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Politica mondiale - Anno 2006 : La politica nel continente America

La politica mondiale - Anno 2006 America del nord, America centrale e America del sud| C T R L + F per cercare nella pagina |

2006: La politica mondiale

AMERICA DEL NORD e CENTRALE

In questo importante anno elettorale e dopo l'ammissione delle difficoltà in Iraq e in Medio Oriente gli Stati Uniti stanno spostando nuovamente la loro attenzione internazionale verso il Centro e il Sudamerica, preoccupati per l'ondata progressista che potrebbe creare problemi all'attuale ordine politico internazionale e alla loro egemonia. Gli Usa si stanno riorganizzando per intensificare nuovamente la loro influenza, a difesa dei privilegi esistenti e a favore dei loro mercati. Si va dunque verso una polarizzazione politica, favorita dal loro desiderio di recuperare il terreno perduto: sicuramente contro Chávez e Morales; ma anche a svantaggio di Lula o di Correa in Ecuador e con le recenti vane intromissioni per scongiurare il ritorno dei sandinisti al governo del Nicaragua, come si è visto nelle elezioni tenutesi nel 2006; cercando di ammorbidire i governi di Uruguay e Argentina; con massicci aiuti a favore del fedele Uribe in Colombia. Lo scenario è inoltre aggravato dalla situazione relativa al futuro delle risorse energetiche del pianeta: petrolio, gas, acqua e minerali. L'avvicinarsi della fase che vedrà l'esaurimento degli idrocarburi preoccupa notevolmente i vertici statunitensi e le difficoltà incontrate nell'operazione Iraq e Medio Oriente peggiorano il quadro. Di qui la necessità per gli Usa di assicurarsi le risorse vicine, che fino ad oggi sembravano sicure. Tra i temi che l'America dovrà necessariamente affrontare il prossimo anno, l'antiamericanismo occupa un posto importante, che va al di là della critica alla guerra in Iraq e alla politica estera dell'amministrazione di George W. Bush. Tutti i sondaggi dell'opinione pubblica mondiale, infatti, segnalano un peggioramento dell'immagine degli Usa nel mondo sempre più percepiti, al di fuori dei loro confini, come arroganti, avidi e unilateralisti. Al di là delle tensioni politiche, i rapporti con Venezuela ed Ecuador si reggono sull'intenso scambio commerciale ' petrolio ma non solo ', che spinge gli Stati Uniti e i suoi vicini a non tagliare tutti i legami. Ancora oggi, il 60% delle esportazioni di petrolio venezuelano viene assorbito dagli Usa per i quali le importazioni dal Venezuela rappresentano l'11% del totale. Nei primi tre mesi del 2006, le esportazioni di prodotti non petroliferi venezuelani verso gli Stati Uniti sono aumentate del 116%, mentre ldel Nord ha fornito a Caracas le automobili e i prodotti elettronici destinati alla classe media. Ugualmente Bush non ha potuto far altro che complimentarsi con il neoeletto presidente dell'Ecuador Rafael Correa visti gli interessi statunitensi nel piccolo Paese sudamericano. Non c'è solo la base militare, ma anche i contratti per lo sfruttamento del petrolio. Nel giugno scorso, Quito ha cancellato il contratto della statunitense Occidental Petroleum (che operava nella regione nord-orientale amazzonica, producendo circa un quinto della produzione annuale ecuadoregna), accusata di una vendita irregolare. Lo scontro tra Stato e società petrolifere si è inasprito ulteriormente quando il Parlamento ecuadoregno ha deciso di alzare le imposte per le compagnie dal 20% al 50%. La compagnia di Stato Petroecuador, sostenuta dai movimenti popolari ecuadoregni, ha spiegato la misura con l'aumento del prezzo del petrolio e con l'obiettivo di investire nel Paese i profitti del greggio. Tuttavia per l'Ecuador diversamente dal Venezuela è più difficile giungere al braccio di ferro con gli Usa perché Quito deve fare i conti con il pesante debito estero, vicino agli 11 miliardi di dollari, che tutti i candidati alle ultime elezioni hanno affermato di voler rinegoziare per effettuare investimenti in salute, istruzione e tecnologia. Per tutti questi motivi, è difficile immaginare una guerra commerciale netta tra Quito e Wa-shington. Gli Usa infine sono il primo partner commerciale dell'Ecuador, che vi esporta circa metà della sua produzione totale. Dal canto loro gli Usa non possono trascurare un mercato energetico che potrebbe crescere in modo esponenziale nei prossimi anni, facendo concorrenza ai Paesi del Medio Oriente. Infine l'esperienza del Venezuela, che esporta oltre la metà del suo petrolio negli Usa, dimostra che i contrasti politici non bloccano i rapporti economici. Esaminiamo ora gli avvenimenti principali nei singoli Stati.

