Itinerari Idee La Rivoluzione Scientifica

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ITINERARI - IDEE - LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA

   

ITINERARI - IDEE - LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA

IL NATURALISMO RINASCIMENTALE

"Fioriscono gli studi, esplodono gli spiriti, è un piacere vivere!": l'umanista tedesco Ulrich von Hutten (1488-1523) esprimeva così il senso di liberazione e di gioia che nei letterati europei accompagnò per un gran tratto (e almeno finché le lotte di religione non travolsero tutti in un vortice di morte e di follia) quella straordinaria esperienza culturale che siamo soliti designare come "Rinascimento". Se non il nome, almeno il concetto di "Rinascimento" era presente già nella coscienza di quelli che ne sono stati i protagonisti, fin troppo consapevoli di assistere al felice risveglio delle arti, delle scienze, delle humanae litterae (e cioè degli studi classici, da cui i termini "Umanesimo" e "umanista"), dopo i difficili e oscuri tempi "di mezzo". Queste "età di mezzo" (un millennio pieno) frapposte tra i moderni e gli antichi erano state in verità assai meno oscure di quanto non pretendessero gli orgogliosi umanisti del Quattro e del Cinquecento. Il mondo classico non era mai stato dimenticato nel Medio Evo, ed anzi nell'ultimo mezzo millennio tutte le energie intellettuali dell'Europa erano state impegnate nel recupero del patrimonio scientifico e letterario dell'antichità andato perduto nel mezzo millennio precedente. È vero tuttavia che quel recupero era stato affannoso, approssimativo, totalmente privo di distacco critico e che, soprattutto, si era svolto all'insegna di un Cristianesimo come sempre assai poco rispettoso dell'identità altrui e perciò capace soltanto di appropriarsi senza scrupoli dell'eredità classica cristianizzandola, ossia snaturandola, oppure di condannarla come ciarpame profano e di farne scempio. Quel che c'era di nuovo nell'umanesimo rinascimentale nei confronti della Scolastica non era l'amore per il mondo antico, ma, semmai, il rispetto. Il primo frutto di questo nuovo atteggiamento di rispetto fu la rilettura sugli originali delle grandi opere della cultura antica, particolarmente di quelle in lingua greca. L'effetto di questa rilettura, amplificato dalla recente invenzione della stampa, che metteva a disposizione degli studiosi ottime ed economiche edizioni di testi, ebbe una portata innovativa che è difficile sopravvalutare. A questa svolta della cultura europea aveva contribuito indirettamente il declino dell'impero bizantino, che doveva concludersi nel 1453 con la conquista turca di Costantinopoli. Assediato dai Turchi e sul punto di soccombere, il mondo ortodosso aveva cercato (inutilmente) appoggi nella cristianità occidentale e aveva ristabilito un contatto con Roma. L'Italia ebbe così l'opportunità di accogliere un buon numero di dotti bizantini, che non solo diffusero la conoscenza del greco, ma portarono con sé un modo di considerare la cultura della Grecia classica che in Occidente, dove essa era conosciuta principalmente per il tramite degli Arabi, risultava insolito ed eccitante. Si scopriva ad esempio che il primato di Aristotele nella filosofia era tutto da discutere, che il pensiero di Platone era ben più ricco dell'immagine stereotipata che se ne dava nelle scuole, che oltre ad Aristotele e a Platone c'era una quantità di pensatori le cui idee meritavano di essere rimesse in circolazione e seriamente discusse. Fu un dotto bizantino, Giorgio Gemisto Pletone (c. 1355 - c. 1452), autore di un'aspra polemica contro i sostenitori di Aristotele, a lanciare in Italia la moda di Platone, e a indurre Cosimo de' Medici a fondare in Firenze un'Accademia platonica novecento anni dopo la chiusura da parte di Giustiniano di quella di Atene. Animatore dell'Accademia fu Marsilio Ficino (1463-1499), a cui Cosimo assicurò i mezzi necessari per condurre in porto una straordinaria impresa letteraria: la traduzione integrale in latino dell'opera di Platone, prima di allora nota soltanto attraverso le traduzioni arabe. Legato all'Accademia fiorentina era anche Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494), che però puntava non a contrapporre, ma a conciliare Platone ed Aristotele, nel quadro di un sincretismo filosofico che non escludeva neppure i filosofi scolastici, da lui coraggiosamente difesi contro il disprezzo che tra gli umanisti era ormai consuetudine riversare su di loro. In verità, di platonico nell'Accademia platonica c'era poco; si sentiva di più, molto di più, l'influenza di Plotino e dei neoplatonici, delle cui opere Ficino curò la traduzione. Il sincretismo di Pico della Mirandola, poi, esprimeva l'aspirazione (abbastanza diffusa negli ambienti umanistici, ma che, naturalmente, non aveva nulla a che fare con il pensiero classico) a superare gli antagonismi delle grandi religioni monoteistiche, Ebraismo, Cristianesimo e Islam, in nome delle loro radici comuni. Così, però, si tornava a pescare nell'oscuro fondo delle correnti mistiche di ispirazione orientaleggiante, nello gnosticismo e nell'ermetismo. Ficino, in effetti, affiancò a quelle di Platone e dei neoplatonici la traduzione di scritti ermetici (di cui accreditò la leggendaria antichità) e Pico della Mirandola non mancò di inserire nel suo progetto sincretistico la tradizione ebraica della cabala. Sotto l'insegna di Platone, insomma, tornava in circolazione un po' di tutto, ermetismo, gnosticismo, neoplatonismo, cabala, e naturalmente si riaffacciavano le suggestioni dell'astrologia, della magia, degli antichi culti solari. Pico della Mirandola e Ficino hanno effettivamente elaborato una sorta di filosofia della luce. Dopo di loro l'entusiasmo per la luce e per il Sole tornò a manifestarsi in una quantità di pensatori. Bernardino Telesio (1509-1588), per esempio, vedeva il mondo come teatro della lotta tra due forze opposte, una solare, calda, luminosa, espansiva e l'altra fredda, terrestre, contrattiva: una reminiscenza delle antiche religioni persiane, ma anche di certe dottrine presocratiche e in particolare di quella dell'opposizione Amore/Odio formulata da Empedocle. Ancora più tardi, le fantasiose immaginazioni cosmologiche del mistico tedesco Jakob Böhme (1575 -1624), che riprendeva insistentemente temi manichei, erano piene di luci, di fuochi e di lampi. Nell'esaltazione del Sole Giordano Bruno (1548-1600) e Tommaso Campanella (1568-1639, autore, tra l'altro, di un'utopia politica significativamente intitolata Città del Sole) non furono da meno. È quasi inutile aggiungere, a questo punto, che il misticismo solare non fu estraneo alla rivoluzione eliocentrica di Copernico e poi alla battaglia copernicana di Keplero. Vale invece la pena di ricordare che in campo medico-anatomico l'assimilazione cuore-Sole (il Sole cuore dell'universo, il cuore Sole del corpo) contribuì potentemente allo studio della circolazione del sangue e quindi alla nascita dell'anatomia e della fisiologia moderne. La scienza sperimentale, a quanto pare, ha qualche obbligo verso il misticismo dei pensatori rinascimentali e l'esoterismo delle scienze occulte. Misticismo vuol dire qui naturalismo panteistico: le filosofie di Pico della Mirandola, di Ficino, di Telesio, di Bruno (e bisognerebbe aggiungere almeno Nicola Cusano, c. 1401-1464, che è il primo e il più grande dei neoplatonici rinascimentali), per quanto diversissime fra loro, concordavano nella visione di un mondo in cui l'uomo, Dio, la natura collaboravano insieme e costituivano un'indissolubile unità vivente; un mondo in cui la materia stessa era viva, intelligente, divina, alla maniera dell'ilozoismo presocratico. Bruno rivendicava una sorta di primato della materia e polemizzava con quanti l'avevano concepita come principio meramente inerte, passivo: ma proprio per questo il suo "materialismo" era quanto di più lontano si possa immaginare dal materialismo meccanicistico della scienza moderna. Schopenhauer ha detto che il panteismo è spesso nient'altro che un modo cortese per fare a meno di Dio. Il naturalismo rinascimentale era coraggiosamente panteistico e suscitò giustificati allarmi nella Chiesa. Ma non si può davvero vedere in esso una forma di razionalizzazione della concezione del mondo: semmai era un ritorno in grande stile alle scienze occulte, ad una visione magica della realtà dove non c'era più posto per il sovrannaturale e il miracoloso, solo perché la natura stessa era considerata una sorta di miracolo permanente.

ASTROLOGIA

L'astrologia è la dottrina (e l'arte) che pretende di interpretare il destino degli uomini e di prevedere ciò che accadrà sulla Terra basandosi sullo studio delle posizioni e del movimento degli astri. L'assunto fondamentale dell'astrologia è che l'universo sia dominato da una necessità a cui nessuno può sottrarsi: è questa necessità che viene letta nei fenomeni celesti e che permette la previsione del futuro. Sorta nelle antiche civiltà del Medio Oriente, e coltivata particolarmente in Babilonia, l'astrologia si diffuse in Occidente in età classica. Alle antiche escogitazioni babilonesi (lo zodiaco, per esempio) i Greci aggiunsero alcune nozioni fondamentali come gli aspetti (le distanze angolari tra corpi celesti). Al tempo di Tolomeo, almeno nell'essenziale, la costruzione della dottrina astrologica era conclusa. Con l'avvento del Cristianesimo si pose con tutta evidenza l'incompatibilità del suo assoluto determinismo con la nozione di libero arbitrio. Il tardo Medio Evo e poi il Rinascimento riserbarono un'accoglienza controversa alla scienza astrologica, che nel frattempo si era arricchita di nuovi apporti indiani, persiani e arabi: alcuni tentarono di scagionarla dall'addebito di negare la libertà dell'uomo (gli astri dicevano-inclinano, ma non determinano), altri invece (e tra questi Pico della Mirandola) confermarono l'accusa. L'abbandono del sistema tolemaico dell'universo e soprattutto l'affermazione nel Seicento di una concezione del sapere fondata sul principio della verificabilità delle cosiddette "leggi" della natura, anche se non hanno segnato la morte dell'astrologia, che ha tuttora i suoi cultori, l'hanno però privata di qualsiasi legittimazione scientifica, relegandola, come innumerevoli altre pratiche superstiziose, tra i fenomeni del folclore.

PARACELSO

Paracelso è il nome che Philipp Theophrast Bombast von Hohenheim volle darsi, forse in omaggio a Aulo Cornelio Celso, uno dei grandi medici dell'antichità. Nato a Einsiedeln, in Svizzera, nel 1493, morì a Salisburgo nel 1541 dopo aver vagabondato a lungo per l'Europa. Caso abbastanza raro tra i dotti del tempo, scrisse in tedesco, e le sue opere furono tradotte in latino solo più tardi dai suoi seguaci. Forse la cosa è in qualche rapporto con il grande rispetto, anch'esso insolito nell'ambiente accademico, che Paracelso nutriva per il sapere popolare: pare che spiasse i rimedi che i vetturini adoperavano per curare i loro cavalli e che cercasse di carpire dalle donnette i segreti dei loro domestici intrugli di erbe. Medico, alchimista, mago, astrologo e ciarlatano, Paracelso, che considerava l'uomo supremo "tutore" del creato e cioè partecipava dell'esaltazione, comune nei naturalisti del Rinascimento, per la potenza dell'uomo, era un sostenitore della pratica sperimentale, ma in un senso alquanto diverso da quello moderno: la considerava, infatti, una tecnica rivolta ad afferrare i significati mistici delle cose (nel linguaggio corrente si parla ancora dei "segreti della natura", a ricordo dell'antica concezione magica ed ermetica della scienza). Ai tre agenti alchemici, zolfo, mercurio e sale, Paracelso ne aggiungeva un quarto, il principio di vita, che chiamava Archeus nel microcosmo, e Vulcanus nel macrocosmo: affine al mercurio (lo chiamava anche mercurius vitae), questo spirito vitale era la quintessenza di tutte le cose: la luce nel mondo, l'oro nei metalli, la salute nel corpo. Paracelso ha esercitato un vasto influsso sulla medicina del suo tempo, dove, tra l'altro, in aspro contrasto con la scuola galenica, che li riteneva dannosi per l'organismo, ha introdotto l'uso dei medicinali minerali. Questi medicamenti, sicuramente pericolosi per la salute dei pazienti, sono i lontani progenitori della farmacopea moderna: avevano la funzione, secondo Paracelso, di correggere gli squilibri tra zolfo, mercurio e sale, che sarebbero la causa di tutte le malattie.

ANATOMIA E FISIOLOGIA

L'anatomia moderna oltre che dagli studi di medici e chirurghi è nata dalle osservazioni degli artisti, molti dei quali praticavano la dissezione (per tutti valga l'esempio di Leonardo da Vinci, 1452-1519, e di Michelangelo Buonarroti, 1475-1564). Il passaggio dall'anatomia tradizionale a quella moderna può dirsi che sia segnato dalla pubblicazione dell'opera di Andrea Vesalio (1514-1564) De humani corporis fabrica (Su/la costituzione del corpo umano), uscita a Padova (dove Vesalio insegnava) nel 1543, lo stesso anno in cui Copernico pubblicando il De revolutionibus orbium coelestium proponeva ufficialmente l'ipotesi del moto della Terra. Vesalio aveva trovato il coraggio di sfidare l'autorità di Galeno in uno dei punti più delicati dell'intera costruzione della medicina tradizionale: l'anatomia del cuore e la fisiologia del sangue. Secondo Galeno il sangue sarebbe passato direttamente dal ventricolo destro a quello sinistro (cioè dalle vene alle arterie) attraverso presunti pori nel setto divisorio. Nessuno però aveva mai visto questi pori; Vesalio si limitava a constatarlo e ad osservare che, dato lo spessore e la natura del setto, era assai improbabile che potessero esservene. Occorreva perciò trovare per quale altra via quel passaggio avvenisse. Cominciò di qui la serie degli studi che nel giro di alcuni decenni portarono alla scoperta della circolazione del sangue. Nella tradizione tipica e fisiologia erano praticamente confuse. È in questa epoca, e soprattutto in relazione alle ricerche sulla circolazione del sangue, che hanno cominciato a separarsi, l'una come studio specifico delle strutture, l'altra come studio delle funzioni degli organismi. Il termine "fisiologia" (dal greco physis = "natura") è stato usato per la prima volta nel 1542 dal medico parigino Jean Fernel (1497-1558) in un suo trattato di medicina nel senso moderno di "studio della natura dell'uomo sano, delle sue forze e delle sue funzioni". Fernel considerava la fisiologia strettamente legata all'anatomia e alla psicologia, ma distinta da entrambe e soprattutto distinta dalla patologia (dal greco pathos = "patimento, affezione": studio delle cause e dell'evoluzione delle malattie) e dalla medicina in senso stretto (alla quale nel trattato di Fernel faceva da introduzione).

