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Cultura e Civiltà I Romani

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Cultura e Civiltà I Romani

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ITINERARI - CULTURA E CIVILTÀ - I ROMANI

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LE ORIGINI DI ROMA

UN VILLAGGIO SUL TEVERE

All'inizio del primo millennio a.C. il basso corso del Tevere scorreva in una pianura paludosa, sulla quale si innalzavano alcune colline di modesta altezza, assai fertili perché formate da materiali vulcanici. Esse erano raggiungibili dal mare risalendo la corrente del fiume e permettevano un ottimo approdo: inoltre sorgevano nella zona di più facile attraversamento del Tevere, davanti all'isola Tiberina, e costituivano perciò il luogo di transito obbligato per le correnti di traffico che collegavano le città etrusche del Nord alle popolazioni sabine dell'Est e ai Volsci del Sud. Le loro pendici molto scoscese consentivano una facile difesa e rendevano possibili stabili e sicuri insediamenti umani: in effetti i ritrovamenti archeologici confermano che il colle Palatino fu abitato, a partire dal X secolo a.C., da popolazioni affini ai primitivi abitanti dei colli Albani dell'interno (Protolatini): essi vivevano in capanne costruite direttamente sul tufo e usavano cremare i loro defunti. Durante l'VIII secolo il villaggio del Palatino si fuse con le comunità sabine dell'Esquilino e del Celio, ma soltanto nel VII secolo, con l'unione dei colli più interni del Quirinale e del Viminale, Roma diventò una vera e propria città dotata di un unico sistema difensivo. A quell'epoca infatti il raggruppamento dei villaggi si trasformò in una città-stato del tipo di quelle etrusche, retta da un capo militare, il re, eletto dalle tribù. Dalla metà del VII secolo alla metà di quello seguente la fisionomia di Roma si trasformò completamente: apparve un'architettura civile, templi e santuari si moltiplicarono sul Quirinale e sul colle Capitolino, apparvero ceramiche di produzione greca ed etrusca, la città si aprì agli scambi e alle influenze esterne. In quest'epoca cominciò a delinearsi chiaramente la struttura sociale e politica della città: Roma si presentava come un raggruppamento di tribù, e di gentes ( = «gruppi familiari»), che affidavano la conduzione delle guerre ed il supremo potere religioso e civile ad un re, assistito dagli anziani da lui scelti tra gli appartenenti alle singole gentes, in modo da costituire una specie di organo che in seguito diverrà il Senato. I cittadini, ripartiti in trenta curie, si riunivano in assemblea (comizi curiati) per giudicare in appello le condanne a morte emesse dal re e per approvare o respingere le leggi da lui proposte. Secondo la tradizione, il re Servio Tullio avrebbe sostituito alla suddivisione secondo la stirpe o la parentela una ripartizione di tutti i cittadini, a seconda dei loro livelli di ricchezza: erano previste cinque classi suddivise a loro volta in unità di cento uomini (centurie). La costituzione che prende il nome da Servio Tullio era fondata sullo stretto rapporto tra esercito ed organizzazione dello Stato: i comizi non erano altro che l'assemblea del popolo in armi. L'onere che ciascun cittadino doveva sopportare per la difesa comune (ma anche il suo peso politico nei comizi) era proporzionato alla sua ricchezza, sicché la prima classe, costituita dai cittadini più ricchi, era disposta in battaglia in prima linea e doveva dotarsi, a sue spese, di un armamento molto pesante: elmo, corazza, piccolo scudo rotondo di rame, schinieri, lancia e spada. Le altre classi, meno ricche, erano collocate nelle linee successive e dovevano dotarsi di un equipaggiamento più leggero. Chi non possedeva nulla era escluso dal servizio militare. Questa struttura dell'esercito e dei comizi centuriati passò invariata alla repubblica, quando cioè al posto del re eletto a vita si cominciò ad eleggere ogni anno due nuovi magistrati chiamati consoli. È incerto se il passaggio dalla monarchia alla repubblica fu il risultato di un lungo processo di trasformazione delle istituzioni pubbliche e non, come narra la leggenda, di una sollevazione popolare contro il re Tarquinio il Superbo. Quando la costituzione repubblicana si poté considerare definita e consolidata, le nuove cariche, oltre ad essere annuali (salvo il censore che durava in carica diciotto mesi), si presentavano come collegiali (c'erano per esempio due consoli; solo il dittatore era unico, ma era una carica eccezionale). Dopo la conclusione del loro mandato gli eletti potevano essere chiamati a rispondere delle azioni compiute. Immutati rimasero anche i rapporti tra le assemblee popolari ed i nuovi comandanti supremi, i consoli: a questi ultimi spettava il potere di proporre le leggi ai comizi, che potevano accettarle o respingerle ma non avanzarne di nuove. Il Senato fu accresciuto, non era più scelto tra i capifamiglia ma composto da coloro che in precedenza avevano occupato le massime cariche dello Stato. Il suo potere crebbe molto proprio per la rilevante esperienza politica ed amministrativa che gli ex-consoli, gli ex-pretori, gli ex-censori ecc. portavano con sé. Il Senato divenne così il centro della vita politica romana tanto più che era un corpo permanente, mentre le altre cariche duravano solo un anno: questo organo decideva le questioni di politica estera, dichiarava la guerra o sanciva la pace, dava suggerimenti ai consoli, interveniva negli affari finanziari.

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LA LEGGENDA DELLA FONDAZIONE DI ROMA

Narra la leggenda che alcuni secoli dopo la fondazione di Albalonga da parte di Ascanio, figlio di Enea, regnava su quella città il buon Numitore. Suo fratello Amulio lo depose e ne usurpò il trono, obbligando Rea Silvia, figlia di Numitore, a farsi vestale. Le vestali erano sacerdotesse votate alla castità, pena essere sepolte vive; ma Rea Silvia ebbe da Marte, dio della guerra, due gemelli, Romolo e Remo. Amulio, venuto a conoscenza del fatto, fece uccidere Rea Silvia e ordinò che i bambini venissero abbandonati sulle rive del Tevere. I due gemelli erano condannati a morire, ma ai loro vagiti accorse una lupa pietosa che li allattò; più tardi arrivò un pastore che li allevò nella sua umile casa. Divenuti adulti i due gemelli vollero vendicarsi: uccisero lo zio Amulio e rimisero sul trono il nonno Numitore; poi decisero di fondare una città vicino al Tevere, dove erano stati trovati dalla lupa. Ma, contendendosi il diritto di dare il nome alla nuova città, Romolo si recò sul colle Palatino e Remo sull'Aventino per trarre auspici dal volo degli uccelli; Remo contò sei avvoltoi, Romolo dodici: spettò quindi a lui dare il nome alla futura città. Ma la contesa tra i due fratelli non terminò; appena Romolo ebbe tracciato con l'aratro il perimetro delle mura, Remo, in segno di disprezzo, scavalcò con un salto il solco e Romolo lo uccise. Rimasto solo, per popolare la città chiamata Roma, offrì asilo a quanti, liberi o schiavi, avessero voluto andare ad abitarvi. Mancando le donne fece rapire dai suoi uomini quelle dei Sabini, una popolazione vicina, scatenando una terribile guerra. Le donne sabine, che non volevano uno spargimento di sangue tra i propri parenti e i recenti mariti, obbligarono i contendenti ad un accordo per cui Romani e Sabini divennero un unico popolo. Da allora, sempre secondo la leggenda, Roma venne governata per 244 anni da sette re, ad ognuno dei quali la tradizione attribuisce la creazione di qualche istituzione.

I SETTE RE DI ROMA

Secondo la tradizione, Romolo fondò Roma il 21 aprile 754 o 753 a.C. e governò a lungo lo Stato finché gli dei non lo rapirono in cielo. Da allora venne venerato dai Romani col nome di Quirino. Numa Pompilio, re sabino molto saggio, regnò pacificamente innalzando templi e altari, istituendo gli ordini sacerdotali e riformando il calendario. Tullo Ostilio durante il suo regno sfidò Albalonga per la supremazia sul Lazio. Per evitare una guerra lunga e sanguinosa si decise di affidare le sorti ad un duello tra tre campioni di Roma, gli Orazi, e tre campioni di Albalonga, i Curiazi. Rimasto in vita solo uno degli Orazi, costui giocò d'astuzia, facendosi inseguire dagli avversari in modo che risultassero distanziati e arrestandosi solo per ucciderli uno alla volta. Anco Marzio ingrandì Roma, costruì il ponte Sublicio e fondò alle foci del Tevere il porto di Ostia. Tarquinio Prisco, etrusco come i suoi successori, organizzò la città arricchendola di opere pubbliche come la Cloaca Massima, un'imponente rete fognaria, e il foro, la piazza del mercato. Servio Tullio cinse la città di mura che conservano ancora il suo nome ed istituì l'ordinamento centuriato. Tarquinio il Superbo, ultimo re di Roma, si comportò in maniera tanto oppressiva, proteggendo il figlio Sesto, che aveva cercato di disonorare la nobile Lucrezia, da suscitare le ire dei Romani che lo cacciarono dalla città nel 509 a.C.

GLI STORICI LATINI

Sulla storia delle origini di Roma non sono giunti molti documenti scritti. La più antica cronaca, dall'arrivo di Enea fino alla seconda guerra punica, fu compilata in greco dal senatore Quinto Fabio Pittore, ma è andata perduta. Le storie più importanti, quelle a cui ancor oggi si fa riferimento, sono state scritte da Tito Livio e da Dionigi d'Alicarnasso, vissuti entrambi al tempo d'Augusto. Tito Livio scrisse Ab urbe condita (= «Dalla fondazione della città»), una storia che va dalla fondazione di Roma al 9 a.C. L'opera era costituita da 142 libri che sono andati in gran parte perduti. Restano i libri I-X (dalle origini alla terza guerra contro i Sanniti) e XXI-XLV (dalla seconda guerra punica alla terza guerra macedone); inoltre parte del libro XCI e vari frammenti. Dionigi d'Alicarnasso, retore e storico greco, scrisse le Antichità romane in 20 libri, dalla fondazione di Roma alla prima guerra contro i Cartaginesi, di cui restano i primi 11 libri ed estratti degli altri.

PATRIZI E PLEBEI

Col passaggio dalla monarchia alla repubblica il potere e le prerogative del re erano interamente passate ad una nuova magistratura, quella consolare (di cui è dubbio e discusso l'originario carattere unitario e collegiale): i consoli erano eletti annualmente dalle assemblee dei cittadini (comizi). Successivamente alcune funzioni del console furono assegnate ad altri magistrati elettivi: pretore, edile, questore, censore, ecc. Originariamente solo i discendenti delle più antiche famiglie gentilizie, avevano accesso a queste magistrature. Esisteva infatti nella cittadinanza romana una netta distinzione fra patrizi e plebei, risalente all'età arcaica e, forse sorta per una diversa evoluzione sociale ed economica della famiglia: poche genti nobili (o patrizie) si erano arricchite di beni e di grandi proprietà terriere, avevano notevole influenza e costituivano il nucleo dell'esercito; la plebe comprendeva il resto della cittadinanza, i grandi e piccoli proprietari di terre e i braccianti della campagna, gli artigiani e i mercanti della città, inoltre i clientes (= «protetti») di famiglie patrizie. Essa era esclusa da molti diritti civili, per esempio da quello di sposarsi con persona appartenente al patriziato o quello di beneficiare della distribuzione delle terre tolte ai nemici, e da tutti i diritti politici. I plebei finivano per costituire una comunità separata che viveva all'interno dello Stato aristocratico romano, verso il quale aveva solo obblighi. In seguito, verso la fine del VI secolo a.C., il nucleo dell'esercito fu costituito dalla fanteria pesante (con l'adozione della tattica politica greca) formata dai contadini plebei più benestanti; questa fu la premessa della lotta della plebe per l'equiparazione con i nobili patrizi, lotta che divenne particolarmente aspra tra il V e il IV secolo e che fu condotta, in alcuni momenti estremi, anche con la minaccia della sospensione della partecipazione alla guerra. Nella tradizione questa forma di lotta passò col nome di «secessione», cioè allontanamento da Roma dei plebei, che rifiutavano di prestare qualunque tipo di servizio.

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La plebe creò dei propri magistrati, i tribuni della plebe, che avevano il compito di prestare aiuto al singolo cittadino proteggendolo da qualsiasi sopruso o ingiustizia e convocavano l'assemblea della plebe, il concilio che deliberava i plebisciti, cioè le leggi della plebe. Ai tribuni della plebe fu riconosciuto il potere di impedire l'esecuzione di ogni provvedimento che essi ritenessero contrario agli interessi popolari. La figura stessa del tribuno si circondò di una riverenza quasi religiosa. Più tardi nel 451 a.C. i plebei ottennero che le leggi fossero messe per iscritto, assicurando così la certezza del diritto: ciò tolse al Pontefice Massimo, che era patrizio, il monopolio della conoscenza delle leggi. I plebei ottennero poi il diritto di matrimonio con i patrizi (legge del 445 a.C. su proposta dal tribuno Canuleio). L'ulteriore obiettivo di accedere alle magistrature e al Senato fu a poco a poco raggiunto: nel 367 a.C. i plebei furono ammessi al consolato, nel 356 alla dittatura, nel 351 alla censura e nel 337/336 alla pretura; il Senato divenne quindi un organo a composizione mista patrizio-plebea. Nel 300 a.C. il plebiscito Ogulnio sancì l'entrata dei plebei in alcuni collegi sacerdotali, quello dei Pontefici e quello degli Auguri. La parificazione politica dei due ordini fu definitiva con la equiparazione dei plebisciti alle leggi pubbliche dei comizi (legge Ortensia del 287 a.C.). La contrapposizione tra patrizi e plebei, dal punto di vista dei diritti politici, venne così superata: le famiglie plebee più facoltose si fusero con le famiglie patrizie. Ma se i plebei più ricchi potevano ormai condividere i privilegi dei patrizi, la condizione della plebe nel suo complesso era destinata a peggiorare. La moltitudine dei piccoli proprietari terrieri su cui si reggeva l'economia romana e che costituiva il nerbo dell'esercito, era costretta dalle continue guerre a restare per lunghi anni lontana dai campi che andavano in rovina; durante la seconda guerra punica, poi, questi stessi campi furono completamente devastati in molte regioni dalle truppe di Annibale. Così, i piccoli proprietari, rovinati economicamente e oberati dai debiti, si videro sempre più frequentemente costretti a vendere a basso prezzo le loro terre e dovettero scegliere tra diventare coloni alle dipendenze dei grandi proprietari o rifugiarsi a Roma in cerca di qualche espediente per sopravvivere. La plebe delle campagne, un tempo ossatura dell'economia e dell'esercito, ebbe sempre minor peso; quella di città si ingrossò sempre più, ma assunse un carattere parassitario: viveva ai margini della società a spese delle grandi famiglie nobili o dello Stato.

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MENENIO AGRIPPA

Tito Livio voleva dimostrare che la fortuna di Roma dipendeva dalla forte coesione sociale che i cittadini, patrizi e plebei, sapevano ritrovare nel momento di maggior pericolo. Secondo il suo racconto, Menenio Agrippa, un nobile bene accetto dal popolo, si incaricò di convincere i plebei, ritirati sul Monte Sacro per protesta, a rientrare a Roma e a riprendere le loro attività. Si dice che li convincesse raccontando questo apologo: Nel tempo in cui nell'uomo le varie membra non erano come ora armonicamente congiunte, ma ogni membro aveva una sua propria volontà e una sua propria favella, si indignarono le altre parti che ogni loro cura, ogni loro fatica e funzione servissero solo al ventre, mentre questo se ne stava in mezzo tranquillo, non facendo altro che godersi i piaceri che gli venivano largiti. Cospirarono dunque che le mani non portassero più il cibo alla bocca, che la bocca non lo ricevesse, che i denti non masticassero ciò che avessero ricevuto. Per questa loro ostilità, mentre avevano voluto domare con la fame il ventre, anch'esse le membra e con loro tutto il corpo si ridussero a un esaurimento estremo. Si vide così che anche la funzione del ventre non è inutile e che esso tanto nutre quanto è nutrito, restituendo a tutte le parti del corpo equamente diviso per le vene, questo sangue che ci dà vita e le forze e che si forma appunto dal cibo elaborato dal ventre.

ORGANI DI GOVERNO DELL'ETÀ REPUBBLICANA

SENATO

Nel mondo romano il Senato era il principale arbitro della vita politica. Nell'età monarchica era il consiglio degli anziani (il termine deriva dal latino senex che appunto vuol dire «vecchio») che assisteva il re ed era formato dall'aristrocrazia patrizia; diventò in seguito un consiglio di coloro che avevano ricoperto una magistratura, designati dai censori tra gli ex consoli, gli ex dittatori, gli ex pretori e poi anche tra gli ex edili, gli ex tribuni della plebe e gli ex questori. Il Senato assisteva con il suo consiglio i magistrati e aveva funzione di ratifica delle deliberazioni del popolo. Aveva competenze per quanto riguardava la direzione dello Stato, il controllo della politica interna ed estera (guerre e trattati con gli altri popoli), la sorveglianza sulla cassa dello Stato (Erario), sull'amministrazione finanziaria e sui beni pubblici e sulle questioni religiose. Le sue deliberazioni, senatus consulti, contenevano le direttive fondamentali della politica romana.

MAGISTRATI

Le cariche magistratuali costituivano le tappe della carriera politica di un giovane che avesse voluto dedicarsi alla vita pubblica. Dopo il servizio militare iniziava ad assumere le cariche minori (questore, edile, tribuno) e continuava con quelle maggiori (pretore, console, governatore di una provincia, censore). Compiva così quello che veniva definito il cursus honorum, diremmo oggi una brillante carriera politica. Le cariche erano annuali, elettive (elette dai comizi) e onorarie, cioè senza retribuzione. Le magistrature e le relative competenze si stabilizzarono a partire dalle leggi Licinie e Sestie dell'anno 367 a.C.

CONSOLI

Il Consolato era la Suprema magistratura dello Stato, le cui principali caratteristiche erano oltre all'annualità (i consoli restavano in carica un anno) la collegialità (i consoli erano due) e l'eponimia (i consoli davano il nome all'anno). Ciascuno dei consoli aveva il diritto di neutralizzare gli atti ufficiali dell'altro mediante l'istituto dell'intercessio, una specie di veto. I consoli avevano competenza su tutti i settori del potere pubblico: supremo comando militare, ordine pubblico, convocazione del Senato e dei comizi, iniziative legislative, proposta ed accettazione delle candidature alle cariche.

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CENSORI

Erano eletti ogni cinque anni e restavano in carica per diciotto mesi. Era una carica molto prestigiosa che si raggiungeva solo dopo essere stati consoli e non da tutti. I censori avevano competenza sul censimento, redigevano cioè le liste dei cittadini e dei loro beni. Esercitavano il controllo sui costumi, sceglievano i candidati per il senato, facevano costruire e riparare le opere pubbliche.

DITTATORE

Era un magistrato straordinario nominato dai consoli su proposta del Senato in momenti di grave pericolo per la repubblica. In questi casi assumeva il comando assoluto.

PRETORE URBANO

Spettava a questo magistrato, eletto per la prima volta nel 367 a.C., la iurisdictio = «esposizione del diritto» (da cui deriva «giurisdizione»), cioè l'amministrazione della giustizia civile tra i cittadini romani. Istruiva le controversie e nominava il giudice (un privato cittadino) per la sentenza. Emanava annualmente, al momento di entrare in carica, un editto che conteneva le formule e i rimedi processuali previsti; questo testo fu gradualmente integrato con gli sviluppi successivi del diritto.

PRETORE PEREGRINO

Istituito nel 242 a.C., aveva competenze nell'amministrazione della giustizia civile tra cittadini romani e stranieri. Aveva la direzione delle corti giurate, cioè dei tribunali a cui spettava la repressione dei crimini.

TRIBUNI DELLA PLEBE

Erano i magistrati imposti dalla plebe per difendere i suoi diritti contro gli abusi dei patrizi. Erano inviolabili o sacrosancti, per effetto di un giuramento dei plebei. Convocavano e dirigevano i concili della plebe; col tempo i tribuni acquisirono il diritto di veto sugli atti degli altri magistrati e il diritto di convocare il Senato.

QUESTORI

Amministravano le casse dello Stato e quelle militari; in provincia avevano anche comandi militari.

EDILI CURULI

Esercitavano funzioni di polizia nei mercati e nelle strade e la giurisdizione nelle liti di mercato; si occupavano della conservazione e della distribuzione delle scorte di cereali e organizzavano i giochi pubblici.