Le elezioni politiche anticipate in Canada (23 gennaio) sono terminate con la vittoria di stretta misura dei conservatori di Stephen Harper che con il 36% dei voti hanno battuto i liberali del premier uscente Paul Martin, la cui immagine è stata screditata da corruzione e scandali. Il governo sarà dunque un monocolore di minoranza, com'era quello di Martin (tenuto in piedi dal sostegno esterno della sinistra di Jack Layton), perché i conservatori non sono riusciti a conquistare la maggioranza assoluta dei 308 seggi della Camera federale, aggiudicandosi solo 124 seggi (il già debole governo Martin ne aveva 135). Il nuovo esecutivo, composto interamente da conservatori, andrà di volta in volta in Parlamento a cercare i voti necessari ad approvare le proprie leggi. I conservatori hanno incentrato la campagna elettorale sul taglio delle tasse e sul rigore; sono l'unica forza politica canadese ad aver appoggiato la guerra contro l'Iraq; si oppongono al rispetto del Protocollo di Kyoto sulle emissioni di gas inquinanti in atmosfera e appoggiano il progetto di scudo spaziale del Pentagono. Mentre i governi di Chrétien e Martin sono stati più vicini all'Europa che agli Stati Uniti, Harper ha promesso di ricucire lo strappo con Washington, anche se è probabile che i conservatori avranno difficoltà a trovare i voti necessari per far passare l'adesione allo scudo spaziale di Bush o l'invio delle truppe in Iraq, così come a promuovere una sanità di stampo statunitense dal momento che gli altri partiti sono su posizioni diverse. Un altro dato importante che è emerso dalle urne è la sconfitta del Bloc Québecois, il partito della minoranza francofona guidato da Gilles Duceppe che ha perso quattro seggi, passando da 55 a 51. Considerato che le elezioni anticipate sono state causate dall'emergere dello scandalo per corruzione dei liberali in Québec, i vertici del partito francofono contavano in un'affermazione elettorale importante che consentisse di puntare verso un nuovo referendum per il separatismo. Con questo risultato lo slancio separatista diminuisce perché i voti persi dai liberali nella provincia sono andati in parte ai conservatori. Tuttavia in febbraio ha visto la luce un nuovo partito indipendentista di sinistra, Québec Solidaire, guidato da Françoise David e Amir Khadir. Soddisfatto l'Ndp (Nuovo partito democratico) di Jack Layton, anche se l'aumento di seggi è stato più contenuto di quello che il leader si aspettava. I conservatori, tradizionalmente forti nell'Ovest del Paese, dalle Grandi pianure alla costa del Pacifico, hanno fatto breccia, questa volta, nella provincia più popolosa, quella dell'Ontario, per tradizione roccaforte liberale, e, parzialmente, nel Québec. La svolta a destra del Canada preoccupa chi teme lo smantellamento dello stato sociale, all'insegna del 'meno tasse' e 'meno spesa pubblica', in un Paese finora meno liberista degli Stati Uniti e più simile a un Paese europeo. Come promesso il primo atto importante del nuovo governo è stata la presentazione di un progetto di legge (11 aprile) sull'imputabilità che ha come obiettivo il risanamento dei costumi politici a Ottawa. Il progetto prevede una serie di misure sul finanziamento dei partiti, il controllo dei processi amministrativi e di bilancio, e il miglioramento della legge sull'accesso alle informazioni. In linea con le sue promesse elettorali il governo ha poi presentato la sua prima legge di bilancio che prevede un alleggerimento fiscale grazie a una riduzione della tassa su prodotti e servizi dell'1%; aiuti ai genitori con figli piccoli; l'annullamento delle liste d'attesa nei servizi sanitari e la correzione dello squilibrio fiscale tra governo federale e province.

Elezioni anche in Costa Rica dove il 5 febbraio si è votato per eleggere il presidente, i due vicepresidenti, i 57 deputati che compongono l'Assemblea legislativa e i sindaci di 81 città. Dei 14 candidati solo due avevano qualche possibilità di vincere: il premio Nobel per la pace Oscar Arias, già capo dello Stato tra il 1986 e il 1990, del Partito socialdemocratico di Liberazione nazionale (Pln), e un dissidente dello stesso partito, il centrista Otton Solis, ministro della Pianificazione durante la presidenza Arias, che si è presentato con la lista Partito azione cittadina (Pac). Sostenitore senza riserve dell'accordo del Trattato per il libero commercio con gli Usa (Tlc), Arias si è presentato con gli obiettivi di raggiungere una crescita annua del 6%, di sconfiggere la piaga dell'abbandono scolastico e di creare migliaia di posti di lavoro e ha fatto di tutto pur di essere candidato, riuscendo anche a cambiare la Costituzione, che ne impediva la rielezione alla presidenza. La proposta politica di Solis va in senso opposto e la sua campagna elettorale ha fatto perno sul rifiuto del Tlc, sulla protezione delle imprese statali e sugli investimenti nel sociale. La legge elettorale costaricana permette la vittoria al primo turno del candidato che superi la soglia del 40% più uno dei voti. Trascorso un mese dal voto, il Tribunale supremo delle elezioni costaricano, terminato il riconteggio manuale delle schede deciso dopo che, dallo scrutinio elettronico dell'87,3% delle schede, i due principali candidati erano in parità, ha dichiarato presidente eletto Arias con il 40,5% dei voti contro il 40,3 % di Solis. Molto alto l'astensionismo (34,7%) a causa degli scandali che hanno coinvolto gli ultimi tre presidenti della Repubblica, accusati di corruzione: Rafael Ángel Calderón, Miguel Ángel Rodríguez e José María Figueres si sono trovati invischiati in vari scandali che hanno portato i primi due in carcere e costretto il terzo all'esilio in Svizzera. Dal canto suo il presidente uscente, lo psichiatra Abel Pacheco, non è stato in grado di guidare il Paese in questi difficili momenti, limitandosi a raggiungere stancamente la fine del mandato, preoccupato soprattutto di evitare conflitti sociali. Sarà dunque il suo successore a dover fare i conti con le proteste popolari suscitate dalla riforma fiscale e dall'adesione al Tlc e con le richieste di maggiori investimenti nella sanità e nell'istruzione e un generale rilancio dell'economia (nonostante infatti il Costa Rica sia il Paese più benestante del Centroamerica, almeno il 20% della popolazione vive in condizioni di estrema povertà). I sindaci temono che Arias, intenzionato a portare il Costa Rica verso un'economia neoliberale aprendo il mercato interno ai settori che ancora sono protetti dallo Stato (in primo luogo sanità e telecomunicazioni), conduca allo sfacelo lo stato sociale.