LIBRI E COSE

Teologi e filosofi scolastici erano abituati a disputare. Si può dire, anzi, che non facessero altro: i platonici polemizzavano con gli aristotelici, i francescani con i domenicani e così via. Ma tutte queste dispute non portavano a nulla e producevano soprattutto un gran fiume di parole; o almeno così pareva, visto che ciascuno restava della sua opinione. A qualunque scuola appartenessero, tomisti o scotisti, mistici o razionalisti, gli Scolastici derivavano la propria dottrina dai libri e il loro sapere si manifestava nella produzione di nuovi libri, che per lo più ripetevano vecchi libri. Gli artigiani, invece, generalmente illetterati e spesso analfabeti, derivavano le proprie conoscenze non dai libri ma dall'esperienza, e non producevano parole, ma cose: e proprio per questo, a differenza dei filosofi, realizzavano evidenti progressi nelle loro attività. La concorrenza e l'emulazione li spingeva a perfezionare i metodi di lavoro, a migliorare le prestazioni di macchine e strumenti, a escogitare nuovi prodotti e cioè ad accrescere costantemente il comune patrimonio di conoscenze. I dotti tradizionali avevano sempre giudicato priva di interesse scientifico l'esperienza dei tecnici e degli artigiani e il termine "meccanico" come sinonimo di lavoratore manuale era quasi un insulto: nel linguaggio comune equivaleva a uomo ignorante, rozzo, di poco conto. Senonché, come doveva constatare agli inizi del Seicento Francesco Bacone, ... Le arti meccaniche progrediscono ogni giorno di più sulla via della perfezione, come se fossero animate da uno spirito di vita. La filosofia, al contrario, come una statua, viene adorata e celebrata, ma non riesce a muoversi... La ragione di questa paralisi filosofica stava nel principio di autorità proprio delle scuole, ossia in quella forma di "servilismo", come lo chiamava Bacone, in forza del quale gli studiosi, scelto un Maestro, si affaticavano a illustrarne, a interpretarne e a difenderne la dottrina, senza azzardarsi a compiere per proprio conto nuove esperienze e nuove ricerche. ... La filosofia - continuava Bacone, - quando viene separata dalle sue radici che affondano nell'esperienza, dalla quale in origine è germogliata e cresciuta, diventa subito una cosa morta... Francesco Bacone era un dotto, quello che oggi chiameremmo un "intellettuale". Ma anche tra gli artigiani (o almeno tra quelli che erano dotati di una certa cultura) era diffusa la coscienza della superiorità del sapere tecnico-pratico su quello libresco dei filosofi ufficiali. Un vasaio di genio, il francese Bernard Palissy (1510-1589), che aveva compiuto importanti scoperte nel settore della fabbricazione del vetro e della ceramica, era anche un appassionato raccoglitore di oggetti naturali: ... dagli oggetti esposti in questa mia raccolta - diceva con orgoglio - si può imparare in un sol giorno molto di più di quanto non si impari in cinquanta anni di intenso studio delle teorie degli antichi filosofi... Le esperienze dei tecnici e degli artigiani si dimostravano più utili, più concrete più credibili (in una parola più vitali) di tutte le dottrine insegnate nelle scuole. Queste esperienze, anzi, si dimostravano capaci, almeno in certi casi, di smentire le teorie professate dai dotti e addirittura di mettere in crisi tutt'intera la loro scienza. Era il caso, tra gli altri, di un vecchio problema che l'impiego sempre più frequente dell'artiglieria negli eserciti e nelle armate navali aveva reso di pressante attualità: quello del moto dei proiettili. Secondo la dottrina aristotelica il moto dei proiettili verso l'alto era un moto violento, cioè contro natura. La loro caduta verso il basso era invece un moto naturale, cioè conforme alla loro natura di corpi pesanti. In quanto opposti, il moto violento e quello naturale si escludevano a vicenda e non potevano combinarsi insieme: la gravità cominciava ad agire solo quando cessava l'effetto della spinta. Così, il proiettile avrebbe seguito dapprima una traiettoria rettilinea verso l'alto (moto di proiezione) e poi una traiettoria rettilinea verso il basso (moto di caduta) descrivendo un angolo acuto. Abbastanza presto gli artiglieri si erano convinti che i proiettili non seguivano affatto una traiettoria rettilinea, ma curva (Galilei dimostrò più tardi che si trattava di un arco di parabola). Come spiegò Niccolò Tartaglia in un suo libro di balistica e tattica militare pubblicato nel 1546, questa traiettoria curva poteva essere spiegata solo come effetto della combinazione dei due moti. Ammettendo però che i due moti si combinassero, ammettendo cioè che la forza di proiezione e quella di gravità agissero contemporaneamente (e non successivamente) sul proiettile, si era costretti a rifiutare tutta l'antica teoria del moto e in particolare la presunta opposizione dei moti naturali e violenti. Dal mondo del lavoro e soprattutto dal gruppo dei grandi ingegneri-matematici (come Leonardo o Tartaglia) e degli artigiani colti (come Palissy), veniva una precisa indicazione: confrontare in dispute interminabili una teoria con un'altra teoria, l'opinione di un filosofo con l'opinione di un altro filosofo, un libro con un altro libro non serviva a nulla; occorreva confrontare le teorie con i fatti, le opinioni con l'esperienza, le parole con le cose. Era quello che faceva, tra gli altri, William Gilbert (1540-1603), autore del De Magnete una vasta ricerca che segna l'inizia della scienza moderna del magnetismo; nel momento di pubblicare i risultati dei suoi esperimenti, egli dedicava il volume non ai dotti tradizionali, ma "ai veri amici della filosofia che ricercano con zelo la verità non solo nei libri ma nelle cose stesse". Il grande medico inglese William Harvey (1578-1657), cui si deve la scoperta della circolazione del sangue, avrebbe usato pressappoco le stesse parole per indicare il "nuovo e arduo cammino" della scienza: "trarre il sapere non dalle opinioni dei filosofi, sfogliando dei libri, ma dalle cose stesse, osservando la natura". Questo invito a spostare l'attenzione dai libri alle cose, dalle opinioni dei filosofi ai fenomeni della natura ha avuto una celebre formulazione da parte di Galileo Galilei in una pagina del Saggiatore, uno scritto polemico del 1623 diretto contro un gesuita, Orazio Grassi, noto anche con lo pseudonimo di Lotario Sarsi. Orazio Grassi (o Lotario Sarsi) era un buon matematico e un ottimo architetto, che faceva parte di un folto gruppo di studiosi gesuiti attivamente impegnati in esperienze e osservazioni naturali. In filosofia questo gruppo cercava di mantenere una posizione intermedia tra i conservatori, seguaci di Aristotele, e gli innovatori, o galileisti, sostenitori dell'indirizzo sperimentale: seguiva con interesse l'opera di questi ultimi, ma era spaventato dalla loro imprudenza. Il principio di autorità, sostenevano gli scienziati gesuiti, non poteva essere espunto totalmente dalla filosofia, perché qualsiasi teoria avrebbe dovuto rispettare almeno i dettami della Chiesa. Ma la stessa filosofia delle scuole (che era la filosofia ufficiale della Compagnia di Gesù), anche se faceva ormai acqua da tutte le parti, come molti gesuiti riconoscevano, almeno in privato (e tra questi c'era Orazio Grassi), non meritava il disprezzo di cui era fatta segno da parte degli innovatori. Gli scienziati gesuiti non vedevano che cosa ci fosse di male nell'appoggiarsi, filosofando, anche (non esclusivamente!) all'autorità di Aristotele e perché mai non si potesse tentare di conciliare i risultati delle nuove esperienze scientifiche con le dottrine tradizionalmente accettate nelle scuole. Insomma, mentre si stava compiendo in Europa una grande rivoluzione intellettuale, che nel giro di una generazione avrebbe sconvolto la nozione stessa di scienza, Orazio Grassi e i suoi colleghi della Compagnia di Gesù proponevano un'impossibile riforma, fatta di moderazione e di opportunismo, di silenzi, di mezze verità, di doppi sensi, di riserve mentali, di finto ossequio alla tradizione. Contro questo indirizzo "riformistico" Galilei volle riaffermare a chiare lettere nel Saggiatore il proprio credo scientifico e qui appunto gli venne fatto di usare la bella immagine del "libro dell'Universo", il solo libro che, a parere di Galilei, i filosofi fossero davvero tenuti a decifrare. ... Parmi [...] di scorgere nel Sarsi ferma credenza, che nel filosofare sia necessario appoggiarsi all'opinioni di qualche celebre autore, sicché la mente nostra, quando non si maritasse col discorso d'un altro, ne dovesse in tutto rimanere sterile ed infeconda; e forse stima che la filosofia sia un libro e una fantasia d'un uomo, come l'Illiade e l'Orlando Furioso, libri nei quali la meno importante cosa è che quello che vi è scritto sia vero. Signor Sarsi, la cosa non istà così. La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l'universo ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua e conoscer i caratteri, nei quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto... A proposito di quegli Aristotelici (o Peripatetici, come anche si chiamavano) che, sconfitti da esperienze e da osservazioni rigorose, si difendevano richiamandosi semplicemente all'autorità di Aristotele, Galilei fa raccontare a Sagredo, nel Dialogo sopra i due Massimi Sistemi, questo episodio: [...] Mi trovai un giorno in casa di un medico molto stimato in Venezia, dove alcuni per loro studio, ed altri per curiosità, convenivano tal volta a veder qualche taglio di notomia per mano di uno veramente non men dotto che diligente e pratico notomista. Ed accadde quel giorno, che si andava ricercando l'origine e nascimento de i nervi, sopra di che è famosa controversia tra i medici Galenisti ed i Peripatetici; e mostrando il notomista come, partendosi dal cervello e passando per la nuca, il grandissimo ceppo de i nervi si andava poi distendendo per la spinale e diramandosi per tutto il corpo, e che solo un filo sottilissimo [...] arrivava al cuore, voltosi ad un gentil uomo ch'egli conosceva per filosofo peripatetico, [...] gli domandò s'ei restava ben pago e sicuro, l'origine dei nervi venir dal cervello e non dal cuore; al quale il filosofo [...] rispose: - Voi mi avete fatto veder questa cosa talmente aperta e sensata, che quando il testo d'Aristotele non fusse in contrario, che apertamente dice i nervi nascer dal cuore, bisognerebbe per forza confessarla per vera -... I promotori dell'indirizzo sperimentale consideravano indispensabile al progresso della filosofia l'esperienza dei tecnici e degli artigiani. Galilei aveva frequentato l'Arsenale di Venezia ed aveva tratto gran frutto dalle conversazioni con gli artigiani che vi lavoravano. Nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze Galilei fa pronunciare a Salviati e a Sagredo, interlocutori dei Discorsi, le lodi di questo stabilimento e dei suoi tecnici: [...] Salviati: Largo campo di filosofare a gl'intelletti specolativi parmi che porga la frequente pratica del famoso arsenale di voi, Signori veneziani, ed in particolare di quella parte che mecanica si domanda; atteso che quivi ogni sorte di strumento e di machina viene continuamente posta in opera da numero grande d'artefici, tra i quali, e per l'osservazioni fatte dai loro antecessori, e per quelle che di propria avvertenza vanno continuamente per se stessi facendo, è forza che ve ne siano dei peritissimi e di finissimo discorso. Sagredo: Vostra Signoria non s'inganna punto: ed io, come per natura curioso, frequento per mio diporto la visita di questo luogo e la pratica di questi che noi, per certa preminenza che tengono sopra il resto della maestranza, domandiamo proti; la conferenza dei quali mi ha più volte aiutato nell'investigazione della ragione di effetti non solo maravigliosi, ma reconditi ancora e quasi inopinabili...

