzando il rapporto tra numero di medici ed abitanti e i dati riguardanti le aspettative medie di vita alla nascita si cogliere una ampia disparità tra i diversi gruppi di nazioni. L'Africa è l'area che presenta (con i più alti tassi di mortalità) la più bassa speranza media di vita alla nascita. Nella classifica dei Paesi con il più alto tasso di mortalità infantile, i primi posti sono occupati prevalentemente da nazioni del continente africano. I Paesi europei e Stati Uniti, Canada e Giappone si posizionano invece in fondo al drammatico elenco. In questi ultimi, la speranza media di vita al nascere è di oltre 75 anni contro i 45 anni di durata media della vita registrati nei Paesi africani.
Il tasso di mortalità riferito alla popolazione mondiale era del 19,7 per 1000 abitanti nel periodo 1950-55, del 10,6 nel periodo 1980-85 e del 9,1 per 1000 nel periodo 1995-2000.
Negli stessi periodi per i Paesi in via di sviluppo i tassi di mortalità erano rispettivamente del 24,4 per mille, dell'11 per 1000 e del 9 per 1000.
La mortalità infantile è il fattore singolo più importante nella valutazione della speranza di vita alla nascita: un tasso di mortalità infantile elevato abbassa notevolmente le cifre della speranza di vita. Come abbiamo visto, il Sud del mondo è caratterizzato da una elevatissima mortalità infantile. Se l'applicazione delle tecniche sanitarie moderne ha consentito, in modi relativamente semplici, un abbassamento considerevole dei tassi complessivi di mortalità nei Paesi del Terzo mondo, altrettanto non può dirsi per la diminuzione dei tassi di mortalità infantile. Essa richiede igiene, istruzione, alimentazione soddisfacente e personale medico abbondante, condizioni non ancora disponibili in buona parte dei Paesi del Sud del mondo.
Le statistiche dicono che al Nord su 1000 bambini (da 0 a 12 mesi) ne muoiono 19, mentre al Sud ne muoiono almeno 100, con punte estreme di 210 in alcune nazioni. La sproporzione appare enorme ed è determinata dalla denutrizione e dalle conseguenze da essa derivanti, quali diarrea e malattie infettive.
Secondo un rapporto dell'Organizzazione Mondiale della Sanità riferito al 1983 su 122 milioni di bambini nati nell'anno, circa il 10 per cento, pari a 12 milioni, sono morti entro il primo anno di età, un altro 4 per cento entro il quinto anno. La semplice e curabile diarrea ne avrebbe portati via circa 6 milioni, mentre altri 5 milioni sarebbero morti per malattie varie come morbillo, pertosse, polio, tetano, tubercolosi. Anche i dati più recenti confermano questa triste verità: se nel 2001 su 1.000 bambini nati vivi in Australia, Austria, Belgio, Canada, Repubblica Ceca, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Hong Kong, Islanda, Irlanda, Lussemburgo, Macao, Olanda, Nuova Zelanda, Norvegia, Portogallo, Regno Unito, Singapore, Slovenia, Stati Uniti, Svezia, Svizzera ne sono morti cifre oscillanti tra 3,47 (Svezia) e 6,76 (Stati Uniti), in altri Paesi le cifre erano notevolmente superiori (Afghanistan, 147,02; Angola, 193,72; Bhutan, 108,89; Burkina Faso, 106,92; Repubblica Centroafricana, 105,25; Gibuti, 101,51; Guinea, 129,03; Guinea-Bissau, 110,4; Malawi, 121,12; Mali, 121,44; Mozambico, 139,2; Niger, 123,57; Ruanda, 118,92; Sierra Leone, 146,52; Somalia, 123,97; Swaziland, 109,19; Tagikistan, 116,09). In alcuni di questi Paesi, alle cause di mortalità infantile citate prima, si devono aggiungere quelle legate a conflitti e guerre che purtroppo non risparmiano nessuno, bambini compresi.