In agosto a Cuba il presidente Fidel Castro è uscito dalla scena politica, costretto a farsi da parte dalla malattia ' è stato operato d'urgenza all'intestino ', mentre a Miami gli esuli anticastristi facevano festa, sfilando per le strade della città statunitense. Secondo la Costituzione cubana dovrebbe essere il vicepresidente a svolgere le funzioni del presidente in caso di morte o grave malattia e infatti Fidel stesso, che il 13 agosto ha compiuto 80 anni, ha lasciato il comando al fratello Raúl, ministro della Difesa e vicepresidente. A sorpresa, prima di ritirarsi, il líder máximo ha presenziato al XXX Vertice dei capi di Stato del Mercosur, l'unione commerciale di cui fanno parte Argentina, Brasile, Uruguay, Paraguay e dal 5 luglio anche il Venezuela, firmando un accordo economico in base al quale viene raddoppiata la quantità di prodotti che possono entrare nell'isola senza dazi doganali o con tariffe ridotte (21 luglio). Intanto il Parlamento europeo ha approvato a larga maggioranza (560 voti a favore, 33 contrari e 19 astenuti), e con l'appoggio anche dei partiti socialisti, una risoluzione (3 febbraio) nella quale si fa capire che, visto il comportamento del regime castrista in materia di repressione dei diritti, sarà molto difficile che migliorino le relazioni tra Unione europea e Cuba. La nuova risoluzione è la conseguenza dell'atteggiamento del governo cubano che ha continuato a dare segnali di netta intransigenza nei confronti dei dissidenti, tanto che nel corso del 2005 non solo non sono stati scarcerati prigionieri politici ma il loro numero è aumentato. E questo nonostante, nel gennaio 2005, l'Ue avesse eliminato alcune delle sanzioni introdotte dopo i 75 arresti del marzo 2003.

Nel Salvador le elezioni legislative (12 marzo) sono terminate con la vittoria di strettissima misura dell'Alleanza repubblicana nazionalista (Arena, al potere dal 1989), che ha ottenuto il 39,42% dei consensi contro il 39,10% del Frente Farabundo Martí di liberazione nazionale (Fmln, ex guerriglia di sinistra). L'Arena, il partito del presidente Antonio Saca, ha ottenuto 34 seggi contro i 32 dell'Fmln. Nelle contemporanee elezioni amministrative, l'Arena ha ottenuto 147 sindaci su 262, contro i 52 dell'Fmln che però ha conquistato la capitale San Salvador.

In Giamaica Portia Simpson, del Partito nazionale del popolo (Pnp, People's National Party di stampo laburista), ha preso il posto (30 marzo) di Percival J. Patterson, da 14 anni alla guida del Paese, che ha deciso di ritirarsi dalla vita politica. La Simpson, avendo vinto le primarie interne al partito di governo (26 febbraio), aveva automaticamente guadagnato il diritto a succedere al primo ministro in carica. Prima donna premier della Giamaica, la Simpson dovrà fare i conti con il problema della violenza diffusa e mantenere la promessa da lei fatta di difendere i ceti emarginati.

In Guatemala, a tre anni dall'elezione di Oscar Berger l'economia ristagna, le violenze continuano mentre agli ex membri delle organizzazioni paramilitari il presidente ha concesso sussidi in denaro. Ex sindaco della capitale, Berger era stato eletto presidente al secondo turno con il 54,13% dei voti contro il 45,87% del candidato del centrosinistra Alvaro Colom. L'elezione rappresentò una netta rottura con il governo Portillo, che aveva dato voce agli interessi particolari legati alla destra e quindi all'esercito. Intanto, per la prima volta nella storia del Guatemala, tre persone saranno giudicate per genocidio, terrorismo di Stato e torture per i fatti accaduti durante la cosiddetta 'guerra sucia' (cioè 'guerra sporca', un regime di violenza indiscriminata, persecuzioni e repressione illegale durato 36 anni, dal 1960 al 1996): il generale ángel Guevara, ministro della Difesa durante il regime di Romero Lucas García (1978-82) quando fu assaltata l'ambasciata spagnola; German Chupina, direttore generale della polizia durante lo stesso periodo, e Pedro Garcia Arredando, capo del terribile Comando 5 della polizia, incaricato di reprimere gli oppositori politici. A giudicarli sarà la Audiencia Nacional di Spagna che in novembre ha emesso gli ordini internazionali di cattura. A questo organismo il premio Nobel per la pace Rigoberta Menchú aveva sporto denuncia di genocidio (1999) dopo l'omicidio di quattro missionari spagnoli, la sparizione di un quinto e l'assalto all'ambasciata spagnola condotto dalla polizia, nel quale morirono 37 persone fra cui il padre della Menchú (31 gennaio 1980). La vicenda ha evidenziato le spaccature della società guatemalteca. Da una parte le organizzazioni umanitarie e le famiglie dei desaparecidos hanno salutato questo processo spagnolo come l'inizio della fine dell'impunità; dall'altra i settori reazionari e legati al potere hanno definito la misura un''inaccettabile' ingerenza di un Paese straniero negli affari interni di uno Stato sovrano. L'ordine di cattura riguarda anche Oscar Humberto Mejia e Rios Montt (che tuttavia per ora, grazie a cavilli burocratici, sono rimasti fuori dal procedimento): secondo lo studio eseguito dal vescovo assassinato Juan Gerardi 'Guatemala, nunca mas' e la documentazione raccolta dall'Onu 'Guatemala, memoria del silenzio', quando Montt fu al potere (1982-83) si registrarono il 69% delle esecuzioni, il 41% degli stupri e il 45% delle torture perpetrate nel corso dei 36 anni della 'guerra sucia'.