LA CRISI DELL'ASTRONOMIA TRADIZIONALE

Il sistema di Tolomeo era un'ammirevole sintesi delle conoscenze astronomiche dell'antichità. Non tutti i problemi si potevano dire risolti e l'accordo tra i dati della teoria e quelli dell'osservazione era tutt'altro che perfetto. Era lecito però attendersi che con migliori rilevazioni e con il perfezionamento del modello matematico le difficoltà che ancora restavano sarebbero state superate. Senonché l'accumularsi di osservazioni sempre più precise aveva, se possibile, peggiorato la situazione e sul finire del Medio Evo ci si era abituati a considerare pressoché ineliminabile una certa discrepanza tra esperienza e teoria. Nel tentativo di diminuire il divario era sempre possibile aggiungere o togliere qualche sfera o introdurre nel modello qualche nuovo dispositivo, sul genere degli epicicli e degli eccentrici. Ma a forza di ritocchi più o meno ingegnosi il modello tolemaico (ammesso che si potesse ormai parlare di un modello tolemaico, giacché in circolazione ce ne era una dozzina) era diventato un groviglio di cerchi e, se non altro per ragioni di eleganza, qualsiasi sforzo per migliorarlo avrebbe dovuto muoversi nella direzione di una sua drastica semplificazione. Al principio del Cinquecento l'astronomo polacco Nicolò Copernico (1473-1543) ebbe l'idea di cercare una soluzione nell'abbandono dell'assunto fondamentale da cui tutti finora (ad eccezione di Aristarco di Samo e, prima di lui, dei Pitagorici) erano partiti: l'immobilità della Terra al centro dell'universo. In particolare, osservava Copernico, ai commentatori e correttori di Tolomeo era accaduto ... quel che accade ad un pittore che prenda mani, piedi, testa e le altre membra da modelli differenti, e che le disegni in maniera eccellente, ma non in funzione di un singolo corpo e, poiché tutte queste parti non armonizzano assolutamente fra loro, ne vien fuori un essere mostruoso invece che un uomo... Il che, aggiungeva Copernico, non sarebbe avvenuto se l'ipotesi su cui si erano basati non fosse stata sbagliata. Copernico non si staccava del tutto dalle concezioni cosmologiche tradizionali, di cui conservava sia la complicata architettura fatta di sfere, eccentrici ed epicicli sia l'immagine di un universo finito (anche se assai più grande di quello tradizionale) racchiuso dalla sfera delle stelle fisse. Ma la sua teoria era infinitamente più elegante di quelle tradizionali, non lasciava spazio ad assunti arbitrari, dava immediatamente ragione delle differenze rilevabili tra i moti apparenti dei pianeti interni (Mercurio e Venere) e di quelli esterni (che nel sistema tolemaico richiedevano faticose spiegazioni), sostituiva in ogni parte del cosmo, come Copernico non mancò di rilevare, un'"ammirevole simmetria" alle incongruenze ed alle "mostruosità" dei sistemi geocentrici. Copernico non si preoccupava molto e forse non si rendeva neanche esattamente conto dell'effetto rivoluzionario che avrebbe avuto nella cultura europea (anche fuori dell'ambito astronomico) riproporre dopo circa diciotto secoli le teorie di Aristarco di Samo, che già al loro tempo erano state condannate per il loro contenuto ateistico e sovversivo: mettere al centro dell'universo il Sole invece della Terra significava stravolgere concezioni profondamente radicate relative ai rapporti tra Terra e Cielo, Uomo e Dio, astronomia e religione. Altri si accorsero subito di questo aspetto della proposta di Copernico: prima ancora della pubblicazione del De Revolutionibus Orbium Coelestium, e non appena trapelarono in pubblico in forma di sunti o di anticipazioni, le sue teorie furono attaccate da studiosi tradizionalisti e da uomini di Chiesa, cattolici e protestanti, che agli antichi argomenti contro l'ipotesi eliocentrica si affrettarono ad aggiungere quello della sua inconciliabilità con il dettato della Bibbia. Anche per questo, nel 1543, quando si decise a pubblicarlo, Copernico (che del resto era un ecclesiastico) finì per dedicare il De Revolutionibus proprio al papa. Appena otto anni dopo la pubblicazione del libro un astronomo tedesco, Erasmus Reinhold, nel compilare una nuova serie di tavole astronomiche, pur senza aderire alla tesi eliocentrica, assunse il sistema di Copernico a base dei suoi calcoli. Le tavole astronomiche allora in uso risalivano ad oltre tre secoli addietro ed erano largamente scorrette. Quelle assai più precise di Reinhold (note col nome di Tabulae Prutenicae, perché dedicate al duca di Prussia) venivano dunque incontro ad un bisogno sentito dagli astronomi e la loro fortuna contribuì potentemente (anche se indirettamente) al prestigio di Copernico. Anche gli studiosi che lavorarono alla riforma del calendario promulgata nel 1582 da papa Gregorio XIII utilizzarono il modello copernicano, senza per questo impegnarsi minimamente a favore della sua verità fisica. Per oltre mezzo secolo la teoria di Copernico ebbe la singolare sorte di essere lodata per l'eleganza, l'ingegnosità e l'utilità delle sue costruzioni matematiche e insieme condannata (e derisa) per l'assurdità e la pericolosità dei suoi assunti fisici. Quel che però importa, ai fini del suo successo finale, è che nessun astronomo poteva permettersi di ignorarla. Tra quelli che furono costretti a fare i conti con le teorie di Copernico ci fu il danese Tycho Brahe, il massimo esponente dell'osservazione astronomica prima dell'invenzione del cannocchiale. Brahe sosteneva l'impossibilità di eseguire delle buone osservazioni senza l'ausilio di un buon modello del mondo. Dal punto di vista matematico il modello copernicano era senza dubbio migliore di quello tolemaico, ma Brahe era convinto che dal punto di vista fisico il moto della Terra fosse altamente improbabile e non aveva alcuna intenzione di impegolarsi in difficili questioni teologiche. Elaborò allora un modello tutto suo, che conservava almeno in parte i vantaggi del sistema copernicano, ma dove la Terra restava doverosamente immobile al centro dell'universo: la Luna e il Sole continuavano a orbitarle intorno, mentre gli altri pianeti orbitavano intorno al Sole. Era una soluzione di compromesso, che suscitò gli entusiasmi di quanti, convinti dell'insostenibilità del sistema tolemaico, erano ancor più convinti dell'opportunità di non mettere in discussione l'autorità della Bibbia. Molti gesuiti erano favorevoli ad accettare il nuovo sistema, e la Compagnia di Gesù finì con l'adottare ufficialmente nelle sue scuole il sistema ticonico, che svolse onorevolmente la sua funzione fino a quando non fu irrimediabilmente superato dal modello newtoniano dell'universo. Sebbene volesse essere solo quel che si dice una "mezza riforma", il sistema ticonico ebbe almeno una conseguenza rivoluzionaria. Da Aristotele in poi le sfere con cui Eudosso aveva cercato di interpretare i moti celesti erano state considerate non mere costruzioni geometriche, ma realtà fisicamente esistenti. Per quanto dal punto di vista fisico questo sistema di sfere solide contrastasse con le più banali osservazioni, e dal punto di vista matematico fosse stato sostituito sin dall'antichità con espedienti più efficaci, era rimasto una specie di ideale per tutti gli astronomi, Copernico compreso. Il sistema ticonico era invece incompatibile con l'esistenza di sfere solide, a cui del resto lo stesso Tycho Brahe diede un colpo mortale quando dimostrò che la cometa apparsa nel 1577 non era, come credeva Aristotele, un fenomeno atmosferico, ma un fenomeno celeste e che pertanto nel suo percorso aveva attraversato la regione dove avrebbero dovuto trovarsi le sfere. Fu un discepolo di Tycho Brahe, Johannes Kepler (italianizzato in Keplero, 1571-1630), che, utilizzando i dati raccolti dal maestro, ma in nome dell'eliocentrismo, sottopose a revisione anche la tesi della circolarità delle orbite terrestri, che Copernico aveva mantenuto. I moti dei pianeti, e specialmente quelli di Marte e di Venere, mostravano piccole ma sensibili deviazioni del percorso circolare e la loro velocità non era perfettamente uniforme. Dopo ripetuti tentativi (ad esempio Keplero provò dapprima a mantenere la forma circolare, spostando leggermente il Sole dal centro del cerchio), trovò infine una soluzione pienamente soddisfacente, che sintetizzò in tre enunciati, noti come le tre leggi di Keplero. I) Le orbite descritte dai pianeti sono ellissi, di cui il Sole occupa uno dei fuochi. II) Le aree descritte dal raggio che congiunge il Sole con un pianeta sono proporzionali ai tempi impiegati a percorrerle. III) I quadrati dei tempi di rivoluzione di due pianeti sono proporzionali ai cubi dei semiassi maggiori delle rispettive orbite. All'inizio del Seicento l'invenzione del cannocchiale (o telescopio) chiuse l'epoca dell'osservazione a occhio nudo. Galilei non fu propriamente l'inventore di questo strumento ma, nel 1609, avendo sentito parlare delle proprietà di certi "perspicilli" (come allora si chiamavano, dal latino perspicere = "vedere attraverso") costruiti dagli occhialai olandesi, che permettevano di vedere da lontano, aveva progettato e realizzato uno strumento simile e soprattutto aveva avuto l'idea di puntarlo verso il cielo. Quello che vide lo pubblicò nel 1610 nel suo Sidereus Nuncius: la Via Lattea era un ammasso di stelle, sulla Luna c'erano valli e montagne proprio come sulla Terra, intorno a Giove giravano quattro satelliti (a cui Galilei diede il nome di "pianeti medicei" in onore del granduca di Toscana). Più tardi il cannocchiale gli permise di osservare la forma singolare di Saturno (determinata dagli anelli, che però non si riuscivano a distinguere con lo strumento, ancora piuttosto debole, di Galilei), le fasi di Venere, le macchie del Sole. Questa massa di sorprendenti informazioni sancivano la fine delle concezioni astronomiche tradizionali. L'aspetto della Luna dimostrava che i corpi celesti non sono affatto diversi dalla Terra. Lo stesso aspetto della Luna e la presenza di macchie sulla superficie del Sole dimostravano che il cielo non era così perfetto come pretendevano gli antichi. Contro la teoria copernicana era stato fatto osservare che, se fosse stata vera, Venere avrebbe dovuto presentare delle fasi simili a quelle della Luna; ora queste fasi si vedevano benissimo col cannocchiale. Era stato anche sostenuto che nell'universo non poteva esserci più di un centro di rotazione e che, poiché la Luna girava sicuramente intorno alla Terra, anche gli altri corpi celesti dovevano fare lo stesso: ora il cannocchiale dimostrava l'esistenza di almeno un altro centro di rotazione, Giove, che con i suoi quattro satelliti appariva una sorta di sistema solare in miniatura. Si era infine sempre creduto (ed era una delle obiezioni più consistenti contro il sistema copernicano) che la Terra non potesse muoversi nel cielo perché la quiete era propria della sua natura: ora si scopriva che la "natura terrestre" della Luna, messa in evidenza dal cannocchiale, non le impediva affatto di muoversi nel cielo.

UN ANEDDOTO

A proposito di Copernico Martin Lutero, nel 1539, quando il De Revolutionibus non era stato ancora pubblicato, conversando a tavola con amici e discepoli, ebbe a dire: ... La gente sta dando ascolto a un astrologo da quattro soldi, il quale s'è dato da fare per dimostrare che è la Terra che gira e non i cieli, il firmamento, il Sole, la Luna [...] Questo insensato vuole sovvertire tutta la scienza astronomica, ma la Sacra Scrittura ci dice che Giosué ordinò al Sole di fermarsi, non alla Terra... Lutero è stato il più grande riformatore religioso del Cinquecento, il primo a ribellarsi apertamente al papa di Roma. Ma non sempre i rivoluzionari hanno simpatia per le rivoluzioni altrui.

NATURA E SACRA SCRITTURA

Può sembrare che la correzione di questo o quel punto delle antiche dottrine e il loro adattamento ai risultati recenti dell'esperienza non dovesse costituire un grosso problema. La scienza moderna opera continuamente questo genere di correzioni. Ma le dottrine scolastiche (che nella versione più comune erano una forma di aristotelismo adattata alle esigenze del cristianesimo) non erano suscettibili di correzioni importanti. Dopo un'elaborazione di secoli, avevano finito col costituire dei sistemi compatti e la loro forza di persuasione stava proprio in questa coerenza che legava indissolubilmente la parte al tutto. Mutare un particolare poteva significare far crollare l'intero edificio. Non era solo per stupidità che i filosofi conservatori pur di non abbandonare teorie convalidate dalla tradizione si inducevano a rifiutare la testimonianza dell'esperienza o a negare l'evidenza stessa dei fatti. La formula ipse dixit (con cui gli Aristotelici si appellavano, come un tempo avevano fatto i Pitagorici, all'autorità del Maestro) è diventata proverbiale per indicare la mancanza di spirito critico e l'attaccamento servile ad una dottrina non più conforme all'esperienza. È comprensibile tuttavia che per molti risultasse difficile abbandonare d'un tratto un sistema filosofico che (come quello aristotelico) era parso perfettamente convincente ad innumerevoli generazioni di studiosi e che risultava tuttora conforme ai comuni modi di pensare. Quel sistema, poi, era legato a valori (come il rispetto dell'autorità), certezze (i dogmi della Chiesa in primo luogo), e comportamenti (lo spirito di corpo, per esempio, sempre assai forte all'interno delle scuole e degli ordini religiosi), che erano oggetto di scelte eminentemente pratiche, non scientifiche. I sistemi dottrinali accettati nelle scuole erano dunque legati non solo a certi modi di pensare, ma anche a certi modi di vivere. In qualche misura questo è vero per ogni filosofia: la scienza non è mai politicamente o moralmente "neutrale". Nella filosofia scolastica, però, questo era vero in un senso tutto particolare: la scienza non aveva soltanto il compito di spiegare i fenomeni naturali (questo era anzi un compito secondario), ma doveva offrire una soluzione razionale e coerente ai problemi più diversi, da quelli politici a quelli morali, a quelli teologici. Il problema più grosso, anzi, era proprio il problema di Dio, della sua esistenza, dei suoi attributi, dei suoi rapporti con il creato. In tal mondo ogni altro ramo del sapere ed ogni altro settore di ricerca finiva con l'essere subordinato alla teologia. Ciò spiega perché anche problemi apparentemente secondari e strettamente tecnici (come quello della traiettoria dei proiettili) potessero sollevare polemiche infuocate e alla lunga suscitare giustificate preoccupazioni in chi (come il papa, ad esempio) riteneva di essere il depositario della verità: l'accettazione di una nuova teoria fisica poteva avere gravi ripercussioni in campo teologico. Riprendiamo l'esempio della traiettoria dei proiettili: se l'antica distinzione tra moti naturali e moti violenti risultava falsa, falsa doveva essere anche l'opposizione, che ad essa si legava, tra Cielo e Terra. Proprio a questa conclusione sembrava condurre l'osservazione degli astri fatta per mezzo di quell'altra curiosa invenzione che era il cannocchiale. Ma se tra Cielo e Terra non esisteva quella contrapposizione che gli antichi avevano ipotizzato, allora non era più necessario che la Terra stesse ferma al centro dell'universo ed era anche possibile che avesse ragione quel "pazzo" di Copernico (come lo aveva definito Lutero). Ma se la teoria copernicana era vera, in che modo si sarebbero potuti spiegare i ripetuti accenni delle Sacre Scritture al moto del Sole intorno alla Terra? Era ammissibile che Dio, che aveva ispirato le Sacre Scritture, si fosse sbagliato nel descrivere quell'universo che egli stesso aveva creato?

GALILEO GALILEI

Proprio questo problema si pose, e in modo drammatico, a Galileo. Galileo si riteneva un buon cattolico e tentò tra il 1610 circa e il 1633 (quando venne definitivamente condannato dall'Inquisizione) di far accogliere dalla Chiesa una soluzione che gli sembrava accettabile per tutti. Secondo Galileo la Sacra Scrittura e la Natura derivavano entrambe da Dio "quella come dettatura dello Spirito Santo e questa come osservantissima esecutrice degli ordini di Dio". Senonché la Bibbia era scritta in parole umane, spesso imprecise, ambigue, oscure. Anche la natura, come abbiamo visto, era un sorta di "libro", che però Dio aveva scritto da solo, senza intermediari, e usando un linguaggio inequivocabile: quello della matematica. "Inesorabile e immutabile" nelle sue leggi, il libro della natura era suscettibile di una "lettura" rigorosa mediante "sensate esperienze" e "necessarie dimostrazioni". E siccome la verità non poteva essere che una sola, in caso di contrasto tra le conclusioni "certe" della scienza naturale e le asserzioni sempre opinabili della Bibbia pareva a Galilei che i teologi dovessero affrettarsi ad aggiornare l'interpretazione della Bibbia per adattarla ai risultati della ricerca scientifica. ... Anzi essendo [...] che le Scritture, ben che dettate dallo Spirito Santo, [...] ammettono in molti luoghi esposizioni lontane dal suono letterale e, di più non potendo noi con certezza asserire che tutti gl'interpreti parlino inspirati divinamente, crederei che fusse prudentemente fatto se non si permettesse ad alcuno l'impegnar i luoghi della Scrittura e obbligarli in certo modo a dover sostenere per vere alcune conclusioni naturali, delle quali una volta il senso e le ragioni dimostrative e necessarie ci potessero manifestare il contrario... Galilei si illudeva circa la possibilità che la Chiesa accettasse una soluzione del genere, che in pratica avrebbe sancito la preminenza dello scienziato sul teologo e la priorità della ragione sulla fede. Nel febbraio del 1616 la Chiesa condannò formalmente la teoria copernicana e nel giugno del 1633, a seguito della pubblicazione, avvenuta l'anno precedente, del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano in cui Galilei aveva presentato, sia pure tra mille cautele, nuovi argomenti, favore del copernicanesimo, lo stesso Galilei fu incarcerato, condannato e costretto ad abiurare. Gli era andata bene. L'enorme prestigio di cui godeva in tutta Europa e le solidarietà su cui poteva contare nel mondo cattolico ed anche in molti ambienti ecclesiastici gli avevano fatto da scudo. Trentatré anni prima un altro copernicano di genio, Giordano Bruno, le cui proposte teoriche erano assai più fumose di quelle di Galileo (e quindi, tutto sommato, meno provocatorie per la Chiesa) era finito sul rogo.