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EDILI PLEBEI

Amministravano i luoghi di culto plebei; in un secondo momento ebbero funzioni di polizia simili a quelle degli edili curuli.

GOVERNATORI DI PROVINCIA

Inizialmente ed occasionalmente adempivano a questa funzione i consoli, poi pretori appositamente istituiti; in seguito, a partire dalle riforme di Silla a coloro che erano stati consoli o pretori venne prorogata di un anno la carica in modo da poterli inviare come proconsoli e propretori in una provincia. Avevano il governo della provincia, il comando militare e amministravano la giustizia tra i cittadini romani presenti nella provincia.

ASSEMBLEE DEL POPOLO

COMIZI CURIATI

Costituivano la più antica forma di organizzazione della comunità romana (risale all'età regia) ed erano formati dai cittadini divisi in 30 curie (dieci per ciascuna delle più antiche tribù etniche, in numero di tre, attribuiti dalla tradizione a Romolo). Le curie avevano ciascuna un proprio luogo di culto e costituivano la base dell'antica organizzazione militare. I comizi curiati investivano del potere i magistrati, erano interpellati in caso di dichiarazione di guerra ed erano competenti in alcune questioni religiose. Furono esentati dai comizi centuriati e in seguito, si riunirono soltanto i 30 rappresentanti delle curie.

COMIZI CENTURIATI

Costituiti su base timocratica e attribuiti dalla tradizione a Servio Tullio, i comizi centuriati rappresentavano la principale assemblea di carattere politico. Era composto dai cittadini divisi sulla base della ricchezza in cinque classi, a ciascuna delle quali era attribuito un numero fisso di centurie (in tutto 193) che costituivano le unità di voto. Tale attribuzione era fatta in modo da garantire la maggioranza alle prime classi, cioè a quelle dei cittadini più ricchi. Erano presieduti in genere dai consoli. Votavano le proposte di legge, eleggevano i magistrati maggiori: consoli, censori e pretori. Decidevano sulla pace e sulla guerra, funzionavano da tribunale per processi politici che decidevano sulla vita del cittadino accusato di un delitto capitale.

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COMIZI TRIBUTI

Tale assemblea era formata dai cittadini raggruppati in tribù a seconda delle circoscrizioni territoriali. Le tribù locali, che furono introdotte secondo la tradizione da Servio Tullio ed eliminarono le tre primitive tribù etniche, consistevano in 4 tribù urbane e in un numero sempre maggiore, fino ad un massimo di 35 tribù rustiche. I comizi tributi eleggevano i magistrati minori, votavano leggi. Erano presieduti da un magistrato curiale.

CONCILIO DELLA PLEBE

Era l'assemblea della plebe le cui decisioni, i plebisciti (dal latino plebis = «plebe» e scitum = «ordine») valevano in un primo tempo solo per la plebe stessa, ma dal 287 a.C. ebbero valore di leggi. Da allora il concilium plebis venne chiamato anch'esso comitia. Era convocato dai tribuni della plebe. Eleggeva i magistrati plebei, tribuni e edili e votava i plebisciti.

LA CONQUISTA DELL'ITALIA

La favorevole posizione geografica consentì a Roma di assumere a poco a poco la supremazia tra le popolazioni latine, dopo che si era giunti allo scontro armato, ricordato dalla tradizione con la battaglia del lago Regillo (forse 494 a.C) vinta dai Romani. Tra Roma e la Lega Latina era stato stipulato un trattato di alleanza su un piano di parità (Foedus Cassianum del 493 a.C.). L'alleanza era diretta a fronteggiare gli attacchi delle popolazioni degli Equi e dei Volsci che premevano dalle zone montuose dell'Appennino per raggiungere la pianura. Queste guerre rappresentarono per Roma momenti di estremo pericolo; più volte gli eserciti nemici si arrestarono appena alle porte della città e solo con difficoltà si arrivò alla definitiva vittoria contro gli Equi (battaglia del monte Algido del 431 a.C.) e i Volsci. La tradizione si impadronì degli episodi di queste lunghe guerre e ne diede una versione eroica secondo la quale personaggi epici, come Coriolano e Cincinnato avrebbero salvato in extremis la patria con l'eccezionale loro valore. Si tratta di una tradizione romanzesca che ben fa capire però in quale tragica situazione dovesse trovarsi Roma agli inizi del V secolo a.C. Uscita vittoriosa dalla minaccia alla propria sopravvivenza, Roma cominciò a combattere per estendere il proprio dominio sulle aree vicine. La principale avversaria era Veio, città etrusca distante appena 18 chilometri da Roma. Anche questa fu una guerra aspra che terminò quando Furio Camillo dopo un lungo assedio riuscì ad espugnare la città che venne distrutta (396 a.C.) e i suoi abitanti massacrati o venduti come schiavi: Roma aveva il controllo del basso Tevere. Nel 390 a.C. Le incursioni dei Celti (conosciuti dai Romani come Galli) dalla valle Padana, dove erano giunti provenienti dall'Europa centrale, calarono verso il territorio romano, dopo aver occupato le città etrusche dell'Italia settentrionale.

L'esercito romano fu distrutto (battaglia del fiume Allia) e la stessa Roma dovette essere abbandonata dalla popolazione terrorizzata: la città fu saccheggiata ed incendiata. Dopo il saccheggio i Galli decisero di abbandonare Roma ed il Lazio. Passata la grande paura, Roma riordinò l'esercito e ricostituì la lega Latina che sotto gli eventi dell'invasione si era allentata; ai soci l'occasione era parsa opportuna per svincolarsi da quella che si configurava sempre più chiaramente come una soggezione a Roma. Il Foedus Cassianum fu rinnovato, ma questa volta la preminenza di Roma era indiscussa. La successiva conquista dei territori di Tuscolo e di Cere pose i Romani direttamente in contatto con i popoli dell'Italia meridionale dove Greci, Cartaginesi ed Italici si contendevano la supremazia. Significativamente venne rinnovato il trattato di amicizia con i Cartaginesi: i Romani si impegnavano a non navigare nel Mediterraneo occidentale e in cambio Cartagine riconosceva il controllo romano sulle coste laziali. In questo momento gli interessi delle due potenze coincidevano: Roma era libera nella politica di espansione nella penisola e Cartagine poteva affrontare il confronto con le colonie greche. La prima guerra sannitica (343-341 a.C.) mise i Romani di fronte a questa popolazione che dalle zone montane era calata verso la pianura minacciando i Campani; la prima fase vide il contenimento dell'invasione sannitica da parte dell'esercito romano che tuttavia non ottenne vittorie decisive. Roma dovette subito dopo fronteggiare l'alleanza tra le truppe della Lega Latina e quelle dei Campani, disposti ad appoggiare le iniziative della Lega per abbattere l'egemonia romana.

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A questa alleanza si unirono anche i Volsci e per Roma fu un momento di estremo pericolo; la vittoria finale (al solito episodi leggendari servirono a mascherare gli insuccessi e le difficoltà della guerra) permise a Roma di avviare un'abile politica di pacificazione e di assimilazione nei confronti dei popoli vinti. Questi vennero trattati in modi diversi, ma sempre con l'obiettivo di farne degli alleati; tale politica diede i suoi frutti, tanto che da allora i popoli latini restarono fedeli a Roma. La seconda guerra sannitica (326-304 a.C.) rappresentò un momento difficile per l'esercito romano, abituato a combattere in pianura e non adatto ad affrontare lunghe e logoranti guerre su un terreno montuoso e accidentato. Dopo la umiliante sconfitta nelle gole di Caudio, quando l'esercito vinto fu costretto a passare sotto il giogo formato da tre lance (le forche caudine), i Romani costrinsero alla pace i Sanniti. La ripresa delle ostilità (terza guerra sannitica, 298-290 a.C.) in concomitanza con la sollevazione di Etruschi, Galli Senoni, Sabini e Umbri portò alla definitiva vittoria dei Romani a Sentino seguì (nel 283 a.C.) la vittoria al lago Vadimone contro i Galli. Proprio al tempo della seconda guerra sannitica risale la riforma dell'esercito; la legione venne suddivisa in manipoli, assai più mobili, fu introdotto l'uso del pilum o giavellotto, un'arma da lancio da usare prima del corpo a corpo. Con la riforma militare l'organizzazione dell'esercito non coincise più con l'organizzazione dello Stato; una volta esisteva una precisa relazione tra appartenenza ad una classe sociale e servizio militare. I cittadini più ricchi che formavano la prima categoria di censo, erano tenuti a comprarsi un armamento pesante e a disporsi nella prima linea di combattimento; quelli meno ricchi dovevano possedere un armamento meno pesante e stavano nella seconda linea e così via secondo il criterio censitario. Con la riforma invece s'impose il criterio d'efficienza, che collocò in prima linea gli elementi più giovani che dovevano impegnare il nemico, nella seconda i soldati più esperti che dovevano sfondare le fila avversarie, nella terza gli uomini più anziani cui toccava di portare a compimento lo scontro. Così l'organizzazione dell'esercito divenne autonoma da quella della società e su questa linea tre secoli dopo si giunse alla supremazia dell'esercito e dei suoi capi sulle magistrature repubblicane, cioè all'impero. L'espansione di Roma verso la Magna Grecia accentuò i particolarismi e le rivalità tra le varie città della regione, che erano già in difficoltà di fronte alla aggressiva politica cartaginese. Siracusa, al tempo del tiranno Agatocle, aveva tentato addirittura di colpire Cartagine sbarcando in Africa, ma la spedizione era stata un disastro e solo la pace (305 a.C.) aveva salvato Siracusa dalla controffensiva cartaginese. Anche Taranto, colonia spartana, si trovava in difficoltà, sotto la pressione dei Lucani, dei Bruzi, dei Messapi, dietro ai quali si muovevano i Romani, tra Taranto e Roma era stato anzi stabilito un accordo per cui i Romani si impegnavano a non entrare con le proprie navi nello Ionio e nell'Adriatico.

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Con la morte di Agatocle le città della Magna Grecia si trovarono a dover fronteggiare la nuova spinta aggressiva dei Lucani e dei Bruzi; l'intervento di Roma esasperò Taranto che entrò in guerra chiedendo nello stesso tempo aiuto a Pirro, principe dell'Epiro, che aveva sposato la figlia di Agatocle. Così i Romani si trovavano di fronte per la prima volta al mondo ellenistico. La spedizione di Pirro in Italia subito ottenne successi: contro i Romani poteva schierare un esercito non numeroso, ma ben guidato e tecnicamente assai efficiente (come dimostra l'impiego, ad esempio, di elefanti). Ma alla fine il tentativo fallì anche perché Pirro aveva logorato le sue forze nel tentativo di sottrarre le colonie greche della Sicilia alla minaccia della dominazione cartaginese e la sua politica era guardata con sospetto dalle stesse città greche che temevano di perdere la loro libertà. La sconfitta di Pirro a Maleventum (275 a.C.), chiamata poi Benevento dai Romani, segnò anche la decadenza di Taranto e della Magna Grecia e portò i Romani a impegnarsi direttamente sul mare dove dominava incontrastata Cartagine. Ancora durante lo scontro con Pirro i Romani avevano rinnovato il patto di amicizia con Cartagine, ma ormai le due potenze erano una di fronte all'altra.

TITO LIVIO E GLI EROI REPUBBLICANI

A Tito Livio piaceva contrapporre, nei suoi racconti dedicati alla dura lotta di Roma contro i popoli vicini per il predominio del Lazio la vita frugale ed eroica degli antichi romani a quella sfarzosa e corrotta dei tempi in cui egli viveva. Ritagliava così figure di eroi repubblicani che esaltavano la semplicità e la virtù della stirpe romana.

ORAZIO COCLITE

Orazio Coclite giganteggia nella solitaria difesa di Roma, trattenendo gli Etruschi al di là del ponte Sublicio sul Tevere, in attesa che i suoi uomini lo tagliassero per impedire al nemico di penetrare fino al Campidoglio.

CORIOLANO

Coriolano si pente amaramente di aver tradito la sua patria quando un corteo di donne romane capeggiato dalla madre Veturia e dalla moglie Volumnia lo fermano, mentre guida un esercito di Volsci contro Roma. Si tratta forse di una figura mitica o di un dio o dell'eroe eponimo della città volsca di Corioli. Io ti ho esiliato ed oggi ti vedo armato contro la tua patria - gli dice sdegnata sua madre - E che! Potrai tu devastare questa terra che ti ha dato la vita e che ti ha nutrito? [...] Se io non ti fossi stata madre, Roma non sarebbe assediata. Se io non avessi avuto un figlio, io sarei morta nella mia libera patria.

CINCINNATO

Roma, mentre il suo esercito è assediato dagli Equi, trova in Cincinnato il dittatore che la salverà. La massima carica gli viene annunciata da ambasciatori che lo trovano nei suoi campi dove, in tutta semplicità era intento alle fatiche agricole. Si tratta probabilmente di un personaggio storico, anche se la sua vicenda è rielaborata sulla base della tradizione poetica popolare.

GUAI AI VINTI!

Abituati a vincere, i Romani mal sopportavano le sconfitte come quella che subirono da parte di Brenno, capo dei Galli Senoni che nel 390 a.C. penetrò nella città incendiandola. Tito Livio racconta questo episodio in modo tale da esaltare il futuro ruolo di Roma, protetta dagli dei e dal volere di uomini come Marco Furio Camillo. ...Fu dato incarico ai tribuni che cercassero di venire a patti con i nemici. Così si raggiunse l'accordo tra Quinto Sulpicio, tribuno militare e Brenno, capo dei Galli, e si decise che mille libbre d'oro fossero il prezzo per la libertà di quel popolo che entro breve tempo sarebbe stato destinato a dominare tutte le genti. All'accordo, già per se stesso brutto e indecoroso, si aggiunse anche un atto di indegna prepotenza: i Galli usavano pesi e bilance truccati. Di fronte alle proteste del tribuno un Gallo arrivò a tale insolenza da aggiungere al peso la sua spada e fu udita quella voce intollerabile ai Romani: - Guai ai vinti! - Ma gli dei e gli uomini non permisero che i Romani dovessero riscattarsi col denaro; prima che il turpe mercato si compisse, non essendo stato ancora pesato tutto l'oro per le contestazioni intervenute, sopraggiunse opportuno Marco Furio Camillo. Comandò che fosse tolto di mezzo l'oro, che i Galli fossero allontanati e rivoltosi ai suoi volle che fossero preparate le armi. Con il ferro e non con l'oro si doveva pensare di riscattare la patria...

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L'ESERCITO ROMANO

Ogni cittadino romano tra i 17 e i 60 anni era tenuto a rispondere alla chiamata alle armi. Nel periodo più antico la chiamata alle armi aveva luogo soltanto in caso di guerra. Di fronte a pericoli eccezionali ed improvvisi si procedeva alla leva tumultuaria o in massa (da tumultus = «massa»). Roma non ebbe durante la repubblica un esercito permanente. Era la legione il vanto di Roma. Questa unità tattica dell'esercito era composta di circa 3000 uomini, raggruppati in 30 manipoli; ogni manipolo, a sua volta era suddiviso in 2 centurie; ogni centuria raggruppava o 60 uomini (hastati e principes) o 30 uomini (triarii). La prima linea era composta di 10 manipoli in cui militavano gli hastati, armati con elmo, corazza, scudo, due giavellotti e una spada. Nei 10 manipoli della seconda linea si trovavano i principes, armati come gli hastati e che servivano come truppe di rincalzo. I 10 manipoli della terza linea erano formati da triarii, fanti armati alla leggera, usati come riserva. Ogni legione era affiancata da 300 cavalieri e da alcune centinaia di velites, armati alla leggera che, collocati al di fuori delle file regolari, molestavano il nemico con rapidi assalti. La legione veniva addestrata e diretta da 60 centurioni, che facevano capo a 6 tribuni dei soldati eletti nei comizi centuriati. La disciplina nella legione era ferrea; coloro che disobbedivano agli ordini venivano condannati a morte. Per colpe meno gravi c'erano punizioni corporali che culminavano nella fustigatio: il colpevole passava tra i commilitoni che lo frustavano a sangue. Le ricompense in cambio erano elevate: promozioni, maggiori assegnazioni di bottino, decorazioni, collane, braccialetti. Ricompense ambite erano soprattutto quelle morali: la corona civica veniva assegnata a chi salvava la vita ad un cittadino romano, la corona muralis a chi saliva per primo sulle mura nemiche, la corona vallaris a chi entrava per primo nell'accampamento avversario. L'esercito romano dal 310 a.C. contava 4 legioni, raggiunse il numero elevato di 45 al tempo delle guerre civili della fine della repubblica, ridotto a circa 30 in età imperiale. I comandanti supremi erano i consoli e in età imperiale i legati. In casi eccezionali veniva nominato un dittatore che rimaneva in carica sei mesi.

 

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LE STRADE ROMANE

Per meglio penetrare nei territori conquistati e per migliorare gli spostamenti, i Romani predisposero moltissime strade a cui davano i nomi dei consoli che ne ordinavano la costruzione La sola Italia aveva una rete lunga 5000 chilometri. La più bella strada era ritenuta la via Appia che collegava Roma con Brindisi; la via Flaminia correva da Roma a Rimini dove cominciava la via Emilia che proseguiva fino a Piacenza. La via Aurelia costeggiava il litorale tirrenico giungendo fino a Pisa e più tardi fino a Marsiglia. La via Salaria scavalcava l'Appennino collegando Roma al mare Adriatico. La via Cassia collegava Roma con Arezzo; la via Postumnia partiva da Genova e giungeva a Cremona. La rete stradale aumentò progressivamente via via che Roma allargava i suoi domini. Schiavi, contadini, soldati furono gli operai chiamati a edificare queste opere pagate nella maggior parte dei casi dall'erario e, a volte, da privati, chiamati soprattutto a contribuire alle spese di manutenzione. Una strada romana era larga circa cinque metri. Utilizzando il materiale presente nella regione, veniva consolidato il fondo stradale riempiendo un fossato con più strati di pietrisco. In prossimità delle città le strade venivano lastricate.

LA RELIGIONE ANTICA

L'antica religione romana rivela le origini contadine; i culti e le cerimonie rituali appaiono volti a propiziare gli dei per ottenere buoni raccolti e per scongiurare calamità naturali. Tra le antiche divinità figurano Saturno, protettore delle semine, Opi, la dea che faceva abbondanti i raccolti, Pomona, la dea dei frutteti, Termine il dio custode dei campi. Notevole importanza aveva il culto di Giano, rappresentato bifronte a simboleggiare l'inizio e la fine di ogni lavoro, il dio custode delle porte (in latino «la porta)) era chiamata ianua) e della pace; il suo tempio infatti si apriva solo in tempo di guerra. Il contatto con i popoli vicini, soprattutto gli Etruschi, servì a modificare ed arricchire il panteon delle divinità dei Romani, che nel corso della loro storia furono sempre assai pronti ad accettare e far proprie divinità straniere. Al tempo dei re si introdusse a Roma il culto etrusco di Iuppiter (Giove), Giunone e Minerva, che vennero poi identificati con gli dei greci Zeus, Era e Pallade; in loro onore venne eretto un tempio sul Campidoglio. Forse prima dell'età regia penetrò in città il culto di Apollo e all'inizio del II secolo a.C. giunsero in Italia i riti propiziatori di Dioniso. Verso la fine dell'età repubblicana, l'influenza della cultura greca fece sì che le divinità romane si assimilassero a quelle elleniche; Cerere divenne Demetra e Marte, dio fecondatore dei campi e protettore in battaglia, prese le caratteristiche dell'Ares greco. Altre divinità greche furono importate prendendo talvolta il nome di divinità locali, per esempio il greco Poseidone, dio marino, prese il nome di una divinità italica delle acque dolci, Nettuno. I Romani mantenevano il rapporto con la sfera del sacro (religio) stando ben attenti ai pericoli d'ordine soprannaturale in cui potevano incorrere. La loro era un'ansiosa ricerca di pace e di armonia tra il mondo degli dei e quello degli uomini. Per tale motivo si preoccupavano di non offendere i numina, gli spiriti, cercando di interpretare correttamente i presagi (omen).