Il rapporto medico per numero di abitanti è uno degli indicatori più utilizzati per valutare il livello dell'assistenza sanitaria in un dato Paese. Un basso rapporto, uguale od inferiore al valore soglia di un medico ogni 500 abitanti (come per i Paesi del Nord del mondo), viene assunto come sinonimo di un livello di assistenza medica elevato. La scelta di tale rapporto come indice del grado di assistenza medica non significa ignorare l'esistenza di metodi di cura tradizionali o negare l'efficacia di atteggiamenti medici diversi da quelli consolidati in Occidente, come l'omeopatia. Non esistendo mezzi per valutare l'assistenza disponibile nei sistemi tradizionali di medicina, non è possibile utilizzarli per un confronto a livello internazionale, dove la medicina occidentale ha un predominio assoluto. Per dare un ordine di grandezza di riferimento si può considerare che, ad esempio, in un Paese come la Cina i medici omeopati sono 15-20 volte di più di quelli tradizionali. In Africa c'è un guaritore locale ogni 500 persone contro un medico ogni 40 mila.
Anche per questo indicatore la diseguaglianza Nord-Sud è evidente, ed anche in questo caso è in Africa che si registrano i più alti valori in termini di abitanti per ogni medico.
Se consideriamo l'insieme degli operatori sanitari di tutte le categorie (medici, infermieri, medici tradizionali), un operatore sanitario dei Paesi meno sviluppati deve servire una media di 2400 persone, negli altri Paesi in via di sviluppo 500 persone, mentre nei Paesi sviluppati circa 130 persone. Se nei Paesi meno sviluppati abbiamo in media un rapporto di un medico per 17.000 abitanti (con punte di 36.000 in Eritrea, 47.000 a Malawi, 132.000 in Mozambico, 35.000 in Nigeria e 50.000 in Ruanda), nei Paesi sviluppati il rapporto è di un medico ogni 520 abitanti (con i dati più bassi a Cuba, 176, in Georgia, 182, in Israele, 206, in Italia, 175, in Russia, 215, in Spagna, 229, e in Ucraina, 224). Nessuna di queste medie rivela comunque la grande disparità nella distribuzione del personale sanitario esistente all'interno di uno stesso Paese. Per esempio in molti Paesi il rapporto del numero di abitanti per ogni medico è nelle aree rurali dieci volte più alto di quello esistente nelle aree metropolitane. Le risorse sanitarie sono concentrate principalmente attorno alle sofisticate istituzioni mediche presenti nelle aree urbane. In questo modo gran parte della popolazione mondiale non ha alcun accesso a strutture curative permanenti: circa i quattro quinti della popolazione mondiale, che vive in aree rurali o in sobborghi degradati delle grandi metropoli, si trova in queste condizioni.
In molte regioni africane gli abitanti devono percorrere 30 km a piedi per raggiungere il dispensario più vicino per una somministrazione, che dovrebbe essere quotidiana, di medicinali di base come il collirio antibiotico o l'aspirina così diffusi al Nord del mondo. In alcuni Paesi, poi, anche se i servizi medici sono raggiungibili con facilità, sono le differenze culturali o l'insufficiente reddito a renderli inaccessibili.
La situazione attuale di mortalità e malattia nel Terzo mondo appare simile a quella che presentavano i Paesi industrializzati nel XIX secolo.
I problemi sanitari del Nord del mondo oggi sono principalmente quelli connessi all'aumentata longevità; c'è quindi necessità di cure a domicilio per anziani che vivono da soli o in ricovero. Ci sono poi i problemi derivanti dalla presenza di malattie mortali legate ai nuovi modelli di vita come quelle del sistema circolatorio o il cancro.
I Paesi del Sud del mondo, come abbiamo visto, devono invece combattere contro un'alta e diffusa mortalità, soprattutto infantile, e in particolare contro le cause che la determinano: malnutrizione e malattie infettive. Il problema principale per loro è quello di provvedere alle infrastrutture per l'assistenza sanitaria primaria, cosa che richiede una stretta alleanza tra operatori sanitari e comunità locali.
Con gli anni Novanta sempre più grave si rivelava anche il problema dell’Aids che, alla fine del 2001, colpiva circa 40 milioni di persone.