FEDE E SCIENZA

Il processo e la condanna di Galilei non fu un episodio increscioso attribuibile all'oscurità dei tempi (che non erano affatto oscuri). La Chiesa ha finito con l'ammettere (sia pure con due secoli di ritardo) che la Terra non sta ferma al centro dell'universo, ma che gira intorno al Sole, come appunto diceva Galilei; e, proprio come suggeriva Galilei, ha trovato un modo qualsiasi per metter d'accordo questa sua nuova convinzione con le affermazioni contrarie della Sacra Scrittura. Ma alla proposta galileiana di subordinare la teologia alla scienza in tutte le questioni riguardanti il mondo fisico la Chiesa cattolica ha opposto e continua ad opporre un netto rifiuto: a metà del secolo scorso, quando si era appena riconciliata con il sistema copernicano, ha intrapreso una nuova crociata, che ancora dura, contro la più importante teoria scientifica del momento, il darwinismo. Nel 1950 Pio XII nell'enciclica Humani Generis ha ribadito che in questa come in ogni altra questione l'ultima parola spetta ai teologi, non agli scienziati: ... Il Magistero della Chiesa non proibisce che, in conformità dell'attuale stato delle scienze e della teologia, sia oggetto di ricerche e di discussione da parte dei competenti in tutt'e due i campi la dottrina dell'evoluzione, in quanto essa fa ricerche sull'origine del corpo umano che proverrebbe da materia organica preesistente (la fede cattolica ci obbliga a ritenere che le anime invece siano state immediatamente create da Dio). Però questo deve esser fatto in modo tale che le ragioni delle due opinioni, cioè di quella favorevole e di quella contraria all'evoluzione, siano ponderate e giudicate con la necessaria serietà, moderazione e misura e purché tutti siano pronti a sottostare al giudizio della Chiesa, alla quale Cristo ha affidato l'ufficio di interpretare autenticamente la Sacra Scrittura e di difendere i dogmi della fede. Molti si sono scandalizzati di queste (o di simili) prese di posizione e le hanno accusate, per altro giustamente, di "oscurantismo" (una parola nata nel XVIII secolo insieme a "illuminismo" e come suo contrario: indica genericamente la diffidenza verso la ragione e verso le innovazioni che la ragione suggerisce in campo politico morale o scientifico). Non si vede però perché mai la Chiesa cattolica (o qualsiasi altra Chiesa al suo posto) dovrebbe comportarsi diversamente. È compito delle Chiese stabilire quel che i propri fedeli devono credere o non credere ed è evidente che se i fedeli credessero solo a cose ragionevoli non avrebbero agli occhi della loro Chiesa alcun merito speciale. Non c'è proprio nulla da stupirsi o da scandalizzarsi: l'oscurantismo ha tanto diritto ad esistere quanto l'illuminismo. Quel che conta è che nessuno sia costretto (come avveniva ai tempi di Galileo e come è avvenuto anche dopo: a Roma, per esempio, fino al 20 settembre 1870) ad appartenere a una Chiesa e a dimostrarle la propria obbedienza.

GIORDANO BRUNO

Nato a Nola nel 1548, Giordano Bruno morì a Roma arso vivo come eretico il 17 febbraio del 1600. Figlio di Giovanni, soldato di professione, e di Fraulissa Savolino, d'una famiglia di piccoli possidenti locali, trascorse un'infanzia libera, a contatto con la natura. A 14 anni fu mandato a Napoli a continuare gli studi di umanità e conobbe le violenze, i raggiri e il turpiloquio della grande città affollata e caotica. Di quel mondo avrebbe poi delineato un quadro spregiudicato e beffardo nella commedia Il Candelaio (1582). Forse spinto da necessità economiche, nel giugno 1565, pur con tiepida vocazione religiosa, vestì nel convento di S. Domenico Maggiore l'abito di novizio domenicano. Promosso al sacerdozio nel 1572, dottore in teologia tre anni dopo, si nutrì di vaste e libere letture, con particolare interesse per la mnemotecnica, la magia, e la cabala. Processato ai primi del 1576 per aver difeso in pubbliche dispute talune tesi di scrittori eretici scelse la fuga e si portò a Roma, dove, invece, fu subito coinvolto in un oscuro processo per l'omicidio di un confratello. Scelse allora l'apostasia, gettò l'abito e iniziò un lungo e irrequieto vagabondaggio attraverso l'Europa in cerca di un approdo definitivo, di una cattedra rispettata e, soprattutto, di ascolto. Nel 1576 trascorre sei mesi a Noli a "insegnar la grammatica ai putti" per sfuggire la peste dilagante e forse l'arresto; nel 1578 peregrina da Torino a Venezia, passa l'inverno a Chambèry e ai primi del 1579 si spinge a Ginevra, dove è indotto ad abbracciare il calvinismo, mentre si guadagna da vivere facendo il correttore di stampe. Ma la diffusione di un foglio volante denigratorio contro un professore di filosofia provoca il suo arresto e lo costringe ad una ritrattazione umiliante. Sdegnato, lascia la città e si porta a Tolosa, dove ottiene una pubblica lettura e si laurea in "arti": ma la sua irrequietezza non si placa e nel 1581 lo si ritrova a Parigi, lettore straordinario, benvisto dal re, autore di tre trattatelli di mnemotecnica, vicino al partito laicizzante e monarchico dei politiques, che nella guerra civile tra cattolici e ugonotti che devastava la Francia era il partito della conciliazione e della tolleranza. Ma nella primavera del 1583 Bruno è a Oxford, impegnato in vivaci dispute pubbliche e oggetto di fiera ostilità, che lo induce a venirsene a Londra, ospite dell'ambasciatore francese Michel de Castelnau. In casa sua, con vaghe funzioni di gentiluomo-segretario, dà l'ultima mano ai sei dialoghi che pubblicherà tra il 1584 e 1585: La cena de le Ceneri, esaltazione dell'ipotesi copernicana e sua apertura a conseguenze di immensa portata non solo scientifica, ma politica e religiosa, il De l'infinito, universo e mondi, prospettiva grandiosa di una nuova cosmologia che accolga la visione di un universo infinito in armonia con la potenza infinita del Creatore il De la causa, principio et uno, ripudio dell'antitesi tradizionale tra Dio e mondo e identificazione di materia cosmica e anima mundi nell'unità divina, che è presente in ogni punto del creato senza mai identificarsi con esso; lo Spaccio della bestia trionfante, allegoria morale, che narra la detronizzazione dal cielo delle antiche simbologie pagane, il cui luogo viene assegnato alle virtù, e riconosce il carattere ciclico delle vicende del mondo, e quindi anche di quelle delle religioni, non escluso il Cristianesimo; la Cabala del cavallo pegaseo, oscura satira della presuntuosa ignoranza imperante; Degli eroici furori, ripresa del tema della spiritualizzazione dell'amore terreno, caro ai petrarchisti, che si trasforma in un inno all'intellettuale amore di Dio e della verità. Con il richiamo in Francia del Castelnau, nel 1585, quella pausa di raccoglimento e di sicurezza viene stroncata; Bruno lo segue a Parigi, accende vivaci polemiche contro l'aristotelismo imperante nell'Università, e nel maggio dell'86, in una piccola disputa al Collegio di Cambray, sostiene senza successo 120 articoli "sulla natura e il mondo contro i Peripatetici". Respinto e umiliato, decide di lasciare la Francia e rivolge le sue speranze ad una qualche sistemazione nelle Università tedesche. Insegnerà per due anni a Wittemberg, tenterà la fortuna presso la corte imperiale di Praga e l'Università di Tubinga, terrà un contrastato corso a Helmstadt, finché nell'estate del 1590 lo troviamo a Francoforte per avviare la stampa dei tre poemi latini cui ha consegnato quella che era destinata a rimanere l'ultima formulazione della sua filosofia: il De immenso et innumerabilibus, ardua rielaborazione della cosmologia metafisica; il De monade, numero et figura, volto a decifrare l'essenza delle cose attraverso il linguaggio segreto dei numeri e delle forme; il De triplici minimo et mensura, ripensamento della concezione della materia. Venuti in luce nel 1591, furono quelli gli ultimi scritti alla cui stampa il Bruno poté attendere in libertà. Chiamato insistentemente a Venezia dal patrizio Giovanni Mocenigo, un frustrato di modesto ingegno che sperava di ottener prestigio impadronendosi dell'arte della memoria, Bruno acconsentì a trasferirsi. Forse lo attirarono nostalgia e curiosità dell'Italia, forse addirittura la speranza di una cattedra a Padova. Dopo una sosta di studio in questa città, prese stabile soggiorno a Venezia a casa dell'ambizioso patrizio, che presto deluse coi mancati progressi ed irritò poi manifestando il proposito di tornarsene in Germania. Per vendetta questi lo denunciò all'Inquisizione, accusandolo di varie enunciazioni incaute e blasfeme. Arrestato il 23 maggio del 1592, Bruno subì un primo, serrato processo a Venezia, per essere poi estradato verso il S. Uffizio romano, dove giunse il 27 febbraio del 1593. A Roma l'inchiesta si protrasse, lunghissima e snervante, tra interrogatori pressanti e lunghe pause inerti, per ben sette anni. L'inquisito condusse abili schermaglie, negò, ammise ciò che non era negabile, professò pentimento e sottomissione, ma sempre in modo elusivo e con indomita energia intellettuale. Solo nel gennaio 1599, su proposta del consultore Roberto Bellarmino, il futuro santo, si decise di sottoporre a Bruno otto proposizioni indiscutibilmente eretiche, invitandolo ad abiurarle. Il recluso si dichiarò pronto all'ubbidienza, ma tosto riaprì la discussione con un memoriale e il 10 settembre ricevette una nuova intimidazione, cui tornò a sottomettersi, subito facendo seguire una nuova scrittura in difesa della "nolana filosofia". Il 21 dicembre al cospetto della Congregazione riunita, dichiarò di non volersi pentire, di non avere di che pentirsi, di non sapere di che cosa avrebbe dovuto pentirsi. Il 20 gennaio 1600 papa Clemente VIII decretò che l'inquisito, quale eretico impenitente, venisse consegnato al braccio secolare; l'8 febbraio, condotto per l'ultima volta al cospetto dei suoi giudici, ascoltò la lettura pubblica del verdetto che condannava lui alla degradazione e alla pena capitale, i suoi libri al fuoco. Impavido rispose: - Forse avete più timore voi nel pronunciare la sentenza, che io nel riceverla -. Il 17 febbraio venne condotto in Campo de' Fiori, con la lingua stretta in una morsa per impedirgli di bestemmiare, e là, nudo, legato a un palo, venne arso vivo.

BACONE

Contemporaneo di Keplero e Galilei e propugnatore di un radicale rinnovamento filosofico, Francesco Bacone (nome italianizzato di Francis Bacon, 1561-1626) non si accorse affatto del valore rivoluzionario della battaglia che i due stavano dando a favore del copernicanesimo. Considerava quella di Copernico una delle tante teorie matematiche che tentavano di dare ragione dei moti planetari, ma erano incapaci di penetrare la natura dei cieli; giudicava "un'ipotesi arbitraria" il moto della Terra; diffidava dell'utilità "di quegli specchietti inventati di recente" (come li chiamava), ossia del microscopio e del telescopio, e non gli pareva che Galilei avesse tratto grandi risultati dall'impiego del secondo come strumento di osservazione astronomica. Per uno strano destino Bacone, il teorico dell'innovazione e del progresso, ignorò o fraintese quasi tutto quello che di nuovo e di importante stava succedendo nel mondo della scienza. Il che non gli impedì di avere piena coscienza del fatto che l'Europa stava vivendo un'epoca di straordinaria creatività intellettuale: ... Su venticinque secoli di storia dei quali si ha memoria a mala pena se ne possono rintracciare cinque che siano stati fruttiferi di utilità e di progressi per il sapere; ed anche questi sono occupati per la maggior parte da altre scienze, diverse da quelle della natura. In complesso si possono contare solo tre periodi o ritorni nell'evoluzione del sapere: uno presso i Greci, un altro presso i Romani, l'ultimo nei Paesi occidentali d'Europa; il resto della storia del mondo è occupato da guerre e da studi diversi, ma, per quanto riguarda la scienza, vi si trova solo sterilità e deserto... L'età che si apriva per l'Europa poteva rivaleggiare in magnificenza con l'età classica. La grandezza degli antichi era fuori discussione, ma i moderni erano in grado di sopravanzarla: ... Come ci aspettiamo una maggiore esperienza umana ed una maggiore maturità di giudizio dal vecchio che non dal giovane per il maggior numero di cose che il primo ha potuto vedere, udire, pensare, così dalla nostra età (se essa conoscesse le sue forze e volesse metterle alla prova) ci dovremmo aspettare di più che dalle età antiche, come età del mondo più avanzata e perciò arricchita ed accresciuta di infiniti esperimenti ed osservazioni... Bisognava però trovare il coraggio di liberarsi dalla soggezione verso le dottrine stabilite, specialmente verso la tradizione scolastica, da tempo isterilita, e di intraprendere la costruzione di un nuovo sapere, affiatato con il mondo della tecnica e capace di dare all'umanità l'effettiva padronanza della natura. Il primo passo per la costruzione di questo nuovo sapere era, secondo Bacone, l'eliminazione dei vecchi pregiudizi o, come li chiamava idola mentis (= "idoli della mente"). Bacone ne distingueva quattro tipi: 1) gli idola tribus ("della tribù") sono i pregiudizi antropocentrici, comuni a tutto il genere umano, che nascono dalla naturale tendenza ad applicare alla realtà schemi o criteri validi solo per l'uomo, e per esempio a trovare significati, regolarità, simmetrie anche dove non ci sono. Di questo tipo, dice Bacone, è il pregiudizio che vuole i moti celesti perfettamente circolari. 2) gli idola specus ("della spelonca") sono i pregiudizi personali di ogni uomo, che derivano dal fatto che ciascuno ha particolari inclinazioni e interessi, e un proprio modo di ragionare, frutto dell'educazione ricevuta, delle letture fatte, ecc. Per esempio "alcuni ingegni sono più propensi a cogliere le differenze tra le cose, ed altri le somiglianze"; oppure "alcuni sono presi dall'ammirazione dell'antichità, ed altri dall'amore e dall'attrattiva della novità". La spelonca è naturalmente il luogo simbolico dell'errore, con evidente richiamo alla caverna di Platone (che però stava a rappresentare la condizione umana in generale). 3) gli idola fori ("della piazza" o "del mercato") sono le ambiguità e le imprecisioni insite nel linguaggio (la piazza è il luogo simbolico della comunicazione e del commercio tra gli uomini). "Gli uomini credono che la loro ragione domini le parole, ma accade anche che le parole si prendano la rivincita e riflettano la loro forza sull'intelletto, e questo rende sofistiche e inattive la filosofia e le scienze". Così, "le più grosse e gravi dispute dei dotti finiscono spesso in controversie sulle parole e sui nomi", mentre bisognerebbe cominciare con l'esatta definizione dei propri assunti, come fanno i matematici. Non basta però definire le parole, "perché anche le definizioni sono fatte di parole, e dalle parole non vengono che parole". Occorre dunque ritornare ai fatti osservati e da questi risalire, seguendo procedure rigorose, alla definizione degli assiomi. 4) gli idola theatri ("del teatro") sono i pregiudizi che derivano dall'accettazione acritica dei vecchi sistemi filosofici, come ad esempio l'aristotelismo o il tomismo insegnati nelle scuole, i quali sono "favole", ossia rappresentazioni della realtà non meno fantastiche e artificiose delle rappresentazioni teatrali. ... Ma non intendiamo parlare soltanto dei sistemi filosofici attuali o delle sette filosofiche antiche, perché in effetti molte altre favole dello stesso genere si potrebbero mettere insieme... Il nuovo sapere dovrebbe fondarsi, secondo Bacone, sul metodo induttivo, diverso però da quello di Aristotele, che aveva il difetto di passare da pochi casi isolati a conclusioni generalissime. La vera induzione deve essere un procedimento metodico, soggetto a regole precise, e perciò controllabile. Sarà innanzi tutto indispensabile operare un attento esame dei fenomeni compilando delle tabelle che registrino 1) tutti i casi in cui un certo fenomeno, date certe condizioni, si verifica ("tavola delle presenze"); 2) tutti i casi in cui, in condizioni analoghe alle precedenti, il fenomeno non si verifica ("tavola delle assenze"); 3) tutti i casi in cui il fenomeno si verifica con maggiore o minore intensità ("tavola dei gradi"). Sulla base di queste osservazioni sistematiche sarà possibile procedere ad una prima "vendemmia", come la chiama Bacone, ossia alla formulazione di una prima ipotesi capace di spiegare il fenomeno in studio. Tale ipotesi, non deve essere un frutto arbitrario dell'immaginazione, ma rispondere a determinati requisiti per esempio deve tener conto delle circostanze in cui il fenomeno si presenta, per così dire, nella forma "più pura". Di speciale interesse sono i casi che Bacone chiama "cruciali" (instantiae crucis, che si trovano a un "crocevia" e perciò obbligano a fare una scelta), nei quali si deve scegliere tra due o più interpretazioni del fenomeno fra di loro incompatibili. L'ipotesi così formulata non è che un'ipotesi di lavoro provvisoria, che ha la funzione di suggerire al ricercatore gli esperimenti atti a confermarla o a smentirla o a consentirne una nuova formulazione. Questa nuova formulazione, a sua volta, richiederà lo svolgimento di altri esperimenti e così via sino alla determinazione esatta (sperimentalmente verificata), della "forma" (causa o legge) del fenomeno studiato. Trapani Un'immagine di Francesco Bacone

