ITINERARI - IDEE - LA FILOSOFIA CRISTIANA

IL MALESSERE SPIRITUALE DEL MONDO ANTICO

È sempre accaduto che l'uomo si sia sentito solo, sperduto, bisognoso di conforto. Ed è sempre accaduto che per sfuggire a questa sensazione di vacuità e di abbandono, l'uomo abbia cercato rifugio nella religione. Tutte le religioni, con le loro misteriose pratiche propiziatorie e con i loro suggestivi riti simbolici, hanno avuto, tra le altre funzioni, quella di rassicurare e consolare i fedeli. Di questo genere di conforto si sentiva grande bisogno agli inizi dell'era cristiana.
Nel mondo greco e romano importanti correnti di pensiero (come quella di Epicuro e Lucrezio) avevano indicato e continuavano a indicare nella filosofia un antidoto efficace all'angoscia della solitudine e alla paura di vivere: la conoscenza della vera natura delle cose e un po' di buon senso avrebbero liberato l'uomo dai terrori superstiziosi che erano generati dalla sua stessa immaginazione, e avrebbero reso superflui gli altrettanto immaginari conforti della religione.
Ma il rimedio non era di facile applicazione. La filosofia è un'attitudine che richiede di essere coltivata attraverso buoni studi, ed era prerogativa di pochi; d'altra parte il buon senso è sempre stato molto meno diffuso di quel che occorrerebbe. Per di più, non era solo tra gli incolti che allignava la superstizione: molti letterati erano quanto meno dubbiosi circa la capacità del pensiero razionale di trovare una spiegazione convincente del mondo e soprattutto circa la sua capacità di dare un senso alla vita.
Ma se la ragione era insufficiente ad affrancare l'uomo dall'angoscia, chi avrebbe potuto aiutarlo? La religione ufficiale in Grecia e a Roma era volta principalmente alla celebrazione dei valori della comunità cittadina e dello Stato: i suoi Dei, un tempo protagonisti di miti affascinanti, erano ormai immagini appannate dall'uso, buone a mala pena a far da comparse nelle cerimonie pubbliche. Più adatti sembravano gli antichi culti misterici, che da sempre avevano costituito la faccia segreta della religiosità greca, quella rivolta al destino personale ed all'esperienza interiore dell'uomo, che ora veniva prepotentemente alla ribalta.
In effetti negli ultimi secoli prima di Cristo i misteri orfici ed eleusini si erano diffusi in tutto l'Impero romano, un po' come alternativa e un po' come integrazione della religione di Stato. Ma ai vecchi misteri greci se ne erano aggiunti altri, che provenivano dalle province medio-orientali dell'Impero romano, o da regioni, come la Persia, che, pur esterne all'Impero, fin dal tempo di Alessandro Magno erano state, almeno in una certa misura, ellenizzate ed erano entrate nel grande circuito culturale del Mediterraneo. Dall'Egitto venivano i misteri di Osiride, re degli Inferi, ucciso dal malvagio fratello Seth e riportato in vita dalla sposa-sorella Iside. Quelli di Cibele, Dea della terra, e del suo giovane amante Attis, legati, al solito, a un mito di morte e di resurrezione, venivano dall'Asia Minore. Dalla Persia venivano invece i misteri di Mitra, una divinità solare impegnata nella lotta cosmica tra Bene e Male, che, con la fine del mondo e la vittoria sul Male, prometteva ai suoi iniziati la resurrezione dei corpi e l'immortalità.
Il tema della morte e della resurrezione, la speranza nella salvezza personale o collettiva ad opera del Dio a cui ci si votava, l'immagine della perenne lotta tra il Bene (associato alla luce e al Sole) e il Male (associato alle tenebre), l'attesa della fine del mondo con l'inevitabile trionfo del Bene, erano esattamente il genere di fantasie con cui la gente amava cimentarsi. E naturalmente, oltre che nelle sette misteriche e nei culti arcani, i suggestivi prodotti della fertile immaginazione religiosa dell'Oriente filtravano in Occidente con l'autorevole avallo delle grandi religioni tradizionali, il Mazdeismo in Persia (la religione di Zarathustra) o l'Ebraismo in Palestina.
La stessa autorità imperiale, che era ovviamente interessata a difendere la religione di Stato, tollerò e in una certa misura favorì la diffusione dei nuovi culti. Gli Imperatori e i loro funzionari, infatti, condividevano i gusti religiosi del loro tempo e di solito erano iniziati a questa o a quella setta; in più nutrivano la speranza di ricavare qualche vantaggio politico (in termini di più larghi consensi e di maggiore coesione della compagine statale) dalla protezione accordata a culti dotati di forte richiamo popolare. C'è da dubitare che un simile calcolo politico fosse giusto. Edward Gibbon, un grande storico inglese del Settecento, nella sua Storia della decadenza e caduta dell'Impero romano ha attribuito un ruolo importante nel processo di disgregazione dell'impero romano proprio alla diffusione di una cultura religiosa di stampo orientale, il cui prodotto più fortunato è stato il Cristianesimo.
Eliogabalo o Elagabalo, imperatore di Roma tra il 219 e il 222 d.C., è diventato un po' il simbolo dell'influenza crescente delle religioni orientali nel mondo romano. Il suo vero nome era Sesto Vario Avito Sassiano. Imparentato alla lontana con la dinastia imperiale dei Severi, era stato allevato a corte fino all'età di tredici anni, quando, a seguito di un colpo di stato, fu allontanato da Roma e confinato ad Emesa, in Siria, sua città natale. Qui esisteva il culto di una divinità solare, El Gabal, a cui la sua famiglia era tradizionalmente legata e di cui il giovane divenne sacerdote, assumendo anche il nome del Dio. Un nuovo colpo di stato militare lo riportò improvvisamente a Roma: nonostante fosse ancora un ragazzo, era stato scelto come nuovo imperatore dall'esercito insorto. Il suo potere non durò a lungo: in capo a tre anni, appena diciottenne, fu eliminato dall'ennesima rivolta di militari. A Roma Eliogabalo aveva cercato di imporre il culto del Sole, aveva introdotto rituali e costumi orientali, aveva promosso ad alte cariche elementi provenienti dalla Siria. Gibbon sintetizza così l'impressione suscitata da Eliogabalo al suo arrivo a Roma:

... Era vestito del suo manto sacerdotale di seta ed oro secondo l'ampia, abbondante foggia dei Medi e dei Fenici; il suo capo era coperto da un'alta tiara, le sue numerose collane e i suoi braccialetti erano ornati di gemme di inestimabile valore. Aveva le ciglie tinte di nero e le guance dipinte di belletto rosso e bianco. Gli austeri senatori confessarono con un sospiro che Roma, dopo aver fatto a lungo esperienza della dura tirannide dei propri concittadini, doveva infine umiliarsi dinanzi al lusso effeminato del dispotismo orientale...

MAZDEISMO E MITRAISMO

Zarathustra (o Zoroastro, come lo chiamavano i greci) è un profeta e riformatore religioso che operò in Persia in un'epoca imprecisata tra il 1000 e il 600 a.C. Notizie più o meno storicamente attendibili possono essere ricavate dalla narrazione dell'Avesta (che probabilmente significa «testo sacro»), il complesso di libri sacri che contengono la sistemazione delle dottrine predicate da Zoroastro. La religione fondata da Zoroastro, il mazdeismo si basa su antiche credenze indo-iraniane che ammettevano l'esistenza di molte divinità e la presenza di demoni. Erodoto parla dei sacrifici offerti agli elementi naturali (Sole, Luna, Terra, Acqua, Fuoco, Vento) e del culto praticato sulla cima delle montagne. Oggi il mazdeismo ha ancora seguaci in Iran e soprattutto in India, dove, nell'ottavo secolo d.C., gruppi di seguaci di Zarathustra sono emigrati per sfuggire alla minacciosa avanzata dell'Islam.
Il mazdeismo prende il nome da Mazda o Ohrmazd, il Dio supremo, lo Spirito del Bene, Creatore dell'universo e Signore del Cielo. A Mazda si contrappone Arimane, lo Spirito Malvagio, che riesce a penetrare nel mondo che Mazda ha creato. Il male si mescola in questo modo al bene, e l'uomo è posto di fronte ad una alternativa radicale: nella lotta tra i due, ciascuno è chiamato a schierarsi, a fare la sua scelta.
Ad aiutare gli uomini, Mazda invia una serie di profeti, l'ultimo dei quali preannuncerà lo scontro finale, destinato a concludersi con la vittoria del Bene e con l'annientamento di Arimane e dei suoi seguaci. Un fiume di metallo incandescente investirà allora il mondo per purificarlo, e Mazda resterà solo a regnare sui beati. In questo modo, il dualismo Bene-Male, caratteristico del mazdeismo, si risolve alla fine in un monismo assoluto.
A parte il Cristianesimo, destinato a trionfare su tutti i concorrenti, il culto orientale che ottenne il maggiore successo nel mondo romano fu il Mitraismo, una setta mistica legata al mazdeismo. Mitra era un Dio della luce (generalmente identificato con il Sole), alleato del sommo Dio Mazda nella sua lotta contro Arimane: all'inizio di questa lotta aveva scannato il toro primordiale (simbolo della fecondità) per sottrarlo ad Arimane, e dal sangue del toro era sgorgata la vita. Ma al termine della lotta questo stesso sangue avrebbe garantito la resurrezione dei morti e il sorgere di un mondo trasfigurato.
Già nel primo secolo d.C. il Mitraismo annoverò tra i suoi iniziati personaggi di rilievo, tra cui l'imperatore Nerone, ma fu solo nel secolo successivo che incominciò la sua diffusione di massa. Tra il III e IV secolo era probabilmente la religione più forte dell'Impero. Era una setta maschile e aveva assunto quasi subito una connotazione prevalentemente militare, che ne accentuava l'importanza agli occhi del potere imperiale. Anche l'imperatore Costantino prima di optare per il Cristianesimo aveva professato il Mitraismo, come prima di lui aveva fatto Diocleziano, e come, dopo di lui, avrebbe fatto Giuliano, autore di uno sfortunato tentativo di restaurazione del Paganesimo, detto per questo dai Cristiani «l'Apostata» (dal greco apòstasis = «allontanamento»).

L'EBRAISMO E IL CRISTIANESIMO

Il singolare patto di alleanza stretto con il suo Dio non aveva fruttato a Israele né potenza, né libertà.
Le sofferenze del popolo ebraico si erano anzi moltiplicate e il dominio degli stranieri sembrava non dovesse avere più fine. Ma la speranza era la sostanza della religione di Israele, e il prolungarsi della schiavitù non aveva logorato nel popolo ebraico la fiducia nella liberazione; aveva semmai acuito l'attesa di questo evento, e soprattutto ne aveva arricchito il significato.
Nelle più antiche profezie la redenzione del popolo di Dio era stata concepita semplicemente come trionfo di Israele sui suoi nemici ad opera di un misterioso re (o Messia, che in ebraico vuol dire «unto del Signore», titolo ufficiale dei re) della casa di David. Più tardi, invece, e specialmente a partire dal III secolo a.C., quell'evento straordinario era diventato qualcosa di ben più grosso: l'instaurazione del Regno di Dio sulla Terra.
Anche la figura del Messia era cresciuta di livello, venendo ad assumere le caratteristiche di una creatura celeste: il «Figlio dell'Uomo», com'era chiamato nel libro di Daniele, sarebbe comparso «tra le nuvole del Cielo», e a lui Dio avrebbe conferito «la potestà, l'onore e il regno» (Daniele 7,14). L'avvento del Figlio dell'Uomo avrebbe segnato la fine del mondo, la sconfitta del Male, la resurrezione dei morti, il giudizio universale:

... E quei molti che riposano nella polvere della Terra si risveglieranno, gli uni per la vita eterna, gli altri per l'eterna vergogna. (Daniele 12,2)...

L'evoluzione dell'escatologia biblica (ossia della dottrina biblica degli eventi finali del mondo, dal greco éskata = «le cose ultime») dalla predizione della liberazione della Nazione ebraica a quella della rigenerazione del mondo attraverso la definitiva sconfitta del Male, era essenzialmente dovuta all'influenza del mazdeismo, a cui apparteneva l'idea della resurrezione dei morti e del giudizio universale. All'influenza del mazdeismo era anche legata l'evoluzione della figura di Satana da cortigiano e consigliere di Dio (quale appariva ancora nel libro di Giobbe) a suo irriducibile avversario, e più in generale la rappresentazione della vicenda cosmica come contrasto tra la Luce (Bene-Dio) e le Tenebre (Male-Satana).
Il quadro teorico dell'Ebraismo doveva trasmettersi quasi immutato al Cristianesimo. Pressoché identiche rimanevano:
1) l'immagine di un Dio personale (con il quale cioè si poteva avere un contatto vivo, intimo, caldo, dialogante), creatore del mondo e signore della storia (nel senso che, dopo averlo creato, dirigeva e regolava il mondo secondo la sua imperscrutabile saggezza);
2) la nozione di peccato (consapevole e responsabile atto di ribellione alla volontà di Dio, e quindi rottura dell'antico patto di alleanza) e quella della sua redenzione (dal latino redimere, composto di red- = «ri» e di emere = «comprare», e cioè ricomprare, riscattare, liberare dietro compenso) che comporta una espiazione (dal latino expiare, composto dalla particella rafforzativa ex- e da piare = «rendere puro»: sacrificio propiziatorio e purificatore), e la riconciliazione con Dio;
3) l'attesa escatologica dell'avvento del Regno di Dio e la visione apocalittica di una catastrofe cosmica, momento culminante della lotta tra Bene e Male.
Il Cristianesimo delle origini non era che una delle tante sette dell'Ebraismo, difficilmente distinguibile dalle altre. Salvo che per un punto: per i Cristiani il Messia era già venuto, il Figlio dell'Uomo era Gesù Cristo (Cristo è il termine greco che equivale appunto all'ebraico Messia = «Unto del Signore»), e l'avvento del Regno di Dio imminente.
Proprio questa era la buona notizia (in greco: euanghélion, composto di eùs = «buono» e àngelos = «notizia», da cui Vangelo, evangelizzare, ecc.), che i seguaci di Gesù avevano il compito di diffondere: «il Regno dei Cieli è vicino». I primi Cristiani lo ritenevano tanto prossimo da adottare una pratica di vita eroica, insostenibile sulla lunga durata. A un certo punto apparve evidente che la piena instaurazione del Regno di Dio avrebbe richiesto tempi indefinibili. Ma la venuta e il sacrificio di Gesù avevano segnato pur sempre una svolta nella storia dell'umanità, in quanto espiazione dei peccati, riconciliazione con Dio, rigenerazione del mondo.
La venuta di Gesù era insomma la vittoria decisiva del Bene sul Male: decisiva, anche se per il momento solo potenziale, tale, cioè, da dover attendere una seconda venuta (parusia) del Cristo per dare i suoi frutti. Così, per i Cristiani, quella che era stata la speranza d'Israele era ormai adempiuta.
Non però nella forma, ancora attesa dalla maggioranza degli Ebrei, di una rinascita nazionale. La «buona novella» in un certo senso non riguardava affatto gli Ebrei, o per lo meno (come gradualmente ci si rese conto) non li riguardava più di altri. S. Paolo, nonostante le forti resistenze di alcuni confratelli, riuscì alla lunga a imporre nelle comunità cristiane il principio che l'evangelizzazione non dovesse essere rivolta esclusivamente (e neppure prevalentemente) agli Ebrei. A questo punto, però, il Cristianesimo si poneva definitivamente fuori dell'Ebraismo.