In vista delle elezioni presidenziali e legislative del 7 febbraio, le prime dopo la caduta, il 29 febbraio 2004, del regime dell'ex presidente Jean Bertrand Aristide, l'ondata di violenze che a partire da novembre 2005 ha investito Haiti è andata aumentando. Il Paese si trova sotto il controllo delle Nazioni Unite, intervenute nel 2002 quando si erano moltiplicate le manifestazioni contro il governo di Aristide, accusato di essere stato rieletto nel 2000 grazie a brogli. Il 26 settembre 2005, il Consiglio elettorale provvisorio di Haiti aveva pubblicato una lista di 32 candidati autorizzati a partecipare alle presidenziali, fissate inizialmente per il 20 novembre, termine che, dopo ulteriori slittamenti, era stato spostato a febbraio 2006. Il 2 febbraio sono dunque giunti sull'isola gli osservatori delle Nazioni Unite per controllare il regolare andamento del voto. Le consultazioni, che hanno visto una partecipazione molto elevata (tra il 75 e l'80%), sono terminate con la vittoria al primo turno di René Préval, ex primo ministro e fedele sostenitore di Aristide, che ha ottenuto il 51,15% dei voti. Nei giorni precedenti la proclamazione della vittoria si è temuto il peggio dopo il ritrovamento di migliaia di schede elettorali, tutte a favore di Préval, bruciate e buttate in una discarica pubblica. Le denunce su possibili brogli hanno costretto il presidente ad interim Alexandre Boniface ad aprire un'inchiesta per fugare ogni possibile dubbio. Inoltre il ritrovamento delle schede elettorali ha generato nuova tensione sociale, facendo ripiombare Haiti nel clima di violenza e dando il via a nuovi scontri con gli uomini della Minustah, la Missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite, scontri alimentati dalla popolazione delle bidonville che non ne voleva sapere di eventuali ballottaggi. Préval ha ereditato un Paese nel caos, senza strade né elettricità e con l'economia in ginocchio. Il neopresidente aveva già guidato l'isola dal 1996 al 2001, ma senza grandi risultati: i pochi successi ottenuti erano stati offuscati da denunce di violazioni di diritti umani e accuse di brogli nelle parlamentari del 2000. Durante la campagna elettorale Préval ha dichiarato di avere due obiettivi: la crescita economica e il rafforzamento delle istituzioni. Infine Préval dovrà fare i conti con le pressioni del partito Lavalas, il partito di Aristide, che chiede il ritorno dell'ex presidente. Quest'ultimo ha negato di essersi dimesso, accusando i governi di Wa-shington e Parigi di averlo sequestrato e costretto ad abbandonare il Paese. Il 3 dicembre infine si sono tenute anche le elezioni per sindaci, giudici di pace, delegati regionali, seconda tappa del programma di decentralizzazione del potere iniziato il 7 febbraio. La tensione e la violenza sono cresciute ' nella capitale si sono registrati molti incidenti e addirittura 4 morti ' mentre la partecipazione al voto non è arrivata al 10%.

Elezioni presidenziali anche in Messico (2 luglio) dove si sfidavano cinque candidati: Roberto Mandrazo, candidato del Pri (Partido Revolucionario Istitucional) e dei Verdi, Patricia Marcado, candidata socialdemocratica, Roberto Campa, fuoriuscito dal Pri e ora candidato della Nueva Alianza, Andrés Manuel López Obrador, detto Amlo, candidato del Prd (Partido Revolucionario Demócrata che guida un'alleanza tripartita), e Felipe Calderón, candidato del Pan (Partido Acción Nacional, centrodestra) del presidente uscente Vícente Fox. Solo due di loro, però, avevano concrete possibilità di essere eletti: Obrador e Calderón, protagonisti di uno scontro senza esclusione di colpi. Calderón ha definito Obrador un pericoloso populista la cui vittoria avrebbe provocato una fuga di capitali e una crisi economica, lo ha accusato di non aver mantenuto gli impegni presi durante il suo mandato come sindaco di Città del Messico, indebitando pesantemente il Distretto federale, e di mantenere amicizie 'pericolose' con il subcomandante Marcos e con gli aderenti alla Otra Campaña ('l'altra campagna'). Quest'ultima è stata lanciata il 1' gennaio da Marcos: per sei mesi l'Esercito zapatista di liberazione nazionale (Ezln) ha attraversato il Paese per promuovere un progetto politico alternativo. Marcos ha attaccato duramente tutti i candidati alla presidenza, compreso Obrador, invitando i messicani a non andare a votare e a unirsi al suo movimento con l'obiettivo di dar vita a un nuovo modo di far politica, partendo dal basso e coinvolgendo tutte le componenti della società. A infiammare ulteriormente il dibattito pubblico è stata la minaccia fatta dalla moglie di un imprenditore, condannato per truffa, di diffondere un video con immagini che testimonierebbero la corruzione di Obrador. Dal canto suo quest'ultimo ha accusato l'avversario di aver abusato del suo potere quando era ministro dell'Energia, firmando importanti contratti a favore del cognato, consentendogli anche l'evasione fiscale. Obrador ha poi dimostrato che, durante il suo mandato come sindaco di Città del Messico, sono calati in modo sensibile i reati minori (ad esempio furti e spaccio) e ha fatto sapere che, in caso di vittoria, avrebbe convocato i rappresentanti delle chiese, le associazioni di imprenditori e quelle della società civile per costruire insieme un nuovo 'patto sociale' e far avanzare l'economia messicana. Calderón invece, ha illustrato il suo progetto per colpire duramente la delinquenza e, sostenuto dal candidato del Pri Mandrazo, ha proposto il carcere a vita per le persone che si macchino del reato di sequestro di persona. Il maggiore punto di scontro tra i due candidati favoriti è stato sicuramente come e quanto debba contare la presenza dello Stato nell'economia nazionale e nella gestione delle risorse. Obrador ritiene che il surplus del bilancio dello Stato derivante dai prezzi molto alti del greggio sul mercato internazionale debba essere reinvestito in patria, per la creazione di posti di lavoro in raffinerie e impianti petrolchimici, oltre che essere utilizzato per dare sussidi sull'acquisto dei carburanti a favore delle fasce più deboli della popolazione; inoltre Amlo ne vorrebbe ridurre le esportazioni per favorire il consumo interno anche su scala industriale oltre che per uso privato. Per Calderón invece, i guadagni petroliferi andrebbero reinvestiti per cercare, insieme alle multinazionali, nuovi giacimenti in modo da produrre di più per incrementare le esportazioni e, di conseguenza, gli introiti per lo Stato. Anche la questione del rapporto con gli Stati Uniti soprattutto per quanto riguarda la questione dell'immigrazione clandestina è stato un tema di discussione in campagna elettorale. Sono migliaia, infatti, i messicani che ogni anno attraversano clandestinamente la frontiera settentrionale in cerca di fortuna negli Stati Uniti e secondo la Bbc dei 10 milioni di messicani residenti negli Usa, quattro sono illegali. Le elezioni del 2 luglio hanno rappresentato dunque una contesa tra due progetti politico-economici diversi specchio di un conflitto tra classi. Settori molto importanti