ESPERIMENTO E OSSERVAZIONE

Osservazione ed esperimento sono due forme della conoscenza empirica (fondata cioè sull'esperienza) che vengono spesso confuse, anche per le consuete ambiguità che le parole hanno nel linguaggio comune e talvolta anche in quello filosofico. C'è semplice osservazione quando ci si limita a constatare fatti che accadono spontaneamente, senza che l'osservatore possa o voglia intervenire nel loro svolgimento. L'esperimento è invece un'osservazione provocata dal ricercatore, il quale deve essere in grado di determinare le condizioni in cui i fatti si svolgeranno. C'è poi un tipo di osservazione metodica, come ad esempio l'osservazione astronomica, che è affine all'esperimento perché è intenzionale e programmata e può avvalersi di una strumentazione più o meno complessa, ma che se ne distingue perché l'osservatore non può né provocare né modificare lo svolgimento dei fatti oggetto di studio (un astronomo non può provocare un'eclissi, né modificarne il corso). Osservazione metodica ed esperimento sono sempre in funzione di una teoria: servono infatti a controllare un'ipotesi formulata in precedenza (e cioè a sapere se è vera o falsa) oppure a suggerire nuove idee, e formulare nuove ipotesi.

SOCIETÀ E ACCADEMIE SCIENTIFICHE

Il Seicento è il secolo delle società e delle accademie scientifiche, istituzioni destinate a promuovere e a organizzare il lavoro degli studiosi fuori dagli schemi e dai giochi di potere delle università tradizionali. Le prime società del genere nacquero in Italia, che era ancora il Paese-guida nella vita culturale europea. Proprio all'inizio del secolo il duca Federico Cesi aveva fondato a Roma l'Accademia dei Lincei, di cui fece parte Galilei, ma che si sciolse nel 1630 alla morte del suo protettore. Nel 1657 nacque a Firenze, con la protezione del Granduca e di suo fratello, l'Accademia del Cimento ("cimento" vuol dire esperimento, verifica, e il suo nome sottolineava l'indirizzo prettamente sperimentale della società). Anche questa, però si sciolse quando i suoi protettori non furono più in grado di occuparsene. Le accademie più importanti, che potevano contare su ingenti finanziamenti governativi e sul prestigio di grandi potenze come l'Inghilterra e la Francia furono la Royal Society di Londra e l'Académie des Sciences di Parigi. La Royal Society era tutta baconiana, tratta dalla History of the Royal Society di Thomas Sprat, pubblicata a Londra nel 1667. Bacone era l'ispiratore della società e Carlo II il sovrano che nel 1662 diede riconoscimento ufficiale alla Società.

IL RUOLO DEGLI IDOLA

A proposito degli idola si può dire che la ricerca scientifica non ne è mai totalmente esente. Qualche volta, anzi, proprio gli idola forniscono agli studiosi la "spinta" ideologica necessaria alla ricerca. Di solito la storia della scienza viene ricordata come un trionfale (e noioso) percorso da una scoperta all'altra, da una verità a un'altra verità che è più vera della precedente, e ci si dimentica delle contraddizioni, dei contrasti, dei vicoli ciechi in cui i pensatori si sono cacciati (e si cacciano di continuo), del carattere maniacale o delirante che spesso assume la ricerca teorica; ci si stupisce quando si viene a sapere, per esempio, che Keplero e Galilei facevano oroscopi per i prìncipi che li pagavano o che Newton (che era uno studioso di ermetismo e considerava "sacra", alla maniera ermetica, la legge della gravitazione) teneva in maggior conto la sue inutili elucubrazioni teologiche che le leggi della sua meccanica. Quel copernicanesimo di cui Bacone non seppe apprezzare il valore innovativo (anche perché, forse, aveva intuito di quanti "idoli" fosse gravato) è un buon esempio del ruolo propulsivo che pregiudizi e strampalate immaginazioni possono avere nella storia del pensiero. Copernico non sopportava le disarmonie e la macchinosità dei sistemi tolemaici e riteneva il modello eliocentrico migliore di quello geocentrico perché più bello, più essenziale e insomma - se così si può dire "più pulito": una considerazione estetica che non ha evidentemente nulla a che fare con la scienza e che tuttavia lo ha portato ad imboccare la strada giusta. Analogamente Keplero era copernicano per amore della simmetria e perché gli sembrava che l'universo di Copernico si conciliasse meglio di quello tolemaico con la concezione, di derivazione pitagorico-platonica, di un Dio grande geometra e grande matematico, "architetto" del mondo e garante dell'armonia cosmica. Nella sua prima opera, Mysterium cosmographicum (già il titolo la dice lunga sulla natura della speculazione kepleriana), Keplero giustificava il suo copernicanesimo sfoggiando un'intera collezione di quelli che Bacone chiamava "idoli della tribù": ... Perché il mondo fosse il migliore ed il più bello [...] l'onnisciente Creatore ha ideato la grandezza e la quantità, di cui tutta l'essenza è praticamente racchiusa nella distinzione dei due concetti di retta e di curva. [...] Alla forma sferica, trattandosi di una quantità affatto particolare, può attribuirsi solo il numero tre. Se dunque Dio, nella creazione, avesse posto attenzione solo alla curva, nel nostro edificio dell'Universo non vi sarebbe nient'altro che il Sole nel centro, immagine del Padre, la sfera delle stelle fisse [...], immagine del Figlio, e l'etere celeste che tutto riempie [...], immagine dello Spirito Santo. Ma poiché vi è una quantità innumerevole di stelle fisse, mentre ve ne è una ben determinata di pianeti, e poiché le singole orbite celesti sono diverse per grandezza, noi dobbiamo necessariamente ricercare le cause di tutto ciò nel concetto di retta. [...] Tra le quantità rette i corpi sono le più perfette e constano di tre dimensioni. [...] Se fra i corpi [consideriamo] solo quelli le cui superfici laterali sono equilatere ed equiangole, ci rimangono solo quei cinque corpi regolari ai quali i Greci han dato i nomi di cubo o esaedro, piramide o tetraedro, dodecaedro icosaedro e ottaedro. [...] Non è qui il luogo di esaminare perché i pianeti si muovano [...]. Posto però che i pianeti abbisognano del moto, ne segue che, perché possano conservarlo, devono avere orbite rotonde. Giungiamo quindi alle orbite circolari attraverso il moto, ed ai corpi attraverso il numero e la grandezza. Cosa altro ci rimane da dire, se non ripetere con Platone che Dio opera sempre geometricamente ed ha inscritto, nel costruire i pianeti, i corpi ai cerchi e i cerchi ai corpi finché non c'era più un corpo che non fosse corredato all'interno e all'esterno di cerchi mobili? [...] Se i cinque corpi vengono incastrati gli uni negli altri e si appongono dei cerchi sia tra un corpo e l'altro, sia all'esterno come chiusura, otteniamo esattamente il numero di sei cerchi. [...] Ora Copernico postula proprio sei orbite di questa specie, che stanno tra loro a due a due in rapporti tali che quei cinque corpi vi si adattano in modo perfettissimo [...]. Perciò si deve dare ascolto a Copernico... In sostanza Keplero intendeva dire che gli intervalli tra le sfere dei pianeti sono occupati dai solidi regolari e che, poiché i solidi regolari sono solo cinque, i pianeti non possono essere più di sei. Keplero immaginava che la sfera di Saturno fosse circoscritta al cubo, il cubo alla sfera di Giove, la sfera di Giove al tetraedro, e così via. Non si trattava di una fantasia giovanile: il Mysterium cosmographicum pubblicato nel 1596 fu ripubblicato con poche varianti nel 1621; d'altra parte una teoria molto simile compariva nell'Harmonices Mundi (Dell'armonia del mondo) del 1619. L'Harmonices Mundi è l'opera in cui è enunciata la terza delle leggi sul moto planetario è intitolata così perché Keplero riteneva che tale legge esprimesse il rapporto "armonico" (non in senso metaforico, ma proprio in senso tecnico, musicale) tra la velocità dei pianeti all'afelio e al perielio: per Saturno si sarebbe trattato di terza maggiore, per Giove di terza minore, e così via. Diciamo la verità: chi potrebbe ragionevolmente rimproverare a Bacone di aver diffidato dei copernicani? [Figura: Foglio di un manoscritto autografo di Galilei. In alto è riprodotto l'aspetto della luna vista al cannocchiale con montagne, crateri, valli ossia con tutte quelle caratteristiche "terrestri" che stavano a dimostrare come la diversità di natura ipotizzata dagli antichi tra la Terra e i corpi celesti non avesse alcun fondamento. In basso è invece l'abbozzo di un oroscopo che Galilei redisse con il Granduca. Fare oroscopi era tra i compiti istituzionali dei matematici e degli astronomi di corte (anche Keplero ne faceva) e per tutto il Seicento le predizioni degli astrologi continuarono ad avere un notevole peso sulla vita politica, sociale e culturale] Trapani Foglio di un manoscritto autografo di Galilei

L'UNIVERSO È UNA MACCHINA?