PECCATO

La parola «peccato» viene dal latino peccatum e questo rinvia a un probabile peccus = «difettoso nel piede» (analogo a mancus = «difettoso nella mano», «monco»). Insomma la nozione di peccato si connette anticamente all'idea di una grave difficoltà a camminare e a mantenersi nel giusto sentiero. Un'associazione dello stesso genere è all'origine di «scellerato» (dal latino scelus = «uomo malvagio», che è legato a un'antica radice skhel = «compiere passi falsi», «inciampare») e di «fallo» (dal latino fallere = «ingannare», da una radice indoeuropea phel = «ingannare», parallela a pel = «cadere»). Anche nel testo ebraico della Bibbia il peccato è spesso designato con termini che indicano errore, sviamento, ecc.

ERETICI E CONCORRENTI DEL CRISTIANESIMO

Bisogno di Dio, disgusto per la materia e il corpo, fame di purezza e di santità, attesa di rinnovamento personale, collettivo o cosmico: erano gli ingredienti di una mentalità sempre più diffusa nel mondo romano agli inizi della nostra era, che si trovavano, variamente combinati, in una quantità di culti, sette, scuole, cenacoli religiosi e filosofici, e anche, naturalmente, nel più fortunato di questi movimenti, il Cristianesimo.
I progressi della Chiesa cristiana primitiva non furono né rapidi, né indolori. Nei suoi primi secoli di vita, oltre ai molti (e talvolta formidabili) concorrenti esterni, il Cristianesimo dovette affrontare le continue divisioni che, a causa di un quadro dottrinale ancora relativamente fluido, si producevano al suo interno. Proprio a causa di questa relativa fluidità della dottrina cristiana e della forti affinità culturali esistenti tra tutti i movimenti religiosi del tempo è spesso difficile stabilire se certi gruppi appartengano (sia pure come gruppi minoritari o ereticali) alla storia del Cristianesimo o ne siano del tutto estranei. È il caso della corrente giudeo-cristiana degli Ebioniti (dall'ebraico ebjonim = «poveri»), che consideravano Gesù un profeta, ma non un Dio, e praticavano la povertà: fedeli alle tradizioni ebraiche, questi gruppi si erano opposti in particolare all'opera evangelizzatrice di S. Paolo, che era rivolta a Ebrei e non-Ebrei indifferentemente.
Tra il II e il III secolo d.C. ebbero grande diffusione specialmente in Siria e in Egitto, e anche in ambiente cristiano, le correnti gnostiche. Più che un'eresia del Cristianesimo lo Gnosticismo fu un tentativo sincretistico di fondere insieme motivi del pensiero classico, ebraico e cristiano con elementi delle tradizioni magiche ed esoteriche. Gnosi significa in greco «conoscenza», ma qui il termine era usato per indicare quella peculiare forma di conoscenza che è l'illuminazione mistica, che, secondo la tradizione settaria dei misteri, costituiva un'esperienza privilegiata, riservata a pochi iniziati.
Lo gnosticismo affermava l'esistenza di due principi opposti, il Bene (Dio) e il Male (la Materia), entrambi eterni e in perpetua lotta fra di loro. Tra il mondo superiore della Spirito e quello inferiore della Materia, gli gnostici ipotizzavano un mondo intermedio, costituito da eoni, o «emanazioni» della divinità, disposti secondo una scala decrescente di valori che arrivava sino alla materia. Il principale tra questi eoni era il Demiurgo (una reminiscenza platonica), l'artefice divino che aveva creato il mondo: Dio infatti, in quanto essere puramente spirituale non sarebbe potuto essere l'autore diretto di una realtà che è anche materiale. Anche Gesù era un eone, che si era incarnato per liberare lo Spirito dalla Materia. L'anima dell'uomo era una scintilla caduta dal mondo superiore dello Spirito in quello inferiore, e rimasta «imprigionata con dolore» nella materia.
La Chiesa combatté duramente gli gnostici, anche perché costoro, di fronte all'esperienza suprema della gnosi, tendevano a negare qualsiasi valore sia alla fede in Cristo, sia alla legge morale. Ma lo gnosticismo esprimeva una cultura di cui anche il Cristianesimo era permeato, e uno dei più importanti pensatori della Chiesa, Origene, vissuto all'incirca tra il 185 e il 254, diede vita a una sorta di «gnosi cristiana», fortemente sospetta di eresia.
Una tipica forma di sincretismo, pressappoco contemporanea allo gnosticismo, è la dottrina ermetica enunciata in una serie di scritti di carattere magico-religioso, alchemico e astrologico, che fino al Seicento sono stati attribuiti ad un personaggio leggendario, Ermete Trismegisto, e ritenuti testimonianza di una sapienza antichissima. In realtà questi scritti sono stati redatti da autori diversi in tempi diversi, non prima, comunque, del II secolo d.C. Quanto alla figura di Ermete Trismegisto, è il risultato dell'identificazione del Dio greco Ermete (Mercurio per i Latini), messaggero di Zeus, con il Dio egiziano Thoth, che era detto «tre volte grande» (in greco: trismègistos). L'ermetismo combinava idee orfiche, pitagoriche, platoniche, aristoteliche, stoiche, ecc. con spunti tratti dal giudaismo e dal mazdeismo. Vi si ritrovano i temi comuni a tutte le correnti religiose del tempo: la liberazione dell'anima dal mondo materiale, l'assoluta trascendenza di Dio, l'esperienza mistica del ritorno in Dio, ecc. I testi ermetici, solo in parte conosciuti nel Medio Evo, furono riscoperti nel Rinascimento nel quadro del rinnovato interesse per la magia, l'astrologia e l'alchimia.
Non era affatto un'eresia cristiana, ma un movimento religioso autonomo il Manicheismo, fondato nel III secolo d.C. da un sacerdote persiano di nome Mani: esso tuttavia avrebbe fornito le basi teoriche a diverse eresie sorte nei secoli successivi. Il Manicheismo era un singolare impasto sincretistico di elementi tratti dal cristianesimo, dallo gnosticismo, dal buddismo e soprattutto dal mazdeismo, l'antica religione di Zarathustra. Il Manicheismo postulava la coesistenza di due principi contrapposti, la Luce e le Tenebre, che si affrontano perennemente sulla scena del mondo. Anche l'uomo ha due nature, una corporea, legata alle Tenebre, e l'altra spirituale, legata alla Luce. Il dovere dell'uomo è di aiutare il principio luminoso a prevalere sulle Tenebre praticando l'ascesi, l'astinenza dalla carne, la rinuncia alle ricchezze, il celibato.
Perseguitato in Persia ad opera dei seguaci del Mazdeismo, il Manicheismo ebbe una larga diffusione in Africa, in Asia e nell'Impero romano. Anche S. Agostino, prima di farsi cristiano, aderì al Manicheismo. In effetti, pur esprimendo temi affini a quelli del Cristianesimo, il Manicheismo ne minava i fondamenti: considerava il Dio dei Cristiani un'immagine illusoria prodotta dalle Tenebre, riteneva la creazione dal nulla un evento impossibile, giudicava un'assurdità l'incarnazione di Cristo, e così via.
Oggi la parola «manicheismo» viene usata anche fuori del campo religioso, e prevalentemente con valore negativo, per indicare qualsiasi dottrina rigidamente dualistica. Una visione «manichea» del mondo, in sostanza, è quella che, incapace di cogliere le sfumature, le ambiguità, i chiaroscuri che esistono in tutte le cose, formula giudizi sommari in base ad astratte contrapposizioni: o buono o cattivo, o bello o brutto, ecc.
Tra i dogmi della Chiesa quello della Trinità era forse il più inquietante: esso infatti appariva in palese contrasto con l'idea di un Dio unico. Ario, un prete di Alessandria, ordinato sacerdote verso il 310, si fece interprete delle perplessità che la tesi trinitaria suscitava tra i fedeli e prese a predicare una dottrina che negava l'uguale natura del Figlio e del Padre. Gesù, diceva in sostema Ario, era stato generato e quindi non poteva essere né eterno, né un Dio creatore. Era piuttosto una creatura, sebbene di natura un po' speciale, né vero Dio, né semplice uomo. Questa dottrina per la sua semplicità e ragionevolezza, ma soprattutto per la capacità dei suoi sostenitori di organizzare un vero e proprio movimento di opinione, ottenne un largo successo a dispetto delle condanne ecclesiastiche che subito la colpirono. Ne nacquero dei disordini che minacciarono seriamente l'unità della Chiesa e la tranquillità dell'Impero. Per porre fine a questa preoccupante situazione intervenne lo stesso imperatore Costantino, che si era convertito al Cristianesimo anche nella speranza, presto delusa, di trovare nella nuova religione un elemento di coesione e di stabilità interna.
Costantino nel 325 convocò i vescovi in concilio a Nicea ed essi non poterono che confermare la condanna delle tesi ariane: negare la divinità di Cristo voleva dire infatti svuotare di significato l'altro grande mistero cristiano, quello dell'Incarnazione. Dal concilio uscì la formulazione ufficiale della dottrina della Chiesa, il cosiddetto «simbolo niceno», ossia il Credo, tuttora vivo nelle fede e nella liturgia cattolica:

Credo in un solo Dio.
Padre onnipotente, creatore del Cielo e della Terra, di tutte le cose visibili e invisibili.
E in un solo Signore, Gesù Cristo, Figlio unigenito di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli. Dio da Dio, lume da lume, Dio vero da Dio vero. Generato e non fatto, consostanziale al Padre: per mezzo suo sono state fatte tutte le cose. Che per noi uomini e per la nostra salvezza discese dai Cieli. E per opera dello Spirito Santo si è incarnato da Maria Vergine e si è fatto uomo. E per noi fu anche crocifisso: ha sofferto sotto Ponzio Pilato ed è stato sepolto. E risuscitò il terzo giorno secondo le Scritture. E salì al Cielo: siede alla destra del Padre. E di nuovo verrà con gloria a giudicare i vivi e i morti: il regno suo non avrà fine.
E nello Spirito Santo, Signore e datore di vita. Che procede dal Padre e dal Figlio. Che è adorato e glorificato insieme al Padre e al Figlio. Ed ha parlato per bocca dei Profeti.
E in una sola santa cattolica e apostolica Chiesa.
Confesso un solo battesimo per la remissione dei peccati. E aspetto la resurrezione dei morti. E la vita dei tempi a venire. Amen.

Il Concilio di Nicea non pose fine al dissidio. L'Arianesimo continuò ad avere un largo seguito ed anzi, a un certo punto, per le pressioni del governo imperiale, sempre preoccupato di evitare disordini, lo stesso Ario dovette essere riabilitato dalle autorità ecclesiastiche. Quando poi la Chiesa riuscì ad espellere definitivamente gli ariani, e a sconfiggere i loro sostenitori nei quadri dell'amministrazione imperiale, le dottrine di Ario si diffusero presso i barbari che si erano insediati entro i confini dell'Impero, e qui, al riparo dalle persecuzioni, sopravvissero ancora per secoli.

SINCRETISMO

Secondo un'antica ipotesi, oggi ritenuta però alquanto dubbia, il termine «sincretismo» deriverebbe dal greco syn = «insieme» e Krete = «Creta» e vorrebbe dire alla lettera «unione (confederazione, lega) alla maniera cretese». È usato per indicare la fusione in una nuova dottrina (specialmente, ma non necessariamente religiosa) di elementi appartenenti a dottrine diverse, sul genere di quelle realizzate nei primi secoli dell'era cristiana dal Manicheismo, dalle correnti gnostiche, ecc. La parola (come il termine («eclettismo» che le è affine) è spesso usata con valore negativo, che allude al carattere incoerente e contraddittorio che tali misture dottrinali possono presentare.

ERESIA E ORTODOSSIA

Il termine «eresia» viene dal greco hàiresis, che aveva in origine il significato generico di scelta, indirizzo, proposta, ed era applicabile a campi diversi. In età alessandrina cominciò ad essere usato in senso restrittivo, riferito cioè a dottrine filosofiche, religiose, politiche, ecc., nel significato di setta; non però con il valore spregiativo che questa parola ha finito per assumere, ma piuttosto con quello di cenacolo, corrente, scuola di pensiero.
Il valore attuale di eresia riferito specificamente all'ambito dottrinario-religioso ha cominciato a manifestarsi nel Nuovo Testamento (dove conservava il significato di «setta», ma già con valore dispregiativo) e si è precisato nel pensiero degli apologisti e dei Padri della Chiesa. Contemporaneamente il significato di eresia, come dissenso nei confronti delle dottrine della Chiesa, si è venuto distinguendo da «scisma» (dal greco schizein = «dividere», «separare»), che è un dissenso relativo soltanto alla disciplina e all'organizzazione della Chiesa.
Pur essendo propriamente riferibile solo alle dottrine religiose (e in particolare a quelle cristiane) il termine «eresia» è adoperato estensivamente per indicare correnti filosofiche, politiche, scientifiche, artistiche o letterarie che si discostano dalla norma.
In ogni caso, che venga usato in senso proprio o estensivo, il concetto di eresia non ha mai valore assoluto, ma solo e sempre relativo e complementare; ha un significato cioè solo in rapporto al concetto di «ortodossia» (dal greco orthòs = «diritto» o «giusto», e doxu = «opinione»), ossia la credenza o dottrina ufficialmente adottata da un gruppo, da un partito, da una scuola o (nel significato religioso del termine) da una Chiesa.
Eresia e ortodossia non solo si implicano a vicenda, ma sono spesso intercambiabili, nel senso che l'eresia è tale solo dal punto di vista dell'ortodossia, la quale, a sua volta, può essere condannata come eresia da chi, ufficialmente dichiarato «eretico», ma muovendo dagli stessi principi, la ritenga in qualche modo corrotta o inquinata e pertanto non più conforme alla «vera ortodossia». Non è senza significato il fatto, riferitoci da S. Paolo, che i Giudei considerassero un'eresia il nascente Cristianesimo. Nonostante le differenze che li separano, eretici e ortodossi devono avere un certo numero di credenze in comune; non si può altrimenti parlare di eresia. Ii Manicheismo, ad esempio, non era un'eresia del Cristianesimo, perché, a dispetto di alcune somiglianze con la religione cristiana, non ne accettava i principi fondamentali, a cominciare dalla fede in Cristo.