di lavoratori ed emarginati hanno visto nella candidatura di Obrador una speranza per migliorare le proprie condizioni di vita; al contrario una parte molto significativa degli imprenditori era convinta che il candidato del centrosinistra fosse una minaccia al modello di Paese che vogliono vedere affermato. Le consultazioni sono terminate, dopo un estenuante conteggio delle schede, con la vittoria di misura di Calderón che con il 35,89% dei consensi ha battuto Obrador fermo al 35,31% (gli osservatori internazionali avevano pronosticato la vittoria di Obrador forse influenzati dalla svolta dell'America latina, che ha spinto molti a vedere nell'ex sindaco di Città del Messico un probabile nuovo presidente di sinistra). Patricia Mercado del Partido de alternativa socialdemocratica e campesina (Pasc) e Roberto Campa di Nueva Alianza, si sono attestati rispettivamente in terza (2,71%) e quarta posizione (0,94%). A questo punto, Obrador, considerato nel corso della campagna elettorale l'uomo giusto per dare il via a una nuova era politica in Messico, dove la sinistra non ha mai vinto le elezioni, ha chiesto il riconteggio manuale delle schede elettorali, per supposte anomalie riscontrate durante lo scrutinio dei voti. Nel frattempo migliaia di persone si sono riuniti a Città del Messico per manifestare a sostegno di Obrador (8 luglio) e al termine di una manifestazione sempre nella capitale, sono stati allestiti 47 presidi permanenti (30 luglio). Dopo una serie infinita di ricorsi, scambi di accuse, denunce di brogli, con un dettagliato documento di oltre 300 pagine, il Tribunale elettorale ha posto fine alla contesa assegnando definitivamente la vittoria a Calderón (5 settembre). Per quanto riguarda invece le legislative il Pan ha conquistato per la prima volta la maggioranza relativa davanti al Prd in entrambe le camere. Il Prd ha trionfato nel Sud povero e il Pan nel Nord più ricco. Washington ha accolto con sollievo la decisione del Tribunale dal momento che la politica neoliberista del Pan, che segue i dettami di Banca mondiale (Bm) e Fondo monetario internazionale (Fmi), è vista con favore in un'America latina che va sempre più a sinistra. Nonostante il verdetto del Tribunale elettorale, il 16 settembre, giorno dell'indipendenza del Messico, migliaia di manifestanti hanno proclamato Obrador 'presidente legittimo'. Amlo ha ricevuto la fascia tricolore della presidenza dalla senatrice del Partido de la revoluciòn democràtica Rosario Ibarra de Pietra, attivista per i diritti umani contro i crimini perpetrati dall'esercito e dalle forze di polizia durante la guerra contro-rivoluzionaria degli anni Settanta. Il discorso di Obrador ha toccato diversi punti, assumendo in parte le richieste più radicali della Appo (Assemblea popolare dei popoli di Oaxaca), e di altri movimenti sociali: difesa e incremento dei salari minimi, rifiuto della privatizzazione delle risorse petrolifere, elettriche e della biodiversità, educazione laica e gratuita, sostegno ai migranti e rifiuto del muro tra Stati Uniti e Messico. Infine Obrador ha convocato la piazza per il 1' dicembre per guidare un corteo verso il palazzo legislativo dove, secondo il protocollo, il presidente entrante Calderón avrebbe ricevuto la fascia tricolore dalle mani del presidente uscente. Il 1' dicembre come stabilito, i militanti del Partido de la revoluciòn democràtica (Prd), la società civile organizzata nella Convenzione nazionale democratica e organizzazioni della sinistra marxista si sono date appuntamento nel centro di Città del Messico per sostenere l'ostruzionismo dei deputati e senatori del partito contro la cerimonia di investitura del contestato neopresidente. Ma diversamente dalle aspettative Felipe Calderón è stato nominato presidente del Messico la notte precedente con una cerimonia a porte chiuse, accompagnato solamente dai vertici delle Forze armate e dai membri del gabinetto uscente e di quello entrante. Il nuovo presidente ha tenuto un lungo discorso, accompagnato dal nuovo gabinetto tra i cui membri spicca il vicedirettore del Fondo monetario internazionale Agustín Carstens all'Economia e Francisco Ramirez Acuña all'Interno. Il primo provvedimento preso da Calderón (3 dicembre) è stato una riduzione del 10% del suo stipendio e di quello dei suoi ministri. Ha poi annunciato un piano di austerità che prevede la riduzione degli stipendi dei più alti funzionari pubblici, in modo da far risparmiare allo Stato 2,5 miliardi di dollari nel 2007. Al movimento di protesta post-elettorale si sono intrecciati i conflitti sociali a Oaxaca e in Chiapas. A Oaxaca, città del Messico meridionale e capitale dello Stato omonimo, una semplice protesta locale si è trasformata in un caso nazionale, che ha rischiato di mettere a rischio la stabilità del Paese. Il 22 maggio infatti migliaia di insegnanti sono scesi in piazza per chiedere un aumento di salari e aiuti per i propri studenti, privi dei minimi strumenti di apprendimento. Al rifiuto di lasciare la piazza, il governatore dello Stato Ulises Ruiz ha inviato un migliaio di agenti, che sono intervenuti con violenza contro gli insegnanti. A questo punto la protesta è cresciuta e, organizzatasi sotto il nome di Appo (ne fanno parte più di 350 organizzazioni civili, tra cui sindacati e movimenti indigeni), ha cominciato a chiedere le dimissioni di Ruiz, accusato di aver falsificato le ultime elezioni e di reprimere il dissenso. In tre mesi la protesta è degenerata in guerriglia urbana (decine di migliaia di persone in piazza, blocchi stradali ecc.) finché alla fine di agosto l'occupazione di stazioni radio e televisive locali da parte della Appo è finita in tragedia con un misterioso incendio che ha provocato alcune vittime. Il 29 ottobre le forze di polizia, su ordine del presidente Fox ancora in carica ' Calderón si insedierà nei mesi successivi ', hanno lanciato una vasta operazione per cercare di porre fine alle proteste, riprendendo il controllo della piazza principale mentre anche il Parlamento federale chiedeva le dimissioni di Ruiz. Intanto gli Stati Uniti hanno deciso di costruire una barriera di 1.000 km al confine con il Messico per impedire l'ingresso degli immigrati clandestini: ogni anno sono almeno trecento i clandestini che perdono la vita nel tentativo di raggiungere gli Usa. Secondo l'opposizione, la migrazione di massa verso il Nord è un chiaro segnale dell'insuccesso delle politiche di Fox. Ricorrendo all'uso della forza militare invece di puntare sulla cooperazione con il Messico, gli Stati Uniti hanno fatto capire che non considerano più il Paese un partner affidabile in materia di sicurezza. Le misure annunciate da Washington ' invio della guardia nazionale alla frontiera con il Messico, costruzione di un muro lungo 535 km, uso di sensori che rilevano i movimenti, di telecamere a infrarossi e di aerei da ricognizione senza pilota ' vengono criticate da più parti sia perché non in grado di combattere efficacemente il problema dell'immigrazione illegale sia perché nasconderebbero disegni politici di altra natura.