La filosofia, aveva detto Galileo, sta scritta nel libro dell'universo. Ciò significava che le verità naturali vanno ricercate nell'esperienza, non nelle elucubrazioni dei filosofi. Il libro dell'universo, però, aveva precisato Galilei, non si può intendere se non si intende la lingua in cui è scritto, che è lingua matematica. Che cosa significava questa precisazione? Il mondo che ci circonda non sembra per nulla fatto di triangoli, quadrati o cerchi, ma di cose tutte diverse tra loro e non tutte esprimibili in numeri. Una pera è una pera, non una figura geometrica; possiamo misurarne il volume o il peso, ma ciò non ci dice nulla sul suo sapore. Di una pittura possiamo misurare l'altezza e la larghezza e magari possiamo determinare la quantità di colore impiegata per realizzarla, ma nessun calcolo potrà dirci se è bella o brutta. Le determinazioni quantitative insomma, non riescono ad esprimere gli oggetti con quella pienezza di caratteri con la quale essi ci appaiono nell'esperienza. In compenso le determinazioni quantitative non danno adito a dubbi o incertezze. Sulla bontà della pera o sulla bellezza della pittura, invece, ciascuno può dare valutazioni diverse giacché non esistono criteri oggettivi per decidere in un senso o in un altro. La lettura matematica dell'universo è allora innanzi tutto un modo per distinguere nel complesso mondo della nostra esperienza ciò che è oggetto indubitabile di conoscenza da ciò che è oggetto soltanto di opinione e di valutazione soggettiva. Robert Boyle (1627-1691), uno dei fondatori della chimica moderna, avrebbe chiamato primarie le qualità suscettibili di misura e secondarie le altre. Questa distinzione ricorda molto da vicino quella che era stata tracciata duemila anni prima dagli antichi atomisti, per i quali le sole differenze reali tra i corpi erano quelle riguardanti la forma, la grandezza, la posizione nello spazio e nel tempo, laddove le differenze relative agli odori, ai sapori, ecc. non potevano essere attribuite che alla sensibilità di chi le avvertiva. Anche la visione generale del mondo propria delle nuove correnti scientifiche era molto simile a quella costruita dagli antichi atomisti. Negli anni Venti del Seicento Galileo aveva trattato della materia come di un aggregato di corpuscoli e il francese Pierre Gassendi (1592-1655) aveva apertamente rimesso in circolazione le dottrine di Democrito e di Epicuro cercando (con qualche fatica) di depurarle di tutti gli elementi che nel corso dei secoli le avevano associate all'ateismo. Spogliata d'ogni determinazione non quantitativa, la realtà risultava costituita soltanto da corpi materiali e da forze meccaniche, e l'Universo nel suo complesso appariva come una grande macchina. Nonostante le somiglianze, però, tra il corpuscolarismo moderno e l'atomismo antico c'era una sensibile differenza. Negli antichi atomisti l'immagine meccanicistica dell'universo si fondava sull'analogia tra fenomeni naturali e fenomeni meccanici, e naturalmente era sempre possibile adottare analogie diverse e magari più convincenti. Aristotele, ad esempio, aveva interpretato l'insieme dei fenomeni naturali in analogia all'insieme dei fenomeni biologici (aveva cioè considerato l'universo fisico più simile a un organismo vivente che a una macchina) e per duemila anni questa visione era apparsa più convincente di quella di Democrito e di Epicuro. Negli scienziati del Seicento, invece, la visione meccanicistica dell'universo non si fondava solo su analogie e quindi non poteva esser combattuta semplicemente sulla base di un diverso sistema di analogie: era il risultato più probabile di una lettura matematica dell'esperienza. Si poteva rifiutare questo genere di lettura (e ciò significava rifiutare l'unico vero metodo scientifico che la cultura del tempo conoscesse); ma se lo si accettava, era necessario accettare anche la conclusione a cui portava: l'universo fisico è una macchina. Dall'universo fisico il modello meccanicistico poteva essere esteso a tutta la realtà, e in primo luogo al mondo organico e poi a quello psichico. Cartesio (nome italianizzato del francese René Descartes, 1596-1650) considerava gli animali macchine viventi, anche se faceva eccezione, per ovvi motivi di prudenza, per l'uomo; quanto ai fenomeni psichici li considerava manifestazioni di una res cogitans = sostanza pensante) che, secondo il tradizionale dualismo anima/corpo, affiancava alla materia (definita res extensa, ossia sostanza estesa). Un secolo più tardi Julien Offroy de La Mettrie (1709-1751) provò ad estendere il meccanicismo cartesiano all'uomo, e a ricondurre anche i fenomeni psichici a processi materiali e corporei (Storia naturale dell'anima, 1745; L'uomo-macchina 1748), ma dovette fuggire per mezza Europa per sottrarsi alle persecuzioni che le sue teorie gli avevano attirato e cercare riposo sotto la protezione di un re mezzo filosofo. La riduzione dei fenomeni biologici (e poi di quelli psichici) ai due soli principi ipotizzati dal meccanicismo, materia e movimento, era in Cartesio e in La Mettrie un ritorno alle escogitazioni metafisiche fondate su semplici analogie. Il modello della macchina poteva trovare qualche conforto nell'esperienza: la scoperta della circolazione del sangue, ad esempio, permetteva di interpretare la funzione di questo nobile "umore", che la tradizione aveva caricato di valori simbolici, nei termini di un banale impianto idraulico, con tanto di pompe, canali, valvole, ecc. Anche qui però non si trattava che di un'analogia. Da un punto di vista sperimentale era evidente la debolezza delle ipotesi meccanicistiche in biologia (e a maggior ragione in psicologia); lo stesso La Mettrie, del resto, dopo aver ridotto i fenomeni biologici e psichici a modificazioni della materia, aveva finito per attribuire qualche forma di vita e di psichismo (la capacità di sentire) alla materia stessa. Anche alla scoperta della circolazione del sangue si era giunti per una strada affatto diversa ed anzi opposta a quella delle suggestioni meccanicistiche. Alla sua origine c'è addirittura un teologo, quel Michele Serveto (nome italianizzato dello spagnolo Miguel Servet) che, nella follia degli opposti fanatismi religiosi, l'eretico Calvino fece morire sul rogo a Ginevra nel 1553 sotto l'accusa (c'è da dirlo?) di "eresia". Nell'opera Christianismi Restitutio, che lo portò al rogo, Serveto combatteva il dogma della Trinità in nome di un dogma altrettanto incomprensibile, ed enunciava l'idea della circolazione polmonare del sangue, ossia del passaggio del sangue dal ventricolo destro al ventricolo sinistro attraverso i polmoni. Come mai un teologo era interessato alla circolazione del sangue? e che cosa c'entrava la circolazione del sangue con la Trinità e lo Spirito Santo? Serveto era medico e aveva lavorato con il grande anatomista Andrea Vesalio (1514-1564), che si era occupato, tra l'altro, proprio del cuore. Ma la ragione del suo interesse era teologica e legata appunto a quell'insieme di valori simbolici che erano tradizionalmente associati al sangue. La Scrittura identifica sangue, anima e vita: anima est in sanguine (l'anima sta nel sangue) si legge in Levitico, 17, 11; anima ipsa est sanguis (l'anima stessa è sangue) è scritto in Deuteronomio, 12, 23. Esplorare la formazione dell'anima significava dunque esplorare la formazione del sangue e studiare il sangue significava studiarne il moto. L'anima è vita nel senso che presiede al funzionamento degli organismi viventi e questo suo governo si esercita, come insegnava il famoso medico parigino Jean Fernel (1497-1558), per mezzo degli "spiriti", intermediari tra anima e organi corporei, distinti in naturali (presiedono alle funzioni della nutrizione e dell'accrescimento), vitali (presiedono al moto del sangue, ai battiti del polso e alla respirazione) e animali (presiedono alle attività muscolari e alla sensibilità). Per Serveto lo spirito vitale era una miscela di sangue e aria, che avveniva durante l'inspirazione, e quello che gli interessava era appunto il rapporto sangue-aria, che, poiché, come scriveva, "lo spirito di Dio è nell'aria", non era altro, in fondo, che il rapporto uomo-Dio. Passando nei polmoni, dunque, il sangue si purificava, si riempiva di alito divino: "Come Dio rende vermiglio il sangue per mezzo dell'aria, così Cristo fa ardere lo Spirito". Anche gli altri studiosi che si occuparono della circolazione del sangue avevano poco o nulla a che fare con il meccanicismo. Andrea Cesalpino (1519-1603) che usò per primo il termine "circolazione" e che osservò il flusso del sangue nelle vene, confermando che esso era diretto verso il cuore e non ne proveniva, così come Fabrizio di Acquapendente (1533-1619), che studiò il funzionamento delle valvole venose, erano aristotelici. È lo stesso William Harvey (1578-1657), allievo di Fabrizio di Acquapendente, che arrivò a dimostrare definitivamente la circolazione del sangue, non era certo un meccanicista preconcetto, né lo divenne dopo la sua scoperta. Accettando la tesi della corrispondenza tra microcosmo (l'uomo) e macrocosmo (l'universo), assimilava la funzione del cuore a quella del Sole, come del resto avevano già fatto Serveto, Paracelso e Giordano Bruno: ... Il cuore è l'inizio della vita; è il Sole del microcosmo, come il Sole potrebbe benissimo essere chiamato a sua volta "cuore del mondo". [...] Il cuore è la divinità domestica che, esplicando la sua funzione, nutre, vivifica e stimola l'intero corpo. [...] Il cuore, come il principe di un regno, nelle cui mani sta la prima e più alta autorità, governa su tutto; esso è la fonte primaria e il fondamento da cui, nel corpo umano, deriva ogni potere...

CARTESIO E I VORTICI

Determinismo e meccanicismo non erano legati necessariamente ed esclusivamente al corpuscolarismo, ossia all'ipotesi di una materia fatta di atomi. Contemporanea a quelle di Galilei e di Gassendi, anche la fisica di Cartesio dava un'interpretazione rigorosamente meccanicistica della realtà pur negando uno degli assunti fondamentali dell'atomismo, ossia l'esistenza del vuoto. L'ambizione di Cartesio era di costruire un nuovo grande sistema filosofico che sostituisse la filosofia delle scuole, conservandone però la struttura: un sistema onnicomprensivo, dove ogni cosa trovasse spiegazione (proprio come nelle Summae scolastiche) per via di deduzione da alcune incontrovertibili verità elementari. Vedremo in seguito come Cartesio pensava di stabilire queste verità; per ora basti dire che invece delle infinite qualità e delle forme sostanziali della vecchia Scolastica, Cartesio ammetteva nella spiegazione delle realtà corporee tre soli principi: l'estensione, la figura e il movimento. L'estensione è ciò che resta della materia quando la si spoglia di ogni qualità sensibile (odori, sapori, colori, ecc.). Ma l'estensione, secondo Cartesio, è infinita (o piuttosto indefinita, nel senso che non le si possono assegnare confini) e riempie tutto lo spazio. Nell'Universo, dunque, non c'è vuoto e non ci sono atomi. Questa infinita sostanza estesa di Cartesio era, però, per così dire, "parcellizzata", costituita, cioè, da tante particelle strettamente aderenti le une alle altre, ma libere di muoversi. Senonché nel pieno (come già accadeva nella teoria aristotelica, che negava anch'essa l'esistenza del vuoto) il movimento di una particella è possibile solo se tutte le particelle si muovono contemporaneamente in circolo: ogni particella spinge quella che le sta davanti e ne prende il posto finché la spinta viene restituita alla prima particella, il cui posto è occupato da quella che le sta dietro. Con queste correnti circolatorie, o vortici, Cartesio si sforzava di spiegare qualsiasi movimento. Poiché Cartesio accettava le leggi del moto che la scienza sperimentale era venuta definendo, in pratica il risultato era lo stesso. La differenza stava nel fatto che mentre per Galilei (e poi per Newton) lo scopo della ricerca era di formulare leggi rigorose a partire dai fenomeni (ossia induttivamente) e di qui eventualmente risalire alle cause, per Cartesio l'importante era stabilire prima di tutto le cause dei fenomeni e poi dedurre da queste le leggi. Di Galilei e delle sue tesi sulla caduta dei gravi Cartesio nel 1638 scriveva: ... Tutto quel che dice sui corpi che cadono nel vuoto e costruito senza fondamento; perché avrebbe dovuto prima determinare che cosa sia la pesantezza e se ne avesse saputo la verità, saprebbe che non è niente nel vuoto... La spiegazione del moto di caduta, secondo Cartesio, andava cercata, naturalmente, nei vortici di materia. Coerentemente alla sua negazione del vuoto, Cartesio respingeva l'idea di possibili azioni a distanza. Per Cartesio, cioè, come per Aristotele, ogni azione tra corpi doveva avvenire per contatto. Le conseguenze di questo assunto (sbagliato) si fecero ancora sentire alla fine del secolo nelle resistenze opposte dai cartesiani alla teoria della gravitazione universale di Newton (che forniva un tipico esempio di azione a distanza).

KEPLERO E NEWTON

Isaac Newton (1642-1727) studiò al Trinity College di Cambridge ed ebbe come insegnante di matematica Isaac Barrow (1630-1677) che nel 1669 gli avrebbe ceduto spontaneamente la cattedra. Nel 1671 entrò a far parte della Royal Society, di cui divenne presidente nel 1703. Nel 1687 pubblicò i Philosophiae naturalis principia matematica, a cui nel 1713, in occasione della seconda edizione, aggiunse lo Scolio generale. L'Ottica, che coronava decenni di ricerche, fu invece pubblicata da Newton solo nel 1704 per non rinnovare le polemiche che erano sorte quando aveva reso pubblici i primi risultati dei suoi studi. Tra Cinque e Seicento gli assunti cosmologici tradizionali relativi alla posizione della Terra al centro dell'Universo e alla circolarità dei moti celesti erano andati lentamente sgretolandosi anche in forza dei progressi dell'osservazione astronomica, che ne rendevano sempre più evidente l'inadeguatezza. Keplero li aveva abbandonati entrambi mettendo (come Copernico e Galilei) il Sole al centro dell'Universo e supponendo (a differenza di Copernico e di Galilei) che le orbite dei pianeti intorno al Sole fossero ellittiche anziché circolari. keplero aveva però mancato il suo obiettivo più ambizioso: la costruzione di una fisica celeste fondata su rigorose spiegazioni causali. Le leggi di Keplero, infatti, descrivevano con un alto grado di precisione il moto dei pianeti intorno al Sole, ma non costituivano una teoria generale: si presentavano slegate l'una dall'altra, erano particolari e limitate (ossia erano applicabili al solo moto dei pianeti) e soprattutto sembravano strane e complicate, perché non si conosceva alcuna causa fisica che le giustificasse. Del sistema kepleriano si poteva dire: "D'accordo, il mondo è fatto così; ma perché così?" La differenza tra Newton e Keplero sta tutta qui: Newton è riuscito a dare una risposta a questa domanda. Il passaggio dalle leggi di Keplero, che costituiscono una interpretazione puramente matematica dei moti planetari, alla teoria della gravitazione universale, che ne è, invece, una spiegazione fisica, è stato reso possibile dalla formulazione da parte di Newton dei principi fondamentali della meccanica. Il primo principio (o principio di inerzia) fu enunciato da Newton in questi termini: ... ogni corpo persevera nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme, a meno che non sia costretto a mutare il suo stato da forze impresse... Che un corpo in quiete resti fermo finché non esercitiamo su di esso una qualche azione è del tutto evidente e lo aveva detto anche Aristotele. Ma che un corpo in movimento lasciato a se stesso mantenga indefinitamente la stessa velocità e la stessa direzione non è altrettanto evidente e Aristotele lo aveva negato recisamente: per lui un corpo restava in moto finché c'era un motore che lo spingeva e quando cessava l'azione del motore doveva cessare anche il moto. Anche la nostra esperienza ci dice che se, per esempio, lanciamo una boccia su un piano essa non mantiene indefinitamente il suo moto, ma rallenta e alla fine si ferma. Il fatto è che la boccia nella sua corsa non è libera ma soggetta all'attrito del terreno e, in minor misura, alla resistenza dell'aria: su di essa, dunque, anche se non ce ne rendiamo conto, si esercitano delle forze che la rallentano. Se potessimo levigare il piano su cui rotola, la boccia manterrebbe più a lungo la sua corsa, e se riuscissimo a eliminare del tutto attriti e resistenze, continuerebbe a rotolare per un tempo indefinito e sempre con la stessa velocità. Come Newton riconobbe esplicitamente, era stato merito di Galilei aver formulato per primo e con chiarezza questo enunciato. Dal principio di inerzia si ricava una definizione della nozione di forza, che Newton chiamava "forza impressa" per distinguerla dalla forza d'inerzia, che è "insita" nella materia. Se l'inerzia è la forza che mantiene il corpo nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme, la forza (impressa) è ogni azione in grado di cambiare lo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme di un corpo. La forza, dunque, non è la causa del moto (come era il motore di Aristotele), ma la causa della variazione di moto (o accelerazione), che può consistere o in un cambiamento di velocità o in un cambiamento di direzione o in un cambiamento di velocità e di direzione insieme. Anche di questo si era già accorto Galileo. Newton precisò l'intuizione di Galileo nel secondo principio della meccanica (o principio della forza) che dice: ... il cambiamento di moto (accelerazione) è proporzionale alla forza ed avviene nella direzione in cui la forza è stata impressa... Il principio d'inerzia, ossia il primo dei principi enunciati da Newton, non è che un caso particolare (un caso-limite) del secondo: definisce infatti la situazione che si determina quando la forza impressa (e quindi l'accelerazione) è uguale a zero. Il terzo principio (o principio di azione e reazione) è stato formulato da Newton così: ... ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria: ossia le azioni reciproche di due corpi sono sempre uguali e dirette in senso contrario... Se qualcuno preme una pietra col dito - spiegava Newton -, il suo dito è premuto dalla pietra. Se un cavallo trascina una pietra legata con una fune, anche il cavallo è, per così dire, trascinato verso la pietra, e la fune stessa, tesa tra i due, spinge tanto il cavallo verso la pietra quanto la pietra verso il cavallo. Sono esempi di reazione sia il rinculo delle armi da fuoco, che si spostano in senso opposto a quello in cui è stato sparato il proiettile, sia il moto dei razzi o degli aerei che si dicono, appunto, "a reazione". Apparentemente questi tre principi hanno poco a che fare con le leggi di Keplero, che, come si ricorderà, affermano che I) le orbite descritte dai pianeti sono ellissi, di cui il Sole occupa uno dei fuochi; II) le aree descritte dal raggio che congiunge il Sole con un pianeta sono proporzionali ai tempi impiegati a percorrerle; III) i quadrati dei tempi di rivoluzione di due pianeti sono proporzionali ai cubi dei semiassi maggiori delle rispettive orbite. Fino a Newton la considerazione in cui erano tenute le leggi di Keplero negli ambienti scientifici non era priva di riserve: tra l'altro non erano affatto accettate come "leggi", ma solo come "ipotesi". Tra le tre, poi, la seconda, quella delle aree, era la meno nota e la meno apprezzata: in genere per calcolare le posizioni dei pianeti gli astronomi preferivano ricorrere ad altre regole e ad altri modelli matematici. Fu invece proprio da questa legge che Newton prese le mosse per la sua analisi dei moti planetari. Vediamo come. Un corpo che si muove di moto rettilineo e uniforme percorre in tempi uguali intervalli uguali. Prendiamo un punto P esterno alla linea del moto: i triangoli formati unendo il punto P con gli estremi degli intervalli segnati sulla linea (A0, A1, A2, A3, ecc.) hanno aree uguali perché hanno basi e altezze uguali. Supponiamo ora che, arrivato in A2, il corpo riceva un impulso in direzione di P e che pertanto, invece di proseguire in linea retta verso A3, si muova verso un punto B3 tale che il triangolo A2 P B3 abbia la stessa area del triangolo A1 P A2. Se al termine di ogni intervallo il corpo ricevesse un analogo impulso verso P (tale che ogni nuovo triangolo avesse la stessa area del triangolo precedente), il corpo descriverebbe intorno a P una traiettoria poligonale. E se il corpo fosse soggetto continuamente a una forza centripeta (diretta cioè verso P), ossia se gli intervalli tra due impulsi successivi tendessero a 0, la traiettoria poligonale diventerebbe una curva continua nella quale, proprio come recita la seconda legge di Keplero, le aree descritte dal raggio che unisce il centro del sistema al corpo in movimento sarebbero proporzionali ai tempi impiegati a percorrerle. Trapani Analisi dei moti planetari Insomma, concludeva Newton, l'azione di una forza centripeta genera un moto che obbedisce alla legge kepleriana delle aree; viceversa, il moto di un corpo che, percorrendo una ellisse, obbedisca alla legge delle aree implica necessariamente l'esistenza di una forza centripeta. Il moto dei pianeti descritto da Keplero doveva, allora, essere spiegato in termini fisici come risultato di due componenti: la forza d'inerzia, da un lato, che tende a far perseverare il pianeta nel suo moto rettilineo uniforme, ossia a farlo muovere sulla retta tangente all'orbita, e, dall'altro, la forza centripeta (l'attrazione esercitata dal Sole), che lo fa deviare dalla traiettoria inerziale (rettilinea) e lo mantiene su un'orbita ellittica. Quando le due componenti del moto sono in equilibrio il pianeta non può né fuggire per la tangente né cadere sul Sole: l'orbita planetaria è stabile. Newton s'accorse presto però che le leggi di Keplero si potevano considerare vere solo in un sistema a due corpi, "pressoché inesistente" nella realtà: un sistema, cioè, costituito soltanto da un corpo attratto (il pianeta) e da un centro immobile di attrazione (il Sole). Per il principio di azione e reazione, invece, l'attrazione Sole/pianeta doveva essere considerata come un'azione reciproca (la Terra esercita sul Sole un'attrazione uguale a quella che il Sole esercita sulla Terra); ma di due corpi che si attraggono reciprocamente nessuno può dirsi propriamente "immobile" perché entrambi orbitano intorno al loro centro comune. In più il sistema solare è costituito, oltre che dal Sole, da una quantità di pianeti, di satelliti, di comete e si deve presumere che le forze attrattive agiscano tra tutti questi corpi in una complicata rete di azioni e reazioni. La conseguenza è che nessun pianeta si muove davvero su una ellisse o percorre due volte la stessa orbita: per ogni pianeta ci sono tante orbite quante sono le sue rivoluzioni intorno al Sole e ciascuna di esse dipende dalla variabile combinazione delle forze di attrazione esercitate da tutti i corpi del sistema. Quello di Keplero, in conclusione, era un modello semplificato e parziale del moto planetario, utile per analizzare da un punto di vista matematico i moti reali dei pianeti, ma di gran lunga inadeguato ad esprimere la complessità delle forze fisiche operanti nel sistema solare.