I NEOPLATONICI

La filosofia neoplatonica è stata l'ultimo grande prodotto del pensiero greco. Si è sviluppata nel III secolo d.C., ossia nel periodo di più intensa crisi spirituale del mondo antico, come sintesi della filosofia platonica (combinata però con elementi aristotelici, stoici e pitagorici) e della mistica ebraica o più genericamente orientale. I neo-platonici credevano nell'assoluta trascendenza di Dio, ma nonostante questo il loro Dio era meno distante dall'uomo di quanto lo fossero le Idee platoniche o il Dio di Aristotele: dava vita al mondo, si trasformava in mondo, era il mondo.
Tre erano le tesi fondamentali della filosofia neoplatonica:
1) Dio è al di là di ogni comprensione umana. La sua essenza non può essere né pensata con l'intelletto, né espressa con parole, e può essere colta solo mediante un'intuizione mistica. Dio è insomma ineffabile («non può essere enunciato con discorsi») e può essere definito in qualche modo (ma molto impropriamente) solo dicendo che è l'Uno, ossia negazione di qualsiasi realtà materiale (che è sempre molteplice e frammentaria).
2) Tutte le cose derivano da Dio per emanazione. Immaginiamo che i raggi del Sole invece di limitarsi a illuminare e a riscaldare le cose, diventino cose, si materializzino: pressappoco lo stesso accade al Dio dei neoplatonici, che, come il Sole, resta irraggiungibile, e tuttavia costituisce la sostanza del mondo, perché tutte le cose sono sua emanazione e il mondo altro non è che Dio. Questa posizione è ciò che si chiama «panteismo» (dal greco pan = «tutto» e theòs = «Dio»: «tutto è Dio»).
3) Come la luce diviene tanto più fioca quanto più ci si allontana dalla sua fonte, così la realtà diventa sempre meno perfetta via via che si allontana dall'Uno-Dio. La materia è qualcosa di opaco, di inerte, di ostile, che resiste all'azione penetrante della luce divina, e contamina l'uomo. Purificarsi da ogni contaminazione, liberarsi dalla materia è possibile attraverso l'esercizio costante della virtù, il culto della bellezza, l'amore per la filosofia. Questo cammino culmina nell'«estasi», uno stato di completo abbandono, in cui l'uomo torna a confondersi trionfalmente nell'Uno-Dio da cui proviene.
Fondatore del neoplatonismo è considerato Ammonio Sacca, che operò ad Alessandria nel III secolo d.C.: pare che facesse il facchino (mestiere a cui allude il nome Sacca) e che avesse aderito al Cristianesimo, distaccandosene in un secondo tempo. Non lasciò nulla di scritto, affidando la sua dottrina alla sola comunicazione orale, sicché non conosciamo esattamente le sue dottrine; sappiamo però che esercitò una larga influenza, annoverando tra i suoi allievi alcuni tra i più importanti pensatori del tempo.
Uno di questi, Plotino, nato probabilmente a Licopoli, in Egitto, nel 205 d.C., è considerato il massimo esponente del neoplatonismo. Dopo aver seguito l'insegnamento di Ammonio Sacca per oltre un decennio, nella speranza di approfondire la conoscenza del pensiero orientale seguì l'imperatore Gordiano III in una sfortunata spedizione contro i Persiani. Dopo la sconfitta di Gordiano si trasferì in Roma dove insegnò per 26 anni. Ritiratosi infine in Campania, presso un suo allievo, l'arabo Zetho, morì nel 270. Il suo allievo prediletto, Porfirio, che compilò anche una Vita di Plotino, raccolse gli scritti del maestro in sei Enneadi (ossia gruppi di nove trattati, dal greco ennéa = «nove») e li pubblicò agli inizi del IV secolo d.C.

IL CRISTIANESIMO E L'EREDITĄ CLASSICA

La nuova religione doveva prima o poi fare i conti con la tradizione filosofica classica, anche se le sue «verità» non pretendevano di essere dimostrate razionalmente, ma venivano proclamate in forma di esortazione e di profezia. Quei pensatori che sarebbero poi stati detti «Padri della Chiesa» ebbero appunto l'obiettivo di arrivare a questa resa di conti, che doveva consistere da un lato nella difesa (o «apologia») del Cristianesimo contro tutti i suoi avversari, ebrei o pagani, e dall'altro nella formulazione teorica delle credenze del Cristianesimo, ossia nella loro sistemazione in un corpo coerente di dottrine.
Tra gli apologisti e i Padri della Chiesa si manifestarono subito due indirizzi opposti: uno che tendeva a presentare il Cristianesimo come continuatore ed erede della filosofia classica, e l'altro che tendeva ad esasperare le reciproche divergenze, rivendicando l'assoluta originalità del Cristianesimo, e teorizzando la priorità della fede sulla ragione, della religione sulla scienza, della rivelazione sulla ricerca.
A questo secondo indirizzo apparteneva il maggiore degli apologisti del Cristianesimo, Tertulliano, un pagano convertito in età matura, intorno al 195 d.C., e autore di innumerevoli opere polemiche dirette prima contro i pagani e gli eretici e poi, quando nella sua irrequieta esistenza finì anche lui per aderire ad un gruppo ereticale, contro la Chiesa ufficiale.
La condanna della filosofia e della ricerca era da parte di Tertulliano radicale. Cristo è la verità, e una volta trovato Cristo ogni altra ricerca è inutile o pericolosa: la filosofia era la matrice di ogni eresia, di ogni deviazione dalla via indicata da Cristo. Era del resto impossibile tentare di rendere ragionevoli le verità del Cristianesimo, la cui forza stava proprio nel loro carattere paradossale:

... Il Figlio di Dio è stato messo in croce: parrebbe indegno di un Dio, ma proprio per questo non lo è. Il Figlio di Dio è morto: è inconcepibile, e proprio per questo dobbiamo crederci. Sepolto, è resuscitato: è impossibile, dunque è vero...

Insomma per Tertulliano la forza della fede era tanto maggiore quanto più i suoi contenuti ripugnavano alla ragione. Per dirla con una formula che non si trova in Tertulliano, ma che riassume efficacemente il suo pensiero: credo quia absurdum, «credo perché è assurdo».

PATRISTICA

Il termine «Patristica» è stato coniato dai teologi protestanti del XVII secolo ed è entrato nell'uso comune per indicare l'opera dei cosiddetti «Padri della Chiesa». Padri della Chiesa sono quegli scrittori ecclesiastici che rispondono ai requisiti dell'antichità (sono vissuti non oltre i primi sette o otto secoli dell'era cristiana), dell'ortodossia, della santità di vita (che conferma l'eccellenza del loro insegnamento). Alcuni di loro sono stati proclamati esplicitamente (da un papa o da un concilio) «Dottori della Chiesa».

AGOSTINO

Nato a Tagaste, nell'Africa Settentrionale, nel 354 d.C., Aurelio Agostino studiò e più tardi insegnò retorica a Cartagine dove, come poi scrisse nelle Confessioni (che non sono propriamente un'autobiografia, ma piuttosto, come suggerisce anche il titolo, una sorta di lunga conversazione con Dio, nel corso della quale Agostino ripercorre le esperienze più importanti della sua vita), sentiva stridere tutt'intorno a sé «l'olio bollente dei colpevoli amori»:

... M'era dolce amare ed essere amato, e più quando potevo godere del corpo dell'amante. [...] O Dio, misericordia mia, di quanto fiele Tu, così buono, hai cosparso quelle dolcezze, perché, sì, ho amato e sono stato riamato e sono arrivato in segreto al laccio del godimento, e mi sono stretto beato in catene di spine, per sentirmi battere con le ferree verghe roventi della gelosia e dei sospetti, della rabbia e delle risse.
Mi rapivano gli spettacoli teatrali, pieni d'immagini delle mie stesse miserie e di nuovi tizzoni per il mio fuoco. Com'è che l'uomo vuol provare dolore quando assiste alla rappresentazione di vicende tragiche e luttuose che però mai e poi mai vorrebbe subire? [...] Amavo di rattristarmi e cercavo oggetti che mi rattristassero giacché nelle altrui sventure inventate da saltimbanchi mi piaceva di più e con maggior forza mi attirava quel commediante che con la sua recitazione mi sapeva meglio strappare le lacrime. [...]
Tale era la mia vita. Ma, mio Dio, era vita quella?...

A Cartagine Agostino si legò a una giovane donna dalla quale ebbe un figlio, Adeodato. Nel tentativo di guadagnare un po' di più si trasferì a Roma, nonostante le energiche rimostranze di sua madre Monica, che non voleva separarsi da lui. A Roma le condizioni economiche di Agostino non migliorarono affatto, anche per la pessima abitudine degli allievi di non pagargli le lezioni. Nel 384 vinse il concorso per la cattedra di retorica del municipio di Milano, un incarico finalmente ben retribuito. Si fece allora raggiungere dalla madre, dalla convivente, dal figlio, e dai discepoli che si era fatto a Cartagine.
Sua madre, Monica, era cristiana e soffriva del fatto che il figlio non avesse voluto battezzarsi. Agostino, infatti, si era avvicinato al Manicheismo, di cui apprezzava il materialismo (l'idea di un puro spirito gli sembrava inconcepibile e considerava anche l'anima come qualcosa di materiale) e soprattutto l'attenzione per il problema della sconcertante presenza del male nel mondo. Ma il Manicheismo e soprattutto i verbosi manichei che ebbe a frequentare finirono per stancarlo. A Milano fu invece impressionato dalle prediche di Ambrogio (330-397), vescovo di quella città, poi proclamato santo e dottore della Chiesa: attraverso il suo insegnamento e quello dei neoplatonici, che riprese a studiare, arrivò ad accettare la nozione di spirito e a convincersi che la presenza del male nel mondo non implicava affatto l'ipotesi manichea di un Dio del Male e delle Tenebre contrapposto a quello del Bene e della Luce.
A questo punto non c'era più nulla, sul terreno della dottrina, che gli impedisse davvero di aderire al Cristianesimo. Ma Agostino esitava ancora, spaventato dalle rinunce che il tentativo di praticare l'ideale della perfezione cristiana gli avrebbe imposto:

... Ciò che mi tratteneva erano inezie d'inezie, vanità di vanità, le mie vecchie amiche, le quali mi tiravano per il lembo della mia veste di carne e mi sussurravano all'orecchio: - Dunque, ci mandi via? d'ora in avanti non staremo più con te? mai più?...

Un giorno, travagliato dai dubbi, depresso, piangente, irrequieto, Agostino si trovava nell'orto dietro casa con l'amico Alipio, che, immobile al suo fianco, aspettava di vedere come sarebbe andata a finire tutta quella agitazione.

... Quand'ecco, da una casa vicina udii una voce, non so se di bimbo o di bimba, che ripeteva cantilenando: - Prendi e leggi, prendi e leggi... - E subito, cambiando viso, mi sforzai di ricordare se si trattava di una cantilena che i bambini fossero soliti ripetere in qualche loro gioco; non mi sembrava però di averla mai sentita prima. Allora, trattenendo le lacrime, mi alzai e mi venne in mente di prendere quella voce per un ordine divino di aprire il libro e di leggere il primo capitolo che mi fosse capitato. [...] Tornai di corsa nel luogo dove Alipio stava ancora seduto e dove avevo posato il libro dell'Apostolo [l'Epistola ai Romani di S. Paolo] quando mi ero alzato per venir via. Ed ecco, lo afferrai, lo aprii, e lessi in silenzio il primo capitolo che mi venne sott'occhio: «Non nelle crapule e nelle ubbriacature, non nelle alcove e nelle disonestà, non nelle liti e nelle gelosie: ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non curatevi della carne e delle sue concupiscenze»...

Agostino non ebbe difficoltà a interpretare il senso dell'oracolo e prese su due piedi la decisione di convertirsi, sollecitamente seguito dall'amico Alipio.

... Rientriamo tutt'e due in casa e raccontiamo l'accaduto a mia madre: la buona donna se ne rallegra. Le raccontiamo per filo e per segno come è andata la cosa: ella ne esulta e trionfa dandone benedizione a Te. [...] Mi avevi infatti convertito a Te fino al punto che io non volevo più né moglie né altra speranza mondana...

Così, dopo tredici anni di vita in comune, Agostino abbandonò la sua compagna, per ritirarsi con la madre (anch'essa fatta santa dalla Chiesa) e alcuni discepoli in una villa della Brianza. La notte del Sabato Santo del 387 Agostino si fece battezzare da S. Ambrogio. Morta la madre tornò in Africa e nel 391 fu ordinato sacerdote ad Ippona (oggi Bona, in Algeria, non lontano da Tagaste) dove fondò l'ordine religioso che porta il suo nome. Nel 396 fu eletto vescovo di Ippona.
Nel 410 i Goti di Alarico erano entrati in Roma e l'avevano messa a sacco: l'evento sembrava concludere e simboleggiare la decadenza dell'antico e glorioso impero romano, di cui non pochi attribuivano la responsabilità proprio al Cristianesimo. Molti abbandonarono l'Italia, troppo esposta alle violenze dei Barbari, e si rifugiarono in Africa. Tra loro c'era Pelagio, un monaco originario della Britannia, sostenitore di una sorta di razionalismo cristiano secondo il quale il peccato di Adamo non si trasmette automaticamente a tutti gli uomini, ma è solo una sorta di cattivo esempio, la testimonianza della propensione umana al peccato. Ogni uomo, dunque, è in grado di rifiutare il peccato e di scegliere da sé, liberamente, il proprio destino. Naturalmente Dio sa da sempre chi preferirà il bene e chi il male, ma questa sua prescienza non è predestinazione: l'uomo si guadagna la salvezza o la dannazione con le sue opere.
Agostino capì che questa troppo ragionevole e ottimistica dottrina avrebbe stravolto l'esperienza cristiana, non solo togliendo qualsiasi valore al sacramento del battesimo e impoverendo il significato della Redenzione, ma soprattutto privando il fedele del sentimento inquietante e fascinoso insieme della miseria umana e dell'abbandono in Dio. E poi, quali meriti e quali diritti avrebbe mai potuto rivendicare la creatura nei confronti del suo creatore? La salvezza non era il premio delle buone opere, ma un dono assolutamente immeritato e gratuito del Signore; allo stesso modo la dannazione non era il castigo riservato ai malvagi, ma il destino comune del genere umano a cui sfuggivano soltanto gli eletti, ossia coloro che Dio, a suo imperscrutabile arbitrio, aveva destinato alla salvezza.
Ispirandosi a queste tesi Agostino si impegnò in una violenta polemica contro i seguaci di Pelagio, fino a quando, nel 418 ottenne dal concilio di Cartagine la condanna formale delle loro dottrine e la conferma dell'assoluta necessità della grazia divina ai fini della salvezza.
La questione, per altro, non poteva dirsi chiusa e la dottrina della grazia sarebbe tornata a dividere i Cristiani più e più volte.
Intanto le vecchie regioni dell'impero continuavano ad essere devastate dalle popolazioni barbariche che vi erano penetrate. Nel 429 i Vandali di Genserico varcarono lo stretto di Gibilterra e travolsero l'Africa romana.
Ippona fu uno dei pochi centri di resistenza e quando Agostino morì, nell'agosto del 430, la sua città sosteneva già da tre mesi l'assedio dei barbari.

IL TEMPO E LA STORIA

L'innesto del Cristianesimo sulla tradizione della filosofia classica ha portato all'elaborazione di alcune nozioni, il cui interesse va ben oltre il contesto teologico nel quale erano nate. Ad esempio, fino all'avvento del Cristianesimo, anche quando i filosofi avevano postulato un Dio o un Assoluto, il rapporto di questo con la realtà naturale e con l'uomo era sempre stato concepito in modo piuttosto statico. Platone aveva parlato di partecipazione delle cose alle idee e a proposito dell'uomo aveva indicato nell'ascesi lo strumento per il ritorno dell'anima al mondo ideale da cui proveniva. I culti misterici, poi, e la setta pitagorica, si fondavano appunto sull'idea della salvezza e della purificazione. Il Cristianesimo, però, sulla scia dell'ebraismo, intendeva l'intera vita dell'umanità come una vicenda salvifica, dalla Creazione al Peccato di Adamo e dal Peccato alla venuta di Gesù; e di qui, ancora, per tutta la storia a venire, sino al ritorno di Cristo (o Parusia, che in greco significa «presenza»: è la parola con cui Platone indicava la presenza delle idee nelle cose) e al Giudizio Finale.
A questa concezione della storia come cammino dell'uomo a Dio si collegano anche le discussioni dei Padri della Chiesa intorno alla libertà dell'uomo ed alla sua capacità di prendere partito nell'eterna lotta tra Bene e Male. Anche S. Agostino fu molto sensibile al problema della storia, che, alla luce del perenne contrasto tra Dio e il Diavolo, interpretò come lotta di due regni, la Città celeste, ossia il regno dello spirito, e la Città terrena, ossia il regno della carne. Nessuno dei due, secondo Agostino, sarebbe mai riuscito a prevalere, sicché sino alla fine dei tempi, sarebbero apparsi confusi insieme, e solo nell'intimo della coscienza di ciascun uomo sarebbe stato possibile di volta in volta distinguerli.
Al problema della storia era connesso quello del tempo. Secondo Agostino, prima che Dio creasse il mondo non c'era altro che l'immobile eternità. Anche il tempo dunque (quella strana e terribile cosa per cui ciò che è stato non è più, ciò che è nel momento stesso in cui cerchiamo di afferrarlo diventa ciò che era, e ciò che dovrà essere non è ancora) è creato da Dio. Per capire la realtà del tempo, che non si tocca, non si vede, non si sa come indicare, bisogna scendere nel profondo della nostra coscienza, analizzare i movimenti della nostra memoria, scoprirci cioè come io, come soggetto, come attori dei nostri pensieri.
Quello indicato da Agostino non era lo stesso processo con il quale Platone riteneva che, ripescando nel fondo dell'anima immagini offuscate dall'opacità della materia, si potessero riportare alla superficie le Idee innate; era qualcosa di assai più drammatico, perché, ripiegando sulla propria coscienza, l'uomo avrebbe finito per trovarvi non i modelli immobili delle cose, ma la calda, appassionata, inquietante voce di un Dio vivente, un Dio-persona. Così, la filosofia per Agostino era sempre meno un sistema di verità, e sempre più un itinerario di ricerca interiore.