Se l'omen veniva rifiutato (abominari) l'individuo andava inconsapevolmente incontro al proprio futuro. I Romani, seguendo un'antica tradizione etrusca, avevano riguardo anche di tre particolari fenomeni divinatori (haruspicina): l'esame delle viscere degli animali (exta), di altri prodigi vari (monstra), delle folgori (fulgura). Soprattutto il volo degli uccelli all'interno di uno spazio celeste circoscritto, chiamato templum (termine con il quale più tardi si indicarono i luoghi dedicati alla conservazione delle statue degli dei), doveva essere eseguito e correttamente interpretato. Per far questo esisteva un collegio sacerdotale, quello degli auguri, che organizzavano con pignoleria ogni cerimonia religiosa. Questa attenzione al rituale faceva affermare ai Romani di essere «il più religioso di tutti i popoli». Il custode dei culti era il Pontefice Massimo, scelto tra le maggiori famiglie patrizie fin quando i plebei non ottennero l'accesso alla carica; presiedeva il collegio dei pontefici, stabiliva il calendario, le feste, i giorni propizi alle cerimonie pubbliche, sceglieva le Vestali, le sei sacerdotesse di Vesta che custodivano, perché non si spegnesse mai, il fuoco della città. Molti riti erano dedicati ai morti perché si placassero e non nuocessero ai vivi; durante i Lemuria, riti celebrati a maggio, i Romani vivevano nel terrore che gli spiriti, tornati dagli inferi, si aggirassero per le case. Celebravano pertanto cerimonie in cui il capo famiglia, alzatosi a piedi nudi e lavatosi le mani a mezzanotte, invitava le ombre ad allontanarsi e lanciava delle fave nere alle proprie spalle perché anche i manes, gli spiriti buoni degli antenati, tornassero donde erano venuti. Notevole importanza avevano i Penati (da penus = «dispensa», cioè ripostiglio delle provviste), geni protettori del benessere familiare e i Lari, identificati talora con i Mani o anime dei defunti, ma più probabilmente dei protettori della prosperità agraria, dell'interno della casa e poi anche della città. La religione romana aveva un forte carattere politico e sociale, non era un affare della coscienza individuale quanto un fatto della vita politica; come i culti domestici servivano a mantenere la salute dell'unità familiare, così quelli pubblici avevano il compito di garantire la sopravvivenza dello Stato mantenendo la pace con gli dei attraverso appositi rituali.

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Nella famiglia era il pater familias a compiere i riti propiziatori, nella società arcaica d'età monarchica era il re; poi depositari delle formule sacre divennero i collegi sacerdotali. Tra questi, oltre ai già ricordati auguri, c'erano i Salii, sacerdoti di Marte, così chiamati perché saltavano cantando un inno propiziatorio; gli Arvali, che chiedevano con varie cerimonie la benedizione degli dei sulle attività agricole; i Feziali, incaricati di pronunciare le formule magiche con cui si dichiarava la guerra; i Pontefici, custodi e interpreti del diritto; i Flamini addetti al culto delle singole divinità. La religione romana includeva infine divinità che rappresentavano concetti astratti, ritenuti custodi della stabilità sociale e della prosperità dello Stato. A tali divinità come la Fede, l'Onore, la Virtù, la Vittoria, la Speranza, venivano dedicati templi. Particolare rispetto venne tributato alla Concordia a cui Furio Camillo, il vincitore dei Galli, nel 367 a.C. aveva fatto erigere un tempio presso il foro ai piedi del Campidoglio.

CARTAGINE

L'immagine dei Cartaginesi ha sofferto del giudizio negativo che ne espressero i Romani; la «perfidia punica» o «i Puni fedifraghi» sono frasi ricorrenti nei racconti degli storici romani con cui si indicava la proverbiale slealtà di questo popolo che come tale è stato consegnato alla storia. Cartagine è una colonia fenicia, fondata verso la fine del IX secolo a.C. (nell'814 a.C.) secondo la tradizione da una mitica regina, Elissa, fuggita da Tiro perché perseguitata dal fratello. La leggenda delle origini racconta che la regina ottenne dagli indigeni il permesso di possedere tanta terra quanto ne poteva coprire una pelle di bue; ma l'astuta regina pensò di tagliare in sottili strisce la pelle e con quelle circoscrivere un ampio territorio. Le leggende latine identificano in questa regina l'amante di Enea, Didone; secondo il celebre racconto dell'Eneide di Virgilio, l'inimicizia tra il popolo romano e quello cartaginese sarebbe risalito proprio a quei tempi: Enea, costretto dal volere degli dei ad abbandonare Didone per continuare il viaggio verso le coste italiche, si sarebbe macchiato di tradimento e avrebbe in certo senso spinto la regina al suicidio. Nella maledizione scagliata da Didone prima di trafiggersi sul rogo sarebbe stata l'origine dell'odio tra Cartaginesi e Romani. Cartagine significa città nuova; situata in splendida posizione, su una penisola collegata alla terraferma da un sottile istmo, raggiunse ben presto grande potenza: il commercio era la sua fonte di ricchezza. Controllava la Sicilia occidentale, la Sardegna meridionale e settentrionale, la parte meridionale della penisola iberica; le sue navi si erano spinte nell'Atlantico fondando basi sulla costa del Marocco. Nel Tirreno Cartaginesi ed Etruschi alleati avevano sconfitto i Focesi costringendoli ad abbandonare le coste della Corsica (che era passata sotto il controllo etrusco); con Roma era stato stipulato un trattato di amicizia più volte rinnovato. In Sicilia al contrario la penetrazione cartaginese aveva incontrato difficoltà perché contrastata dalla presenza delle colonie greche con continue guerre; proprio la lotta per il predominio in Sicilia mise Cartagine di fronte a Roma nelle guerre puniche da cui la città uscì annientata. Cartagine aveva un regime repubblicano; a capo dello Stato erano dei magistrati definiti come re dai Greci e chiamati dai Romani sufeti o giudici, che convocavano e presiedevano il Senato e l'Assemblea popolare e amministravano la giustizia, non avevano poteri militari. Il comando dell'esercito era tenuto da generali, la cui carica aveva carattere straordinario. Vi era un consiglio, una specie di Senato, composto di 300 membri, dei quali una trentina costituivano un comitato permanente; esisteva inoltre un'assemblea dei cittadini, con poteri limitati. Questa struttura garantiva il controllo del potere da parte di una oligarchia formata dalle principali famiglie di mercanti o proprietari terrieri; pare che unico requisito per far parte di questo gruppo fosse il censo. In questo senso la classe al potere a Cartagine rappresentava un'oligarchia aperta al rinnovamento.

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La potenza militare di Cartagine si basava sulla flotta, mentre l'esercito permanente, costituito soprattutto da mercenari e reclutato presso i popoli vinti, aveva un'efficienza precaria e dipendeva dall'abilità dei generali. Fama di ottimi combattenti avevano i cavalieri della Numidia.

LO SCONTRO CON CARTAGINE

I rapporti tra Roma e Cartagine erano stati a lungo amichevoli; come si è visto ancora in occasione della guerra contro Pirro era stato rinnovato il patto di amicizia. Non vi erano d'altra parte motivi di attrito: le due potenze sembravano avere interessi diversi e svolgere politiche di espansione in zone lontane. Con la vittoria su Pirro Roma finì per comprendere nella sua area di influenza le colonie greche dell'Italia meridionale, tradizionali antagoniste di Cartagine, e fu quindi portata a sostenere interessi commerciali in contrasto con quelli di Cartagine. L'occasione per lo scoppio delle ostilità si verificò in Sicilia. Nella città di Messina, erano saliti al potere dei soldati mercenari, i Mamertini; quando questi nel tentativo di sbarazzarsi del controllo cartaginese, chiamarono i Romani in aiuto, fu la guerra, la prima guerra punica (264-241 a.C.). I Cartaginesi erano chiamati Puni o Poeni dai Romani quali discendenti dei Phenices = «Fenici». Fu all'inizio una strana guerra, dove i contendenti non riuscivano ad ottenere una vittoria decisiva: i Cartaginesi dominavano sul mare, i Romani erano forti nei combattimenti terrestri e avevano occupato gran parte della Sicilia, ma era chiaro che occorreva loro una flotta per aver ragione degli avversari. Così Roma, potenza tipicamente continentale, fu costretta a costruirsi in breve tempo una flotta e ad accettare lo scontro per mare. Nella battaglia navale di Milazzo (260 a.C.) i Romani ottennero una insperata vittoria, grazie all'introduzione dei corvi, ossia ponti uncinati che permettevano di agganciare le navi nemiche e di trasformare il combattimento in un corpo a corpo. Le operazioni di guerra continuarono però con successi alternati per mare e per terra, in Sicilia e in Sardegna. I Romani decisero di portare la guerra in Africa, con l'obiettivo di sollevare le popolazioni dell'interno da poco sottomesse ai Cartaginesi; l'esercito, al comando del console Attilio Regolo, fu però sbaragliato e lo stesso comandate catturato. La successiva vittoria navale dei Romani alle isole Egadi (242 a.C.) pose fine alla prima guerra punica; la Sicilia diventava romana, a cui si aggiunsero subito dopo la Sardegna e la Corsica e ai Cartaginesi non rimase che cercare di compensare le perdite con una politica di conquiste in Spagna. Roma era diventata una potenza mediterranea ed era anche entrata in contatto con il raffinato mondo greco; aveva difeso le colonie greche contro Cartagine e tendeva a presentarsi anche nella penisola balcanica come la protettrice del mondo ellenico. La guerra contro il regno di Illiria, da cui partivano i pirati che rendevano infido il commercio adriatico, fu il primo cauto passo della politica romana verso la Grecia. I Romani approfittarono della pausa della guerra contro Cartagine per estendere il loro controllo nell'Italia settentrionale eliminando la minaccia rappresentata dai Galli Boi e dagli Insubri che avevano tentato di scendere verso Sud.

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La vittoria di Casteggio, l'antica Clastidium (222 a.C.) mise la pianura Padana sotto il controllo di Roma che vi fondò le colonie di Piacenza e Cremona. Frattanto la potenza cartaginese si era riorganizzata e dalle basi in Spagna minacciava di nuovo la supremazia romana. Si giunse alla seconda guerra punica (218-202 a.C.), quando Annibale, un abilissimo generale, appartenente ad una delle più facoltose famiglie cartaginesi, provocatoriamente assediò e conquistò la città di Sagunto, alleata dei Romani che, ubicata a Sud dell'Ebro, segnava il limite dei territori Cartaginesi in Spagna. Con un forte esercito (partito dalla Spagna con non più di 35.000 uomini e ridotto a non più di 25.000 fanti e 6000 cavalieri all'arrivo nella pianura Padana) Annibale compì un'impresa memorabile attraversando le Alpi e giungendo di sorpresa nella Pianura Padana. L'esercito romano venne sconfitto al fiume Ticino, poi al Trebbia e tutta la pianura Padana, dove i Galli erano insorti, cadde in mano al comandante cartaginese; una nuova vittoria al Trasimeno, aprì all'esercito cartaginese la strada per Roma, ma Annibale non seppe o non volle approfittare dell'occasione, forse anche perché deluso della mancata rivolta dei popoli dell'Italia centrale. Questi infatti a differenza dei Galli si erano mostrati fedeli a Roma. Annibale preferì dirigersi verso Sud, con l'intenzione di far sollevare quelle popolazioni e di permettere al suo esercito di riposare; ai Romani era apparso chiaro che Annibale non poteva essere vinto in scontro aperto e che era opportuna una tattica di logoramento. Era quanto sosteneva Fabio Massimo, soprannominato appunto «il temporeggiatore» (cunctator). La scelta di adottare un'azione più decisa portò alla battaglia iniziata dai consoli Emilio Paolo e Terenzio Varrone nella pianura di Canne (216 a.C.) e conclusasi con una delle più disastrose sconfitte dei Romani che lasciarono sul campo decine di migliaia di morti. Nonostante lo sfolgorante successo Annibale si trovava come prigioniero in Italia, impossibilitato a ricevere soccorsi; le flotte romane controllavano il Mediterraneo e un esercito comandato da Asdrubale, fratello di Annibale, era stato intercettato nell'Italia settentrionale e distrutto (battaglia del Metauro). I Romani ormai si sentivano abbastanza forti da portare la guerra in Africa; il console Publio Cornelio Scipione era sbarcato con un poderoso esercito vicino a Cartagine e Annibale era stato costretto a rientrare in patria. Lo scontro (Zama, 202 a.C.) si risolse a favore dei Romani che stavolta imposero condizioni di pace durissime: Cartagine dovette rinunciare alla Spagna, pagare un'enorme somma di denaro, consegnare quasi tutte le navi e gli elefanti, impegnarsi a non muover guerra senza il consenso dei Romani. Era la fine della potenza cartaginese. La storia parla anche di una terza guerra punica (149-146 a.C.). Nonostante le pesanti condizioni di pace, Cartagine era riuscita a ritrovare prosperità economica e ciò preoccupava i Romani che aspettavano l'occasione per eliminare definitivamente la pericolosa concorrente.

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Quando Cartagine, per difendersi dai continui attacchi, mosse guerra a Massinissa, re della Numidia e alleato di Roma, i Romani ne approfittarono per dichiarare rotto il trattato e imporre la distruzione della città. Al rifiuto della popolazione di evacuare la città, un esercito romano iniziò l'assedio che dopo due anni si concluse con la totale distruzione di Cartagine. Il territorio cartaginese venne riorganizzato come provincia d'Africa con capitale Utica. Di Cartagine non restava neppure il nome. Nell'età delle guerre puniche i Romani dettero questa sistemazione al Mediterraneo occidentale: nel 227 a.C. furono costituite le prime due province, l'una la Sicilia, l'altra la Sardegna con la Corsica; fra il 205 e il 197 a.C. la penisola iberica fu divisa nelle due province di Hispania Citerior a Nord-Est e Hispania Ulterior a Sud-Ovest. Dopo il 197 a.C., in meno di dieci anni, fu riconquistata la Gallia Cisalpina (che però fu costituita in provincia più tardi, forse nel I secolo a.C.) e il dominio romano fu esteso alla Liguria, assoggettata dopo una lunga lotta, al Veneto e successivamente all'Istria e alla Dalmazia. Nuove colonie come Parma, Luni, Aquileia garantivano la romanizzazione della zona.

LE NAVI ROMANE

Il dominio della Sicilia pose di fronte Cartaginesi e Romani. Fu durante la prima guerra punica, nel 261 a.C. che al senato romano s'impose la necessità, per controllare l'isola, di allestire una flotta di 120 navi. Stando al racconto dello storico bizantino Procopio di Cesarea (IV secolo d.C.) il modello fu una nave cartaginese arenatasi sulle coste italiane. Si armarono 100 quinquiremi, navi a cinque ordini di remi, che portavano a bordo 120 fanti e 300 marinai, e 20 triremi. Le navi erano fornite a prua di rostri per lo speronamento e, al fianco, di un complesso marchingegno, il corvo, atto ad abbassare una passerella lunga dieci metri e capace di conficcarsi sul ponte della nave nemica per permettere ai Romani di passare all'arembaggio, combattendo come sulla terra ferma.

ANNIBALE

Fu Annibale il più pericoloso avversario di Roma. Seguendo la logica del «grande nemico, grande onore», Tito Livio racconta la storia del grande generale cartaginese presentandolo a nove anni di età in atto di supplicare il padre, Amilcare Barca, di portarlo con sé in Spagna, giurando su un altare odio eterno per i Romani. Tito Livio narra che non c'era fatica che facesse esaurire le sue forze né fiaccare le energie del suo spirito. Annibale sopportava con uguale indifferenza il freddo e il caldo. Coperto di un rozzo mantello soldatesco giaceva sulla nuda terra ed il suo vestito non era diverso da quello degli altri soldati. I suoi vizi, spiega Tito Livio, erano una crudeltà feroce, una perfidia tutta cartaginese, nessuna franchezza, nessun rispetto per ciò che è sacro, nemmeno per gli dei, nemmeno per il giuramento.

LA BATTAGLIA DI CANNE

La battaglia di Canne (216 a.C.), la più nefasta di tutta la storia romana, oltre che da Tito Livio è stata raccontata da Polibio (205-118 a.C.), uno storico greco, portato a Roma come ostaggio dopo la battaglia di Pidna (168 a.C.) e protetto dagli Scipioni che lo introdussero nel loro circolo culturale. Scrisse le Storie in quaranta libri dei quali restano i primi cinque, gran parte del sesto e gli estratti dei libri I-XVIII, in cui volle dimostrare che la ragione delle vittorie romane andava ricercata nella saldezza dell'ordinamento dello Stato e nella fortuna di Roma, inevitabilmente destinata a governare il mondo. Ecco come spiega il modo in cui Annibale, col suo geniale piano di battaglia riuscì ad attirare i Romani verso il centro del suo esercito, formato da alleati Galli ed Iberici, volutamente indebolito, per poi accerchiarli con la veloce cavalleria numida. ...Per breve tempo gli Iberici e i Galli mantennero le loro file e combatterono contro i Romani valorosamente; dopo, sotto la pressione dei manipoli, ripiegarono, abbandonando lo schieramento a mezzaluna. Le legioni romane, inseguendoli con impeto, facilmente rompono il dispositivo nemico, poiché i Galli erano stati schierati su una linea sottile, mentre i Romani andavano infittendosi dalle ali verso il centro e il luogo dove infuriava la mischia. Il centro e le ali poi non erano entrati contemporaneamente nella lotta, ma prima il centro poiché i Galli per la loro disposizione a guisa di mezzaluna erano molto più avanti delle ali, con la convessità rivolta verso i nemici. Quindi i Romani, nell'inseguimento dei Galli, corrono verso il centro, dove i nemici cadevano, e si addentrano così profondamente che da entrambe le ali la fanteria pesante degli Africani viene a trovarsi ai loro fianchi. E allora quelli che si trovavano sulla destra fecero una conversione a sinistra e, assalendo dalla destra, strinsero di fianco i nemici; gli altri invece, che si trovavano a sinistra, piegarono a destra e si schierarono sulla sinistra [...] Quindi secondo il disegno di Annibale, i legionari che occupavano il centro mentre inseguivano con foga i Galli, si trovarono bloccati dagli Africani e non più manipoli ma rivolti uomo contro uomo, schiera contro schiera, lottavano contro il nemico che li assaliva ai fianchi... Il disastro per i Romani fu terribile. ... Di seimila cavalieri romani soltanto 70 fuggirono con Terenzio Varrone [..] Dei fanti ne furono presi in armi circa 10.000; questi però non avevano preso parte alla battaglia; dalla mischia invece forse soltanto 3000 si salvarono nelle vicine città. Tutti gli altri, circa 70.000 mila morirono nobilmente...