IL DIRITTO ALL'ISTRUZIONE


Tra le variabili sociali un posto di rilievo è occupato dal livello di istruzione della popolazione.
L'istruzione può infatti considerarsi uno dei più importanti fattori che favoriscono lo sviluppo produttivo e la sua localizzazione, ed essere così un vero e proprio fattore attrattivo degli investimenti. L'idea che l'istruzione costituisca una vera forma di investimento produttivo e non un consumo di lusso da convogliare verso classi privilegiate è divenuta cosciente solo in tempi recenti, anche se il valore economico dell'istruzione è sempre stato avvertito, almeno inconsciamente.
Dal 1960 c'è stato un aumento generalizzato del tasso di scolarizzazione: nel giro di 30 anni è raddoppiato il numero degli iscritti, raggiungendo il miliardo di persone. Anche il peso delle spese pubbliche per l'istruzione è cresciuto nel tempo. Tuttavia nuovi orientamenti politico-sociali hanno fatto sì che, negli anni Novanta, si innescasse un meccanismo di privatizzazione dell’istruzione a discapito dell’istruzione pubblica.
Inoltre, dal 1975, però, è stata registrata una riduzione del ritmo di crescita del tasso di scolarizzazione, e l'educazione, posta in relazione allo sviluppo economico, ha conosciuto negli anni Ottanta una stagnazione relativa, fortemente dipendente dall’ingresso, nel computo totale dei dati, di quelli relativi ai Paesi in via di sviluppo. Questi Paesi, infatti, rappresentanti il 90 per cento dell'accrescimento assoluto, non sono stati in grado, in base alle risorse disponibili, di raggiungere uno sviluppo ulteriore del processo di scolarizzazione. L'ostacolo maggiore è rappresentato dall'incremento demografico, che richiede maggiori spese anche nel campo dell'istruzione, e dal crescente indebitamento che sottrae buona parte delle già scarse risorse che questi Paesi sono in grado di dedicare al settore.
Con il 75 per cento della popolazione in età scolare questi Paesi dispongono solo del 15 per cento del budget mondiale per l'istruzione.
Ciononostante uno sguardo globale ai dati evidenzia che nella maggior parte dei Paesi le politiche di scolarizzazione hanno avuto successo: l'80 per cento dei ragazzi con meno di 18 anni sono scolarizzati ed una percentuale superiore al 5 per cento del Pnl viene destinata all'istruzione.
Da sottolineare il già accennato fatto che queste cifre non tengono conto degli investimenti privati nel campo dell'educazione, investimenti che possono essere anche elevati nei Paesi ricchi. In questo quadro generale abbastanza soddisfacente, solo l'Africa nera ed una parte del continente asiatico si trovano molto indietro: un investimento nel campo dell'istruzione di meno del 4 per cento di un Pnl già scarso ed una forte crescita demografica spiegano senza dubbio l'insuccesso relativo soprattutto nel campo dell'istruzione secondaria.
Ma queste cifre, da sole, non bastano. Nei Paesi del Sud la percentuale di abbandoni della scuola prima del termine del corso di studi è altissima: malattie, esigenze lavorative ed alti costi sconvolgono i tassi di frequenza. Si calcola che su 100 bambini iscritti alla scuola primaria al Sud, solo 61 riescano a portare a termine i quattro anni previsti, gli altri vanno per lo più ad ingrossare le file degli analfabeti. Nonostante la crescita generalizzata del tasso di scolarizzazione, molti Paesi in via di sviluppo non son ancora riusciti a sconfiggere l'analfabetismo sebbene siano stati fatti notevoli passi avanti. In questo senso l'Africa presenta un tasso di analfabetismo del 40,3 per cento (contro il 71,6 del 1970) e l'Asia del 24,9 per cento (contro il 49,1 del 1970).
Il grande numero di abitanti ed il tasso relativamente basso di analfabeti della Cina esercitano una forte spinta verso il basso sulle statistiche riferite alla regione asiatica, e per tutti i Paesi in via di sviluppo in generale, mentre il Brasile e la Nigeria, gli Stati più popolosi nelle rispettive regioni, non esercitano un analogo effetto sulle statistiche delle zone di appartenenza.
Nel 1980 la percentuale di analfabeti sulla popolazione adulta (al di sopra dei 15 anni di età) era stimata del 28,6 per cento, pari a 814 milioni, confrontata con il 32,9 per cento, pari a 760 milioni, nel 1970, ed il 39,3 per cento, 735 milioni, nel 1960. Dai dati riguardanti i primi anni Novanta è risultato che il numero di analfabeti nel mondo è diminuito, seppure in modo esiguo, al 26,6% della popolazione mondiale, pari a 948 milioni di persone. Un rapporto dell'Unesco, presentato alla fine del 1990, prevedeva entro il Duemila una diminuzione al 21,8%, dato, tutto sommato, raggiunto. Nonostante questa diminuzione significativa in termini proporzionali, il processo di eliminazione progressiva dell'analfabetismo risulta comunque essere terribilmente lento, a causa anche e soprattutto del fatto che le politiche di scolarizzazione non riescono a tenere il passo con l'aumento della popolazione.
In molti Paesi i tassi di analfabetismo delle donne sono due o tre volte quegli degli uomini. Le percentuali più elevate di analfabeti si ritrovano tra i disoccupati e i carcerati. Per questi ultimi il disagio conseguente all'impossibilità di scrivere è ancora più grave, considerando che lo scrivere è per lo più l'unico mezzo di comunicazione con l'esterno. Tra i giovani la proporzione di analfabeti è più bassa come risultato della recente espansione della scuola primaria. L'esperienza passata insegna comunque che coloro che non sono stati in grado di apprendere le conoscenze di base al termine del normale periodo di studi in età scolastica hanno una bassa probabilità di acquisirle in età adulta.
Per quanto riguarda i corsi di istruzione superiore, in molti casi nei Paesi del Sud del mondo, i corsi ed i programmi di studio imitano i sistemi scolastici dell'Occidente e naturalmente riflettono le esigenze e le condizioni di quest'ultimo.
Se si analizzano i dati disponibili riguardanti la crescita del tasso di scolarizzazione, si può constatare un accrescimento generalizzato di quest'ultimo, con le punte massime di crescita in Africa e in America latina e Caraibi. I tassi più elevati di scolarizzazione sono ancora appannaggio dei Paesi ricchi (Nord America ed Europa), che sembrano aver raggiunto un livello stabile, con ancora una leggera crescita del tasso di scolarizzazione delle ragazze che tende a superare quello dei ragazzi. Il rallentamento nella crescita della scolarizzazione in particolare negli Stati arabi ed in Asia, lascia presagire il mantenimento di una certa differenza. Possiamo ancora confrontare la scolarizzazione dei ragazzi e quella delle ragazze: pressoché identica negli Stati ricchi, tende ad essere ancora marcata nelle altre regioni. In particolare la differenza è assai sensibile negli Stati arabi, dove influente è la concezione islamica della donna.

 

 

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