IL CRISTIANESIMO E IL PROBLEMA DEL MALE

L'avverbio «bene» significa «in modo buono, giusto, corretto» (es. «comportarsi bene»). È la formula più generale e più comprensiva per esprimere approvazione, così come il suo contrario, «male», lo è per esprimere disapprovazione. Come sostantivo «il bene» è ciò che appare giusto e onesto (es.: aspirare al bene), oppure utile e conveniente (es.: il bene della patria). In economia si chiama «bene» tutto ciò che serve a soddisfare un bisogno e che quindi ha un valore d'uso.
L'approvazione o la disapprovazione connesse alle parole «bene» e «male» non suscitano difficoltà quando si riferiscono alla soddisfazione di un bisogno, quando, cioè, il bene di cui si parla è un mezzo per raggiungere un certo scopo: così, ad esempio, il pane è un bene (un mezzo) in relazione al bisogno di nutrirsi, e la ricchezza è un bene (un mezzo) in relazione al desiderio di vivere senza lavorare, mentre la loro assenza è sicuramente un male (rispetto agli obiettivi prefissi).
Le difficoltà cominciano quando l'approvazione o la disapprovazione si riferiscono non ai mezzi, ma ai fini. Vivere senza lavorare, per esempio, è un bene o un male? Lo stesso bene, poi, può presentarsi a volte come fine e a volte come mezzo. Nell'esempio che abbiamo fatto vivere senza lavorare è un fine; può però diventare un mezzo in relazione a un fine più alto, come dedicarsi alle opere di bene, conservarsi in buona salute, salvaguardare la propria libertà, e così via.
Ciò significa che è possibile costruire una gerarchia di beni, nella quale quel che appare come fine a un certo livello, può apparire come mezzo a un livello superiore. È nata di qui l'idea di Sommo Bene, di un bene, cioè, che è buono non in rapporto ad uno scopo, ma per se stesso, e rispetto al quale tutti gli altri beni sono semplici strumenti. L'idea di Sommo Bene è legata a quella di perfezione ed è stata più volte identificata (nelle correnti platoniche e neoplatoniche, ad esempio) con l'idea stessa di Dio come radice di tutte le cose e sorgente del loro valore.
«Male» indica uno stato di corruzione fisica (la malattia) o morale (il peccato), oppure di sofferenza, che può essere anch'essa fisica (es.: ho il mal di pancia) o morale (es.: l'ingratitudine mi fa male). Al male l'uomo non si è mai abituato davvero e i filosofi hanno cercato ripetutamente di definirlo, di spiegarlo, di renderlo accettabile. Il male è stato considerato da alcuni (i neoplatonici, ad esempio) come mero non-Essere: se il Bene è l'Essere, e buona è ogni cosa che esiste, il Male non è sostanza, ma solo assenza o deficienza di bene. Per altri (gli stoici) il Male esiste, ma come elemento necessario all'attuazione del Bene: non c'è bene senza male, così come non c'è luce senza ombra, verità senza menzogna, felicità senza dolore, ecc.
A queste visioni ottimistiche che negano il male o lo considerano un momento dell'ordine armonico universale si oppone la concezione, caratteristica delle religioni persiane e in particolare del Manicheismo, che ne fa un principio attivo della realtà, esattamente come il suo contrario: il mondo, allora, è il teatro dell'incessante lotta tra le potenze o divinità rivali del Bene e del Male (anche Platone aveva accennato a qualcosa di simile, parlando nelle Leggi di due anime del mondo, l'una buona e l'altra cattiva). Per gli Epicurei l'esistenza del male era la prova migliore che gli Dei non esistono, o che, se esistono, si disinteressano totalmente del mondo: altrimenti si dovrebbe ammettere un'inconcepibile malignità degli Dei.
Nella tradizione giudaico-cristiana la giustificazione dell'esistenza del male è risultata tutt'altro che facile: se tutto ciò che esiste è stato creato da Dio (che è Sommo Bene), da dove può venire il male? Il dogma del peccato originale (per il quale l'esistenza del male sarebbe connessa al libero arbitrio, che Dio, nella sua infinita bontà, ha voluto concedere all'uomo) risponde solo in parte a questo interrogativo, anche perché rinvia alle ancor più inestricabili questioni della grazia e della predestinazione. Così, la filosofia cristiana (e S. Agostino in primo luogo) ha ripreso l'idea neoplatonica del male come nulla, e quella stoica del male come condizione del bene. Nella cabala (ossia nella tradizione del misticismo ebraico) è anche comparsa l'idea che Dio, prima della creazione, si sia contratto ritirandosi in se stesso, purificandosi e lasciando cadere fuori di sé le scorie di male.

GRAZIA

«Grazia», come il latino gratia, viene da un'antica radice indoeuropea che significa pressappoco «lodare», «cantare inni di lode», «rendere grazie a Dio», ecc. Grato (come il latino gratus) significa sia «piacevole», «gradito» (es.: Mi è stato grato rivederti) sia «riconoscente» (es.: Ti sono grato del tuo ricordo). Analogamente il latino gratiosus voleva dire al tempo stesso «che prova riconoscenza», «che fa piacere» e «che è fatto gratuitamente». Gratis, infine, significa «senza pagare». La grazia insomma è un piacere, un favore, un servizio senza contropartita, qualcosa che non è dovuto e non ha prezzo che è «gratuito» (anche nel senso di «arbitrario», «ingiustificato»), ma che, appunto per questo, produce riconoscenza, gratitudine. Il corrispondente greco del latino gratia è khàris, da cui, tra l'altro, «eucaristia», che etimologicamente significa «rendimento di grazia».
Nell'Antico Testamento «grazia» sta a indicare genericamente la benevolenza di Dio nei confronti di Israele; l'atto di grazia per eccellenza è l'alleanza da lui stabilita con il popolo ebraico non perché vi fosse in qualche modo costretto, ma perché così gli era piaciuto di fare. Nel Nuovo Testamento (e specialmente nelle lettere di S. Paolo) la grazia del Nostro Signore Gesù Cristo è il dono che Gesù fa agli uomini della sua presenza.
La grazia è l'intervento di Dio che salva dal peccato e che non ha altra motivazione che il suo amore per l'uomo. Il contrario del peccato non è la virtù, ma la grazia.

LA CRISI DEL MEDIOEVO

I primi secoli del Medioevo, dal V al X secolo d.C., furono un brutto periodo per la cultura occidentale. In Europa la vecchia macchina dell'Impero romano aveva smesso di funzionare, l'economia schiavistica era da tempo in crisi, le città decadevano al rango di borghi semispopolati, le guerre, il disordine e la fame rendevano ovunque precaria l'esistenza. È comprensibile che la gente non avesse né modo né voglia di dedicarsi agli studi. Le vecchie istituzioni culturali erano decadute, innumerevoli biblioteche erano andate disperse o distrutte e nessuno (o quasi) si curava di sostituire i libri perduti.
Ad un certo punto anche le opere di Platone e di Aristotele scomparvero dalla circolazione. Quel che si sapeva di loro, si sapeva quasi sempre per sentito dire. Il ricordo della matematica, della fisica o della medicina dell'età classica si faceva sempre più labile e lacunoso. Non solo era difficile trovare in Europa scienziati o pensatori di qualche valore, ma persino i più umili maestri di scuola erano diventati una rarità. Naturalmente la tradizione culturale non si era completamente interrotta. Qualcosa del glorioso passato sopravviveva nelle isole di quiete che pur esistevano in questo mondo burrascoso (nei monasteri per esempio). Qualcosa continuava a filtrare in Europa da fuori, e cioè dall'Impero bizantino, dove la macchina statale non si era sfasciata e dava di tanto in tanto segni di rinnovato vigore, e, a partire dall'XI o XII secolo, dal mondo islamico. Gli Arabi avevano infatti raccolto la tradizione dell'antica filosofia greca che, dopo la chiusura delle scuole d'Atene decretata nel 529 dall'imperatore Giustiniano, era faticosamente sopravvissuta negli ambienti ellenizzati del Medio Oriente: Siria, Mesopotamia e Persia.
Rispetto a Bisanzio e all'Islam l'Europa continuò ad essere un'area culturalmente sottosviluppata almeno fino all'XI secolo. Il risveglio culturale dell'Europa dopo il Mille fu effetto della riorganizzazione della società su base feudale ed ecclesiastica. I signori feudali costituivano una casta militare e non erano il genere di persone adatto ad assicurare una pace duratura e generale. Erano in grado però di dare un minimo di protezione e di sicurezza ai propri dipendenti, generalmente contadini asserviti, il cui lavoro all'ombra dei castelli feudali fornì le risorse necessarie alla ripresa economica dell'Europa. Gli ecclesiastici, o almeno quelli che occupavano gli alti gradi della Chiesa, avevano pressappoco gli stessi poteri dei signori feudali, ma il loro compito specifico era di fornire una guida spirituale alla società. Assolsero questo compito assicurando con lo sterminio degli eretici e dei dissidenti l'unità religiosa dell'Europa occidentale e assumendo il monopolio della cultura.
Nel campo dell'alta cultura la necessità più urgente era rappresentata dal recupero, per lo meno parziale, della scienza classica. Sino al XV secolo circa quest'opera di recupero avvenne in modo disordinato e precipitoso. Ad esempio, poiché quasi nessuno più conosceva il greco, gli antichi autori greci tornarono molte volte a circolare in traduzioni dall'arabo, con tutti gli inconvenienti di una doppia traduzione: fraintendimenti, lacune, interpolazioni, false attribuzioni. Bene o male però, per il tramite degli Arabi (e di quegli Ebrei che, vivendo in Paesi islamici, avevano accesso alle fonti della filosofia greca), gli uomini di cultura europei ripresero contatto con la grande tradizione del pensiero classico.

ARABI ED EBREI

Primi nella volontà di riappropriarsi del patrimonio intellettuale dell'antichità classica, Arabi ed Ebrei hanno anticipato gli Europei anche nel cercare soluzioni al problema comune a tutte le religioni nate dal ceppo del giudaismo: la conciliazione di ragione e fede. Prima della Scolastica cristiana, che ha posto questo problema al centro della sua speculazione, c'era stata (per così dire) una «Scolastica» araba e una «Scolastica» ebraica.
Nel patrimonio scientifico recuperato dagli studiosi arabi c'erano le grandi opere di Euclide, di Archimede, di Ippocrate, di Tolomeo, ecc.; ma c'erano soprattutto le opere di Aristotele, che apparve subito come il pensatore con il quale, prima e più di ogni altro, bisognava fare i conti. Senonché, tra le opere attribuite ad Aristotele ce ne erano alcune apocrife (ossia spurie, non autentiche; dal greco krypto = «nascondo»), scritte molto più tardi e di ispirazione neoplatonica. Questa errata attribuzione indusse una certa deformazione nell'immagine corrente di Aristotele, che però, forse, ne facilitò l'accettazione da parte dei musulmani prima e poi dei cristiani: il neoplatonismo era sicuramente meno lontano dell'aristotelismo dallo spirito delle grandi religioni rivelate.
Nel mondo arabo l'assimilazione dell'aristotelismo può dirsi conclusa con Avicenna (980-1037), autore di una vasta esposizione (sempre in chiave neoplatonica) della filosofia di Aristotele. Avicenna è importante anche in medicina per aver conciliato le dottrine di Ippocrate e di Galeno con le teorie biologiche di Aristotele: una sintesi che nelle scuole mediche dell'Occidente è rimasta canonica fino al Rinascimento. Il più importante degli interpreti arabi di Aristotele è Averroé (1126-1198): «Averroìs che 'l gran comento feo» dice Dante (Inferno, IV, 44). Averroé non era però un semplice commentatore. Anche lui era assillato dal problema di conciliare le dottrine di Aristotele con la fede islamica e le sue idee in proposito dopo aver caratterizzato un intero settore della cosiddetta «Scolastica musulmana», hanno largamente influenzato alcune correnti di quella cristiana. In Europa l'averroismo, nonostante la diffidenza che le sue posizioni suscitavano nella Chiesa in rapporto soprattutto al problema dell'immortalità dell'anima, era ancora vivo nel Seicento, all'epoca cioè della Rivoluzione Scientifica. Non vale la pena di soffermarsi sulle dottrine di Averroé, salvo per quella detta «della doppia verità», che nelle intenzioni avrebbe dovuto eliminare ogni possibile conflitto tra religione e filosofia e che invece lo ha alimentato per secoli.
A dispetto del nome che è stato dato a questa teoria, la verità per Averroé era una sola: quella del Corano. Il guaio, secondo Averroé, era che tutti si arrogavano il diritto di interpretare il Corano a modo loro generando una grande confusione. Non tutti, infatti, (sempre secondo Averroé) sono in grado di intendere le verità rivelate. Ci sono tre tipi di persone: gli spiriti dimostrativi che esigono dimostrazioni rigorose e prove irrefutabili; gli spiriti dialettici che si accontentano di argomenti probabili; gli spiriti emotivi, che si lasciano convincere dalle esortazioni e da quegli argomenti retorici che fanno appello più all'immaginazione e al sentimento che alla ragione. Alla comprensione dei primi corrisponde la filosofia, a quella dei secondi la teologia, a quella degli ultimi la religione. Il Corano (e questo, diceva Averroé, era di per sé una prova del carattere miracoloso dell'opera) si rivolge a tutti e da tutti si fa capire. Ma, naturalmente, si fa capire in forme diverse: agli ignoranti è destinato il senso più superficiale delle dottrine coraniche, espresse per via di immagini e simboli, mentre solo gli altri, filosofi e teologi, possono accedere al senso più profondo. La verità è una, ma i suoi significati sono molteplici, e ad evitare confusioni, occorre che i dotti che hanno colto i significati reconditi non ne facciano trapelare nulla al di fuori della loro ristretta cerchia.
Nel mondo ebraico il maggior esponente della corrente favorevole all'assimilazione della filosofia classica fu Mosé Maimonide (nome latinizzato di Mosheh ben Maimôn, 1135-1204) che esercitò una forte influenza su Tommaso d'Aquino. La sua opera più nota, la Guida dei perplessi, allude già nel titolo alla necessità di combattere lo smarrimento di quanti tra scienza e fede non sanno che cosa scegliere. La ragione, secondo Maimonide (proprio come poi affermerà Tommaso d'Aquino), non è in alternativa alla fede, ma ha esclusivamente il compito di confermare la plausibilità delle verità di fede. Nella maggioranza dei casi (a cominciare dall'esistenza di Dio) può dimostrare la verità delle credenze religiose; negli altri casi può dimostrare l'infondatezza degli argomenti che vengono opposti a tali credenze.
Come sarebbe poi successo anche nel mondo cristiano, sia tra gli Arabi sia tra gli Ebrei il tentativo di trovare un accordo tra filosofia e religione suscitò scetticismo o ostilità. Il persiano Al Ghazali (1058-1111), che poi diventò uno dei maggiori esponenti della mistica musulmana, iniziò la sua polemica antifilosofica (e specialmente antiaristotelica) da posizioni scettiche. La sua opera Incoerenza dei filosofi (nota nel mondo latino come Destructio philosophorum) sfruttava le contraddizioni dei filosofi per dimostrare l'inconsistenza e la vacuità della ricerca filosofica. Ma l'abilità dialettica con cui conduceva il gioco è una dimostrazione del suo talento filosofico. Pura esaltazione è invece l'irrazionalismo del medico e poeta ebreo Giuda Levita (1080-1140) autore di inni religiosi e di un dialogo (scritto in arabo) Il Re dei Chazari, in cui rivendicava la superiorità della religione sulla filosofia, del giudaismo sulle altre religioni, e del popolo ebraico su tutti gli altri popoli. I Chazari nel VII secolo avevano fondato un vasto impero nella Russia meridionale e intorno all'800 il loro re e gran parte della nobiltà si erano convertiti all'ebraismo: il titolo del dialogo allude appunto a questo evento, abbastanza singolare, visto che l'Ebraismo è una religione a base nazionale, che di norma non fa proseliti.
Nell'esaltare le tradizioni dell'Ebraismo Giuda Levita insisteva con particolare fervore sulla necessità di tornare nell'antica sede degli avi, la Palestina, perché solo lì, secondo lui, le qualità spirituali del popolo ebraico si sarebbero espresse compiutamente. Nato e vissuto nella Spagna musulmana, Giuda fu ossessionato dall'idea dell'esilio: come scrisse in uno dei suoi maggiori poemi, la Sionide, «il mio cuore è in Oriente, ed io vivo in Occidente». Alla fine abbandonò il suo paese, e si avventurò in un pericoloso viaggio per Gerusalemme. Al Cairo i suoi correligionari tentarono inutilmente di trattenerlo. Partito dall'Egitto, non si è saputo più nulla di lui.
La leggenda vuole che sia stato ucciso da un cavaliere arabo alle porte di Gerusalemme (o presso il muro del pianto) mentre cantava il suo inno a Sion (Sion è la collina di Gerusalemme dove Salomone costruì il tempio diventato simbolo del popolo di Israele).