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LA CONQUISTA DELL'ORIENTE

Si è visto che Roma era già entrata in contatto con il mondo ellenico al tempo della prima guerra punica. Nei primi decenni del II secolo a.C., approfittando dei contrasti e delle rivalità esistenti tra gli Stati ellenistici ed acuendo con manovre diplomatiche e con intrighi la crisi delle singole dinastie, Roma riuscì ad eliminare l'influsso macedone sulla Grecia e ad umiliare la potenza militare della Siria. La Macedonia di Filippo V si era schierata con Annibale al tempo della seconda guerra punica (prima guerra macedonica, 215-205 a.C.); quando il re macedone d'accordo con Antioco III il Grande, re di Siria, iniziò le operazioni belliche per annettersi il regno di Pergamo e la repubblica di Rodi, i Romani intervennero (seconda guerra macedonica, 200-197 a.C.) e sbaragliarono Filippo V a Cinoscefale. Stessa sorte toccava poco dopo ad Antioco III, anch'egli vinto (guerra siriaca, 192-188 a.C.) e costretto a cedere parte del territorio a favore di Pergamo e Rodi. Già a questo punto nulla si poteva fare in Oriente senza il consenso del Senato di Roma e almeno la penisola greca era entrata a far parte definitivamente della sfera d'influenza romana. Con la battaglia di Pidna del 168 a.C. (terza guerra macedone 171-168 a.C.) finì il regno macedone e iniziò la romanizzazione della Macedonia che più tardi fu ridotta a provincia romana. Consapevoli della grande superiorità delle tradizioni politiche della Grecia, i Romani non osarono imporre subito ad essa il proprio dominio diretto, ma non rinunciarono a comportarsi da padroni. L'Epiro, che si era schierato a favore del re macedone, fu saccheggiato e gran parte della sua popolazione fu ridotta in schiavitù. L'isola di Delo, che durante la lotta era rimasta neutrale, fu assegnata agli Ateniesi e dichiarata porto franco in modo da diventare il maggior emporio commerciale del mondo greco a danno di Rodi che, pur essendo amica di Roma, non ne aveva sostenuto con sufficiente zelo la politica aggressiva. La Grecia, insomma, era diventata una specie di protettorato romano. Nel 146 a.C., infine, a seguito della sfortunata ribellione di alcune città greche, contemporaneamente alla terza guerra punica, ogni apparenza di libertà fu eliminata: furono disciolte le leghe di città e la Grecia, trasformata nella provincia di Acaia, fu annessa alla Macedonia. Forse più che dalla superiorità militare romana, la sconfitta della Grecia fu provocata dalla crisi politica e spirituale che da tempo ne aveva logorato le forze. Dapprima il prevalere di regimi oligarchici e autoritari, poi il dominio macedone avevano spento nelle città-stato ogni autentica vita politica. L'amministrazione della polis non suscitava più l'entusiasmo né sollecitava le ambizioni dei cittadini. Anche tra i pensatori e gli uomini di cultura l'ideale di vita non era più quello del cittadino capace di partecipare consapevolmente al governo e di contribuire con la propria abilità, con il proprio coraggio, con la scrupolosa osservanza delle leggi, alla realizzazione degli interessi generali della città-stato. All'esaltazione delle virtù politiche del cittadino si era sostituita l'esaltazione delle virtù private dell'individuo. Mentre Roma costruiva un impero quasi universale, nella città la classe dirigente era divisa in due tendenze opposte. Per i conservatori, di cui era esponente Catone il censore (234-149 a.C.), la potenza militare e la compattezza politica del popolo romano dipendevano dalle tradizioni di frugalità e di disciplina proprie di una società agricola, quale era stata all'origine la società romana. Occorreva perciò mantenere intatte o restaurare le condizioni che avevano permesso l'affermazione di Roma quale grande potenza: un'economia fondata sul lavoro dei campi, una struttura familiare di tipo patriarcale, un'organizzazione politica di tipo oligarchico. Ogni novità doveva essere combattuta, ogni curiosità per la cultura e i modi di vita dei popoli stranieri doveva essere repressa. L'altra tendenza, di cui erano esponenti gli Scipioni, propugnava invece un audace programma espansionistico e sollecitava un profondo rinnovamento del tradizionale modo di vita romano mediante l'assimilazione della più evoluta cultura greco-ellenistica. Dopo la vittoria sulla Macedonia i Romani erano abbastanza forti da passare alla conquista dell'Asia. Il regno di Pergamo, che dominava su gran parte dell'Asia Minore era stato amico di Roma durante le guerre contro la Macedonia e la Siria; alla sua morte il re Attalo III lasciò il regno in eredità a Roma che lo trasformò nella provincia di Asia (129 a.C.). Nella Siria dei Seleucidi i Romani continuarono per decenni a provocare e ad alimentare i contrasti interni, finché nel 63 a.C. un'insurrezione popolare in Palestina consentì loro di intervenire e di trasformare il Paese in provincia romana. Frattanto il susseguirsi di lotte dinastiche e l'alternarsi di insurrezioni e di repressioni conducevano lentamente, ma inesorabilmente allo sfacelo anche la dinastia dei Tolomei, che regnava in Egitto. Timorosi di rinfocolare la stessa lotta che per tre secoli aveva opposto il sentimento nazionale egizio alla burocrazia ellenistica e di suscitare l'opposizione delle classi possidenti mercantili di Alessandria, i Romani esitarono alquanto ad intervenire in Egitto, che fu conquistato solo nel 30 a.C. Intorno a quest'epoca l'impero romano si era affermato come la sola potenza del Mediterraneo: tra il 58 e il 51 a.C., sotto la guida di Cesare, gli eserciti romani avevano conquistato la Gallia; nel 14 d.C., con le conquiste compiute durante il governo di Ottaviano (la Galazia in Asia Minore, la Rezia, il Norico, la Pannonia e la Mesia nell'Europa centro-orientale a cui si aggiunse in età tiberiana la Cappadocia), l'impero raggiunse ancor più ampie estensione. Con Augusto era iniziato un lungo periodo di pace: anche il conflitto con i Parti (popolazione dell'Asia centrale, che aveva occupato la Mesopotamia e gran parte delle regioni attorno all'Armenia) lasciò il posto ad una prudente azione diplomatica, che tendeva ad accrescere per vie pacifiche l'influenza romana sulle regioni non direttamente sottomesse.

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All'epoca dell'imperatore Traiano (98-117 d.C.) l'impero raggiunse la sua massima estensione: una linea di difesa quasi ininterrotta fu costruita dalle legioni romane a protezione delle regioni di confine contro le incursioni dei popoli nomadi e seminomadi che premevano sul Reno e sul Danubio. Con l'ingrandimento e il consolidamento dell'impero, il peso politico ed economico di Roma e dell'Italia diminuì a favore delle province. Questo fatto sollecitò la concessione ai provinciali di privilegi e di riconoscimenti da parte degli imperatori, finché nel 212 d.C. l'imperatore Caracalla estese la cittadinanza romana a tutto l'impero.

Trapani Le conquiste romane fino alla morte di Cesare (44 a.C.)

LE PROVINCE

In ogni provincia gli abitanti conservavano i propri costumi e non erano neppure costretti a prestare servizio militare. Erano tuttavia tenuti a pagare una speciale tassa e dovevano essere sottoposti a un magistrato romano che dapprima era un pretore e poi un proconsole o propretore che aveva tutti i poteri civili e militari. La mancanza di controllo su questi magistrati che potevano essere chiamati a render conto del loro operato solo alla fine del loro mandato, creò casi di gravi abusi, perché la carica significò spesso un rapido modo per arricchire.

POLITICI E MILITARI

Un uomo di famiglia contadina, Caio Mario, grazie alle sue imprese vittoriose contro Giugurta, re della Numidia, riuscì nel 107 a.C. a farsi eleggere alla suprema carica di console divenendo anche il capo riconosciuto del partito democratico: rieletto console ininterrottamente dal 104 al 100 a.C., si segnalò per le sue vittorie sulle popolazioni germaniche dei Cimbri e dei Teutoni. Per prima cosa egli affrontò la crisi dell'esercito istituendo il servizio volontario retribuito, che permetteva anche ai nullatenenti di entrare a far parte dell'esercito. La riforma di Mario non ebbe solo una rilevanza militare, ma anche politica, perché da allora in poi i comandanti militari, che ormai erano anche i capi delle fazioni politiche, potevano contare su un seguito di soldati fedeli e soprattutto interessati al successo politico del loro capo da cui potevano sperare di trarre grossi vantaggi (bottino di guerra, concessioni di terre, ecc.). In questo modo i metodi della lotta politica furono sconvolti; i contrasti di classe e di partito divennero contrasti di gruppi militari e trascinarono la repubblica sul terreno della guerra civile. Il Senato, che era la roccaforte delle forze conservatrici, contrappose a Mario il giovane aristocratico Cornelio Silla; tra i due si aprì una contesa per il comando di una spedizione militare in Asia, che culminò nella marcia vittoriosa delle legioni di Silla su Roma. Mario fu costretto a rifugiarsi in Africa. Ma quando Silla tornò in Asia il partito democratico riprese forza e a Roma vi fu un'ondata di persecuzioni contro la nobiltà senatoria cui seguì, con il ritorno di Silla in Italia, una sanguinaria vendetta degli aristocratici con le famose tavole di proscrizione, che promettevano un compenso in denaro a chiunque avesse ucciso le persone proscritte. Silla si fece proclamare dittatore a tempo indeterminato e modificando la costituzione dello Stato (la dittatura era sempre stata una carica eccezionale, della durata di sei mesi), riaffermò su tutta la società il potere dell'aristocrazia senatoria. I tribuni della plebe e le assemblee popolari furono quasi esautorati; fu vietato ai consoli e ai pretori di comandare l'esercito e di allontanarsi da Roma durante l'anno del loro consolato. Fu rinforzato il Senato portandone il numero dei membri a 600 e stabilendo che chiunque avesse raggiunto la carica di questore avesse diritto di farne parte. Dopo la morte di Silla il Senato poté contare su un giovane nobile condottiero, Gneo Pompeo; costui aveva già dimostrato le sue doti eccezionali nel sedare una delle più gravi e periodiche ribellioni della Spagna e nello sconfiggere definitivamente gli ultimi focolai di resistenza degli schiavi che si erano ribellati con Spartaco nel 73 a.C. Le rapide ed audaci vittorie contro i pirati che infestavano il Mediterraneo e la conquista di alcune regioni orientali aumentarono a tal punto il prestigio e la popolarità di Pompeo che lo stesso Senato, temendo di non poterlo più controllare, tentò di limitarne il potere. In questa situazione tra Pompeo, Crasso, rappresentante del ricchissimo ceto dei cavalieri, e Cesare, esponente del partito democratico, si formò un triumvirato, cioè un accordo di potere di carattere privato, che stabiliva un impegno comune per dirimere le questioni politiche importanti (60 a.C.).

La divisione delle competenze fra i triumviri non impedì tuttavia che i contrasti esplodessero anche più violenti: la conquista della Gallia Transalpina (l'odierna Francia) felicemente conclusa da Cesare costituì un successo di tale prestigio per il partito democratico da indurre Pompeo a farsi nominare console unico ed il Senato ad ordinare a Cesare di lasciare il comando dell'esercito. Come a suo tempo aveva fatto Silla, Cesare marciò su Roma e costrinse la fazione senatoria, con Pompeo in testa, a rifugiarsi in Grecia ed in Oriente, dove venne raggiunta e sconfitta dalle truppe fedeli a Cesare (battaglia di Farsalo, 48 a.C.). La vittoria assoluta di Cesare dovette essere riconosciuta dal Senato, che lo proclamò dittatore a vita: Cesare invece di procedere alla restaurazione repubblicana, accentrò su di sé tutti i poteri. Cesare emanò numerose leggi di riforma dello Stato. L'opera di riforma fu interrotta dalla reazione di alcuni elementi aristocratici (Bruto e Cassio) che, temendo una tirannia di Cesare, e soprattutto preoccupati che la nobiltà dovesse perdere i privilegi politici che le vecchie strutture della città-stato le accordavano, congiurarono per assassinare Cesare (44 a.C.). La ripresa delle guerre civili fu evitata solo perché il Senato si affrettò a riconoscere il nuovo accordo di potere questa volta sancito da una magistratura, una dittatura politico collegiale (secondo triumvirato, 43 a.C.), che fu concluso da tre personalità che si proponevano di raccogliere l'eredità di Cesare: Marco Antonio, fedele seguace di Cesare, Cesare Ottaviano, figlio adottivo dello stesso Cesare, ed Emilio Lepido, governatore della Gallia Narbonese e della Spagna Citeriore. La politica di Antonio in Egitto (le sue nozze con la regina Cleopatra, il sospetto che egli volesse dar vita ad un impero separato da Roma) alimentarono la rivalità di Ottaviano che convinse il Senato a far guerra ad Antonio. La vittoria su Antonio, sconfitto definitivamente nella battaglia navale di Azio del 31 a.C. e costretto al suicidio (come poi anche la regina Cleopatra) permise ad Ottaviano di venire incontro al desiderio diffuso che fosse finalmente assicurata la pace e l'ordine. Egli inoltre non impose scopertamente la sua autorità al Senato e non abolì le istituzioni repubblicane che continuarono almeno formalmente ad esistere. Ottaviano semplicemente mirava ad occupare via via e ad accentrare su di sé tutte le cariche più importanti: console, pontefice massimo, proconsole, tribuno della plebe, censore. Ma ormai la costituzione repubblicana era superata e si era passati ad un regime diverso: l'impero. Il potere pressoché assoluto consentì ad Ottaviano (chiamato dal 27 a.C., imperatore Cesare Augusto), di assicurare, per la prima volta da secoli allo Stato romano, un lungo periodo di pace interna ed esterna.

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LA GUERRA SOCIALE

Fu così chiamata la rivolta dei Socii, cioè dei popoli dell'Italia centrale e meridionale, che capeggiati dai Sanniti e dai Marsi diedero vita ad una lega con capitale Cofimio, città situata nell'odierno Abruzzo. Il problema che aveva fatto scoppiare l'insurrezione era quello della cittadinanza che era stato sollevato già da Caio Gracco e poi da Livio Druso. Morti ambedue gli uomini politici che avevano proposto di concedere la cittadinanza a tutti gli Italici, era scoppiata la rivolta che aveva assunto il carattere di una secessione. Per tre anni (dal 90 all'88 a.C.) gli insorti impegnarono i Romani in una guerra logorante e sanguinosa, finché Roma dovette piegarsi a concedere la cittadinanza a tutti i popoli che non si erano ribellati, a quelli che avevano già deposto le armi e a quanti, membri di una comunità italica, ne avessero fatto domanda entro sessanta giorni. Poi iniziarono le campagne militari contro i superstiti ribelli che erano rimasti in pochi. Fu Silla, console nell'88 a.C. a espugnare Nola, l'ultima città controllata dagli insorti. La guerra sociale era stata vinta da Roma, ma gli Italici, da Rimini alle coste meridionali della Calabria, avevano ottenuto la desiderata cittadinanza. Questo provvedimento, rendendo più acute le tensioni sociali e politiche, accelerò il passaggio dalla repubblica ad un nuovo regime politico.

LA CONGIURA DI CATILINA

Lucio Sergio Catilina era un ufficiale di Silla che durante le guerre civili si era messo in luce per il coraggio e la mancanza di scrupoli; dissipate tutte le sue ricchezze si era posto a capo degli scontenti e aveva assunto atteggiamenti contrari alla nobiltà e al Senato. Nonostante l'audacia e le promesse demagogiche (aveva promesso la cancellazione generale dei debiti) non era riuscito a diventare console perché il Senato gli aveva preferito Cicerone. Aveva allora preso un atteggiamento minaccioso ed era sembrato che volesse usare la forza contro la repubblica; Cicerone lo aveva pubblicamente accusato di cospirare contro il Senato con una famosa orazione e Catilina era stato costretto a fuggire da Roma. Raggiunto dall'esercito in Toscana dove aveva raccolto delle truppe fu sconfitto e ucciso (62 a.C.).

I GRACCHI

I più avveduti tra i Romani si rendevano conto che il latifondo distruggeva la piccola proprietà e oltre a produrre un'acutissima crisi sociale e militare metteva in pericolo la stessa sopravvivenza delle istituzioni repubblicane. Per impedire tutto questo, e quindi per ricostruire una classe di piccoli proprietari, era necessaria una riforma agraria che limitasse il possesso dell'agro pubblico e distribuisse la parte restante ai cittadini nullatenenti, che in larga parte si erano trasferiti a Roma. I fratelli Tiberio e Caio Gracco, discendenti da parte di madre dalla nobile famiglia degli Scipioni, si accinsero a questa impresa che tuttavia non giunse a compimento per l'accanita resistenza del partito aristocratico, che li denunciò come sovvertitori dell'ordine pubblico ed aspiranti tiranni. Tiberio Gracco fu ucciso durante uno scontro tra le opposte fazioni nel 133 a.C.; Caio dieci anni più tardi ripeté il tentativo cercando di creare una più vasta alleanza di forze sociali contrarie al Senato. Ma quando Caio propose la concessione della cittadinanza agli Italici per poter distribuire loro le terre incolte e sanare così la crisi dell'agricoltura italica, tutte le forze politiche (plebe e cavalieri) che egli aveva cercato di coalizzare contro il Senato si ribellarono all'idea di dover spartire con altri i diritti derivanti dalla cittadinanza. Caio pose fine alla sua vita facendosi uccidere da un suo fedele seguace per non cadere nelle mani dei suoi nemici. La via delle riforme, che avrebbe dovuto sanare la crisi dello Stato romano, era sbarrata proprio dallo spirito conservatore dei Romani, che non volevano rinunciare alla distinzione tra cittadini e non cittadini.

GIULIO CESARE

Di Giulio Cesare, il grande generale, l'uomo con cui finì la repubblica, l'ultimo capo del partito democratico, conosciamo l'aspetto, il carattere, le frasi più celebri, le imprese. A descrivere il personaggio si sono impegnati molti storici a lui contemporanei o appena successivi, primo fra tutti Cesare stesso, scrittore assai abile ed apprezzato nella storia della letteratura latina. Un ritratto vivace appare dalle sue opere: De bello gallico (Commentari della guerra gallica), in sette libri dove narra la conquista della Gallia Transalpina, e De bello civili (Commentari della guerra civile), in tre libri di sobria cronaca dello scontro con Pompeo e con il partito aristocratico. I biografi Plutarco e Svetonio, vissuti fra il I e il II secolo d.C., e lo storico Dione Cassio, vissuto fra il II e il III secolo d.C., concordano nel presentarlo intelligentissimo e di raffinata educazione, piacevole nel tratto, ammirabile nel parlare in pubblico, nello scrivere, nel conversare. Giulio Cesare, nato nei primissimi anni del I secolo a.C. (100 o 102 a.C.) dall'antica e nobile famiglia Giulia, si vantava di discendere da Julo, figlio di Enea. Da giovane partecipò alla vita politica come era nel costume dei figli delle classi agiate e patrizie, ma l'essere nipote di Mario gli creò non pochi problemi in una Roma dove dominava Silla, che ben volentieri si sarebbe sbarazzato di lui. Fu così costretto a simulare le proprie intenzioni politiche, anche se l'ascendenza lo spingeva fra le file del partito democratico. Alto di statura, bianco di carnagione, precocemente calvo, col viso scavato, Cesare sapeva di possedere grandi qualità ed era ambiziosissimo; si racconta al proposito che si commuoveva davanti alla statua di Alessandro Magno perché non aveva ancora fatto nulla a un'età in cui quel grande aveva già conquistato il mondo. Disponendo di poco denaro, indispensabile per far carriera politica, fu aiutato da Crasso; e il suo momento venne quando, col primo triumvirato gli fu affidato il comando delle legioni in Gallia.

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CESARE E LA GUERRA GALLICA

Cesare stesso, usando la terza persona, racconta di come, opponendo il suo rifiuto alle richieste degli Elvezi di stabilirsi nella Gallia Narbonese amministrata dai Romani, provocasse la guerra (58 a.C.). Sconfitti gli Elvezi, continuò la fulminea guerra sbaragliando gli Svevi, una tribù germanica guidata da Ariovisto. Fissati quindi i nuovi confini al fiume Reno, conquistò i territori dei Belgi e sbarcò in Britannia giungendo fino al Tamigi. Nel 53 a.C. gli Arverni, guidati da un abile comandante, Vercingetorige, si sollevarono e organizzarono una vasta confederazione contro i Romani; Cesare fu così costretto a riconquistare la Gallia. Lo scontro finale si ebbe ad Alesia: le legioni di Cesare che assediavano la città si trovarono a loro volta assediate dagli altri Galli giunti in soccorso di Vercingetorige. Cesare stesso racconta l'episodio: ... Cesare allora si affrettò per essere presente al combattimento. Quando lo videro arrivare riconoscendolo dal colore del mantello che solitamente portava in battaglia e videro le torme di cavalieri e lo coorti da cui si era fatto seguire, i nemici si lanciarono all'attacco. Entrambi gli eserciti elevarono alte grida e un gran clamore rispose dal vallo ed a tutte le fortificazioni. I nostri scagliarono i giavellotti e diedero mano alle spade. All'improvviso apparve alle spalle dei nemici la cavalleria; altre coorti si avvicinavano. Inseguiti dai cavalieri i Galli volsero in fuga. Vi fu una gran strage. [...] Quelli della città, vista la strage e la fuga dei loro compagni, perduta ogni speranza di essere liberati, ritirarono le truppe dalla linea romana che essi attaccavano. Appena inteso il segnale di ritirata, i Galli dell'armata di soccorso uscirono in massa dal campo e si diedero alla fuga. [...] Furono mandati parlamentari a Cesare per le trattative. Cesare ordinò che venissero consegnate le armi e i principi della città. Egli installò il suo seggio sulle fortificazioni, davanti al campo: là gli furono condotti i capi dei Galli, gli fu consegnato Vercingetorige e gli furono portate le armi...

CESARE E LA GUERRA CIVILE

Morto Crasso nella guerra contro i Parti, l'accordo tra Cesare e Pompeo si ruppe; si infittirono gli scontri tra i sostenitori del partito democratico e quelli del partito aristocratico. Il senato temendo una sommossa affidò la repubblica a Pompeo. ... Conosciuti questi fatti, Cesare arringa i soldati. Ricorda le ingiustizie degli avversari contro di lui in ogni occasione; si lagna che essi abbiano trascinato e pervertito Pompeo per gelosia di lui e per denigrarlo, mentre egli aveva sempre favorito e aiutato la dignità di Pompeo. Si lamenta che sia stata introdotta una nuovissima norma nella repubblica con l'impedire e soffocare con le armi il diritto di veto dei tribuni che pure, anni prima, era stato ristabilito con le armi. Silla che aveva spogliato di ogni potere i tribuni, tuttavia lasciò libero il diritto di veto; Pompeo che, a quanto pare, aveva restituito le prerogative perdute, ora toglieva anche quelle che i tribuni avevano prima... Ottenuta la fiducia dei soldati Cesare passò il Rubicone, il fiume che segnava il confine tra l'Italia e la Gallia Cisalpina: era la guerra civile. Cesare sconfisse i pompeiani in Spagna e direttamente Pompeo a Farsalo (48 a.C.) in Tessaglia. In fuga Pompeo trovò la morte in Egitto, per ordine del re Tolomeo XIV che voleva ingraziarsi Cesare. Il gesto non gli servì perché Cesare, quando giunse in Egitto, si scontrò con Tolomeo, che morì in fuga: sul trono d'Egitto Cesare pose Cleopatra insieme al fratello minore Tolomeo XV e allacciò una relazione amorosa con la regina d'Egitto. Padrone dei destini di Roma riappacificata la repubblica, Cesare ottenne dal Senato il titolo di dittatore per dieci anni, il consolato e il titolo di imperator a vita.