Anche in Nicaragua si sono tenute le elezioni presidenziali (5 novembre), in un clima di generale disinteresse in un Paese dove su 5 milioni e mezzo di abitanti, oltre 4 milioni vivono sono sotto la soglia di povertà. Per tutta l'estate, nei sondaggi sulle intenzioni di voto, aveva la meglio Daniel Ortega, leader storico del Fronte sandinista di liberazione nazionale (Fsln) e presidente del Paese dal 1979 al 1990, ma alla vigilia del voto l'incertezza regnava sovrana. In ogni caso i candidati più accreditati erano Ortega e l'imprenditore Eduardo Montealegre, ex esponente del Plc (Partito liberale costituzionalista), ex ministro delle Finanze e ora leader dell'Alleanza liberale nicaraguense (Aln), gruppo antisandinista, espressione del presidente uscente Enrique Bolaños, che ha dichiarato guerra al 'patto' fra Fsln e Plc, promosso dell'ex presidente Arnoldo Alemán. Se sulla carta il Plc è una coalizione di destra, infatti, in realtà dagli anni Ottanta, e più precisamente dal 1988 quando ancora Ortega era al comando, ha dato vita con l'Fsnl a una manovra di controllo dei poteri, a cominciare da quello giudiziario, che sta tenendo in scacco il Nicaragua. Ortega ha puntato tutto su un nuovo Fronte, privo di ogni aspirazione rivoluzionaria, facendo appello a concetti quali unità, amore e riconciliazione. In quest'ottica si pone il patto con il Plc che ha mantenuto così divisi i due partiti liberali, i quali, se uniti, avrebbero vinto. Inutile anche il tentativo statunitense di unire il Plc con l'Aln di Montealegre, in nome del 'voto utile', quello contro Ortega: il governo di Washington non vedeva di buon occhio la vittoria del candidato del Fronte che non nasconde il rapporto di amicizia con il venezuelano Chávez. Le possibilità di vittoria di Ortega sono cresciute dopo l'improvvisa scomparsa di Herty Lewites, leader carismatico del Movimento rinnovatore sandinista (Mrs). Ex sindaco di Managua, ministro e dirigente di primo piano dell'Fsnl, Lewites fondò l'Mrs, a cui hanno aderito figure di primo piano del sandinismo, dopo essere stato espulso dal partito proprio per aver proposto la sua candidatura in alternativa ad Ortega. La scissione era inevitabile perché sotto la guida di Ortega l'Fsnl ha accentuato il suo carattere settario e si è trovato al centro di pesanti accuse di corruzione mentre la politica concreta del partito ha perso la sua ispirazione originaria. A testimoniarlo è stata anche la scelta del candidato vice presidente: Ortega ha scelto Jaime Morales Carazo, uno dei principali capi politici della controrivoluzione. Carazo iniziò la carriera politica sotto la dittatura di Somoza, di cui sposò l'ideologia facendosene strenuo difensore; fu il negoziatore della Contra, la guerriglia antisandinista appoggiata dalla Cia e uomo vicino ad Arnoldo Alemán, divenuto presidente nel 1996 proprio sconfiggendo Ortega. Quest'ultimo ha cercato di giustificare la scelta come un passo del processo di riconciliazione nazionale anche se essa è parsa più come il risultato di una politica ambigua che ha portato l'Fsnl a stringere il patto con il Plc, patto grazie al quale i due partiti controllano il 90% del Parlamento (già nel 2005 votarono insieme una legge che esautorava il presidente in carica, Enrique Bolaños). Quando si trattò di approvare il Trattato di libero commercio (Tlc) con gli Usa, fortemente osteggiato dalla base, i deputati sandinisti non votarono perché bastavano i voti della destra, ma poi votarono le leggi di attuazione. Anche il Plc, principale partito della destra, è oggetto di critiche. Nelle mani di Alemán, è diventato uno strumento di potere per il suo leader e i suoi amici. Durante la sua presidenza (1996-2001) Alemàn si è arricchito a dismisura e nel 2003 è stato condannato a 20 anni di prigione per riciclaggio e malversazione, ma è riuscito ad ottenere gli arresti domiciliari, con la possibilità di girare liberamente nella capitale e di continuare la sua attività politica (per intercessione, pare, dello stesso Ortega). Di fronte a questo stato di cose, la stessa ambasciata americana, ha faticato a trovare un candidato, ostentando una certa neutralità. Sconfessato il Plc, tradizionale alleato degli Usa, Washington, aveva fatto un'apertura di credito verso Montealegre, della nuova formazione Aln. Le consultazioni sono terminate con la vittoria di Ortega con un vantaggio di 7 punti su Montealegre. A riprova del fatto che la sua presidenza non implicherà un ritorno al potere degli ideali rivoluzionari, lo stesso Ortega, nel suo primo discorso pubblico dopo le elezioni ha detto che 'non ci saranno cambi radicali nella base dell'economia'. Le prime riunioni del neopresidente sono state con i rappresentanti del Fondo monetario internazionale (Fmi) e la Banca interamericana di sviluppo (Bid), a cui è stata confermata la validità degli accordi sottoscritti dai presidenti di destra che lo avevano sconfitto nelle tre precedenti elezioni. Per quanto riguarda la politica estera, al di là del saluto agli 'amici' Fidel Castro, Hugo Chávez, Michelle Bachelet, Iñacio Lula da Silva e Néstor Kirchner, è stato chiesto agli Usa di avviare un dialogo basato su 'relazioni rispettose' e Washington, benché avesse minacciato ritorsioni in caso di vittoria di Ortega, ha risposto in modo sostanzialmente positivo. Ortega, infine, ha chiesto a Montealegre di 'lavorare assieme per il bene del Paese'. Ancora non è chiaro quale sia il suo progetto politico, dal momento che dopo la sconfitta elettorale del 1991, Ortega è radicalmente cambiato. Come molti altri ex guerriglieri si è arricchito in modo notevole e poco trasparente e soprattutto