AVICENNA E LA "METAFISICA" DI ARISTOTELE

Le doti intellettuali di Avicenna e la sua sterminata erudizione sono diventate leggendarie. Ad appena sedici anni aveva intrapreso la professione medica, dopo aver portato a termine studi approfonditi nei campi più diversi del sapere, dalla letteratura al diritto, alla teologia.
Come racconta lui stesso, l'unico vero ostacolo in tutto il corso dei suoi studi era stato rappresentato dalla Metafisica di Aristotele: l'aveva letta quaranta volte, l'aveva mandata a memoria, ma continuava a non capirci nulla. Un giorno si imbatté nel commento di un grande interprete arabo di Aristotele della generazione precedente alla sua, Al Farabi (c. 870 - c. 950), e con la sua guida riuscì finalmente ad entrare nello spirito dell'opera aristotelica: improvvisamente ogni cosa gli divenne chiara.
Avicenna fu così felice che l'indomani in segno di ringraziamento e di esultanza distribuì abbondanti elemosine ai poveri.

LA SCOLASTICA

La filosofia dell'Europa medievale viene globalmente denominata «Scolastica» perché all'incirca dal VII al XIV secolo le scuole, prima quelle annesse alle pievi, alle diocesi, ai monasteri, poi le università, tutte ugualmente controllate dal clero, furono in pratica l'unica possibile sede di elaborazione intellettuale e di ricerca. La cultura filosofica e scientifica di questi secoli aveva inevitabilmente i tratti della società feudale in cui era cresciuta: da un lato prestava scarsissima attenzione ai problemi della tecnica e della produzione (considerati prerogativa non invidiabile delle masse illetterate dei contadini, degli artigiani e dei mercanti) e dall'altro, in conformità al monopolio della Chiesa nel mondo della cultura, si presentava essenzialmente come teologia, ossia come esposizione ordinata e razionale dei dogmi del Cristianesimo.
Tra i principali problemi con cui la Scolastica ebbe a misurarsi vi fu quello di convogliare nel pensiero cristiano le tradizioni filosofiche dell'età classica, e in primo luogo quelle del platonismo e dell'aristotelismo. Fra tutte, la corrente aristotelica era quella che presentava maggiore coerenza e organicità, la sola, anzi, che potesse vantare un compiuto sistema di dottrine, e probabilmente fu proprio questo suo carattere che le consentì alla fine di prevalere.
In verità all'inizio (quando cioè, per il tramite dei commentatori arabi, se ne cominciò a sapere qualcosa) Aristotele fu guardato con diffidenza, giacché molte sue tesi erano palesemente incompatibili con i dogmi della Chiesa. Secondo Aristotele, ad esempio, l'idea della creazione e quella della fine del mondo, che erano assolutamente centrali nel Cristianesimo, erano delle pure e semplici assurdità. Analoghe difficoltà riguardavano la nozione di anima, che Aristotele riteneva inseparabile dal corpo e quindi destinata a morire con esso, e addirittura quella di Dio, a cui Aristotele non attribuiva affatto quei caratteri antropomorfici che aveva invece nel Cristianesimo. Per conciliare la filosofia aristotelica con la teologia cristiana era insomma necessario apportare ad entrambe una serie di importanti correzioni e di adattamenti.
Fu un'impresa non facile e non priva di rischi per quanti vi si cimentarono sotto il sospettoso controllo delle autorità ecclesiastiche, attente a soffocare sul nascere i possibili focolai di eresia: nel corso del XIII secolo una serie di opere di Aristotele o dei suoi commentatori furono escluse dalle scuole per ordine delle autorità ecclesiastiche, sia pure con qualche incoerenza, giacché quel che era proibito, per esempio, a Parigi era permesso a Tolosa o viceversa. Quando però l'assimilazione dell'aristotelismo fu portata a termine, per merito principalmente di Alberto Magno (c. 1205-1280), suo grande divulgatore, e Tommaso d'Aquino suo interprete e manipolatore, il risultato parve talmente soddisfacente che per molte generazioni questo miscuglio di aristotelismo e di Cristianesimo fu considerato, con l'approvazione della Chiesa, il risultato definitivo e quasi insuperabile della riflessione filosofica.
Ciò non significa, naturalmente, che a tutti fosse imposto di seguire le dottrine aristoteliche e che ai filosofi non restasse più nulla da fare. Il compromesso dottrinale tra aristotelismo e Cristianesimo sancì il principio di una duplice autorità: quella indiscutibile della Chiesa, e quella altissima, ma discutibile, di Aristotele.
La filosofia delle scuole venne insomma a configurarsi come un sistema di pensiero solidamente imperniato su alcune verità di fede assolutamente incontrovertibili, ma per il resto tutt'altro che rigido. Rimaneva aperto alla libera ricerca il vasto terreno delle materie che non coinvolgevano questioni di fede. Qui alcune opinioni erano considerate più probabili ed altre meno, a seconda che fossero più o meno largamente condivise dai dottori delle scuole, ma tutte le opinioni erano legittime. Poiché non era sempre facile separare il campo della filosofia da quello della teologia, c'erano argomenti intorno ai quali era imprudente, anche se non espressamente vietato, esprimere opinioni inconsuete (e se ne sarebbero accorti di lì a poco i copernicani). Nel complesso, però, la Scolastica non mortificò il confronto delle idee, e mentre diede un contributo capitale al recupero del pensiero classico, riuscì a produrre una massa considerevole di ricerche originali.

RAGIONE E FEDE

Il problema fondamentale della Scolastica fu, come già per la Patristica, quello della giustificazione razionale dei dogmi della Chiesa, su cui ormai il pensiero cristiano si affaticava da un millennio. I modi in cui le successive generazioni di studiosi affrontarono il rapporto tra ragione e fede consentono di distinguere sia pure grosso modo diversi periodi nello sviluppo della filosofia scolastica.
Il primo periodo, la cosiddetta «alta Scolastica», dal IX al XII secolo, è contraddistinto da una sostanziale fiducia nella possibilità di conciliare fede e ragione: i dogmi della Chiesa vanno accettati senza discussione, ma questa stessa accettazione comporta un doveroso sforzo di comprensione. Come diceva S. Anselmo d'Aosta, vescovo di Canterbury (1033-1109), uno dei massimi pensatori del periodo, neque enim quaero intelligere ut credam, sed credo ut intelligam, «non pretendo di capire per credere, ma credo per poi capire». Alla ragione, insomma, era riservata una funzione essenzialmente apologetica, di difesa e di propaganda della fede, non di autentica ricerca. Ed è solo in questi modesti limiti che si può parlare per questo periodo di un «razionalismo cristiano».
Diffidenti verso il tentativo di conciliare ragione e fede restavano in ogni caso le correnti mistiche, che teorizzavano la ricerca dell'unione spirituale con Dio secondo il consueto modello del «viaggio dell'anima» tra pratiche ascetiche ed esperienze ineffabili. Una delle più note polemiche tra mistici e razionalisti cristiani fu quella che oppose Bernardo (1090-1153), fondatore del monastero di Clairvaux (Chiaravalle), santo e dottore della Chiesa, a Pietro Abelardo (1079-1142), la figura forse di maggiore spicco della prima Scolastica. Fautore dell'umiltà intellettuale e grande maestro di «vita monastica» (un'espressione che al tempo equivaleva, almeno in teoria, ad ascesi), Bernardo detestava le dispute sottili e considerava pericolose Le elucubrazioni teologiche. Abelardo, invece, rivendicava l'esercizio dell'intelligenza e il rispetto della logica anche nella difesa della fede e nell'illustrazione dei suoi misteri. Ce n'era abbastanza per scatenare la santa ira di Bernardo di Chiaravalle, che riuscì a far condannare ripetutamente le tesi di Abelardo.
Nonostante le condanne, Abelardo è considerato uno dei fondatori della Scolastica e in particolare del metodo della quaestio (= ricerca) ossia dell'esame di un problema basato sul confronto di tesi opposte. Uno dei suoi libri più noti, il Sic et non (alla lettera: «Sì e no» o, più propriamente, «Pro e contro») è un modello in questo genere: si trattava di una raccolta di sentenze contraddittorie relative ad oltre 150 questioni teologiche, tratte dalle Sacre Scritture, dai Padri della Chiesa e dai Concili. Il libro, rivelando che i Padri erano in disaccordo tra loro e con le Scritture praticamente su qualunque problema, è sembrato un'implicita contestazione del «principio di autorità». Ma l'intento di Abelardo era semmai di richiamare a un uso regolato di quel principio: senza il controllo della ragione, a forza di citazioni è possibile dimostrare tutto e il contrario di tutto. Come avrebbe detto Alano da Lilla nella generazione successiva a quella di Abelardo, il principio d'autorità ha un naso di cera, che può esser girato da qualunque parte: per questo è nell'interesse della Chiesa dotarlo di una solida armatura, che solo la ragione può fornirgli.
Il secondo periodo della Scolastica, quello del suo massimo fiorire, è dominato dalla figura del domenicano Tommaso d'Aquino (c. 1224-1274) e vede il recupero in chiave cristiana di Aristotele, sul modello di quanto era stato già fatto nel mondo musulmano e in quello ebraico. Fondamento di questa operazione è la convinzione dell'impossibilità che la ragione, dono di Dio entri in contraddizione con la rivelazione, altro dono di Dio. Contro questa tesi, fatta propria oltre che da Tommaso d'Aquino dall'intero ordine di San Domenico, fu proposta dallo scozzese Giovanni Duns Scoto e dall'inglese Guglielmo di Occam, entrambi francescani, la tesi di una doppia verità: ciò che è vero per la ragione può non esserlo per la fede e viceversa, e quando una verità di ragione contrasta con una verità di fede bisogna accettarle entrambe perché si riferiscono a ordini di realtà radicalmente diversi, e quindi non interferiscono tra loro. La dottrina della doppia verità, che, come abbiamo visto, era presente nel pensiero di Averroé, ma in un senso piuttosto diverso, nel mondo cristiano ebbe varie formulazioni e si prestò a interpretazioni opposte. Poteva presentarsi come rivendicazione della priorità della fede contro l'appiattimento razionalistico dei valori religiosi effettuato da Tommaso d'Aquino; oppure poteva essere una rivendicazione di autonomia da parte di filosofi e scienziati nei confronti della Chiesa e dei suoi dogmi; infine poteva addirittura coprire un atteggiamento di effettiva miscredenza dietro un ossequio solo formale verso le verità di fede.
Il terzo periodo della Scolastica è quello del suo lento declino che comincia nel XIV secolo e di cui la tesi della doppia verità era in qualche modo un preannuncio. La Scolastica aveva esaurito il suo compito di dare alla Chiesa una filosofia che potesse confrontarsi senza complessi con la grande tradizione del pensiero classico. Il Tomismo (ossia la filosofia di Tommaso d'Aquino) e lo Scotismo (ossia la filosofia di Duns Scoto) rispondevano egregiamente a questa funzione. Non restava che commentare una dottrina ormai definita, illuminarne i punti oscuri, illustrarne i meriti. Oppure (ma questo voleva dire uscire dal sistema delle scuole e forse dal Cristianesimo) sforzarsi di superare il punto morto, abbandonare le certezze raggiunte con tanta fatica, ricominciare tutto da capo.