LA GRAVITAZIONE UNIVERSALE

L'identificazione della causa del moto dei corpi celesti con la forza di gravità che sulla superficie terrestre agisce su ogni corpo e lo rende pesante, e cioè l'unificazione definitiva della fisica celeste e della fisica terrestre in un'unica teoria, è una delle più straordinarie e ardite speculazioni del pensiero umano. Questa eccezionale impresa porta il nome di Isaac Newton, ma è stata resa possibile dal lavoro di centinaia di studiosi che lo avevano preceduto e di moltissimi altri suoi contemporanei, alcuni dei quali, a torto o a ragione, gli hanno apertamente conteso il merito della scoperta. Senza togliere nulla al genio di Newton, si può ben dire che la sua teoria "era nell'aria", e non solo per quanto riguarda genericamente l'idea di attrazione reciproca (proposta più volte anche in analogia ai fenomeni magnetici), ma anche per quanto riguarda più in particolare la misura della forza di attrazione. Dalla terza legge di Keplero era infatti possibile dedurre che, se il Sole esercita un'attrazione sui pianeti, la forza di questa attrazione deve essere inversamente proporzionale al quadrato della distanza. D'altra parte da Galilei in poi erano ben note le leggi che regolano la caduta dei gravi e il moto dei proiettili. Quello che restava da fare era intuire e poi dimostrare mediante il calcolo la sostanziale coincidenza di queste leggi, verificate sperimentalmente sulla superficie terrestre, con quelle che regolano l'attrazione tra i corpi celesti. Una nota leggenda attribuisce la scoperta del rapporto tra gravità e attrazione celeste ad una intuizione improvvisa che sarebbe balenata alla mente di Newton nel 1666. Una sera, mentre Newton se ne stava tranquillamente a riposare sotto un melo, un frutto si staccò dall'albero e finì in terra. Newton alzò lo sguardo e vide brillare la Luna tra i rami. - Perché la Luna non cade? - si domandò. E qui ebbe l'illuminazione: anche la Luna, proprio come la mela, cade verso la Terra! E infatti, se la Luna non "cadesse", ossia se non piegasse ogni momento il suo corso verso la Terra, dovrebbe allontanarsi per la tangente AB. Quando la Luna si sposta sulla sua orbita da A a C si può ben dire che sia caduta del tratto BC (vedi fig.). L'aneddoto è probabilmente falso: tra l'altro nel 1666 Newton non aveva che ventiquattro anni, mentre la teoria della gravitazione, che ha avuto bisogno di altri vent'anni di faticosa gestazione, è stata un prodotto della sua piena maturità intellettuale. Ma il suo significato complessivo è esatto: il merito di Newton sta appunto nell'aver assimilato il moto della mela e quello della Luna. Trapani La teoria di Newton sulla gravitazione universale La legge della gravitazione universale nella sua formulazione corrente suona: ... due masse qualsiasi puntiformi si attirano con forza proporzionale alle masse stesse e inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza... Nell'enunciato della legge della gravitazione universale può sorprendere la parola "puntiformi". Nessuno dei corpi di cui abbiamo esperienza ha propriamente la forma di un punto, è, cioè, assolutamente privo di dimensioni; il Sole e i pianeti, poi, non solo non sono affatto privi di dimensioni, ma hanno dimensioni grandissime. Quell'espressione sta a indicare che una sfera di materia, per quanto grande sia, attrae i corpi che si trovano fuori di essa come se tutta la massa fosse concentrata nel suo centro. Questa tesi (dimostrabile matematicamente con il calcolo differenziale e integrale, a cui Newton ha dato l'avvio con il suo calcolo delle flussioni) ha avuto un ruolo decisivo nella scoperta newtoniana. Se la Terra agisce sulla mela che si stacca dall'albero come se tutta la sua massa fosse concentrata al centro, la distanza della mela dalla Terra non è data dalla sua altezza dal suolo, ma dal raggio terrestre, e l'esatta determinazione della lunghezza del raggio terrestre è la condizione necessaria per confrontare l'accelerazione di gravità della mela e l'accelerazione centripeta della Luna. Questa misura fu effettivamente fornita dall'astronomo francese Jean Picard nel 1682. Pressappoco nello stesso tempo Newton cominciava a lavorare alla formulazione definitiva della teoria della gravitazione che nel 1687 avrebbe trovato posto nei Principia mathematica. Trapani La teoria di Newton sulla gravitazione universale

URANO, NETTUNO, PLUTONE

La teoria della gravitazione universale di Newton ha permesso un tipo di previsione astronomica del tutto nuovo: non più l'attesa di qualche cosa che era già stato visto altre volte in cielo, ma la previsione dell'esistenza di qualcosa che non si era mai visto. Le orbite dei pianeti sono governate soprattutto dall'attrazione del Sole, ma risentono in misura minore e nei loro aspetti di dettaglio anche delle attrazioni combinate di tutti gli altri corpi che formano il sistema solare. Nel 1781 l'astronomo anglotedesco William Herschel (1738-1822) aveva scoperto con il telescopio un settimo pianeta, normalmente invisibile ad occhio nudo, che si era aggiunto ai sei già noti dall'antichità (Mercurio, Venere, Terra, Marte, Giove e Saturno) e al quale era stato dato il nome di Urano. L'orbita di Urano era un po' strana e non corrispondeva esattamente a quella calcolabile secondo le equazioni di Newton e sulla base dell'attrazione gravitazionale del Sole e dei pianeti allora noti. Alcuni scienziati pensarono che queste anomalie potessero essere effetto dell'attrazione di un pianeta ancora sconosciuto. Tra il 1845 e il 1846, prima l'inglese John Couch Adams (1819-1892) e poi il francese Urbain Le Verrier (1811-1877) ne calcolarono, indipendentemente l'uno dall'altro, la massa e l'orbita. I calcoli di Adams restarono per il momento noti soltanto a un ristretto gruppo di scienziati. Le Verrier, invece, pubblicò nel giro di qualche mese ben tre memorie sull'argomento. Poiché il nuovo pianeta non poteva essere visto da Parigi, Le Verrier si rivolse all'osservatorio di Postdam, a Berlino, che effettivamente, il 23 settembre 1846, a meno di un grado di distanza dal punto indicato, lo individuò. All'ottavo pianeta del sistema solare venne dato il nome di Nettuno. Era il trionfo delle teorie newtoniane, anche se, in verità, a Newton qualche irregolarità nel suo cielo non dispiaceva affatto, giacché era l'unica cosa che rendeva plausibile la sua ipotesi dell'esistenza di Dio. La scoperta produsse una comprensibile emozione non solo nel mondo scientifico, ma anche tra il grande pubblico, il cui interesse non mancò di essere ulteriormente eccitato dalla contesa per la priorità della scoperta tra Adams e Le Verrier, che ricordava altre e più gravi contese tra la Francia e l'Inghilterra. L'unico che non volle mai mettere l'occhio al telescopio per vedere il nuovo pianeta, fu proprio Le Verrier: gli bastava, diceva, averlo calcolato, anche se Adams, rivendicando una priorità che non era servita a niente, gliene aveva guastato irrimediabilmente il piacere. La presenza di Nettuno, comunque, non bastò a spiegare per intero le anomalie di Urano. Sul finire dell'Ottocento si tornò dunque a prevedere l'esistenza di un nono pianeta e l'americano Percival Lowell (1855-1916) negli ultimi anni della sua vita dedicò buona parte del suo tempo e di quello dei suoi collaboratori alla sua identificazione. Appunto un astronomo dell'osservatorio Lowell, Clyde Tombaugh, riuscì a individuare, non prima però del 1930, il nuovo pianeta, a cui venne dato il nome di Plutone.

INERZIA E MASSA

Il latino iners, da cui vengono inerte e inerzia, è composto di in privativo e di ars- "arte": significava propriamente "senz'arte", e cioè "inabile", "inetto", "pigro", "svogliato" e simili. In italiano inerzia indica genericamente qualsiasi forma di passività: la mancanza di iniziativa, di movimento, di energia, ecc. In senso tecnico (che è poi il senso in cui ne parlava Newton) la forza d'inerzia è la resistenza opposta da un corpo alla forza esterna che tende a modificarne lo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme, ossia la tendenza del corpo a restare nello stato di quiete o di moto rettilineo uniforme in cui si trova. Se diamo un colpetto con un dito ad una biglia di vetro, questa si metterà in moto e proseguirà per un certo tratto fino a quando non tornerà a fermarsi per effetto dell'attrito del terreno. Se diamo lo stesso colpo ad una boccia di metallo o di legno, otterremo un effetto analogo, ma meno sensibile: le forze di attrito riusciranno a fermare la boccia molto prima. Poiché abbiamo esercitato un impulso uguale su entrambe (abbiamo cioè impiegato la stessa forza) bisogna concludere che la boccia oppone alla nostra azione una resistenza maggiore della biglia. Si dice che la boccia "ha una inerzia maggiore" della biglia: l'inerzia è infatti il rapporto tra la forza applicata e l'accelerazione impressa al corpo ed esprime la tendenza di un corpo a conservare invariata grandezza e direzione del moto. L'inerzia di un corpo è uguale alla sua massa (dal greco màza = "pasta", "focaccia") o, come anche diceva Newton, alla sua quantità di materia (che è il prodotto della densità per il volume). La massa dunque si può definire come "coefficiente d'inerzia" secondo la formula (corrispondente al secondo principio di Newton o "principio della forza"): F = ma dove F è la forza impressa, m la massa e a l'accelerazione. Da questa massa inerziale si deve tenere concettualmente distinta la massa gravitazionale alla cui esistenza Newton attribuiva il fenomeno della gravitazione universale. Massa inerziale e massa gravitazionale sono però numericamente identiche il che consente di effettuare il confronto e la misura di due masse inerziali mediante il confronto e la misura dei loro pesi.