LE IDI DI MARZO

Gli avversari di Cesare organizzarono una congiura per liberarsi di un uomo che era accusato di volersi far proclamare re. Sotto la guida di Cassio, un pompeiano, e di Bruto, che Cesare amava come un figlio, passarono all'azione il 15 marzo del 44 a.C., giorno in cui Cesare doveva presenziare ad una seduta in Senato. I congiurati lo attesero nella Curia, ove si riuniva il Senato e proprio sotto la statua di Pompeo lo assalirono, come racconta Plutarco. ... Levarono le spade nude in mano e lo circondarono. Dovunque Cesare volgesse lo sguardo trovava un ferro diretto a colpirlo al viso e agli occhi. Inseguito qua e là come una fiera rimase impigliato in tutte quelle mani, poiché ognuno voleva partecipare al sacrificio e gustarne il sangue. Anche Bruto stesso, perciò gli vibrò un colpo all'inguine. Alcuni storici raccontano che Cesare si difese dagli altri traendo il suo corpo or qua or là per la sala e gridando a squarciagola, ma quando vide Bruto con la spada sguainata in mano, tirò giù la veste sulla faccia e si accasciò, fosse un caso o fossero stati gli assassini a spingervelo, contro il piedistallo su cui era poggiata la statua di Pompeo.

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LA FAMIGLIA ROMANA

La familia romana, come l'organizzazione dello Stato e quella della società, ha avuto nell'arco dei secoli della storia di Roma, una sua evoluzione, difficile da descrivere compiutamente, sia perché solo recentemente si è risvegliato da parte degli studiosi un interesse più articolato per queste ricerche, sia per la difficoltà di interrogare le fonti antiche o la documentazione pervenutaci attraverso le opere letterarie, le raccolte di diritto, i documenti epigrafici e i reperti archeologici. Dal punto di vista del diritto si possono tracciare i tratti principali. Soprattutto nei primi secoli della sua storia, la familia aveva una struttura diversa da quelle attuali; era costituita da un gruppo di persone e da un complesso di cose (patrimonio, culto religioso ed altre) sottoposte a un capo, il pater familias, che di regola era colui che non aveva altri ascendenti vivi in linea maschile e poteva quindi essere il padre, l'avo paterno o il bisavolo. Il pater familias era il padrone incontrastato ed assoluto delle persone e cose sottoposte, sulle quali esercitava una sovranità incondizionata e perpetua (fino alla sua morte) che si chiamava patria potestas o anche manus (che significa potere), con riferimento in particolare al potere sulle donne. La familia con a capo il pater era perciò un organismo che aveva una sua autonomia rispetto allo Stato, con proprie regole dettate dai costumi e dalle tradizioni familiari. La potestà paterna si esercitava sui figli e sulle figlie e sui loro discendenti; sulla propria moglie, se era in manu, cioè sposata con un atto solenne (la conventio in manum = «il passaggio di proprietà») che comportava il trasferimento della donna dalla famiglia originaria a quella del marito e lo spezzarsi del vincolo di parentela (e delle aspettative ereditarie) con la famiglia di nascita; sulle mogli dei figli se erano in manu. La patria potestà si esercitava inoltre sulle persone ammesse nella famiglia come figli mediante un atto di volontà del padre, cioè attraverso l'adozione di un filius di un'altra famiglia oppure tramite l'assunzione come filius di un altro pater familias che rinunciava alla propria patria potestà per entrare nella nuova famiglia con tutti i suoi dipendenti: tale atto di particolare gravità e solennità (adrogatio) si svolgeva davanti al comizio curiato. Sottoposti alla potestà del pater erano anche gli schiavi e i figli altrui ridotti in una condizione di schiavitù di fatto (per lo Stato rimanevano cittadini liberi), perché venduti a lui dal loro pater o ceduti in espiazione di un delitto. Il potere del pater comportava la possibilità di disporre liberamente delle persone sottoposte. Riguardo ai figli si prevedeva espressamente il diritto di vita e di morte da parte del pater già nelle leggi dei re, mantenuto fino al tardo impero. Fin dalla nascita il pater poteva decidere se accettare il nuovo figlio (o figlia) oppure se farlo esporre affinché perisse o fosse raccolto da altri. Il pater poteva inoltre processare e punire direttamente tutti i sottoposti anche con la morte, in una specie di tribunale domestico. Aveva il diritto di vendere le persone libere e di affrancare gli schiavi con l'atto solenne della manomissione (manumittere = «rinunciare al potere»). Il pater familias era l'esclusivo titolare del patrimonio e spettavano a lui anche gli incrementi patrimoniali dovuti alle persone a lui sottoposte. Poteva anche dare in matrimonio i figli e le figlie senza il loro consenso. La patria potestas cessava solamente con la morte del pater; allora i sottoposti liberi diventavano sui iuris = «di loro diritto», ossia non più soggetti all'altrui diritto e ciascun figlio maschio diventava a sua volta pater familias.

I giuristi elaborarono una complessa serie di atti solenni che permettevano al pater di far cessare in vita la patria potestà su un figlio, cioè di emanciparlo (emancipatio era l'insieme degli atti che portavano all'emancipazione), ma i figli emancipati perdevano il diritto all'eredità paterna e diventavano estranei alla famiglia. L'evoluzione della società romana mitigò gradualmente i poteri assoluti della patria potestà, fino a sgretolarli quasi del tutto nel tardo impero. Già in età repubblicana, per opera dei censori e qualche volta dei tribuni della plebe, lo Stato tese a frenare gli abusi della potestà paterna e nell'età imperiale in tal senso operarono gli interventi di alcuni imperatori. Il diritto di vita e di morte rimase tuttavia in vigore fino al tardo impero e fu abolito definitivamente da una costituzione degli imperatori Valentiniano e Valente nel 367 d.C.; poco dopo fu vietata l'esposizione dei neonati. Il diritto di vendere i figli fu limitato dall'imperatore Costantino ai soli neonati. Sul finire della repubblica anche i figli emancipati furono ammessi all'eredità paterna e con l'inizio dell'età imperiale si venne affermando il principio di una capacità patrimoniale autonoma dei figli. Le donne sposate si sottrassero alla patria potestà del marito quando si affermò, verso la fine dell'età repubblicana, il matrimonio svincolato dalla manus che permetteva di mantenere il vincolo parentale con la famiglia di nascita.

Trapani Bassorilievo dell'"Ara pacis"

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PRENOME, NOME, COGNOME

Dall'organizzazione in gens nasceva l'uso di designare un cittadino romano con tre nomi; il nome personale o prenome, apparteneva al singolo individuo, ad esempio Marco, Lucio, Gaio, ecc.; il nome indicava la gens cui si apparteneva, ad esempio Cornelia (= della gens Cornelia) o Tullia o Fabia, ecc.; il cognome contrassegnava un ramo della gens da cui si proveniva ed aveva quasi sempre origine da un soprannome che connotava un aspetto particolare come ad esempio Scipio = «bastone», Cicero = «cece», ecc.

GENS, TRIBÙ

Una gens era formata da più famiglie unite da vincoli di consanguineità. Era quindi un gruppo che si considerava discendente da un unico capostipite che poteva essere anche identificato in un eroe o in una divinità. In origine tre erano le tribù in cui tutti i cittadini erano ripartiti: i Ramni, i Tizi e i Luceri. Anticamente le tribù funzionavano come organi di reclutamento dell'esercito. Alle tre tribù etniche si sostituirono, secondo la tradizione al tempo di Servio Tullio le tribù territoriali.

I CLIENTI

Erano persone di umile condizione sociale, spesso provenienti dalla campagna o di origine straniera, che si ponevano sotto la protezione di qualche cittadino potente e ricco; gli tributavano ossequio e devozione e si incaricavano del disbrigo di piccole incombenze. Durante le competizioni per le elezioni rappresentavano i galoppini della campagna elettorale. In cambio godevano dell'appoggio della famiglia; riuscivano così a mettere assieme quanto bastava per vivere. La mattinata del ricco iniziava di solito con il saluto dei suoi clientes.

DAL PRINCIPATO AL DOMINATO

Ottaviano si era imposto il compito di pacificare lo Stato sconvolto da sanguinose guerre civili; perciò, una volta ottenuto lo scopo, i pieni poteri di cui egli godeva come triumviro avrebbero dovuto cessare; dopo la vittoria su Antonio, egli proclamò restaurata la repubblica e dichiaro di voler ritornare alla vita privata. Fu lo stesso Senato, nella seduta del 13 gennaio del 27 a.C., a pregarlo di rimanere a dirigere lo Stato. Ciò avvenne in una forma del tutto particolare: infatti egli prese ad esercitare un insieme di poteri politici, militari e religiosi che non aveva riscontro in alcuna delle magistrature tradizionali, singolarmente prese, ma che gli proveniva dall'accentrare su di sé diverse cariche: quelle di console, di proconsole, di tribuno, di censore, di pontefice massimo e di principe del Senato, con facoltà di prendere per primo la parola. Infine, il conferimento dei titoli di Augusto e di padre della patria, attribuì alla personalità di Ottaviano un carattere religioso: di fatto dunque sotto le forme della Repubblica restaurata, Ottaviano, inaugurò una forma di governo prettamente monarchica, anche se aveva rifiutato il titolo di re o di dittatore a vita, per evitare pericolose reazioni tra il popolo e i senatori. Con Augusto ebbe inizio un regime che tendeva a favorire l'incremento del ceto medio; la conquista romana aveva unificato tutta l'area mediterranea in un unico, grande sistema economico, che aveva bisogno di pace e di rapporti sociali tranquilli per prosperare. E il governo di Augusto tenne fede alle aspettative. Allo scopo di assicurare la sottomissione degli schiavi, Augusto predispose una serie di provvedimenti: fu limitato il numero degli schiavi che potevano essere liberati da uno stesso padrone, furono restaurate l'unità e l'autorità della famiglia, da cui gli schiavi (che ne erano membri) si erano spesso sottratti durante le guerre civili e durante le rivolte. L'esercito fu riorganizzato assumendo definitivamente carattere stanziale e permanente: Ottaviano assegnò appezzamenti di terra, in Italia e nelle province, a 40.000 veterani. Contemporaneamente, l'avvio di grandi opere monumentali (acquedotti, templi, portici, fori, ecc.) valse a dare occupazione ad una parte della plebe e ad arricchire gli appaltatori, e quindi a rinsaldare il potere del principe attraverso l'appoggio di queste due classi. In questa situazione le vecchie istituzioni repubblicane sopravvivevano solo come pura forma, come facciata, prive di potere: i cittadini stessi persero via via coscienza dei loro diritti politici e si abituarono a considerarsi sudditi dell'imperatore, che attraverso la sua burocrazia disponeva e decideva d'ogni cosa, dalle norme di vita ai problemi dell'economia, dall'organizzazione dell'esercito ai giochi pubblici ed ai riti religiosi. La divinizzazione di Roma e di Augusto, iniziata dai popoli orientali, e la progressiva confusione della persona e del seguito privato dell'imperatore con le strutture politiche dello Stato dovevano presto condurre ad un vero e proprio potere assoluto, simile a quello delle monarchie orientali vinte da Roma. L'età di Augusto venne celebrata come la nuova età dell'oro, destinata a rendere felici gli uomini, da Virgilio, nel suo poema epico l'Eneide.

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VIRGILIO E L'ENEIDE

Virgilio era nato nel 70 a.C. in prossimità di Mantova da gente di campagna. A dodici anni si trasferì a Cremona e dopo aver preso la toga virile studiò a Milano e a Roma. D'animo schietto, amante della terra, profondamente religioso, Virgilio rifiutò di dedicarsi alla vita politica. Preferì la filosofia seguendo, a Roma e a Napoli, la scuola dell'epicureo Sirone e, più tardi, approfondendo le tradizioni etrusche, l'orfismo, le dottrine mistiche. Perdute le proprietà agresti, fu costretto a rinunciare a quella vita semplice che canterà nelle Bucoliche e nelle Georgiche e si tuffò nei circoli letterari della capitale dove venne aiutato da Mecenate, amico di Augusto. Per dieci anni (29 a.C. - 19 a.C.) si dedicò completamente alla stesura dell'Eneide, in cui narrò la leggenda dei progenitori di Roma. Desideroso di vedere i luoghi che aveva cantato, viaggiò in Grecia. Ammalatosi durante la traversata di ritorno, morì a Brindisi nel 19 a.C. Compito dell'Eneide era quello di elogiare Augusto per le imprese che aveva compiuto. Agli occhi dei contemporanei. Augusto era il grande pacificatore, colui che aveva allargato l'impero e che aveva ripristinato la concordia e la prosperità tra i Romani. Roma non era mai stata così potente e florida come sotto quel principe. In ciò Virgilio vide un segno della provvidenza divina che aveva operato per secoli, da quando Enea era sbarcato alle foci del Tevere per fondare quella stirpe da cui sarebbe disceso Augusto. Nella sua opera, Virgilio rappresenta i Troiani non come invasori ma come esuli sofferenti, che ricercano una nuova patria. Lo stesso Enea è «pio»: invece di rimanere a Troia o a Cartagine, presso l'amata regina Didone, accetta di combattere una guerra orrenda per compiere quel destino, la fusione di Troiani e Latini, a cui è stato chiamato. L'Eneide s'apre con la descrizione di una tempesta scatenata contro la flotta troiana da Giunone. Enea e i suoi sbarcano presso Cartagine, accolti splendidamente da Didone. Alla sua corte Enea racconta la storia dell'inganno dei Greci per conquistare Troia e le ultime, tragiche, ore della città. In fuga con pochi profughi Enea ha toccato molte terre per cercare quella patria che l'oracolo di Apollo ha chiamato «l'antica madre». Didone, che ha ascoltato la storia di Enea, si è innamorata dell'eroe, tanto da spingersi al suicidio quando Enea, obbligato dagli dèi, è costretto a riprendere il mare. Dopo i giochi funebri in onore del padre, Anchise, Enea giunge a Cumae si reca dalla Sibilla per discendere negli inferi e conoscere il futuro. È lì che Enea incontrerà, oltre alle persone care, le anime di coloro che in futuro renderanno glorioso il nome di Roma, da Romolo ad Augusto. Approdato nel Lazio, Enea ottiene dal re Latino la mano di sua figlia, Lavinia. Ma la giovane, già promessa sposa a Turno, re dei Rutuli, sarà la causa di un odio mortale tra Troiani e Latini che sfocerà in guerra aperta. Enea otterrà l'alleanza di Evandro, il cui piccolo villaggio sorge sui luoghi dove un giorno crescerà la città di Roma. Intanto Turno ha successo: assalta il campo troiano, cerca di incendiare le navi nemiche che la dèa Cibele trasformerà in ninfe marine e ucciderà Pallante, il figlio di Evandro, che Enea aveva promesso al padre di proteggere. Anche i Volsci scendono in guerra contro i Troiani e la loro amazzone, Camilla, compie gesta eroiche fino a quando verrà uccisa a tradimento dall'etrusco Arunte. Per evitare altre morti, generosamente Turno s'offre per un duello con Enea che decida le sorti della guerra. Lo scontro è terribile ma alla fine Turno crolla a terra chiedendo al vincitore di risparmiargli la vita. Enea è titubante, ma vedendolo cinto delle spoglie di Pallante, lo trafigge per rispetto all'ombra dell'amico caduto.

GLI ORGANI DI GOVERNO DEL PRINCIPATO

Nel passaggio dalla repubblica al principato gli organi di governo repubblicani continuarono ad esistere formalmente, ma subirono gradualmente un impoverimento delle loro funzioni, assorbite sempre di più dai nuovi organi instaurati a partire da Augusto. I comizi in particolare persero progressivamente le loro funzioni nell'arco del I secolo e le magistrature si svuotarono dei loro poteri, restando in generale come cariche onorifiche. Il Senato perse la funzione di principale detentore del potere politico, che fu assorbita dal principe e acquisì competenze legislative e sviluppò dall'originaria funzione consultiva il potere legislativo (il senatus consultum ebbe valore di legge); continuò ad essere riservato ai Senatori il rivestimento delle antiche magistrature repubblicane (cursus honorum senatorio: questura, edilità patrizia o plebea, tribunato delle plebe, pretura, consolato).

PRINCEPS = «PRIMO CITTADINO»

I poteri costituzionali attribuiti al principe a partire da Augusto erano il potere tribunizio ed il comando proconsolare, cioè il supremo comando militare proprio dei consoli. Con il potere tribunizio concessogli a vita il principe aveva l'inviolabilità, il potere di convocare il concilio della plebe e il Senato, il diritto di veto sugli atti di governo di qualsiasi magistrato. Con il comando proconsolare aveva il potere supremo sulle province e sull'esercito. Le altre competenze assunte dal principe riguardavano la nomina dei suoi funzionari, il comando diretto su alcune province, la gestione di una cassa privata (fiscus Caesaris), l'emanazione di provvedimenti normativi chiamati «costituzioni imperiali». Il principe creava un suo tribunale che aveva la giurisdizione penale e civile, su richiesta delle parti e per appello contro le decisioni di altri tribunali.

FUNZIONARI

I funzionari dell'apparato burocratico e amministrativo imperiale erano nominati direttamente dal principe ed il loro incarico era protratto a discrezione dello stesso. Erano stipendiati ed avevano la dignità equestre. Si distinguevano i procuratori addetti alle diverse funzioni della cancelleria imperiale o al governo di alcune province procuratorie, e ad un livello più alto i praefecti, con compiti amministrativi o con comandi militari.

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PREFETTO DEL PRETORIO

Comandava la guardia del corpo del principe e aveva funzioni di giurisdizione penale e funzioni finanziarie. In seguito divenne il grado supremo dei funzionari e giudicava nei processi di appello come il principe.

PREFETTO DEI VIGILI

Era il capo delle corti dei vigili (o corpo dei pompieri), aveva anche competenze giuridiche in alcune cause civili.

PREFETTO DELL'ANNONA

Sovrintendeva all'approvvigionamento del grano.

PREFETTO DEI VEICOLI

Era il direttore generale delle poste.

LEGATI

Erano governatori delle province imperiali, sottoposte al controllo del principe.

PREFETTO D'EGITTO

Governava l'Egitto che era una regione molto ricca, annessa all'impero non come provincia ma come proprietà personale dell'imperatore.

PREFETTO DELLA FLOTTA

Comandava una delle due flotte quella di Ravenna o quella di Miseno.

L'EDUCAZIONE A ROMA

Fino alla tarda età repubblicana, l'educazione del giovane avveniva in genere all'interno della stessa famiglia, affidata alla madre nella prima età (fino a sette anni), poi al padre e rispondeva ai valori fondamentali identificati nella temperanza (frugalitas), nella serietà (gravitas), nella fermezza, ma anche nella prudenza. Il senso della legalità, il culto degli antenati, il rispetto per i genitori, per la patria e per gli dei (atteggiamento che i Romani definivano pietas, con una forte accentuazione religiosa del termine) servivano a formare il carattere del buon Romano. L'apprendistato accanto al padre che lo portava con sé, anche nelle cerimonie più austere e nelle sacre processioni completava l'educazione. A 16 anni il giovane con una cerimonia solenne deponeva la toga praetexta, orlata di rosso, ed indossava la toga bianca, simbolo del raggiungimento dell'età virile. Probabilmente ancora prima della metà del III secolo a.C. furono aperte a Roma scuole pubbliche di tipo elementare. Con l'ellenizzazione della vita romana si organizzano sistemi di scuole sul modello delle strutture che funzionavano nella scuola greca del periodo ellenico. Tra i sette e gli undici, dodici anni il fanciullo segue la scuola primaria dove un litterator o primus magister gli insegna a leggere, scrivere, fare i calcoli. Il maestro, stipendiato dagli scolari non gode di molta considerazione; di solito è di umili origini. La coercizione e le punizioni sono il sistema più adottato per l'apprendimento: quando Orazio ricorderà le sue prime esperienze scolastiche, definirà il suo maestro plagosus = «picchiatore». L'insegnamento secondario era basato sulla letteratura e sul commento dei classici; il professore (gramaticus) è un po' più considerato e meglio pagato, circa quattro volte un magister. La scuola superiore ha lo scopo di insegnare l'arte oratoria, indispensabile per svolgere attività politica; il rethor latinus è un personaggio di un certo prestigio che diviene spesso la guida spirituale dell'allievo. A differenza della scuola di tipo greco non esistono insegnamenti di filosofia, di medicina o di materie tecniche impartite in latino. L'unica eccezione è rappresentata dallo studio del diritto.