ha trasformato l'Fsln in un partito poco democratico, più strumento di potere che espressione degli interessi popolari, da cui tutti gli oppositori o i critici sono stati epurati. Ortega è stato anche definito 'il miglior garante del neoliberismo' per aver accettato la ratifica dell'accordo di libero scambio con gli Usa rifiutato da tutti gli altri Paesi latinoamericani di orientamento progressista perché accusato di essere deleterio per l'economia, l'ambiente e i diritti dei lavoratori. La campagna elettorale di Ortega, organizzata dalla moglie Rosario Murillo, ha fatto leva su un tono volto a compiacere la destra clericale e il suo principale esponente, il cardinale Miguel Obando y Bravo. Pochi giorni prima delle elezioni, accogliendo una petizione presentata da cattolici ed evangelici integralisti, i deputati sandinisti hanno votato, insieme alla destra, per abolire una legge in vigore dal 1848 che permetteva l'aborto terapeutico in caso di pericolo per la vita della madre, malformazione grave del feto e violenza carnale. Ora anche in questi casi estremi l'aborto sarà punito con il carcere e il Nicaragua è diventato il Paese con la legislazione più restrittiva del continente.

Nel tradizionale discorso sullo stato dell'Unione (31 gennaio), il presidente degli Stati Uniti George W. Bush ha indicato una serie di priorità per il 2006: guerra al terrorismo, a Iraq, Iran e Hamas, competitività dell'economia e tasse, riforma della sanità e nuove tecnologie energetiche per porre fine alla dipendenza americana dal petrolio mediorientale. Per Bush il discorso sullo stato dell'Unione doveva rappresentare un nuovo inizio, dopo un anno di polemiche politiche e di sondaggi deludenti, un ritorno ai programmi ambiziosi di politica interna bruscamente interrotti dagli attentati dell'11 settembre del 2001. Politicamente il 2005 è stato l'anno peggiore per Bush. L'indice di gradimento è crollato a causa della crescente disaffezione americana alla guerra in Iraq, il Ciagate (il programma segreto di intercettazioni telefoniche), l'inefficienza mostrata nei confronti dell'uragano Katrina e il sospetto di corruzione della leadership repubblicana. Bush comunque continua ad essere ritenuto affidabile come comandante in capo e la maggioranza degli americani è disposta a rinunciare a un po' di libertà pur di sentirsi sicura. Il presidente ha affrontato anche i temi dell'energia e della sanità: per quanto riguarda il primo punto, ha annunciato l'avvio di un vasto programma federale per la ricerca e lo sviluppo di fonti energetiche alternative (Advanced Energy Iniziative), spiegando che entro il 2025 l'America dovrà ridurre del 75% le importazioni di petrolio, altrimenti il sistema economico americano rischia di implodere. Il cambio di strategia annunciato potrebbe, secondo alcuni analisti, avere dei risvolti di politica interna e rappresentare un modo per rilanciare la popolarità presidenziale in vista delle elezioni di medio termine. L'instabilità delle regioni mediorientali, da cui gli Usa importano petrolio, e soprattutto la guerra in Iraq hanno provocato un forte rialzo dei prezzi del greggio, facendo temere la crisi petrolifera degli anni Settanta e incrinando parzialmente i rapporti tra Stati Uniti e Paesi dell'area mediorientale. Inoltre se sotto la presidenza di Mohammad Khatami le divergenze erano rimaste sopite, con l'elezione di Mahmoud Ahmadinejad la tensione è salita. Anche con il Venezuela di Hugo Chávez l'amministrazione Bush ha inaugurato una politica diplomatica piuttosto fredda, benché Washington continui ad acquistare petrolio da Caracas. È dunque probabile che il ragionamento di Bush sia stato fortemente influenzato dal fatto che in futuro sarà preferibile sviluppare energie alternative, piuttosto che trattare con i 'nemici'. Nonostante il fallimento della riforma della previdenza sociale annunciata nel discorso sullo stato dell'Unione del 2005, Bush ha accennato anche quest'anno alla riforma sanitaria perché esiste la consapevolezza che il sistema potrebbe non reggere più. I problemi sono due: i 46 milioni di non assicurati e l'alto costo dei servizi e delle polizze. L'idea di Bush è quella di trasferire i benefici fiscali su nuovi conti sanitari personali affidati a tutti i cittadini, i quali gestirebbero da soli e senza sprechi la propria spesa sanitaria. In politica estera è stato l'andamento del dopoguerra iracheno al centro delle preoccupazioni di Washington. Il senato dominato dai repubblicani ha respinto tutte e due le proposte che i democratici avevano avanzato durante il dibattito sul ritiro delle truppe americane dall'Iraq (22 giugno). La prima, presentata da John Kerry e Russ Feingold chiedeva il ritiro delle truppe entro luglio del 2007, previo consenso del governo iracheno, ed è stata bocciata con 13 voti contro 86; la seconda, che si limitava a chiedere a Bush di cominciare a ritirare i soldati quest'anno, ma senza stabilire date, ha ricevuto 39 voti a favore e 60 contro. Se anche tra le fila del partito repubblicano serpeggiava lo scoraggiamento per l'andamento della guerra, prendere le distanze dalla presidenza in piena guerra avrebbe potuto significare un disastro elettorale per i candidati repubblicani. È parso meglio quindi rispondere alle critiche dei democratici accusandoli di voler fuggire di fronte a una sfida difficile. Molti repubblicani hanno comunque fatto capire di considerare la strategia rischiosa, nonostante i piccoli successi come la formazione del nuovo governo iracheno e l'uccisione di Abu Mussab Al Zarqawi. Le elezioni di mid-term hanno costituito come sempre un referendum sull'operato