POLLI E LIOCORNI

Durante l'alto Medio Evo Dio era davvero onnipresente. La gente si era abituata a considerare il mondo come un grande libro scritto da lui in persona affinché l'uomo potesse leggervi i suoi doveri e il suo destino. Sembra quasi che a un certo punto si fosse persa la nozione esatta delle cose e che gli accadimenti di questo mondo valessero solo in quanto segni, prefigurazioni o metafore di una realtà soprannaturale. Compariva, poniamo, un'aquila o un capriolo? La gente (la gente comune, ma soprattutto gli uomini di lettere, ossia quei pochi che sapevano leggere e scrivere) si domandava: che cosa vorrà dire? che cosa rappresenterà? sarà simbolo di Cristo, o della Vergine, o della virtù della Prudenza? Era un po' come aggirarsi in una foresta incantata, dove ogni cosa poteva essere simbolo di un'altra, tutte lo erano di Dio, e il liocorno era reale tanto quanto il bue perché entrambi avevano il loro posto nell'enciclopedia mistica della natura.
Le enciclopedie del tempo, come quella di Sant'Isidoro, vescovo di Siviglia (c. 560-636), che fu il prototipo di tutte le altre (era intitolato Le etimologie perché seguiva come filo conduttore le etimologie delle parole), o come quella (nota con il classico titolo De rerum natura) del venerabile Beda (672-735), che esercitò un'enorme influenza sulla cultura europea sino a tutta l'età della Scolastica, raccoglievano i frammenti superstiti della cultura antica, ma con una peculiare incapacità (dal nostro punto di vista) di distinguere il vero dal falso. Erano piene di visioni meravigliose: il coccodrillo, il basilisco, il grifone, il drago, i bramini, i pigmei... Figure reali e immaginarie, notizie controllate e fantasie poetiche, tutto danzava in una coreografia straordinaria, allo stesso modo in cui sulle pareti o nei portali delle chiese angeli, diavoli e mostri di pietra si mescolavano con assoluta naturalezza a scene della vita quotidiana e a ritratti di personaggi illustri.
Era un mondo di fiaba? In un certo senso sì. Si trattava però di una fiaba molto controllata, nella quale l'arbitrio aveva poco spazio: la comune fede religiosa e la vigilanza delle autorità ecclesiastiche garantivano che enciclopedie e trattati attribuissero a tutti gli esseri di questo mondo i dovuti significati secondo le opportune gerarchie. E soprattutto era un mondo in cui, nel disegno comune predisposto da Dio, niente avveniva a caso, tutto aveva una spiegazione, uno scopo, una ragion d'essere.
A un certo punto l'interesse degli Europei (o almeno dei letterati) tornò a rivolgersi alle cose in quanto tali, e non solo in quanto segni di altre cose. L'aquila e il liocorno erano animali pieni di significati simbolici. Il pollo, invece, non ha mai significato niente per nessuno. Ma un giorno un filosofo, Alberto Magno, morì di polmonite per essersi fermato nella neve ad osservare il corpo di un pollo stecchito dal freddo.
Quando le cose cominciarono a valere di nuovo per quel che sono, Aristotele rientrò in scena e quando la vecchia tendenza a trovare una spiegazione per qualsiasi cosa si incontrò con un atteggiamento critico, scientifico, razionale, nacquero le Summae.
Le Summae erano degli apparati tendenzialmente sterminati di conoscenze, organizzati in modo da comporre un'immagine unitaria del mondo, comprensiva di tutto: da Dio agli angeli, ai moti dell'anima, ai polli stecchiti dal freddo. Una Summa medievale è un capolavoro di ordine, più ordinata e più completa del mondo stesso, perché nel mondo tante cose vanno male, riescono a metà, muoiono o si deteriorano, mentre in una Summa non manca nulla e ogni cosa si trova esattamente e sempre al proprio posto. E non si trattava più della visione fantastica delle vecchie enciclopedie piene di draghi e di liocorni.
Gli autori delle Summae erano seriamente interessati a distinguere il vero dal falso e presumevano di avere un criterio per farlo.
Esaminavano i problemi da tutti i possibili punti di vista. L'uomo è libero? C'è chi dice di sì: ed ecco l'elenco degli argomenti a favore di questa tesi. Ma c'è chi dice di no: ed ecco un altro elenco di argomenti. E poi analisi e deduzioni che, passo dopo passo, portavano alla conclusione voluta, nella quale, almeno di solito, si teneva conto di entrambe le opinioni. San Tommaso era un maestro di questo metodo: non gli sfuggiva nulla, spaccava il capello in quattro, trovava una ragione per tutto. Non era un'impresa da poco. Il cristiano era abituato a credere senza discutere; ora, invece, gli si chiedeva, sì, di credere, ma anche di riflettere a quel che era tenuto a credere. Non era il trionfo della ragione (perché l'ultima parola restava comunque alla fede), ma era pur sempre una rivoluzione.

SUMMAE E SENTENTIAE

Con il termine latino summa = «somma», nel senso di parte «più elevata» di una dottrina, di una scienza, ecc.) gli studiosi medievali indicavano un'ampia esposizione sistematica di un argomento o di una disciplina. Il genere delle summae derivava direttamente da quello delle Sententiae = «Sentenze», che erano compendi o raccolte antologiche di opinioni filosofiche o teologiche che, data la difficoltà di procurarsi i manoscritti, rari e costosi, delle opere originali, erano assai comuni nelle scuole medievali. Uno dei più diffusi testi delle università medievali, che gli studenti dovevano dimostrare di conoscere per poter accedere ai gradi superiori, erano i Quattuor libri sententiarum (Quattro libri di sentenze) di Pietro Lombardo (c. 1100-1160 circa), una compilazione delle opinioni teologiche di Padri e Dottori della Chiesa. Il passaggio dal genere delle Sententiae a quello delle Summae è segnato nel Xii secolo dal Sic et Non di Abelardo, che presentava un'organicità e un'ampiezza sconosciuta alle compilazioni precedenti.

LA PROVA ONTOLOGICA

Tra le verità che Anselmo d'Aosta immaginava fossero alla portata della ragione umana, c'era anche l'esistenza di Dio, di cui Anselmo d'Aosta cercò di fornire diverse prove. La più famosa è quella detta «ontologica» (un nome attribuitogli da Immanuel Kant, che la confutò nel 1763): Dio - argomentava Anselmo - è ciò di cui non si può pensare nulla di più grande e perfetto; affermare che Dio esiste solo nella mente di chi lo pensa è contraddittorio, perché è sempre possibile pensare qualcosa che esista tanto nella mente quanto nella realtà e questo qualcosa sarebbe più perfetto di Dio, che per definizione è l'essere perfettissimo. Insomma, se ciò di cui si parla è l'essere perfettissimo, deve esistere; se non esiste, non è l'essere perfettissimo; ma noi pensiamo Dio come essere perfettissimo, perciò Dio esiste.
Alla prova ontologica furono subito opposte numerose obiezioni, tutte vertenti sull'impossibilità di dedurre l'esistenza reale di una cosa dall'immagine che ce ne formiamo nella mente. Nonostante le difficoltà che incontrava, l'argomento di Anselmo ha avuto fortuna presso i pensatori in qualche modo legati alla tradizione platonica e inclini ad attribuire alle idee un primato o una priorità rispetto alle cose. La confutazione di Kant insiste sulla considerazione che l'esistenza non è un attributo che si possa ricavare dall'analisi di un concetto, ma un dato di fatto, ossia di esperienza: che qualcosa esista non si può dimostrare, si deve mostrare.
Ma è impossibile che la perfezione si mostri: estranea al mondo dell'esperienza (i cui oggetti sono sempre limitati nel tempo e nello spazio, e perciò «imperfetti») essa si sottrae a qualsiasi verifica.

TOMMASO D'AQUINO

Una delle caratteristiche della filosofia scolastica fu la sua capacità di realizzare abili forme di compromesso, unificando in una prospettiva cristiana le diverse opinioni espresse dagli antichi filosofi. Il grande maestro del compromesso dottrinale fu senza dubbio Tommaso d'Aquino, a cui infatti si deve sia la più completa sintesi tra il pensiero aristotelico e la tradizione cristiana, sia la più armoniosa soluzione del problema che aveva tormentato sin dalle origini il pensiero cristiano, quello dei rapporti tra ragione e fede.
Per Tommaso l'ambito della filosofia è chiaramente distinto da quello della teologia: mentre il primo è interamente dominato dalla ragione, il secondo è costituito dalla sistemazione dogmatica delle verità rivelate. Ma tra dogmi e verità di ragione non può esserci contraddizione, poiché entrambi derivano da Dio, e Dio non può averci dato uno strumento, la ragione, tale da allontanarci dalle verità che lui stesso ci ha rivelato. Ogni contraddizione, allora, deve essere attribuita all'uso scorretto di tale strumento. Se usata correttamente, la ragione può costituire un importante supporto della fede. È vero che i dogmi fondamentali del Cristianesimo - la Trinità, l'Incarnazione, ecc. - non possono essere né scoperti, né dimostrati dalla ragione; ma la ragione ha comunque il compito di chiarirli, di renderli comprensibili mediante analogie e similitudini, di cercare il modo di difenderli dalle possibili obiezioni degli avversari.
C'è poi un ambito di riflessione che, secondo Tommaso, appartiene contemporaneamente alla filosofia e alla teologia: quello dei cosiddetti preambula fidei (preamboli o presupposti della fede). Così, ad esempio, non si può credere (per fede) a ciò che Dio ci ha rivelato se non si sa (secondo ragione) che Dio esiste. Tommaso ha perciò ripreso le tradizionali prove dell'esistenza di Dio, ad eccezione però di quella ontologica, che rifiutava perché, se è vero che l'essenza di Dio include l'esistenza, è anche vero che gli uomini, esseri finiti, non possono avere un'idea chiara e completa di quell'essenza infinita. Per provare l'esistenza di Dio Tommaso segue le cosiddette «cinque vie», che però in sostanza dipendono tutte dagli assunti aristotelici dell'universo finito e dell'impossibilità che vi sia effetto senza causa, moto senza motore, ecc.: sappiamo per esperienza che alcune cose esistono e si muovono, e che tutto ciò che esiste e si muove è generato e mosso da qualcosa d'altro, per cui esiste una catena continua di effetti e di cause, di cose mosse (mobili) e di cose che muovono (motori); questa catena non può essere infinita perché sarebbe in contraddizione con la natura finita dell'universo; bisogna dunque ammettere l'esistenza di una prima causa o primo motore, che produce o muove le altre cose senza essere generato o mosso da nulla; questa prima causa e questo primo motore è Dio.
Il Dio di Tommaso, comunque, non era il gelido Motore Immobile già ipotizzato da Aristotele; era il Dio personale della tradizione ebraico-cristiana, padre e creatore di tutte le cose. In questo appunto consisteva la più importante modifica operata da Tommaso nel sistema aristotelico: l'introduzione del concetto di creazione dal nulla, pressoché sconosciuto alla filosofia classica. Questa innovazione, oltre a salvaguardare la peculiarità dell'esperienza religiosa giudaico-cristiana, garantiva la totale diversità tra Dio e natura, ossia l'assoluta trascendenza di Dio rispetto al mondo, contro ogni loro possibile identificazione (frequente nella cultura greca e testimoniata anche dall'uso di designare come «divini» i fenomeni naturali e in particolare quelli celesti).
L'idea di un Dio creatore era anche usata da Tommaso per risolvere il vecchio problema del rapporto tra forme (gli universali) e cose (gli individui) che Platone voleva separate e Aristotele unite. Sul tema una lunga controversia aveva diviso i filosofi scolastici che, recuperando il pensiero degli antichi, si erano trovati ad ereditarne i problemi non risolti.
Le opposte posizioni che si erano venute definendo prima di Tommaso si possono ricondurre a quella realistica del teologo francese Guglielmo di Champeaux (c. 1070-1121), e a quella nominalistica del suo conterraneo Roscellino (c. 1050 - c. 1120). Secondo Guglielmo di Champeaux l'universale, ossia il genere o la specie, è reale (da cui «realismo») e costituisce l'essenza comune di tutti gli individui di quel genere o di quella specie, che si distinguerebbero l'uno dall'altro solo per i loro diversi attributi accidentali. Secondo Roscellino, invece, ripreso più tardi da Guglielmo di Occam, solo gli individui esistono realmente e gli universali sono semplici nomi (da cui «nominalismo») attribuiti convenzionalmente a una classe di cose, ma che non hanno altra esistenza reale che di parole, suoni, vibrazioni dell'aria, o, come diceva, flatus vocis («fiati di voce»).
Tommaso d'Aquino trovò il modo di mediare tra queste posizioni apparentemente irriducibili affermando che gli universali hanno diversi livelli di esistenza: sono presenti nella mente di Dio come modelli (in senso platonico) delle cose che crea e quindi esistono prima delle cose stesse (ante rem) e indipendentemente da loro; sono poi presenti nelle cose (in re) come loro forme sostanziali o essenze (in senso aristotelico); infine, sono presenti nella nostra mente come concetti (ossia nomi di genere o di specie) che l'intelletto astrae dalle cose (post rem). In questo modo tutti i possibili punti di vista venivano integrati in un'unica soluzione.
In merito al rapporto tra Creatore e Creato, Tommaso polemizzò vigorosamente contro le tesi, presenti specialmente nel pensiero islamico, che tendevano ad attribuire all'azione diretta di Dio ogni evento o effetto di questo mondo, e quindi a negare agli esseri creati ogni autonomia di azione. Tommaso ammetteva che tutte le creature sono prima create e poi mantenute in essere dall'azione di Dio, senza la quale precipiterebbero nuovamente nel nulla dal quale sono state tratte. Ma negare alle creature ogni autonoma capacità di operare equivaleva a immaginare che Dio potesse aver creato degli esseri inutili.
Con ciò Tommaso formulava una concezione della natura e in particolare della natura umana, che, integralmente accettata dalla teologia cattolica, avrebbe più tardi rappresentato un elemento di conflitto con la teologia protestante, più vicina alle tesi di S. Agostino: la natura umana, secondo Tommaso, possiede un'integrità di fondo che neppure il peccato originale ha potuto cancellare e non è pensabile che l'uomo giunga mai ad un livello di corruzione assoluta, non più riscattabile. Coerentemente a questa visione ottimistica della natura umana il pensiero politico di Tommaso, a differenza della netta antitesi posta da Agostino tra Città terrena e Città celeste, riconosceva che lo Stato, per quanto doverosamente subordinato alla Chiesa, basandosi sulla naturale socialità dell'uomo, che è un dono di Dio, ha una sua autonoma capacità di assolvere i compiti che Dio stesso gli ha assegnato.

GLI UNIVERSALI

Il termine «universale» è comunemente usato per indicare:
1) ciò che si riferisce all'universo (per esempio, la gravitazione universale);
2) ciò che è (o che si ritiene) comune a tutti gli uomini (la pietà è un sentimento universale); ciò che si può attribuire a tutti gli individui (cose o persone) che costituiscono un certo insieme o classe. Una vecchia canzonetta diceva «son tutte belle le mamme del mondo», se ciò fosse vero, la bellezza costituirebbe il carattere universale di quella particolare classe che è rappresentata dalle mamme.
Spesso si fa confusione tra «universale» e «generale». La proposizione «le svedesi sono bionde» si può interpretare nel senso proprio che tutte le svedesi sono bionde, oppure nel senso approssimativo che molte svedesi (la maggioranza) sono bionde. Nel primo caso il biondo sarebbe un carattere universale delle svedesi, nel secondo sarebbe soltanto un carattere generale. La differenza si può esprimere anche dicendo che il generale implica sempre delle eccezioni, mentre l'universale le esclude assolutamente; quando si dice che non c'è regola senza eccezioni, si intende che non esistono regole universali, ma solo regole generali. Nella Scolastica il termine «Universali» fu adoperato (come sostantivo e per lo più al plurale) per indicare i nomi di genere e di specie, come ad esempio «uomo», distinti dai nomi individuali o singolari, come ad esempio «Socrate». Secondo le definizioni correnti a quel tempo, universale è «ciò che per sua natura può essere predicato di più cose»: il termine «uomo» ad esempio, può essere predicato di più individui venendo a formare più proposizioni: «Socrate è un uomo», «Platone è un uomo» «Tommaso è un uomo», e così via. Tra coloro che trattarono il tema degli universali vi fu Pietro Abelardo (1079-1142).

ABELARDO

Viveva allora a Parigi una fanciulla di nome Eloisa, nipote di un certo Fulberto, un canonico, che le voleva un grandissimo bene e che aveva cercato di farla istruire in ogni disciplina letteraria. In questo modo Eloisa, non ultima per bellezza, superava tutte per la sua profonda cultura.