Trapani Gli imperatori romani

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AL CENTRO DELL'IMPERO

La struttura della città di Roma derivò in parte dal carattere accidentato del terreno, ma soprattutto dal fatto che essa si formò attraverso l'unione di più villaggi. Quando fu prosciugata la pianura ai piedi dei colli Palatino, Campidoglio e Quirinale e fu preparato un sistema di canalizzazione sotterranea delle acque acquitrinose verso il mare (Cloaca Massima), fu costruito il foro, ossia il centro politico e commerciale. Qui sorsero gli edifici pubblici, la sede del Senato, i principali templi. Il sistema stradale seguiva la struttura del terreno, ma insieme anche le direttrici delle comunicazioni esterne: per esempio la via Sacra seguiva il displuvio tra i colli Palatino e Velia e metteva in comunicazione il foro e il Campidoglio (sede della fortezza e del tempio dedicato alla triade capitolina Giove Ottimo Massimo, Giunone e Minerva) con la valle in cui in epoca imperiale sorsero il Colosseo ed i Fori imperiali. La città dovette darsi presto un sistema di mura, che non segnava tuttavia il confine; davanti o dietro alla cinta muraria si estendeva una stretta striscia di terra chiamata pomerio; all'interno di essa non potevano tenersi i comizi centuriati; essa segnava anche il limite di là dal quale cessava il potere dei tribuni della plebe e non si potevano prendere gli aruspici urbani. Dal foro, il centro della vita cittadina, Roma si estese verso oriente: in età imperiale sorgevano sui colli, un tempo poco abitati, caseggiati, palazzi, opere pubbliche. Già in età repubblicana i magistrati preposti alle costruzioni pubbliche, edili e censori, e i generali vittoriosi cominciarono ad abbellire la città costruendo nel foro templi e portici ed adornando le piazze con le statue portate dalla Grecia. Infine, col potere personale (Silla, Cesare, Augusto, gli imperatori successivi) furono messi in atto vasti piani di risanamento della città vecchia, di costruzione di nuovi fori (di Cesare, di Augusto), di espansione monumentale verso nuovi centri, soprattutto verso il Campo Marzio. Nella Roma imperiale, accanto a zone a pianta regolare e molto spaziose continuarono ad esistere zone che mantenevano inalterate le vecchie caratteristiche di irregolarità e di ristrettezza di spazi; del resto si costruirono sempre edifici strettamente vicini. Il carattere monumentale, che in gran parte è ancora presente oggi nelle rovine che sono giunte fino a noi, fu impresso a Roma da grandi costruzioni che dovevano celebrare l'impero e gli imperatori: i templi, i fori, le basiliche civili, le colonne, gli archi di trionfo. La dimensione monumentale delle costruzioni pubbliche era legata ad un carattere tipico della vita romana che era quello di svolgersi in larga misura all'aperto. L'aspetto monumentale era poi accentuato dal contrasto con la ristrettezza degli spazi di cui in genere soffriva la città in rapporto al sempre crescente numero degli abitanti. Si calcola che, mentre all'epoca di Silla gli abitanti di Roma, compresi gli schiavi, erano circa 400.000, nei primi tre secoli dell'Impero fossero saliti a oltre 1.200.000. Con una popolazione così numerosa, Roma era certamente una delle maggiori metropoli del mondo. Inoltre la presenza degli stranieri, Greci, Siriaci, Ebrei (già all'epoca di Cesare si possono calcolare in 60-70.000) fece sempre più di Roma un punto di incontro e di fusione di costumi e di correnti culturali dei vari Paesi del Mediterraneo.

CASE E CITTÀ

In epoca imperiale, le profonde differenziazioni sociali avevano dato luogo alla formazione di quartieri popolari e di quartieri nobili (soprattutto il Palatino, che essendo la residenza degli imperatori divenne sempre più un quartiere aristocratico). Alcune zone del centro, caratterizzate dal piccolo commercio e dall'artigianato, erano quartieri misti che contenevano anche abitazioni signorili (domus). Giardini signorili (horti) sorsero sul Quirinale, sul Pincio, nel Campo Marzio e soprattutto sulla sponda destra del Tevere. I poveri abitavano in piccoli alloggi presi in affitto, che facevano parte di enormi isolati a più piani, le insulae. Secondo un documento catastale del IV secolo d.C., nella città di Roma c'erano 46.602 insulae e 1797 domus. Le insulae avevano in media una pianta di 300 metri quadrati ed erano alte 18-21 m; il rapporto tra area ed altezza rendeva spesso precaria la stabilità dell'edificio in cui i muri non superavano il mezzo metro di spessore. Capitava così che qualche insula crollasse: era un affare per i costruttori e gli speculatori. Crasso, uno dei triumviri con Cesare, accrebbe la sua fortuna con questi crolli: comprava a prezzo stracciato gli edifici distrutti e li ricostruiva con le sue squadre di muratori utilizzando le macerie. Le strutture interne erano prevalentemente in legno. Se a tale materiale si aggiunge la presenza di bracieri e torce e la cronica mancanza d'acqua, si può capire come il pericolo d'incendi a Roma fosse all'ordine del giorno. Nonostante l'imponente afflusso d'acqua in Roma, dovuto ai grandi acquedotti, le abitazioni dei poveri erano sprovviste d'impianti igienici. I poveri attingevano l'acqua alle fontane pubbliche e, per le loro necessità fisiologiche, si arrangiavano con vasi di coccio. Le abitazioni signorili erano profondamente diverse da quelle plebee: ad un solo piano, con un atrio ed un cortile interno da cui prendevano luce, con un'ampia disposizione di camere attorno al centro, erano nettamente isolate dall'esterno, protette dai rumori assordanti della vita cittadina e durante l'impero si trasformarono in vere e proprie ville urbane, con vasti porticati, bagni, fontane, templi ecc. I mobili all'interno della domus erano scarsissimi; si usavano letti per i banchetti (triclinium). Nelle case di lusso l'arredamento era costituito da tappeti, cuscini, vasellame e statue d'ogni tipo e materiale. Per ricchi e poveri il problema principale era quello del freddo invernale. Nelle domus si sbarrava ogni apertura con tende di pelle, privandosi della luce e si usavano grandi bracieri. Nelle insulae si usavano piccoli bracieri e fornelli, gli stessi che venivano utilizzati per cuocere il cibo. Di giorno Roma era una città chiassosa, piena di traffico pedonale ed era molto sporca; di notte erano pochissimi coloro che uscivano per le strade. La città non era illuminata ed era in balia dei malviventi. Non per questo era meno rumorosa. Una legge, voluta da Giulio Cesare, permetteva il traffico dei carri per l'approvvigionamento dei mercati solo di notte, anche per evitare incidenti durante il giorno. L'insula, era l'abitazione comune di coloro che non erano ricchi. I poveri abitavano ammassati in isolati enormi, a più piani, con grandi finestre sulle strade, vittime della esosità e della speculazione dei proprietari edilizi: chi era meno fortunato viveva in soffitte, nelle cantine, nei sottosuoli maggiormente esposti ai rumori, ma soprattutto ai rischi d'incendi e di crolli. Le abitazioni plebee erano prive di impianti idrici. Mentre le case della nobiltà potevano derivare l'acqua dalle condutture pubbliche, i poveri erano costretti ad attingere l'acqua dalle fontane numerosissime in Roma. La vita pubblica a Roma era incentrata nei fori, dove si andava per gli affari o per fare una passeggiata, per conoscere le novità, per leggere le disposizioni degli organi di governo colà esposte, per ascoltare oratori o filosofi; di solito nei fori, oltre ai templi, trovavano le basiliche, grandi costruzioni dove si trattavano gli affari commerciali e finanziari ed anche processi. Attigui ai fori erano solitamente i mercati. l bagni pubblici (termae), che servivano anche da palestre e da biblioteche, erano un altro luogo di ritrovo, dove spesso scrittori o poeti leggevano le loro opere. Sul finire della repubblica ed in tutto il periodo successivo vennero ad assumere un grande rilievo nella vita cittadina il teatro, l'anfiteatro e il circo. Il teatro romano era simile a quello greco: era formato da un'orchestra, uno spazio occupato dai sedili dei magistrati e dei senatori, da una cavea semicircolare costituita da gradinate per il pubblico, da una scena, dove si svolgeva lo spettacolo vero e proprio. L'anfiteatro era il luogo dove si svolgevano gli spettacoli cruenti dei giochi gladiatori. L'anfiteatro più celebre è il Colosseo iniziato da Vespasiano e terminato da Tito e da Domiziano. Si trattava di un'arena ovale, interamente circondata da gradinate capaci di ospitare fino a 50.000 persone. Per impedire che gli spettatori venissero infastiditi da pioggia o sole, sul Colosseo veniva montata un'enorme tenda, il velarium. Il circo consisteva in una lunga pista ellittica, divisa da un muretto, la spina, dove correvano i carri trainati da cavalli; tutt'intorno si ergevano delle gradinate in pietra. Il Circo Massimo, che sorgeva ai piedi dei palazzi imperiali, accanto al Palatino, era lungo 600 m e largo 200, poteva ospitare fino a 255.000 spettatori.

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PANEM ET CIRCENSES

I ricchi cittadini romani offrivano al popolo spettacoli a proprie spese al fine di ottenere voti alle elezioni oppure per ostentare la propria opulenza. In tal modo, insieme alla distribuzione del grano, l'aristocrazia romana blandiva la plebe sempre più numerosa che, abituata a tali privilegi, chiedeva a gran voce panem et circenses, appunto «pane e giochi del circo». Nei giorni festivi, che alla fine dell'impero erano ben 182 nel corso dell'anno, decine di migliaia di spettatori affollavano i circhi. I giochi comprendevano gare di corsa a cavallo con le bighe, di lotta, di caccia alle belve, di guerra; in qualche caso si tenevano addirittura nelle piste appositamente allagate, battaglie navali. Moltissimi schiavi venivano appositamente allenati. Erano i gladiatori, che dovevano combattere fino alla morte per il divertimento della plebe.

LA SCHIAVITÙ NEL MONDO ANTICO

La divisione del lavoro all'interno delle antiche civiltà mediterranee aveva portato alla formazione di una vasta categoria di individui, gli schiavi, che acquistati come merci venivano utilizzati in tutte le attività, in competizione e a volte sostituendo completamente il lavoro degli uomini liberi. Il grande sviluppo delle civiltà mediterranee anzi fu reso possibile proprio dalla presenza e dal lavoro degli schiavi. I debitori che non erano in grado di far fronte ai propri debiti, anticamente perdevano la loro libertà a favore dei creditori, ma il maggior numero di schiavi era fornito dalle guerre di conquista, con la riduzione in prigionia delle popolazioni vinte; quello degli schiavi divenne un vero e proprio mercato di manodopera a bassissimo costo. Specialmente nell'area mediterranea l'azione dei pirati, che facevano razzie sulle coste, contribuì notevolmente a rifornire tale mercato. Per potersi sviluppare le società schiavistiche avevano bisogno di una continua affluenza di schiavi dall'esterno e di un accrescimento degli scambi commerciali. Questa è una delle ragioni che spingevano alle incessanti guerre di conquista ed alla formazione dei grandi imperi, quello persiano prima, quello di Alessandro Magno ed infine quello romano. In ogni società i rapporti di produzione schiavistici non furono mai esclusivi: sussisteva in misura varia il lavoro libero dei contadini piccoli proprietari e degli artigiani, ma la concorrenza crescente degli schiavi tendeva a ridurlo progressivamente, tanto più quanto gli schiavi provenendo da popoli di avanzato sviluppo tecnologico possedevano elevate capacità professionali. Poiché generalmente le classi inferiori di cittadini (contadini, piccoli proprietari, artigiani ecc.) costituivano il nerbo dell'esercito e la base sociale dello Stato, la sostituzione degli schiavi agli uomini liberi nelle attività produttive portava come conseguenza la rovina di larga parte dei cittadini e determinava periodi di acuta crisi sociale e di guerre civili. A Roma i piccoli proprietari lottarono strenuamente per difendere la loro esistenza, ma, nonostante qualche riforma temporanea (le leggi agrarie dei Gracchi nel II secolo a.C.), finirono per essere cacciati dalle loro terre e andarono ad ingrossare le file della plebe urbana. Ormai anche i mestieri cittadini erano monopolio degli schiavi ed i plebei benché poveri, disprezzavano il lavoro manuale considerato indegno di cittadini romani e preferivano farsi mantenere dallo Stato, attraverso le periodiche distribuzioni di grano, o dalle grandi famiglie nobili cui prestavano i loro servigi ed i loro favori elettorali. A questo punto tutta la società si reggeva sul lavoro degli schiavi, e perciò tutti i cittadini, ricchi e poveri, erano interessati a mantenere l'oppressione sugli schiavi. Questo è il motivo che impediva ai cittadini poveri (a Roma la plebe) di appoggiare le lotte e le rivolte degli schiavi, che erano destinate quindi ad essere sconfitte e duramente represse (come avvenne nelle rivolte di Sicilia del 137 e del 101 a.C. e in quella di Spartaco del 73 a.C.). Per tutto il periodo delle conquiste mediterranee il commercio degli schiavi fu in continuo incremento: nel II secolo a.C. nel mercato di schiavi più famoso, l'isola di Delo, si arrivava a vendere fino a 10.000 schiavi al giorno, a prezzi diversi ed oscillanti a seconda delle loro qualità personali e della richiesta di manodopera. Il reclutamento avveniva anche attraverso la naturale discendenza degli schiavi: a Roma gli schiavi venivano allevati, istruiti e preparati per le varie mansioni a cui erano destinati. Gli schiavi erano impiegati nei lavori agricoli, in quelli domestici, nelle industrie (mulini, fabbriche di armi, botteghe artigiane, ecc.), nella costruzione delle case e delle navi ecc. Anche le professioni intellettuali (insegnanti, medici, musicisti ecc.) furono, specialmente dopo la conquista di Paesi culturalmente più evoluti di Roma, come la Grecia e i regni ellenistici, esercitate da schiavi. A Roma, oltre agli schiavi privati, vi erano quelli pubblici, addetti ai lavori nelle proprietà demaniali oppure usati come impiegati negli uffici (scribi, contabili ecc.). Considerati come cose, gli schiavi non avevano nessun diritto, secondo il diritto civile, e quindi i loro padroni, oltre a sfruttarli spesso in maniera anche più pesante degli stessi animali, potevano disporre a loro piacimento delle loro persone e della loro vita. Col passare del tempo le loro condizioni migliorarono: divennero più frequenti le possibilità di riscatto e soprattutto si moltiplicarono gli atti di liberazione ad opera degli stessi padroni. Non potevano tuttavia essere proprietari di beni (almeno fino ai primi secoli dell'impero) né avere una vera e propria famiglia: appartenevano infatti alla famiglia del loro padrone. Durante l'impero, l'alto numero di schiavi liberati, la decadenza e l'estinzione delle vecchie famiglie senatorie proprietarie di schiavi e soprattutto la cessazione delle guerre esterne, resero più difficile il reclutamento e più costoso il lavoro degli schiavi: inoltre la loro bassa produttività ed il disinteresse per il proprio lavoro erano diventati un limite al progresso della tecnica agricola e della produzione artigianale. Si delineava così la crisi dell'economia schiavistica.

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LA CRISI RELIGIOSA

La tradizionale religione legata al mondo rurale delle origini, già verso la fine della repubblica non rispondeva più alle esigenze di una società protesa verso un espansionismo aggressivo e desiderosa di traffici e commerci. Gli stessi contatti con il mondo greco e poi con la cultura ellenica avevano fatto giungere a Roma altre religioni accanto a quella ufficialmente praticata. Non a caso i primi centri dei culti orientali sorti a Roma erano legati al mondo dei mercanti e degli schiavi. Il successo dei nuovi culti non dipendeva solo dall'ampiezza dei contatti culturali; la vecchia religione non sembrava più in grado di soddisfare il bisogno di religiosità intesa come esperienza ed impegno personali. Di fronte alla crisi religiosa le classi intellettuali avevano trovato due modelli di comportamento morale assai elevati nelle filosofie epicurea e stoica, giunte anch'esse dalla Grecia. Tra il popolo, che non poteva apprezzare la raffinatezza degli atteggiamenti stoici ed epicurei, avevano ottenuto ampio successo i culti orientali; essi promettevano la liberazione dalle miserie umane, la possibilità di un'altra esistenza simbolicamente rappresentata dalla morte e dalla rigenerazione a nuova vita, il contatto diretto e personale con la divinità, elementi tutti che rendevano suggestivi e coinvolgenti i rituali, di fronte alla freddezza e all'impersonalità della religione ufficiale. La morte e la resurrezione, temi comuni un po' a tutte le religioni dei misteri, l'idea di una conversione e di una conseguente iniziazione, la pratica di rituali di rigenerazione (pasti in comune, sofferenza come mezzo di espiazione), erano altrettante pratiche capaci di suscitare forte coinvolgimento emotivo e di soddisfare necessità intellettuali.