GRAVITÀ, GRAVITAZIONE

Il sostantivo grave (dal latino gravis = "pesante") indica un corpo dotato di peso e il termine gravità è genericamente sinonimo di pesantezza. La qualità comune a tutti i corpi pesanti (o "gravi") consiste nel fatto che se non hanno un appoggio cadono (si muovono verso il basso, ossia verso il centro della Terra). Secondo la fisica aristotelica la gravità non è una qualità universale (presente cioè in tutti i corpi): oltre ai corpi pesanti (fatti prevalentemente di terra e di acqua) esistono i corpi leggeri (fatti prevalentemente di aria e fuoco) e come la gravità è la tendenza naturale a muoversi verso il basso, così la leggerezza è la tendenza naturale a muoversi verso l'alto. Le tesi aristoteliche sono state universalmente abbandonate quando le esperienze di Galilei, Torricelli e Pascal hanno dimostrato che anche l'aria ("leggera" per definizione) pesa. La forza di gravità (ossia il peso dei corpi) non è che un caso particolare della gravitazione universale. La legge della gravitazione universale (che dice che due corpi si attraggono in ragione diretta al prodotto delle masse e in ragione inversa al quadrato delle distanze) si esprime con la formula: 13D00011.jpg dove F è la forza di attrazione, M1, e M2 sono le masse dei corpi che si attraggono, r è la distanza tra i due corpi e g è la costante gravitazionale misurata per la prima volta dal fisico inglese Henry Cavendish nel 1798. Sulla superficie terrestre la gravità varia con il variare della latitudine e dell'altezza (ossia della distanza del corpo dal centro della Terra) ed è modificata dalla forza centrifuga dovuta alla rotazione terrestre. Ai poli questa forza non si avverte, ma all'equatore un corpo pesa 1/289 in meno di quello che peserebbe se la Terra fosse ferma. L'accelerazione di gravità è di 983 cm/sec² ai poli e di 978 cm/sec² all'equatore.

LA "FILOSOFIA SPERIMENTALE" E LE "IPOTESI"

La teoria della gravitazione universale oltre a spiegare le orbite ellittiche e le altre caratteristiche del moto planetario descritte da Keplero, dava ragione del peso dei corpi sulla Terra, delle particolarità del movimento di caduta e di quello dei proiettili e permetteva di capire che cosa effettivamente accadesse in una serie di fenomeni conosciuti da tempo e mai convincentemente spiegati, come le maree, la precessione degli equinozi (un movimento dell'asse terrestre che determina un lieve anticipo annuo degli equinozi), certe irregolarità del moto della Luna e dei pianeti, ecc. Il modello newtoniano dell'Universo appariva così soddisfacente (e cioè così rispondente ai dati di osservazione) che si era costretti ad ammettere l'esistenza reale della forza di gravitazione, che all'inizio era apparsa un'escogitazione alquanto bizzarra e improbabile: la tradizione voleva infatti che ogni azione tra corpi avvenisse per contatto mentre la forza di attrazione reciproca agiva a distanza. Ma, anche ammessa l'esistenza della gravitazione universale, quale era la natura di questa forza? Quale o quali ne erano le cause? Come si può arguire da alcuni accenni presenti per lo più in carte private, Newton immaginò forse che la gravitazione potesse essere effetto di un qualche flusso di particelle che pervadesse ogni cosa. Egli però non formulò mai ufficialmente una teoria in proposito, perché non voleva avanzare ipotesi che non fossero solidamente fondate sull'esperienza. "Hypotheses non fingo" = "non invento ipotesi", proclamò solennemente nello Scolio generale aggiunto nel 1713 ai Principia mathematica. ... Ho spiegato fin qui i fenomeni del cielo e del mare per mezzo della gravità, ma non ho mai indicato la causa della gravità. Questa forza scaturisce da qualche causa che penetra sino al centro del Sole e dei pianeti [...] e la cui azione si estende per ogni dove su spazi immensi diminuendo sempre in rapporto al quadrato delle distanze. [...] In verità non sono riuscito a dedurre dai fenomeni la ragione di queste proprietà della gravità, e non fingo ipotesi. Qualunque cosa non deducibile dai fenomeni va chiamata ipotesi: e le ipotesi, sia metafisiche, sia fisiche, sia delle qualità occulte, sia meccaniche, non hanno posto nella filosofia sperimentale. In questa filosofia le proposizioni sono dedotte dai fenomeni e rese generali per induzione. In tal modo sono state conosciute l'impenetrabilità, la mobilità, la forza dei corpi e le leggi del moto e della gravità. Ed è sufficiente che la gravità esista realmente e agisca secondo le leggi che abbiamo esposte, e che spieghi in modo adeguato tutti i moti dei corpi celesti e del mare... Qui per ipotesi Newton intendeva escogitazioni metafisiche non basate sull'esperienza e quindi formulate dogmaticamente. Che Newton non "fingesse" ipotesi (nel senso di proposizioni arbitrarie, non desumibili dai fenomeni) non era per altro sempre vero. Dio, ad esempio, in cui credeva fermamente, come proprio lo Scolio generale stava a dimostrare, era un'ipotesi metafisica, e non di poco conto. Nel campo strettamente fisico, comunque, Newton non mancava di formulare ipotesi in un senso del tutto diverso (e perfettamente legittimo anche dal punto di vista sperimentale) di spiegazioni congetturali e provvisorie dei fenomeni. Nessuna ricerca sarebbe possibile se non fosse guidata da ipotesi di questo tipo, il cui scopo è appunto quello di definire problemi, di suggerire esperimenti, di indicare probabili relazioni tra eventi diversi. C'è naturalmente un problema di plausibilità: le congetture non possono essere arbitrarie, il fondamento sperimentale, per quanto insufficiente a fare dell'ipotesi una legge scientifica, deve pur presentare una certa consistenza. Newton in questo campo sapeva essere assai audace: la sua convinzione, espressa nell'Ottica, che ogni fenomeno fisico o chimico potesse essere interpretato con azioni a distanza che, analoghe alla gravità, si eserciterebbero tra particelle materiali, era un'ipotesi, geniale quanto si vuole e anticipatrice di più tarde scoperte, ma scarsamente fondata nell'esperienza. ... Non hanno le più piccole particelle dei corpi delle virtù, dei poteri o delle forze, per mezzo dei quali agiscono a distanza, non solo sui raggi della luce per rifletterli, rifrangerli e infletterli, ma anche fra di loro, per produrre gran parte dei fenomeni della natura? È abbastanza noto infatti che i corpi agiscono l'uno sull'altro con le attrazioni della gravità e delle forze magnetica ed elettrica. Questi esempi indicano quale sia l'ordine e il principio della natura: sicché è assai verosimile che possano esservi anche altre forze di attrazione. La natura infatti è uniforme e coerente con se stessa. Le attrazioni della gravità, del magnetismo e dell'elettricità si esercitano su distanze abbastanza grandi da essere normalmente percepibili ai sensi. Può darsi però che ve ne siano altre, che agiscono entro spazi così limitati da essere sfuggite finora ad ogni osservazione. Forse l'attrazione elettrica può estendersi a tali piccoli intervalli. [...] Vi sono dunque in natura delle cause efficienti in virtù delle quali le particelle dei corpi aderiscono le une alle altre con potenti legami attrattivi. È compito della filosofia scoprire con degli esperimenti quali siano queste cause. Può darsi che le più piccole particelle della materia siano tenute insieme da fortissime attrazioni e che così costituiscano particelle più grandi aventi una forza di attrazione più debole; e può darsi che molte di queste particelle più grandi si uniscano a formare particelle ancor più grandi dotate di una forza di attrazione ancor più debole e così di seguito sino a quelle particelle dalle quali dipendono le operazioni chimiche e i colori dei corpi e che, unite, formano infine i corpi di grandezza percepibile ai sensi. [...] Se così stanno le cose, allora la natura tutta sarà semplicissima e perfettamente conforme a se stessa, in quanto compirà tutti i grandi movimenti dei corpi celesti in forza dell'attrazione di gravità che si esercita vicendevolmente tra quei corpi, e quasi tutti i movimenti minori delle particelle in virtù di un'altra forza di attrazione e di repulsione che si esercita vicendevolmente tra le particelle...

ATOMI E FORZE

La concezione atomistica risale agli antichi, ma fu ripresa dalla scienza moderna a mano a mano che questa si sviluppò nel Seicento e nel Settecento. Chiaramente fra gli atomi dovevano esserci delle forze, che tenevano insieme i corpi solidi, ed erano responsabili delle reazioni chimiche. La discussione sulla natura di queste forze durò per tutto il Settecento. Già Newton si era occupato del problema. Un discepolo di Newton, John Keill (1671-1721), considerò particelle che si attraggono tra loro in virtù di un'altra forza, oltre quella di gravità. Questa altra forza diminuisce a un tasso maggiore dell'inverso del quadrato della distanza. Keill dimostrò tutta una serie di teoremi su tale forza. Ma le idee della maggior parte degli scienziati, in proposito, rimasero molto confuse. Le interazioni atomiche furono poi studiate, con attitudine moderna, dal gesuita dalmata Ruggero Boscovich (171 1-1787), che le collegò con le forze di coesione e di adesione, ne dimostrò nuovamente la natura e, soprattutto, sottolineò che i centri di forza sono punti senza direzione. Ma il suo punto di vista non si affermò subito. Un punto di vista del tutto opposto fu sostenuto da Leonardo Eulero, grande scienziato vissuto a lungo a Pietroburgo (1707-1783). Secondo Eulero, gli atomi si escludono reciprocamente, e a questa esclusione puramente geometrica (o "sterica") si riducono tutte le loro interazioni. Le idee moderne sono molto più vicine a quelle di Boscovich che a quelle di Eulero, ma c'è qualcosa di vero anche nell'opinione di quest'ultimo: la forza repulsiva diventa talmente grande a piccole distanze che si può quasi parlare d'impenetrabilità spaziale. Ma non mancava neppure chi come il famoso naturalista Georges-Louis Buffon (1707-1778), sosteneva che gli atomi si attirano, semplicemente, come vuole la legge di Newton, con una forza inversamente proporzionale al quadrato della distanza.

L'UNIVERSO DETERMINISTICO E L'IDEA DI DIO

L'universo di Newton è in primo luogo un universo unitario, in cui cioè è definitivamente scomparso il tradizionale dualismo di Cielo e Terra. In questo universo rientra anche il sistema di Keplero, ma come caso particolare e con una differenza fondamentale: per Keplero il Sole restava fermo al centro dell'universo, mentre per Newton come il Sole esercita la sua forza sui pianeti, così i pianeti esercitano la loro forza sul Sole e solo perché la sua massa è molto maggiore, esso può considerarsi fermo rispetto ai pianeti. L'universo di Newton è poi un universo meccanicistico e deterministico, in cui, cioè, il moto di ogni suo componente è completamente determinato da leggi precise: una massa materiale si muove perché è sotto l'influenza di altre masse materiali e la "causa" del moto è nelle masse stesse. Ciò significa, tra l'altro, che conoscendo la posizione e la velocità di una massa in un dato istante e le forze che su di essa esercitano le masse vicine, ci è possibile predire esattamente il suo movimento futuro. Quello di Newton, infine, è un universo autonomo, che, per così dire, "sta in piedi da solo", e cioè non ha bisogno di cause esterne per essere quello che è. Tranne Dio, naturalmente, di cui in verità, come fu poi dimostrato, l'universo newtoniano avrebbe potuto fare benissimo a meno, ma Newton no. ... Questa elegantissima compagine del Sole, dei pianeti e delle comete - aveva scritto nei Principia mathematica - non poté essere generata che dalla sapienza e dalla potenza di un Essere intelligente e potente... Sapienza e potenza divine: accentuando l'una o l'altra qualità vengono fuori immagini diverse del rapporto Creatore-Creato. Un Dio infinitamente sapiente tenderà presumibilmente a costruire un mondo ordinato, razionale, efficiente che, una volta messo in moto, si conserva indefinitamente nella sua condizione: così la pensava, ad esempio, Cartesio. Ma a un Dio infinitamente potente non si può negare il diritto di intervenire a suo piacere nell'ordine da lui stesso costruito, e magari di infrangerlo, come si conviene a un Signore assoluto. Newton aderiva appunto a questa concezione, ma non solo per qualche sua misteriosa propensione teologica: avendo osservato delle anomalie nei movimenti di Giove, di Saturno, della Luna, ecc., riteneva che il sistema dell'universo che aveva descritto nei Principia mathematica fosse instabile e che avesse bisogno della costante azione correttiva di Dio. A Gottfried Wilhelm Leibniz (che con Newton e con i newtoniani ce l'aveva anche perché, avendo scoperto il calcolo infinitesimale in modo del tutto indipendente da Newton, era stato ingiustamente accusato di plagio) quest'idea appariva ridicola: era davvero possibile immaginare Dio come un cattivo orologiaio costretto a rimettere continuamente le mani nei suoi orologi? E l'universo poteva davvero essere immaginato come un impianto mirabile per concezione, ma che per funzionare aveva bisogno di continue revisioni e manutenzioni? Per Leibniz il mondo non poteva che essere perfetto, stabile, permanente: questa sua perfezione e stabilità avrebbe anche garantito la necessaria trascendenza di Dio. Le osservazioni di Leibniz erano ispirate al buon senso, ma restavano nell'ambito di una discussione teologica e non è affatto detto che nella teologia il buon senso conti qualcosa. Per di più quella della perfezione del mondo era una fissazione di Leibniz, e la sua convinzione che quello esistente fosse il migliore dei mondi possibili merita di essere ricordata solo per la caricatura che il newtoniano Voltaire ne fece nel Candido (1759). L'idea di Newton dell'universo instabile era invece sbagliata, ma utile: indusse astronomi e cosmologi a perfezionare calcoli e osservazioni e a indagare la possibilità di un'evoluzione dell'universo almeno fino a quando il francese Pierre-Simon de Laplace, nell'Esposizione del sistema del mondo (1796), non disse la parola definitiva in materia (definitiva, si capisce, nel senso in cui possono esserlo le teorie scientifiche: buona, cioè, per qualche decennio). Laplace dimostrò che alcune delle anomalie rilevate nel sistema solare erano il risultato dell'attrazione reciproca dei pianeti e che altre, osservate su un arco temporale sufficientemente esteso, non erano affatto anomalie. Lo stesso Laplace formulò poi l'ipotesi (come indipendentemente da lui ebbe a fare il filosofo tedesco Immanuel Kant) che il sistema solare si fosse originato per raffreddamento e condensazione da una nebulosa primordiale e dimostrò che tutto il processo si sarebbe potuto svolgere nell'assoluto rispetto delle leggi newtoniane. Sia nel caso di un universo perfettamente autoregolato e sempre identico a se stesso, sia nel caso di un mondo suscettibile di evoluzione, non c'era posto per interventi divini. Con Laplace Dio tornava ad essere un'ipotesi inutile. A meno di non pensare a Dio come a quel Divino Calcolatore, di cui Laplace parlò nel 1812 (e che, si può credere, gli sarebbe piaciuto essere), che, potendo conoscere la velocità e la posizione di tutte le particelle di materia esistenti nell'universo in un dato istante, sarebbe stato in grado di prevedere esattamente ogni evento futuro e di "postvedere" (se così si può dire) ogni evento passato. Ma questa immagine di onniscienza divina non era che una metafora di quella visione deterministica e materialistica del mondo, finalmente trionfante, che era sempre stata considerata il peggior nemico della religione. Trapani Un'immagine di Pierre Simon de Laplace
   

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