Così scrive Pietro Abelardo nella sua Historia calamifatum (Storia delle mie disgrazie), ricordando e descrivendo per la prima volta Eloisa, che al momento del suo incontro con il filosofo ha circa sedici anni (Abelardo ne ha una quarantina). Eloisa è di ritorno dal monastero di Argenteuil, dove ha studiato greco, latino e ebraico, una educazione davvero straordinaria per una donna del XII secolo. Il fascino e la personalità di Eloisa attirano Abelardo, che per rimanerle il più vicino possibile e conquistarla, convince Fulberto ad ospitarlo a pagamento nella sua casa: il tempo libero lo dedicherà a coltivare l'educazione della ragazza. La passione che presto nasce tra Abelardo e Eloisa procede per parecchi mesi indisturbata, fino a quando lo zio Fulberto scopre gli amanti e vuole dividerli. Abelardo, cercando il perdono di Fulberto e una soluzione allo scandalo che nuoce alla sua reputazione (in quegli anni è al vertice della unanime considerazione, con le sue lezioni di teologia e di logica all'università), promette un matrimonio riparatore, tanto più che Eloisa aspetta un figlio. È proprio Eloisa però che si oppone fermamente al matrimonio, consapevole che la vocazione del filosofo è vicina a quella dell'uomo di religione e deve per questo osservare la regola della continenza. Scriverà ad Abelardo, dal quale è ormai divisa definitivamente, dopo essersi ritirata nel convento di Argenteuil:

... Non ti ho chiesto patti nuziali né dote alcuna; non ho voluto soddisfare la mia volontà e il mio piacere, ma te e il tuo piacere, lo sai bene. E anche se il nome di sposa può parere più santo e più decoroso, per me fu sempre più dolce quello di amica, perfino quello di amante, se non ti offendi, o di sgualdrina. Appunto perché, quanto più mi umiliavo davanti a te, tanto più credevo di piacerti, e di recare minor danno alla tua gloria...

Il matrimonio viene comunque celebrato ma non per questo cessano le persecuzioni di Fulberto, che non rinuncia a punire Abelardo nel modo più cruento, facendolo evirare mentre dorme. Anche Abelardo, a questo punto, sceglie il convento, l'abazia di Saint-Denis, «più per vergogna che per vera vocazione», come ammetterà egli stesso. Separati nei rispettivi conventi, l'amore di Abelardo e Eloisa rimarrà affidato ad un celebre epistolario, nel quale il passato è rivisitato con la necessaria razionalità e capacità di analisi ma con immutata esaltazione, soprattutto da parte di Eloisa.
Questa volontà di Eloisa di contenere le passioni senza rinunciare alla loro intensità, suscitò l'entusiasmo del filosofo francese Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), che con il romanzo epistolare La Nouvelle Héloïse (La Nuova Eloisa), pubblicato nel 1761, ripropose la vicenda di una passione dominata e proprio per questo profonda ed eterna.

I FRANCESCANI

A differenza di quello domenicano, incline all'aristotelismo riveduto e corretto di Alberto Magno e di S. Tommaso, l'ordine francescano seguiva tradizionalmente un indirizzo di tipo platonico-agostiniano. Questa divergenza dottrinale, rafforzata e invelenita da gelosie accademiche (per esempio tra l'università di Parigi, e quella di Oxford) e da accese rivalità di potere all'interno della Chiesa, poteva assumere significati imprevedibili. I francescani erano apparentemente più attenti ai valori e alle esigenze della fede, mentre i domenicani si mostravano più aperti a quelli della ragione. Ma proprio perché temevano l'invadenza della ragione, i francescani erano portati a separare nettamente il suo campo d'azione da quello della fede, e in questo modo finivano col concedere alla ricerca filosofica e scientifica (e in particolare allo studio della natura) un'autonomia assai più ampia di quella concepibile in un sistema chiuso e totalizzante come il tomismo.
Giovanni Duns Scoto (c. 1265-1308), detto «il Dottor Sottile», è stato forse, nell'ambito della Scolastica, il principale avversario del tomismo. Il suo pensiero ha influenzato profondamente e durevolmente gli orientamenti speculativi del suo ordine, tanto che nel 1633 un decreto approvato dal Capitolo di Toledo ha imposto a tutti gli insegnanti di filosofia delle scuole francescane di attenersi alle dottrine scotiste. Duns Scoto riteneva impossibile dimostrare razionalmente non solo i misteri cristiani della Trinità e dell'Incarnazione, ma anche le tesi dell'immortalità dell'anima, o gli attributi di Dio, come l'onnipotenza, l'onniscienza ecc. La concezione cristiana del mondo è certamente plausibile, ma questo, secondo Duns Scoto, non sarebbe affatto sufficiente a convincere della verità del Cristianesimo chi non ne fosse già convinto per conto suo: una considerazione di non poco conto, visto che la conversione di infedeli ed eretici costituiva l'attività istituzionale di entrambi gli ordini, francescano e domenicano.
Prima di Duns Scoto l'ordine francescano aveva avuto un grande pensatore in Ruggero Bacone (c. 1214 - c. 1292), anche lui acceso di proselitismo cristiano. Ruggero Bacone (nome italianizzato dell'inglese Roger Bacon), non va confuso con l'altro Bacone, Francesco, vissuto tra Cinque e Seicento e considerato uno dei fondatori del moderno metodo sperimentale. La confusione è tanto più facile in quanto tra i due, a parte l'omonimia, ci sono reali affinità di pensiero: la stessa espressione «scienza sperimentale» (scientia experimentalis) è di Ruggero Bacone. L'opera di Ruggero Bacone si colloca in un momento assai particolare della storia del Medio Evo, quando nella Cristianità occidentale si erano diffuse attese messianiche e fermenti di rinnovamento (Renovatio) sociale e spirituale che avevano trovato proprio in alcuni settori dell'ordine francescano interpreti entusiasti. Per il suo entusiasmo riformatore Bacone divenne sospetto alle autorità ecclesiastiche, fu oggetto di persecuzioni ed alla fine dovette subire anche il carcere. Gli scritti più significativi di Bacone, che risalgono agli anni Sessanta del Duecento erano tesi a ridefinire la scienza in rapporto al compito di «governare la Chiesa, dirigere l'intiera comunità dei fedeli e convertire gli infedeli». L'esaltazione missionaria non sembra davvero una buona ispiratrice per un'impresa scientifica: in questo caso però induceva Bacone a sognare una nuova sistemazione del sapere - una sorta di grande enciclopedia delle scienze - in cui ogni forma di conoscenza potesse trovare la sua giustificazione e il suo ruolo: un progetto che per molti aspetti precorre quello formulato agli inizi del Seicento dal suo omonimo, Francesco. Ruggero Bacone non giunse mai a ricostruire in ogni parte l'immenso edificio del sapere, né gli interessava davvero farlo: l'importante era stabilire in summa i criteri generali dell'operazione. Con accenti straordinariamente moderni Bacone indicava nella matematica e nell'esperienza i due pilastri della rifondazione del sapere. La matematica era considerata «la chiave di ogni scienza», l'«anima» di ogni realtà; ma era all'osservazione empirica che spettava di ritrovare nel mondo dei fenomeni visibili le invisibili leggi matematiche, come lo studio de fenomeni luminosi, con le loro meravigliose geometrie, illustrava nella maniera più convincente.
Duns Scoto ebbe un grande continuatore in Guglielmo di Occam (o Ockham, la località dell'Inghilterra meridionale dove era nato negli ultimi anni del XIII secolo). Occam è però anche il filosofo che, sviluppando sino alle estreme conseguenze alcuni temi della filosofia scotista, ha finito con il preannunciare sotto più di un aspetto l'imminente dissoluzione della Scolastica. In tutta la sua produzione filosofica Occam si servì di un principio che divenne poi noto come «rasoio di Occam», e che si può enunciare così: «è inutile fare col più quel che si può fare col meno», oppure: «non bisogna moltiplicare gli enti senza necessità». In altre parole bisogna tagliar via (di qui il nome «rasoio») tutte le ipotesi inutili e attenersi ai dati di esperienza, fornendo dei fatti conosciuti le spiegazioni più semplici possibile. È sulla base di questo principio che Occam nella disputa degli universali prese posizione per il nominalismo. L'ipotesi dell'esistenza reale degli universali non era affatto necessaria a spiegare i processi conoscitivi. L'universalità dei concetti di specie si fonda sul fatto che un nome può stare al posto di più oggetti in virtù di una semplice convenzione. Reali sono dunque solo gli individui, di cui abbiamo diretta esperienza. Gli universali sono invece dei nomi, che usiamo per comodità al posto degli enti individuali.
Anche la netta separazione di filosofia e teologia, derivata da Duns Scoto, può pensarsi come conseguenza del «rasoio di Occam»: per spiegare il mondo dell'esperienza dobbiamo attenerci all'esperienza stessa, e se non è strettamente necessario (e per Occam non era affatto necessario) non dobbiamo servirci delle verità rivelate. Anzi, per Occam tutto ciò che è al di là dell'esperienza non è dimostrabile secondo ragione e può essere soltanto oggetto di fede. Per Occam, così come per gli altri pensatori francescani, respingere l'alleanza di ragione e fede tentata da S. Tommaso, voleva dire mettere la fede al riparo dagli attacchi o dalle lusinghe della ragione. Alla lunga, però, la difesa della reciproca autonomia di fede e ragione non poteva che giocare a favore di quest'ultima.
La pericolosità delle tesi di Occam apparve subito evidente. Nel 1324, mentre insegnava all'università di Oxford, Occam fu denunciato al papa per aver sostenuto nelle sue opere opinioni sospette.
Fu così costretto ad abbandonare l'insegnamento e a recarsi ad Avignone, dove allora risiedeva la corte papale, per affrontare l'esame delle sue dottrine da parte di una apposita commissione. Nel 1326, anche se non si giunse ad una formale condanna, una cinquantina di proposizioni sostenute da Occam furono giudicate censurabili.

BURIDANO

Buridano (nome italianizzato di Jean Buridan, vissuto tra il 1290 e il 1358 circa) è noto quasi soltanto per l'apologo, che gli è stato attribuito, dell'asino che, trovandosi esattamente a metà strada tra due mucchi di fieno perfettamente uguali, non sa decidere verso quale dirigersi e muore di fame. Ma Buridano, che fu maestro e rettore dell'Università di Parigi, va ricordato per un paio di cose assai più importanti: il disinteresse per la teologia (scrisse solo opere di logica e di fisica) e la formulazione della teoria dell'impetus, il tentativo più completo, prima della rivoluzione galileiana, di sostituire la teoria aristotelica del moto, di cui Occam aveva dimostrato l'artificiosità e l'inconcludenza.
Aristotele, come si ricorderà, aveva supposto che i corpi possono muoversi solo se spinti da un motore, il quale opera per contatto diretto. Terminata l'azione del motore il mobile non può che arrestarsi. Nel caso dei proiettili (una freccia lanciata da un arco o un sasso lanciato da una fionda) il motore è rappresentato dall'aria che riceve il moto dallo strumento di lancio (l'arco o la fionda) e che muovendosi trascina con sé il proiettile. Occam, forte del suo rasoio, aveva fatto piazza pulita di queste inutili complicazioni e aveva suggerito un'ipotesi di una semplicità radicale: una volta in moto un corpo continua a muoversi e il problema non è di spiegare perché un corpo si muove, ma semmai perché essendo in moto, prima o poi si ferma. In qualche modo era un'anticipazione della nozione secentesca dell'inerzia.
Buridano non era affatto così audace come Occam, ma era convinto tanto quanto Occam che la spiegazione aristotelica fosse un'assurdità, e che la ragione del moto di un proiettile dovesse essere ricercata nel proiettile stesso e non nell'aria. Immaginò questa ragione come una certa forza, l'impetus appunto (che in latino vuol dire «slancio»), trasmessa dallo strumento di lancio al proiettile (e non all'aria) e capace di durare finché non le si fosse opposta una qualche resistenza. Buridano applicò la nozione di impetus anche alle sfere celesti, che in precedenza si pensavano mosse da intelligenze angeliche: in sostanza Dio, secondo la tesi di Buridano, al momento della creazione si era limitato a dare il primo impulso alle sfere, che poi avrebbero continuato a ruotare per conto loro in forza dell'impetus impresso.