I CRISTIANI

Gesù, il fondatore della religione cristiana, nacque in una zona della Palestina, la Galilea, qualche tempo prima della data dalla quale per antica tradizione si contano gli anni dell'era cristiana. Si suppone che la sua famiglia fosse di modeste condizioni economiche. Negli ultimi tempi della sua vita Gesù comparve in pubblico a predicare la sua dottrina e, giunto con i suoi scolari e un certo numero di seguaci a Gerusalemme, fu processato e messo a morte come ribelle intorno al 29 d.C., quando aveva circa 35 anni. Fautori della sua morte furono i sacerdoti di Gerusalemme, i quali temevano le critiche che egli rivolgeva loro parlando al popolo, e il governatore romano Pilato, preoccupato che dalla predicazione di Gesù potessero scoppiare tumulti. Della vita di Gesù non si hanno altre notizie certe. Del giorno della nascita naturalmente si sa meno ancora che dell'anno. La data del 25 dicembre fu scelta quando già il cristianesimo era diffuso a Roma, facendola coincidere con la festa del dio Mitra. La predicazione del cristianesimo agli inizi fu un fatto interno alla Palestina, una questione ebraica che al massimo trovava spazio tra le comunità ebraiche sorte in tutti i principali centri commerciali del Mediterraneo e a Roma; le cose cambiarono quando Paolo di Tarso, un cittadino romano convertitosi alla nuova religione, la fece conoscere fuori dall'ambiente ebraico. Il cristianesimo cominciò ad essere accettato dagli strati più umili della popolazione: schiavi, liberti, artigiani, soldati, diffusione confermata da certi testi cristiani delle origini dove si indicavano con il termine greco ptochoi («pitocchi», «povera gente») coloro tra cui si andava diffondendo l'Evangelo (dal greco eu = «bene» e àngelos = «notizia») o più comunemente Vangelo, ossia la «buona notizia». Qual era questa «buona notizia»? Era che il Regno di Dio, annunciato dai profeti ebraici come una realtà ancora lontana, era infine giunto. Dio si era riconciliato con gli uomini e gli uomini erano chiamati a rigenerare se stessi, mediante il pentimento e il fiducioso abbandono alla giustizia divina. È facile capire come questa esaltazione della giustizia divina in contrapposizione alla giustizia delle leggi umane e dei tribunali fosse bene accetta soprattutto ai diseredati, ai sofferenti, agli umili: «Beati coloro che piangono - si legge nel Vangelo - perché saranno consolati». I primi nuclei di cristiani erano organizzati con vescovi e diaconi che dovevano essere «degni del Signore, uomini miti non cupidi di denaro, veraci ed esperti, poiché esercitano il ministero di profeti e di dottori». La vita di fraternità si manifestava nella riunione domenicale con i riti del pasto in comune, della confessione. Fra questi uomini e queste donne lo spirito di fraternità era radicale. Senza proporre mutamenti di leggi e senza pensare di poter influire sulle scelte dei potenti, i cristiani preferivano il valore della pace e della mitezza a quello, esaltato dalle autorità, della virtù guerresca. Era perfino guardato con sospetto tra i primi cristiani chi proveniva dal mestiere delle armi o era stato dal macellaio. Vi furono cristiani che preferirono farsi uccidere piuttosto che fare il servizio militare. I valori dominanti della società romana quali la forza, il successo, la potenza, la ricchezza, la patria trovavano nella religione ufficiale dello Stato la loro massima espressione: l'imperatore non era solo il padrone di tutto e di tutti, ma in Oriente era un dio, al quale si dovevano onori e preghiere. I cristiani respingevano questi valori e rifiutavano di chiamare santo e divino l'imperatore per non commettere atti di idolatria. Da principio i cristiani furono considerati come una setta di ebrei turbolenta e pericolosa: «L'imperatore Claudio» scrisse lo storico romano Svetonio «cacciò da Roma gli Ebrei che, per istigazione di Cristo, suscitavano continui tumulti». Un altro storico, Tacito, racconta come Nerone per liberarsi della pericolosa accusa di aver provocato deliberatamente un incendio che aveva devastato la città di Roma, abbia gettato la responsabilità del crimine «su coloro che, odiati per i loro delitti, dal volgo erano chiamati cristiani». Non tutti gli imperatori si comportarono allo stesso modo, tanto più che la composizione delle comunità cristiane mutava col passar del tempo. Cresciute di numero, esse non erano più formate solo o prevalentemente da poveri e da schiavi, ma anche da persone ricche ed influenti. D'altra parte con l'aumento del numero anche la qualità dei fedeli si modificava e ci si allontanava sempre più dallo spirito delle origini. Si dovettero ad un certo punto fissare delle tariffe di penitenza contro la bigamia, l'aborto, l'adulterio, il gioco d'azzardo e il prestito a interesse (usura) che erano diventati vizi comuni anche tra i cristiani. Durante i primi secoli ci furono periodi in cui i cristiani poterono diffondere tranquillamente le loro idee, adunarsi per pregare e compiere gli atti di culto ed altri periodi in cui vennero perseguitati dalle autorità imperiali con l'esilio, la prigione ed anche la morte. Ciò che attirava contro di loro la persecuzione era il loro atteggiamento «politico»: il rifiuto di adorare l'imperatore pareva significare rifiuto d'obbedienza allo Stato romano. D'altra parte, sebbene la dottrina cristiana considerasse gli uomini uguali solo davanti alla divinità e non affermasse affatto la necessità di dividere i beni o di abolire la schiavitù, molti temevano che il cristianesimo con la sua critica della morale tradizionale potesse costituire un movimento rivoluzionario, pericoloso per la stabilità stessa dello Stato romano. Le persecuzioni avevano disperso o addirittura distrutto intere comunità di cristiani, ma il cristianesimo nel suo complesso ne era sempre uscito rafforzato ed agguerrito. Incapaci di vincerlo con le armi della repressione, gli imperatori pensarono infine che la sua forza poteva servire per governare e cominciarono quindi a tollerarlo e più tardi a proteggerlo. L'editto dell'imperatore Galerio nel 311 affermava: ... Visto che i cristiani continuano nella loro stolta ostinazione, per impulso della nostra mitissima clemenza abbiamo creduto di concedere subito anche a costoro il nostro perdono, permettendo che vi siano di nuovo cristiani e che tengano le adunanze, purché non facciano nulla contro le nostre leggi. I cristiani, però, come compenso del nostro perdono, dovranno pregare il loro Dio per il bene nostro, dello Stato e loro, perché in ogni parte lo Stato conservi la sua incolumità ed essi possano vivere tranquilli nelle loro case... Con l'editto di Milano del 313 l'imperatore Costantino riconobbe ai cristiani la libertà di culto e pochi anni dopo il cristianesimo divenne religione di Stato, cioè uno strumento per governare. Da allora e per molti secoli chi non era cristiano venne perseguitato.

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DA AUGUSTO A DIOCLEZIANO

Augusto aveva di fatto fondato una monarchia anomala. Morto lui universalmente considerato il grande pacificatore di Roma, la classe senatoriale non accettò di seppellire le antiche libertà repubblicane che le conferivano potere e prestigio ed iniziò a praticare una sottile ed insistente opposizione agli imperatori della famiglia Giulio-Claudia. La condanna che intellettuali e filosenatoriali, come il poeta lucano, il filosofo Seneca e lo storico Tacito, lanciarono sui primi successori di Augusto, è in parte frutto di questo atteggiamento; oggi la critica storica ha corretto giudizi eccessivamente negativi. Tiberio, ad esempio, non era solo un ipocrita come lo descrivono i storici del tempo; era anche un ottimo amministratore. Rifiutò di intraprendere guerre espansionistiche e contenne il bilancio dello Stato evitando spese dispendiose. Germanico, abile generale amato dai soldati, doveva succedere allo zio Tiberio; quando improvvisamente morì, la voce popolare lo volle avvelenato dallo stesso Tiberio che sarebbe stato invidioso dei successi militari ottenuti dal nipote in Germania. Sospettoso e sentendosi poco amato dal popolo, Tiberio si ritirò allora nella sua villa di Capri, affidando il governo al prefetto del pretorio, Seiano, che tradì la sua fiducia organizzando un colpo di Stato. Ma Tiberio, tornato improvvisamente a Roma, si sbarazzò dell'avversario e scatenò una repressione che offuscò la memoria del suo buon governo. Alla sua morte nel 37 gli successe come imperatore l'unico figlio ancor vivo di Germanico, Caligola, così chiamato per le caligae, i calzari militari che indossava da piccolo quando seguiva il padre al fronte. Minato da disturbi nervosi, rimase celebre per le sue stravaganze, come quella di nominare senatore il suo cavallo; proseguì una politica di accentramento monarchico dei poteri. Per questo fu ucciso in una congiura ed i pretoriani (le guardie del corpo) nominarono al suo posto Claudio, fratello di Germanico, timido studioso, che fino a quel momento era vissuto lontano dagli intrighi politici. Durante il suo regno vennero conquistate la Britannia e la Mauritania. Il Senato lo riteneva un incapace, stupido ed in balia delle donne; l'ultima moglie, Agrippina, figlia di Germanico, forse lo avvelenò per far salire al trono il figlio che aveva avuto dal precedente matrimonio: Nerone. Questo giovane imperatore all'inizio si lasciò guidare docilmente dal maestro, Seneca, e dal prefetto del pretorio, Burro; poi, desideroso di governare da solo, si liberò dei suoi tutori, assassinò la moglie, il fratellastro Britannico, figlio di Claudio, e la madre. Gli storici lo rappresentano come un sanguinario e un megalomane, convinto d'essere un ottimo poeta e un grande auriga. Quando il 18 luglio del 64 un incendio distrusse Roma, fu fatta circolare la voce che il colpevole fosse Nerone, desideroso di godersi lo spettacolo per poi ricostruire la città a suo piacimento. Per difendersi dalle accuse, Nerone scaricò la colpa sui cristiani, dando avvio alla prima persecuzione nei loro confronti. L'opposizione dei senatori alla sua politica si saldò con la rivolta dell'esercito della Gallia; Nerone cercò scampo nella fuga, ma non riuscendovi, preferì pugnalarsi. Quattro contendenti, Galba, Otone, Vitellio, Vespasiano, tentarono, uno dopo l'altro di farsi eleggere imperatori; prevalse Vespasiano, abile generale di origine sociale non elevata. Si dedicò a sanare la situazione finanziaria compromessa dalla politica di Nerone e represse una rivolta scoppiata in Giudea; qui fece distruggere il tempio di Gerusalemme e costrinse gli Ebrei ad andarsene dalla Palestina (diaspora). Gli successe il figlio Tito, che gli storici romani definirono «delizia del genere umano», per le sue doti di umanità e per il rispetto che manifestò verso il Senato. Sotto il suo regno, nel 79, la violenta eruzione del Vesuvio seppellì le città di Ercolano, Stabia e Pompei. Alla sua morte ereditò il potere il fratello, Domiziano, che riprese una politica autoritaria e antisenatoriale; proprio dai senatori venne la reazione e un gruppo di congiurati lo assassinò. Il Senato riprese il potere designando imperatore un suo rappresentante, Nerva; con lui inizia una serie di imperatori attenti a favorire le aristocrazie provinciali. Nerva scelse come suo successore Traiano, uno spagnolo assai amato dalle sue truppe. Il governo di Traiano è legato alla conquista della Dacia, che corrisponde all'attuale Romania, e della Mesopotamia. Mai l'impero romano fu così vasto. Adriano, suo figlio adottivo, portò all'impero un lungo periodo di pace. Amante delle arti e della filosofia, visitò tutte le regioni, dando avvio a quella pratica di buon governo che venne rispettata anche dai suoi successori, Antonino Pio e Marco Aurelio. Per circa cinquant'anni imperatori e Senato andarono d'accordo; l'economia e i traffici commerciali fiorirono. Per tali motivi quell'età, detta degli Antonini, venne ricordata dagli storici come l'apogeo dell'impero romano. Vi furono però anche ombre: Marco Aurelio dovette fare i conti con le tribù barbare dei Quadi e dei Marcomanni, che avevano sconfinato e razziato l'impero giungendo oltre Aquileia. L'imperatore rimase vincitore sul campo di battaglia, ma nel 180 morì di morte improvvisa e rapida. Il figlio Commodo salì al trono; a causa della sua politica teocratica e autoritaria, fu ucciso da una congiura di senatori. La lotta per la successione scatenò una guerra civile. Il nuovo imperatore, Pertinace, venne ucciso dai pretoriani, che gli preferirono Didio Giuliano, ma alla fine divenne imperatore Settimio Severo, un africano, comandante delle truppe in Illiria. Ormai l'apparato militare era diventato l'arbitro delle elezioni imperiali; la volontà dell'esercito determinava anche le scelte dello Stato. Il figlio di Settimio Severo, Caracalla, estese la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell'impero di condizione libera. Ucciso per ordine di Macrino, prefetto del pretorio che voleva prenderne il posto, il potere, per volontà dell'esercito rimase nelle mani della famiglia dei Severi. Elagabalo, nipote di Caracalla, regnò per alcuni anni importando a Roma dalla Siria il culto solare e fu ucciso durante una rivolta militare. Ascese al trono il cugino, Severo Alessandro, che dopo alcuni iniziali successi militari, non riuscì a far fronte alle pressioni barbariche lungo le frontiere del Reno. Tali insuccessi gli costarono la vita; le truppe in rivolta lo uccisero e nominarono imperatore Massimino il Trace. Odiato dal Senato che gli contrapponeva due senatori, Gordiano I e suo figlio Gordiano II, Massimino scese in Italia come un invasore, ma venne ucciso a tradimento dai suoi soldati sotto le mura di Aquileia che stava assediando. Gordiano III riprese le ostilità contro i Persiani, ma fu ben presto fatto uccidere da Filippo l'Arabo che gli successe sul trono e sotto il cui breve regno venne celebrato fastosamente il millesimo anniversario della fondazione di Roma. L'impero era però accerchiato; attacchi provenivano dai barbari lungo la frontiera sul Reno e sul Danubio e dai Persiani a Oriente. L'imperatore Decio morì combattendo contro i Goti e Valeriano, suo successore venne fatto prigioniero dal re persiano Shapur. Mentre la Gallia e Palmira in Siria si ribellavano staccandosi dall'impero, Gallieno si impegnò in una serie di provvedimenti di politica interna e militare finché fu assassinato. Il suo successore Claudio il Gotico sconfisse i Goti sul Danubio, ma perì di peste dopo soli due anni di regno. I suoi soldati nominarono successore Aureliano, che sconfitti i nemici esterni, cercò di ripristinare l'ordine interno abbandonando la Dacia ai Goti occidentali o Visigoti. Aureliano venne ucciso in una congiura nel 275; il candidato del Senato, Claudio Tacito, regnò solo un anno, poi il potere tornò a un generale della regione danubiana, Probo. Il nuovo imperatore dovette fronteggiare l'irruzione dei Burgundi e dei Franchi in Gallia, ma morì ucciso dai suoi soldati e l'impero cadde in altre lotte intestine. Né Caro, né Carino, né Numeriano riuscirono a regnare per più di un anno; dai disordini emerse un imperatore destinato a interrompere il periodo di caos e a riformare l'impero, Diocleziano, un giovane ufficiale dalmata.

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DIOCLEZIANO

Con Diocleziano (284-305) si assiste al tentativo di ridar vigore allo Stato romano dilaniato dall'anarchia militare e da una grave crisi economica. L'importanza di Roma e dell'Italia nell'ambito dell'impero era progressivamente diminuita: il centro della vita economica si era spostato verso altre province, specialmente a quelle che dovevano garantire la sicurezza dei confini esposti alla pressione dei popoli nomadi o seminomadi del Centro Europa; il reclutamento nell'esercito permanente era stato aperto ad elementi barbarici. Queste condizioni, che smantellavano quanto rimaneva ancora delle antiche tradizioni repubblicane, furono tra le cause della lunga crisi economica, politica e militare, che si abbatté sull'impero nel corso del III secolo d.C. Corruzione, disordine, strapotere dei comandanti dell'esercito, sottrazione dei cittadini dagli obblighi militari e conseguente arruolamento dei barbari, stagnazione e decadenza economica, spopolamento delle campagne, continui aumenti dei prezzi portarono l'impero sull'orlo del collasso. La monarchia assoluta (dominatus) fu la formula che assicurò all'impero ancora quasi due secoli di vita. Diocleziano assunse il titolo di Jovius, dichiarandosi con ciò figlio di Giove ed assumendo la figura di un sovrano orientale; con ciò non faceva che portare a termine quanto avevano già fatto altri imperatori che si proclamavano inviati della divinità per la salvezza e il benessere degli uomini. Il tentativo di Diocleziano era quello di associare fortemente la religione al potere politico e di farne un sostegno del trono; agli occhi dell'imperatore tuttavia non era il cristianesimo a rappresentare la religione adatta: i cristiani rifiutavano proprio quegli atti (i sacrifici davanti alle immagini dell'imperatore, ad esempio) che dovevano nelle intenzioni di Diocleziano confermare il nuovo potere politico. Per questo vide nei cristiani dei pericolosi sovversivi e li perseguitò (fu l'ultima persecuzione). D'altra parte il paganesimo non sembrava avere più la forza sufficiente e il prestigio per sostenere un ruolo di questo genere. L'imperatore, assumendo gli atteggiamenti del sovrano orientale, chiuso nel palazzo e fatto segno a venerazione come un dio, aveva bisogno di un ampio apparato burocratico attraverso cui manifestare il suo volere. I funzionari divennero così sempre più numerosi e potenti eliminando ogni forma di autonomia locale. Per evitare le continue rivolte che avevano caratterizzato il III secolo Diocleziano aumentò il numero delle province in modo che fossero più piccole e meglio controllabili; divise il potere politico da quello militare, istituendo un dux, responsabile della difesa, e un preside per l'amministrazione civile. L'esercito venne riorganizzato aumentando gli effettivi e facilitando l'arruolamento ai barbari; mentre da Augusto in poi le legioni stanziavano lungo i confini, con Diocleziano fu creato un esercito di manovra, distinto da quello di frontiera, in grado di intervenire rapidamente secondo le necessità perché formato soprattutto di corpi di cavalleria. Diocleziano per poter governare meglio tutto il territorio divise l'impero in due amministrazioni distinte, tenendo per sé l'Oriente con capitale Nicomedia ed attribuendo l'Occidente con capitale Milano a Massimiano da lui scelto come collega. Stabilì inoltre, per garantire la continuità e la legittimità nelle successioni al trono, che ciascuno dei due imperatori (Augusti) fosse coadiuvato da un Cesare cui era affidato il controllo di una particolare zona dell'Impero e che avrebbe dovuto succedere al rispettivo imperatore alla morte di questo. Questo sistema venne chiamato tetrarchia; sebbene fosse ingegnoso, tuttavia non funzionò, perché appena Diocleziano si fu ritirato con il suo collega Massimiano, scoppiò la guerra fra i tre pretendenti: Costantino, Massenzio Galerio e Licinio. Per fronteggiare la crisi economica e sociale Diocleziano ricorse al controllo dei prezzi (edictum de pretiis), una specie di calmiere che non ottenne tuttavia di stabilizzare i prezzi. Più duratura fu invece l'influenza del sistema di tassazione: dividendo in ciascuna provincia la superficie lavorata per il numero dei coloni addetti si otteneva il tributo da pagare allo Stato (jugatio o capitatio). Per rendere efficace questo sistema occorreva che non vi fossero variazioni nel numero di coloni di ogni provincia, così venne imposto l'obbligo di non abbandonare la terra lavorata. Lo stesso sistema si estese agli artigiani delle città, agli addetti ai vari servizi e mestieri. Queste imposizioni finivano per rendere ereditaria la condizione professionale cioè obbligavano ciascuno a fare il mestiere di suo padre; si pensava con queste misure di scongiurare il pericolo dello spopolamento delle campagne e del declino delle professioni artigiane. Queste misure favorivano un modo di produzione limitato al chiuso delle singole unità economiche: ville e città. In questa riforma si possono vedere le basi delle successive trasformazioni dell'età medievali.

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RESTAURAZIONE DELL'IMPERO

Nel III secolo d.C. l'impero romano stava modificando rapidamente la sua antica fisionomia. L'esercito, che un tempo era stato il baluardo della pace e dell'ordine, non riusciva più a difendere efficacemente le frontiere dagli attacchi esterni, mentre all'interno l'ambizione dei generali e dei maneggi delle fazioni militari erano causa di continui disordini e di una pericolosa instabilità dei governi. Le sempre più frequenti incursioni straniere nelle regioni di confine e le continue lotte civili all'interno danneggiavano seriamente l'attività dei contadini, degli artigiani, dei mercanti. Ma oltre ai disagi ed alle devastazioni causate dalla guerra, altri fenomeni, forse più gravi, minacciavano l'economia dell'Impero Romano. La popolazione mediterranea stava diminuendo sensibilmente e il calo maggiore si registrava proprio nella classe un tempo numerosissima degli schiavi. Anche la produzione agricola diminuiva, in parte per la scarsità della manodopera, ma in parte anche per il progressivo esaurimento del suolo. All'uno e all'altro inconveniente avrebbe potuto porre rimedio un generale rinnovamento tecnologico capace di sostituire con macchine e nuove fonti di energia il lavoro umano e di restituire al terreno l'antica fertilità con opportuni sistemi di coltivazione. Ma il fatto caratteristico e per certi aspetti sorprendente di questo periodo fu proprio la conservazione degli antichi e ormai inadeguati metodi di lavorazione nell'industria e nell'agricoltura. L'unica innovazione di rilievo, il mulino ad acqua, che del resto non era affatto una novità, si diffuse solo molto lentamente ed anzi occorsero alcuni secoli perché il suo uso si generalizzasse in Europa. La soluzione alle difficoltà del momento fu dunque trovata non sul terreno della tecnica, ma su quello più usuale della politica. Sul finire del III secolo l'impero subì una profonda trasformazione nel senso di una monarchia militare assoluta: l'imperatore accentrò sempre di più il potere nelle sue mani servendosi di un esercito rinnovato e potenziato e di una burocrazia numerosa ed onnipotente in cui ebbero un peso crescente gli ufficiali di carriera e, in generale, il personale militare. Nel IV secolo l'assolutismo imperiale riuscì, almeno entro certi limiti, a ristabilire l'ordine all'interno e a rafforzare le difese alle frontiere. Ma il potenziamento dell'esercito e della burocrazia richiedevano un enorme aumento delle spese statali, a cui si poté far fronte soltanto con un analogo aumento delle tasse. Se il parziale ritorno della pace poteva avere benefici effetti sulla situazione economica, l'aumento delle tasse ritardava o addirittura bloccava la ripresa, tanto più che le classi dominanti, nelle quali si concentrava la ricchezza, trovarono naturalmente il modo di non pagarle, facendo ricadere l'intero carico fiscale sulle classi più umili: «Vi sono troppi ricchi delle cui esenzioni i poveri portano il peso» lamentava uno scrittore del V secolo «e il peso dei tributi dei ricchi schiaccia i poveri». In tale situazione le classi dei contadini e degli artigiani non erano certo incoraggiate a produrre di più e il governo imperiale fu costretto ad intervenire in modo sempre più autoritario nella vita economica (talvolta impiantando addirittura industrie statali specialmente per la fabbricazione di armi e di altre forniture necessarie all'esercito). In particolare il governo si preoccupò di ovviare alla scarsità di manodopera e a questo fine stabilì una severa regolamentazione del lavoro. Nessun produttore, nessun lavoratore poteva abbandonare la propria attività o passare ad un'altra professione e persino i giovani erano tenuti a seguire la stessa professione dei padri. Per esercitare poi un effettivo controllo in questo campo il governo inquadrò tutti i lavoratori in organizzazioni di mestiere, le corporazioni, che regolavano con norme molto precise l'attività di ciascun membro. I più legati alla propria professione furono i contadini dipendenti (coloni) che persero il diritto di abbandonare la terra loro affidata.