ESOTERICI E MISTICI

Il misticismo suscita sempre qualche diffidenza nell'autorità ecclesiastica: in qualunque forma di esasperazione o di entusiasmo religioso c'è un pericolo di sovversione. È evidente però che nessuna religione potrebbe respingere l'esperienza mistica senza amputare una parte assolutamente vitale di se stessa. Il problema, allora, è di tenere sotto controllo il fenomeno senza eliminarlo. Dove c'è una Chiesa ci sono forme di misticismo, ma mentre alcune di queste forme sono considerate eretiche e perseguitate, altre sono tollerate o addirittura esaltate: i mistici, se evitano il rogo, finiscono spesso sull'altare. È sempre molto difficile dire in linea puramente teorica in che cosa consista la differenza: le considerazioni in base alle quali una Chiesa decide di approvare questa o quella esperienza e di condannare le altre hanno solitamente poco a che fare con la dottrina e molto di più con la maggiore o minore disposizione all'obbedienza dimostrata dagli interessati.
Agli occhi della Chiesa di Roma uno dei pregi della filosofia aristotelica (dopo l'accurato lavoro di ripulitura compiuto dai domenicani Alberto Magno e Tommaso d'Aquino e dopo l'eliminazione di quanto c'era in essa di profano e di ateistico) era proprio che non avrebbe dato problemi di questo genere: il suo razionalismo e il suo spirito di sistema sembravano fatti apposta per scoraggiare esperienze disordinate, entusiastiche, visionarie. E in effetti il misticismo cristiano è stato tutto, o quasi, d'ispirazione neoplatonica (e, da S. Francesco in poi, tutto o quasi di parte francescana).
Il rischio peculiare del neoplatonismo, con la sua idea del mondo come emanazione di Dio, era il panteismo, ossia l'assimilazione di creatura e creatore e lo smarrimento della nozione di trascendenza. Panteista era stato ad esempio Scoto Eriugena (c. 810 - c. 877 circa), l'unico grande pensatore cristiano dell'alto medioevo: rifacendosi all'emanazionismo neoplatonico (che era poi, di fatto, tutto quello che della filosofia antica restava in quei tempi nella memoria degli Europei) aveva teorizzato l'immanenza di Dio nella forma di una creazione continua, incessante. Dio, secondo Scoto Eriugena, era l'essenza di tutte le cose. Le cose dunque erano teofanie, ossia manifestazioni di Dio (theòs = (Dio» e phàinesthai = «apparire»), e, a loro volta, tendevano a tornare a Dio e a confondersi con lui, secondo il classico itinerario mistico.
Dal panteismo discendeva, tra le altre pericolose dottrine, una considerazione del male (e quindi del destino dell'uomo) difficilmente conciliabile con il ruolo normativo della Chiesa. Il male, come aveva sostenuto anche Scoto Eriugena, è mero non-essere: Dio dunque lo ignora e - conseguenza sconcertante - non può neppure punirlo. A risultati analoghi portava l'enfatizzazione dell'esperienza mistica, sulla linea degli gnostici. Come già costoro avevano sostenuto, nell'unione con Dio ogni uomo è Dio, e rispetto a questa trasfigurazione tutte le pratiche liturgiche, i sacramenti, le penitenze, la stessa legge morale non contano più nulla. È quello che in sostanza tornarono ad affermare, a partire dal XIII secolo, le sette dette «libertine», sostenitrici di un panteismo mistico affine a quello di Scoto Eriugena e fiancheggiatrici estreme (non sempre gradite, in verità) del movimento francescano.
Secondo Amalrico di Bène, ad esempio, che fu uno degli ispiratori di queste sette e la cui teoria fu formalmente condannata dalla Chiesa nel 1210 (qualche anno dopo la sua morte, sicché al rogo finirono soltanto le sue opere), omnia sunt Deus: tutte le cose sono Dio. Il che vuole anche dire che Dio è tutte le cose, le buone così come le cattive. Il peccato, allora, non esiste e non esiste l'inferno. O, meglio: per quelli che non vivono nella verità l'inferno è già in questo mondo, mentre per gli altri non può esistere, né ora né mai. A coloro che sono pieni dello Spirito di Dio, tutto è permesso (lo Spirito di Dio, aveva detto S. Paolo, è libertà). Le sette libertine non erano che una frangia trasgressiva di movimenti che la Chiesa seppe tenere saldamente sotto controllo. Esse tuttavia sono importanti anche perché testimoniano la sopravvivenza di quell'antico indirizzo di pensiero intriso di misticismo e fortemente influenzato dalle religioni persiane (mazdeismo, mitraismo, manicheismo), da cui erano uscite le correnti gnostiche, ermetiche, neoplatoniche e in cui la stessa Chiesa delle origini aveva affondato le radici. Il trionfo del Cristianesimo sui suoi concorrenti e un millennio di occhiuto controllo delle autorità ecclesiastiche su tutto quanto agli Europei veniva fatto di dire o di credere aveva determinato una quasi totale eclissi di questa tradizione. Ma il patrimonio di idee, di immagini simboliche, di sentimenti, di attese escatologiche che le era proprio non si era disperso e riaffiorava periodicamente dentro e fuori la Chiesa. Fuori della Cristianità, nei circoli mistici ed esoterici islamici ed ebraici, questo patrimonio si era arricchito di nuove elaborazioni. Così, ad esempio, la cabala (o cabbala o, in ebraico, qabbalah = «tradizione») era un imponente complesso di dottrine costruito, a partire dal III o dal IV secolo d.C., con l'innesto sul tradizionale misticismo ebraico di elementi desunti dallo gnosticismo, dall'ermetismo, da un misticismo dei numeri affine al pitagorismo, dal Cristianesimo e dall'Islam. Alla base c'era la consueta teoria dei diversi livelli di comprensibilità delle Scritture: sotto il senso esteriore e puramente legalistico della Legge c'era un significato più autentico che ne costituiva il corpo vero; ma dentro il corpo si celava l'anima della Legge, ossia il suo significato mistico, che solo i cabalisti sapevano cogliere. In fondo a tutto c'era poi l'anima dell'anima della Legge, che nessuno poteva cogliere perché sarebbe stata svelata solo alla fine dei tempi. Nella cabala si intrecciavano due indirizzi: quello speculativo che indagava gli attributi di Dio e i suoi rapporti con il creato, e quello magico che indagava gli stessi misteri, ma attraverso la decifrazione dei significati occulti delle lettere e dei numeri. In sostanza, per scoprire il senso mistico delle Scritture, nascosto da quello letterale, i cabalisti avevano elaborato complicate tecniche di lettura: per esempio, assumevano le lettere di una parola come iniziali di altre parole il cui insieme avrebbe dato il significato voluto; oppure, basandosi sul fatto che le lettere dell'alfabeto ebraico avevano anche valore di numeri, consideravano equivalenti quelle parole la somma delle cui lettere (intese come numeri) desse valori uguali; oppure, ancora, scambiando le lettere secondo certe regole riuscivano a trasformare una parola in un'altra, e così via.
All'antico ermetismo si rifaceva esplicitamente una vera e propria scienza, l'alchimia (dall'arabo [san'a] al-kimiya = «[arte] della pietra filosofale»), elaborata soprattutto nel mondo arabo (c'è anche un'alchimia indiana e una cinese, ma si tratta di tradizioni indipendenti). In Europa, dove si chiamò appunto «arte ermetica», l'alchimia fu riscoperta solo nel basso Medio Evo: la praticarono, tra gli altri, Alberto Magno e Ruggero Bacone. Gli alchimisti riprendevano la teoria classica dei quattro elementi, terra, aria, acqua e fuoco, che però consideravano manifestazioni di un'unica materia prima. Il serpente che si morde la coda era l'immagine simbolica di questa materia, unica ma soggetta a continue trasformazioni per opera dei tre agenti, zolfo, mercurio e sale. Lo zolfo, agente della combustione e principio maschile, attivo, caldo e stabile, tendeva ad accoppiarsi al mercurio, principio femminile, passivo, freddo e volatile, che presiedeva alla liquefazione o fluidificazione dei corpi. Il sale, il residuo, era invece il principio della cristallizzazione e della solidificazione. L'alchimia era una teoria della natura ma anche una pratica di dominio sulla natura. Il suo obiettivo era la promozione e il controllo dei processi di «maturazione» delle cose verso il loro stato di perfezione, e cioè la liberazione dell'essenza delle cose dalla prigione dell'esistenza temporale. Nei metalli questa essenza era rappresentata dall'oro; nell'uomo dalla salute e dall'immortalità. Gli alchimisti si sforzavano dunque di favorire i relativi processi di «maturazione», e immaginavano di poterlo fare mediante appositi preparati, la pietra filosofale per i metalli, la panacea e l'elisir di lunga vita per gli uomini.
La trasmutazione dei metalli in oro o la preparazione della panacea erano state perseguite in diversi ambienti prima ancora che si costituisse una scienza alchemica. L'alchimia aveva ripreso questa ricerca, ma non vi si esauriva: il suo obiettivo era più alto e il senso delle sue operazioni più generale. Quello che la pietra filosofale o l'elisir di lunga vita erano in rapporto ai corpi, era l'estasi (o la gnosi o, comunque la si chiami, l'esperienza dell'unione con Dio) in rapporto alle anime: l'alchimia era sopra ogni cosa una dottrina mistica.
La natura degli alchimisti era viva, animata: la maturazione delle cose verso la perfezione era assimilata a un processo di gestazione, l'alchimista a un ostetrico, la pietra filosofale a una sorta di forcipe. L'universo alchemico era un organismo solidale, in cui le essenze nascoste dei corpi «inanimati» (solo apparentemente inanimati), come i metalli o come gli astri, coincidevano con l'essenza nascosta dell'uomo. In questo mondo vivo, animato, un complicato gioco di analogie e di coincidenze, di simpatie e di antipatie legava le parti e il tutto, il microcosmo (ossia l'uomo) e il macrocosmo (ossia l'universo). L'uomo era il mondo in piccolo e il mondo era l'uomo in grande; il mondo conteneva l'uomo, ma l'uomo poteva contenere il mondo (per esempio rappresentandoselo nella mente). E qui, ossia nel gioco delle corrispondenze e degli scambi tra microcosmo e macrocosmo, tutte le scienze occulte, alchimia, astrologia, cabala, misticismo dei numeri confluivano e mescolavano le loro tradizioni.
Il Sole e la Luna in un manoscritto del XVI secolo


La chimica moderna è nata dall'alchimia, come negazione del carattere fantastico e magico delle sue escogitazioni, ma insieme come conferma del largo patrimonio di esperienze e di cognizioni (in forma soprattutto di procedimenti tecnici e di strumenti di laboratorio) che aveva saputo accumulare nel corso dei secoli.
Lo spartiacque tra l'alchimia e la chimica moderna è segnato dall'opera di Robert Boyle (1627-1691)11 chimico scettico pubblicata nel 1660. Si tratta di un dialogo tra un sostenitore di Paracelso e un sostenitore di Aristotele, diretto e mediato da un sostenitore dell'indirizzo sperimentale: messe a confronto, le dottrine aristoteliche e quelle alchemiche sulla costituzione dei corpi vengono rifiutate entrambe, in nome non tanto di una nuova dottrina della materia (ancora tutta da costruire), quanto di un nuovo metodo di indagine, quello sperimentale, appunto. In rapporto all'importante patrimonio di pratiche di laboratorio e di tecniche di manipolazione della materia elaborato dagli alchimisti l'adozione del metodo sperimentale implicava innanzi tutto l'abbandono di ogni forma di esoterismo, l'adozione di un linguaggio chiaro in luogo delle tradizionali metafore mistiche, la sostituzione della vecchia abitudine del segreto con la nuova regola della collaborazione tra gli studiosi e soprattutto della pubblicità e alla riproducibilità.

LE UNIVERSITĄ E LO STUDIO DELLA MEDICINA

Nel Medio Evo Universitas non era l'esatto equivalente del moderno «Università». Il termine oggi indica il complesso delle facoltà esistenti in una città, dotate di una stabile organizzazione e, spesso, di una sede comune. Allora stava a indicare semplicemente l'insieme dei maestri e degli allievi residenti nella città, fossero o no uniti in corporazioni. Le prime università medievali a darsi un'organizzazione stabile furono quella di Bologna, centro di studi giuridici, e quelle di Parigi (detta la Sorbona, da Robert de Sorbon, fondatore nel XIII secolo di un collegio di teologia) e di Oxford, centri di studi filosofici e teologici.
Le facoltà principali erano quelle di teologia e di diritto. La prima esprimeva gli interessi fondamentali della cultura medievale, mentre la seconda doveva la sua importanza al ruolo di consiglieri e di fiancheggiatori che i maestri di diritto assumevano nei confronti dei sovrani, imperatori, re, principi e città. La facoltà delle arti continuava l'insegnamento delle sette arti liberali codificato già nell'antichità classica: le tre del gruppo letterario, denominato trivium, grammatica, retorica e dialettica, e le quattro del gruppo che potremmo chiamare «scientifico» denominato quadrivium, aritmetica, geometria, musica e astronomia. Le arti liberali (degne cioè di uomini liberi) erano state definite così dai Latini in opposizione a quelle che richiedevano essenzialmente forza fisica e abilità manuale ed erano considerate servili (degne cioè di schiavi).
Le facoltà di medicina sono sorte più tardi delle altre ed hanno nel complesso goduto di un minore prestigio. Le conoscenze mediche dell'Europa medievale erano frutto del recupero parziale della scienza antica e dell'assimilazione (anch'essa parziale) della medicina araba e di quella degli Ebrei, particolarmente versati in questo campo. Anche nella medicina (e forse nella medicina più che altrove) l'ossequio all'autorità degli antichi prevaleva sullo spirito di osservazione e sulla pratica sperimentale. Per molto tempo la medicina era stata esercitata prevalentemente da ecclesiastici e come opera di carità; nel XII secolo, però, la pratica medica fu vietata ai monaci. La dichiarazione che «la Chiesa ha orrore del sangue» costituì un ostacolo non piccolo allo sviluppo della chirurgia, mentre il divieto della dissezione di cadaveri bloccò lo studio dell'anatomia. È stato detto a ragione che gli sforzi compiuti in questo settore durante il Medio Evo, più che a far vivere la medicina sono serviti a non farla morire. Il più antico e più famoso centro di cultura medica in Europa era rappresentato dalla scuola di Salerno. Vi arrivavano studenti da tutta Europa. L'insegnamento si fondava essenzialmente su opere di Ippocrate e Galeno per lo più in forma di compendi. Sorta tra il X e l'XI secolo e giunta alla massima fioritura nei due o tre secoli successivi, la scuola si giovava della presenza nel territorio di Salerno di numerosi monasteri benedettini, dove quel che restava di antichi trattati medici veniva tradotto, trascritto e compendiato. Si giovava, poi, degli intensi rapporti commerciali e culturali che la città conservava con il mondo arabo e bizantino, mentre come centro di cura era favorita, se non altro, dalla mitezza e dalla salubrità del clima. Tra XII e XIII secolo venne definito un regolare corso di studi: l'aspirante medico doveva studiare logica per tre anni, medicina per cinque e infine fare un anno di pratica presso un medico esperto.

FLOS MEDICINAE

A merito dei medici salernitani va ascritto uno spirito di sano empirismo che li teneva lontani tanto dall'astrattezza e dalla pedanteria degli scolastici, quanto dalle suggestioni pericolose (per i malati) della magia e della astrologia. Con molto buon senso, e secondo l'insegnamento ippocratico, i medici salernitani si proponevano di «lasciar fare alla natura», coadiuvandola con diete opportune, con semplici misure igieniche e con prudenti terapie. Tra le molte opere mediche uscite dalla scuola salernitana la più nota è quella intitolata Flos medicinae (= Fiore di medicina) o (come anche era conosciuta) Regimen sanitatis Salerni (= Regole salutari salernitane), che è una raccolta di brevi sentenze in versi, scritte con piglio popolaresco e facili da mandare a memoria, che in qualche caso sono diventate proverbiali. Nell'insieme si tratta di un manuale divulgativo d'igiene e di medicina preventiva, che ha avuto una straordinaria fortuna di pubblico: dopo l'invenzione della stampa ne sono state fatte centinaia di edizioni in tutte le lingue. Quella che usiamo è una versione ottocentesca.

[...]
Se dai mali vuoi guardarti,
se vuoi sano ognor serbarti
ogni ai`ranno da te scaccia,
di frenar l'ira procaccia;
sii nel ber, nel mangiar parco;
quando al cibo hai chiuso il varco,
lascia il desco e il corpo avviva;
del meriggio il sonno schiva;
mai non stringere a fatica
l'intestin né la vescica.
Tutto ciò se ben mantieni
vivrai di lunghi e sereni...

La moderazione nel mangiare era una delle regole fondamentali:

[...]
Un mangiar troppo sontuoso
allo stomaco è dannoso
Perché il sonno ti sia lieve
la tua cena sarà breve...

Una notevole importanza era attribuita al giusto equilibrio tra cibi e bevande:

[...]
Mentre pranzi allegramente
bevi poco ma sovente;
perché il corpo non si guasti
mai non bere tra due pasti;
da' col ber principio a cena
se non vuoi sentirne pena;
dopo aver mangiato un uovo
vuota sempre un gotto nuovo...

La bevanda cui qui ci si riferisce è, naturalmente, il vino. L'acqua è sconsigliata:

[...]
tu dell'acqua per prudenza
mentre mangi fanne senza
che lo stomaco t'infesta
e indigesto il cibo resta...

Il vino poi era assolutamente necessario con determinati cibi:

[...]
approvar non deve il saggio né l'anguilla
né il formaggio
senza ingiungere di bere
e vuotar più d'un bicchiere...

Nella dieta bisognava tener conto anche delle stagioni:

[...]
Quando regna primavera
usa tavola leggera.
Nell'ardor dei giorni estivi
troppi cibi son nocivi.
Nell'autunno bada che i frutti
non t'apportin gravi lutti.
Ma nel tempo delle nevi
senza tema mangia e bevi...

Le libagioni non dovevano passare la misura. In ogni caso si poteva ricorrere a semplici rimedi:

[...]
se ti par che il vin bevuto
alla sera ti ha nuociuto,
troverai che medicina
è riberne alla mattina...

Con una dieta opportuna, elementari misure igieniche potevano scongiurare brutte malattie:

[...]
Se gli umor serbar vuoi sani,
lava spesso le tue mani.
Recar suol dopo le cene,
tal lavacro un doppio bene;
alle man toglie l'untume
e degli occhi aguzza il lume...

In caso di necessità un buon salasso poteva recar giovamento:

[...]
Il salasso fatto appena
gli occhi avviva, rasserena
ed il cerebro e la mente
scalda i nervi dolcemente,
ventre e stomaco solleva
ed i visceri disgreva,
slega i sensi, il tedio esilia
ed il sonno riconcilia,
riproduce anzi recria
voce, udito e vigoria...

Ma il modo migliore per conservare la salute restava sempre l'osservanza d'una ragionevole regola di vita:

[...]
Se non hai medici appresso
farai medici a te stesso
questi tre: anima lieta,
dolce requie e sobria dieta...

 

 

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