LA RELIGIONE DI STATO

La trasformazione dell'Impero Romano in una monarchia militare assoluta, avviata da Diocleziano alla fine del III secolo, fu completata nel secolo successivo dall'imperatore Costantino che aggiunse due importanti riforme: l'adozione del cristianesimo come religione di Stato e lo spostamento della capitale imperiale da Roma a Bisanzio. Costantino stava ancora combattendo per impadronirsi del trono imperiale quando, nel 313, si converti al cristianesimo. Il disegno politico di Costantino si precisò proprio quando il potere imperiale era ormai saldamente nelle sue mani: si trattava di creare una stabile alleanza tra l'impero rinnovato nell'assolutismo monarchico e la Chiesa cristiana, che dell'impero era stata la più tenace forza di opposizione. I termini dell'alleanza furono presto chiari a tutti. Con l'appoggio delle autorità il cristianesimo conquistò rapidamente la maggioranza della popolazione, le chiese e le comunità cristiane si arricchirono, i vescovi acquistarono una grande influenza, non solo spirituale, ma anche politica. In cambio la Chiesa cristiana abbandonava ogni atteggiamento eversivo, cooperava con le autorità nel mantenimento dell'ordine, garantiva la fedeltà dei soldati e dei funzionari cristiani, rinunciava ad esprimere la protesta degli umili contro le ingiustizie e le sopraffazioni del potere. La Chiesa forniva soprattutto una nuova giustificazione dell'autorità imperiale ribadendone il carattere sacro oltre che assoluto. Un imperatore cristiano non poteva più, evidentemente, essere venerato come un dio; ma egli era l'interprete e l'esecutore della volontà dell'unico, vero dio. Il suo potere derivava direttamente da dio; la sua opera coincideva con il disegno provvidenziale di dio. L'impero, un tempo condannato da molti cristiani come opera diabolica, diventava lo strumento e l'espressione del trionfo della vera fede. Col tempo questa alleanza tra Chiesa e Stato sarebbe entrata in crisi, almeno nell'Europa occidentale. Ma nel IV secolo essa garanti al potere imperiale quel consenso popolare di cui aveva bisogno per portare a termine l'opera di restaurazione politica intrapresa alla fine del secolo precedente. Sempre nel quadro di questa restaurazione va collocata l'altra grande riforma di Costantino, cioè lo spostamento della capitale imperiale a Bisanzio, sul Bosforo. La crisi economica e sociale del III secolo aveva avuto effetti diversi nella parte occidentale e in quella orientale dell'impero. L'Occidente, prevalentemente agricolo, ne aveva risentito molto più gravemente dell'Oriente, dove continuavano le loro attività antiche e fiorenti industrie e dove, soprattutto, le numerose città commerciali continuavano ad essere centri di importanti traffici con l'India e la Cina attraverso l'Arabia e la Persia, e con il Nord Europa attraverso la Russia. L'Oriente era più densamente popolato, più ricco di capitali e socialmente più equilibrato: sopravvivevano classi medie, specialmente urbane, dotate di una certa consistenza numerica e di una notevole importanza economica. Sia dal punto di vista economico e sociale che da quello militare e politico i problemi delle due parti dell'impero si andavano insomma diversificando sempre più e l'Oriente costituiva chiaramente la parte più solida, quella cioè il cui apporto doveva esser considerato decisivo per la sopravvivenza dell'impero nel suo insieme. Il trasporto della capitale a Bisanzio (o Costantinopoli, come fu chiamata in onore dell'imperatore) fu il riconoscimento di questo stato di fatto.

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LA FINE DELL'IMPERO ROMANO D'OCCIDENTE

Alla morte di Costantino l'impero fu diviso tra i suoi figli, Costanzo II, Costante e Costantino II. Quest'ultimo venne ucciso dal fratello Costante a sua volta ucciso da un usurpatore, Magnezio, sconfitto da Costanzo II che rimase l'unico padrone dell'impero fino al 361. Il suo successore fu Giuliano, nipote di Costantino, che, per il suo tentativo di ridare vitalità alla religione tradizionale opponendosi al cristianesimo, fu chiamato l'Apostata. Ammiratore di Marco Aurelio, filosofo egli stesso, Giuliano mosse guerra dai Persiani, ma cadde in battaglia. Dopo di lui il cristianesimo non ebbe più oppositori. Gioviano, che gli successe, tentò di concludere una pace svantaggiosa con Persiani, ma morì pochi mesi dopo l'assunzione della carica. Salì al trono Valentiniano I che associò all'impero il fratello Valente e il figlio Graziano, per meglio difendere i confini dai barbari. Morto Valentiniano, Valente, che regnava sulla parte orientale dell'impero, venne sconfitto dai Goti nella battaglia di Adrianopoli (378), dove trovò la morte. Venne elevato al trono uno spagnolo, Teodosio, che sconfisse i Goti e riunificò per l'ultima volta l'impero. Teodosio favorì il cristianesimo contro il paganesimo (editto di Tessalonica del 380 con cui imponeva la conversione al cristianesimo ai sudditi dell'impero) e si dichiarò decisamente per il simbolo niceno contro le tendenze ariane. Con Teodosio il cristianesimo conobbe il definitivo trionfo e il culto pagano venne proibito con l'editto di Costantinopoli (392). Alla sua morte l'impero venne di nuovo diviso tra i figli: ad Arcadio toccò l'Oriente, ad Onorio l'Occidente. Ma ad impegnarsi contro i barbari che nuovamente penetravano nell'impero fu un generale di Onorio, Stilicone, barbaro egli stesso. Sconfisse gli Ostrogoti (Goti orientali) a Fiesole nel 406, ma invidiato dagli imperatori, venne condannato a morte e decapitato. Non più trattenuti i barbari dilagarono nel territorio dell'impero e nel 410 Roma conobbe il saccheggio dei Visigoti. Valentiniano III non riuscì ad imporre l'autorità di Roma sui barbari e dovette assistere impotente all'invasione degli Unni che comandati da Attila saccheggiarono la Gallia e l'Italia. I successori di Valentiniano non esercitarono alcun potere; erano figure nelle mani di condottieri barbari. Nel 475 salì al trono un ragazzo, Romolo, soprannominato in segno di disprezzo Augustolo, che venne deposto l'anno seguente da uno dei capi barbari, Odoacre. L'Impero Romano d'Occidente era finito.

I BARBARI

Nel corso del II secolo d.C., l'Impero Romano aveva raggiunto la sua massima estensione. Ma già a partire dal III secolo gli attacchi alle frontiere nord-orientali e orientali cominciarono ad intensificarsi e a diventare sempre più pericolosi. La situazione di insicurezza creatasi alle frontiere dell'Impero Romano era una conseguenza del fermento suscitato nell'Europa centrale ed orientale dall'arrivo di diverse popolazioni, come quelle dei Goti, dei Vandali, degli Eruli e dei Burgundi, prima ondata di un gigantesco movimento di migrazione diretto verso il Mediterraneo. Questa situazione coincise con la grave crisi politica ed economica dell'impero e non è difficile immaginare quali difficoltà creò alle autorità romane. Le truppe imperiali tennero tuttavia i confini sino alla prima metà del IV secolo. Ma in quegli anni l'arrivo del popolo degli Unni dalle aree dell'Asia centrale provocò una nuova serie di spostamenti da parte delle popolazioni stanziate tra il Mar Baltico e il Mar Nero alcune delle quali riuscirono a stabilirsi nei territori dell'impero.

I GERMANI

Sotto il nome di Germani sono compresi molti popoli di origine indoeuropea stanziati verso il III millennio a.C. nell'area compresa tra la Scandinavia, il Mar Baltico, la Vistola e il Danubio. Durante l'età del bronzo erano entrati in contatto con i Celti e dalle culture di Hallstatt e La Tène e avevano appreso le tecniche di lavorazione del metallo. Fecero la loro comparsa nel mondo romano quando due popolazioni, i Cimbri e i Teutoni, scesero verso Sud e si scontrarono con le legioni romane; Caio Mario li vinse e annientò nel 102 in Provenza, ad Aquae Sextiae (l'odierna Aix-en-Provence) e nel 101 a.C. ai Campi Raudii (una località vicino a Vercelli) acquisendo con questa impresa enorme prestigio, tanto da essere chiamato «secondo Romolo» e «salvatore della patria». Cesare sconfisse i Suebi, altra popolazione germanica che era sconfinata e la costrinse a riattraversare il Reno, fiume che per lungo tempo segnò il confine dell'Impero Romano. Altre tribù vennero sconfitte da Druso (tra il 12 e il 9 a.C.) finché il mondo romano non conobbe la disastrosa conclusione della campagna militare di Varo, generale di Augusto, che ebbe distrutte le sue legioni in un'imboscata nella selva di Teotoburgo (9 d.C.). In seguito si ebbero continue e pacifiche infiltrazioni di elementi germanici che venivano facilmente inseriti nell'esercito o di interi gruppi che chiedevano di stabilirsi entro i confini dell'impero come foederati. I contatti col mondo romano servirono a modificare i costumi dei Germani (al baratto si sostituì progressivamente la moneta), che tuttavia rimasero sempre popolazioni bellicose, per le quali la guerra, la rapina e il saccheggio erano le uniche attività degne degli uomini liberi (arimanni). Conoscevano l'agricoltura e l'uso dell'aratro; la loro economia era completata dalla pastorizia e dall'utilizzazione delle risorse dei fitti boschi che circondavano i villaggi, attività lasciate ai semiliberi (aldi) e agli schiavi. La società si basava sulla tribù (sippe, fara), costituita da un insieme di famiglie legate da vincoli di parentela; solo in occasione di guerre o di spostamenti veniva scelto un capo che aveva autorità per la durata della spedizione; le decisioni venivano prese dall'assemblea di tutti gli uomini liberi. Era sconosciuta l'esistenza di un diritto statale; l'offesa comportava la vendetta (faida) che coinvolgeva e impegnava tutti i membri della famiglia; solo in epoca successiva, alla vendetta si sostituì il pagamento di una somma di denaro (guidrigildo). Il giovane di origine libera entrava a far parte della società con la consegna delle armi; la donna era rispettata, considerata la compagna del marito del quale condivideva le sorti, ma era sempre sottoposta alla tutela dell'autorità dell'uomo. Era usata una scrittura a caratteri runici che pare avesse in origine significato magico; il termine runa dovrebbe significare nell'antico germanico «mistero». L'antica religione venerava oggetti e località; si credeva alle capacità profetiche delle donne in particolare; si temevano i morti, concepiti come una turba di spiriti. La divinità principale, accettata probabilmente da tutti i gruppi, fu Odino, Wodan, che associava caratteri del dio bellicoso della forza incontrollata ad aspetti di divinità dei morti; immaginato con mantello e cappuccio, in mezzo alla tempesta su un cavallo a otto zampe, divenne il capo della turba dei morti. Era accompagnato dalle Valchirie, anime dei guerrieri morti in battaglia. Un'altra importante divinità era Donar, Thor, dio del tuono ma anche della fecondità, rappresentato con il martello ed identificato in seguito con il Giove romano. La sposa di Odino, Frija era la dea dell'amore e della fecondità. Una ricca fonte di notizie sui Germani è rappresentata dal libro La Germania, di Cornelio Tacito, vissuto tra il 54 e il 120 della nostra era. Non è facile tuttavia distinguere le antiche pratiche e gli usi della cultura germanica dalle successive influenze, romane e poi anche cristiane. Sembra che i Germani non avessero templi e non usassero simulacri delle divinità. È dubbio anche che credessero in un mondo ultraterreno, il Walhalla, destinato ad accogliere le anime dei guerrieri. Anticamente il Walhalla era un luogo di tristezza.

I VISIGOTI

La prima popolazione ad entrare nell'impero fu quella dei Visigoti, che occuparono le province della Grecia settentrionale, incalzati alle spalle dagli Ostrogoti e dagli Eruli. I Visigoti, per sfuggire all'avanzata degli Unni, avevano chiesto all'imperatore di poter entrare nel territorio dell'impero e di stanziarsi nella Mesia (l'attuale Bulgaria) in qualità di foederati. Poco dopo però si erano dati al saccheggio delle città ed erano stati affrontati da un esercito romano comandato dallo stesso imperatore Valente. Lo scontro, avvenuto ad Adrianopoli nel 378, era stato disastroso per i Romani che avevano anche visto cadere in battaglia l'imperatore. Successivamente Teodosio era riuscito a fermare i Visigoti, ma l'impressione per la sconfitta era stata enorme in tutto l'impero: stava a dimostrare che era cambiato il rapporto di forza tra romani e barbari. Negli anni seguenti la situazione creatasi con i Visigoti si ripeté; spinti dagli Unni, ormai giunti in Pannonia, altri popoli cominciarono a premere contro i confini dell'impero e ad oltrepassare il Reno e il Danubio. Tra il 406 e il 407 Vandali, Svevi, Burgundi, Alemanni, Alani si riversarono nel territorio dell'impero e cominciarono a scorazzare per tutto l'Occidente. I Visigoti, comandati da Alarico, nel 410 giunsero addirittura a Roma e la saccheggiarono, episodio che venne vissuto dai contemporanei con incredulità e disperazione, anche se il centro politico e amministrativo dell'Occidente era ormai stato spostato dall'imperatore Onorio a Ravenna. I Visigoti dopo essere stati in Italia meridionale, dove Alarico era morto, si erano diretti verso la Francia meridionale e si erano stabiliti nella regione tra la Loira e la Garonna; successivamente avevano allargato il loro controllo a gran parte della Spagna dando vita ad un regno che comprendeva la penisola iberica e parte della Gallia con capitale Tolosa; quando nel 507 i Visigoti vennero sconfitti dai Franchi il loro regno si ridusse in Gallia al controllo del territorio attorno a Narbona e la capitale fu spostata a Toledo, ma ormai l'Impero Romano d'occidente era finito da un pezzo. Il dominio visigoto realizzò una integrazione tra Romani e Goti: alla fine del VI secolo la romanizzazione dei Visigoti era quasi completa e lo divenne quando il re Recaredo tra il 587 e il 589 abbandonò l'arianesimo che rappresentava ancora l'ultima barriera culturale tra le due comunità.

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I BURGUNDI

I Burgundi avevano varcato il Reno e si erano insediati lungo le sponde, per spingersi successivamente sino al bacino del Rodano; nella Britannia, invece, ormai completamente sgombrata dalle truppe romane, si erano stanziati Angli e i Sassoni.

GLI UNNI

Più o meno negli stessi anni si concludeva l'avventura degli Unni, la popolazione responsabile degli spostamenti di barbari che si erano riversati sull'impero. Nei primi decenni del V secolo gli Unni avevano dato vita ad un vasto dominio che aveva la sua base in Pannonia e ad Est del Danubio. Il loro re Attila tentò nel 441 di conquistare l'Europa occidentale, ma dieci anni dopo fu fermato in una grande battaglia combattuta nella Champagne. Una successiva scorreria portò Attila e i suoi cavalieri nella pianura Padana e, secondo la leggenda anche di fronte a Roma, dove gli Unni sarebbero stati fermati dall'intervento miracoloso del papa scortato da angeli minacciosi. Con la morte del loro condottiero, nel 453, iniziò il rapido declino dell'impero unno che finì per sfasciarsi completamente.

I VANDALI

Mentre gli Svevi si insediavano definitivamente nella Galizia, i Vandali furono condotti dal loro re Genserico addirittura sulla costa africana, dove si stanziarono in una regione corrispondente pressappoco all'odierna Tunisia, con capitale Cartagine (espugnata nel 439); da questa base, negli anni successivi, riuscirono a spingersi fino alla Sicilia, alla Sardegna ed alla Corsica, arrivando così a controllare un settore assai importante del Mediterraneo occidentale. A differenza degli altri popoli barbari, i Vandali riuscirono a diventare una potenza navale: le loro navi controllavano le rotte per le grandi isole del Mediterraneo e creavano difficoltà, con atti di pirateria, per i rifornimenti a Roma e all'Italia che dipendevano quasi totalmente dall'Africa e dalla Sicilia. Nel 455 una spedizione navale risalì il Tevere e sottopose Roma ad un brutale saccheggio. A differenza del regno visigoto di Spagna, i Vandali non riuscirono in Africa a fondersi con gli elementi romani; rimasero sempre dei dominatori, una casta di vincitori, diffidenti nei confronti dei vinti e ariani in continua lotta contro il cristianesimo trinitario. Ciò spiega in parte il rapido successo della riconquista operata da Giustiniano, che nel 533, con un esercito non molto numeroso, in pochi mesi sconfisse i Vandali.

GLI OSTROGOTI

In Italia scesero, un ventennio più tardi, gli Eruli e gli Sciti, condotti da Odoacre, che nel 476 conquistò Ravenna e destituì l'imperatore Romolo Augustolo. Agli Eruli e a Odoacre subentrarono nel 493 gli Ostrogoti, con a capo Teodorico. Questo re era vissuto lungo tempo alla corte di Costantinopoli ed aveva quindi ottima conoscenza della cultura latina; era giunto in Italia perché spintovi dall'imperatore Zenone che voleva in tal modo riprendere il controllo della penisola. Teodorico, che non divenne mai re d'Italia, esercitava il suo potere in nome dell'imperatore di Costantinopoli. Tentò una politica di netta separazione tra l'elemento romano e goto, riservando a quest'ultimo l'esercizio delle armi e servendosi per il governo di personale romano. Erano proibiti i matrimoni misti e l'uso del latino per i Goti; pur non esercitando persecuzioni contro il cristianesimo, fu difeso l'arianesimo. Questo tentativo di convivenza e di separazione tra le due etnie non ebbe fortuna; negli ultimi anni di vita, Teodorico (morto nel 526) si fece sospettoso e allontanò i consiglieri romani di cui si era avvalso, come Cassiodoro, mandando addirittura a morte Anicio Severino Boezio (480-524), il letterato autore del celebre De consolatione philosophiae (La consolazione della filosofia). Nove anni dopo la morte di Teodorico, Giustiniano imperatore di Costantinopoli tentava la riconquista dell'Italia con una lunga e faticosa guerra, ricordata nella storia col nome di guerra greco-gotica (536-553).

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I FRANCHI

I Franchi sotto la guida di Clodoveo avevano sottomesso quasi tutta la parte centrale e settentrionale della Francia; ne completarono la conquista all'inizio del VI secolo, quando tolsero ai Visigoti il controllo della Provenza e impadronendosi del regno dei Burgundi (534).

I LONGOBARDI

Appena quindici anni dopo la guerra greco-gotica, l'Italia viene invasa dai Longobardi (568), una popolazione barbarica che entrava nell'impero non più col riconoscimento, seppure formale dell'imperatore, ma da conquistatrice. Anche se non numerosissimi occuparono facilmente la pianura Padana e la Toscana, mentre altri gruppi, scesi a Sud crearono dei domini attorno ai centri di Spoleto e Benevento. I Bizantini conservarono il controllo delle coste e delle isole, la zona di Ravenna e quella di Roma collegate da una serie di castelli. La penisola venne così divisa in due parti. Tra i popoli germanici, i Longobardi erano quelli meno romanizzati; non avevano un potere centrale e infatti i primi re erano capi militari, destinati a durare solo per il momento della guerra, spesso eliminati violentemente come Alboino che aveva condotto l'iniziale conquista dell'Italia. I vari duchi avevano di fatto l'autonomia e sfuggivano al controllo del re che risiedeva a Pavia, anche se erano stati creati funzionari regi, i gastaldi, incaricati di controllare e amministrare le proprietà regie. Le istituzioni giuridiche contemplavano ancora abitudini germaniche come il guidrigildo, l'ordalia; solo al tempo di Rotari fu emanato un editto (643) dove erano fissate le pene per le offese. Le condizioni delle popolazioni latine erano pesanti sotto i Longobardi: questi erano i conquistatori e ai vinti non riconoscevano alcun diritto. La conversione al cristianesimo romano della famiglia regnante, ottenuta dal papa Gregorio Magno attraverso l'influenza esercitata sulla regina Teodolinda, moglie prima di Autari e poi di Agilulfo contribuì a mitigare i costumi dei Longobardi. I rapporti con la Chiesa divennero la chiave di volta della politica longobarda: la Chiesa romana appariva in grado di legittimare il potere longobardo, ma la presenza del patrimonio di San Pietro rappresentava un ostacolo alla saldatura dei domini dei re longobardi.

Trapani Testimonianza della romanizzazione dei Barbari (VI sec.)

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