del presidente e sul partito al potere che quest'anno era ancora più tale dal momento che i repubblicani controllavano sia la presidenza, sia i due rami del Congresso. Tutti i sondaggi indicavano i repubblicani in netto calo e per diversi motivi. Prima di tutto ha pesato negativamente la guerra in Iraq dove le prospettive di successo si sono fatte sempre più incerte mentre le perdite di soldati americani sono aumentate di giorno in giorno (104 i morti nel solo mese di ottobre). Durante la campagna elettorale i democratici hanno dunque puntato il dito contro questa scelta benché non abbiano presentato alcuna reale politica alternativa. Oltre al disastro iracheno in politica estera hanno inciso anche le paure degli americani per una ricaduta dell'Afghanistan in mano ai nemici, la strisciante presenza del terrorismo islamico e la minaccia nucleare iraniana e nordcoreana. Anche sotto il profilo economico si registrava un certo malcontento. Nonostante infatti gli indicatori segnalino un buono stato dell'economia (forte crescita del Pil, bassa inflazione, bassa disoccupazione e un forte calo dei prezzi della benzina), a livello individuale c'è la percezione di non partecipare al benessere generale. Infine la lunga permanenza dei repubblicani al potere ha portato a un logoramento che si è tradotto nei numerosi scandali di corruzione che hanno visto implicati membri repubblicani del Congresso e che hanno intaccato l'immagine del partito repubblicano. Per soddisfare l'elettorato più conservatore in vista delle elezioni (elettorato convinto che i latinos 'rubino' il posto di lavoro agli americani), Bush ha inserito nelle previsioni di spesa del 2007 per la sicurezza nazionale la costruzione di un primo tratto del muro tra Usa e Messico, che si propone di impedire l'ingresso degli immigrati irregolari (4 ottobre). Il finanziamento, pari a 1,2 miliardi di dollari, copre solo in parte il preventivo complessivo, stimato tra i 2 e i 9 miliardi. Le elezioni si sono dunque concluse con una disfatta per i repubblicani, arrivati al voto con 30 seggi di vantaggio. Il voto ha ribaltato la situazione alla Camera, dando ai democratici la maggioranza con una trentina di seggi di vantaggio. La vittoria dei democratici alla Camera ha rappresentato il trionfo di Nancy Pelosi, la deputata italo-americana che ha guidato la minoranza negli anni dell'indiscussa leadership repubblicana ed ora è destinata a diventare la prima donna speaker della Camera. In quanto tale, la prima e principale sfida della Pelosi sarà quella di mantenere la faticosa unità del partito raggiunta per ottenere la vittoria. Una vittoria dovuta anche e soprattutto ai democratici di destra, i cosiddetti 'blue dogs', che in molti distretti hanno sconfitto i repubblicani sul loro stesso terreno, appellandosi a valori quali la famiglia, una politica anti-tasse o il patriottismo. Un'ala conservatrice con cui la Pelosi, pro aborto e progressista, dovrà necessariamente dialogare. La scommessa della Pelosi sarà quella di far convergere tutti sulla 'new direction', come ha denominato il suo programma ristretto a pochi punti: aumento a 7,25 dollari del salario minimo sindacale (fermo a 5,15 dal 1996), prezzi più bassi per le medicine nel programma di assistenza sanitaria per i pensionati e un nuovo piano per l'Iraq. Anche al Senato i democratici hanno ottenuto la maggioranza seppure di un solo seggio. I seggi degli Stati di Virginia e Montana sono rimasti in bilico fino alla fine ma poi in Montana il democratico John Tester ha battuto il senatore repubblicano uscente Conrad Burns e in Virginia il democratico Jim Webb ha superato di una manciata di voti il repubblicano George Allen. In uno Stato-chiave per il Senato, il Missouri, i democratici hanno strappato un seggio ai repubblicani con la cattolica Claire McCaskill, che ha superato di 42 mila voti il rivale Jim Talent (senatore uscente e presbiteriano), in una campagna caratterizzata anche dal successo di un referendum ('sì' 51%, 'no' 49%) per consentire la ricerca e le terapie con cellule staminali, in accordo con le leggi federali e mettendo però al bando la clonazione umana. I democratici hanno avuto la meglio anche nelle elezioni per i governatori che ora sono democratici 28 su 50. Nei 36 Stati in cui si votava, i democratici hanno strappato ai repubblicani sei governatori e questo potrebbe avere ripercussioni anche sulle elezioni presidenziali del 2008 dal momento che il controllo di uno Stato garantisce generalmente più contributi per la campagna elettorale, e un governatore popolare può portare al suo partito molti voti in più. Grande è stata l'affermazione di Hillary Clinton nello Stato di New York, dove la moglie dell'ex presidente ha ottenuto l'84% dei voti. Tra i governatori è stato rieletto in California Arnold Schwarzenegger e per la prima volta dopo 12 anni un democratico è tornato governatore di New York, Elliot Spitzer. Il Massachusetts ha invece eletto il suo primo governatore nero, Deval Patrick. In molti Stati, in concomitanza con le elezioni della Camera, del Senato e dei governatori, si è votato per una serie di referendum. Oltre a quello del Missouri, sulle cellule staminali, in otto Stati si è votato se mettere al bando i matrimoni tra omosessuali. Colorado, Sud Dakota, Sud Carolina, Tennessee, Virginia, Wisconsin e Idaho hanno approvato la proposta in cui si definisce nella Costituzione dei rispettivi Stati che il matrimonio è l'unione fra un uomo e una donna. Solo in Arizona l'emendamento non è passato. Con l'approvazione del 55% dei votanti, in California è passato un referendum che tassa le perforazioni petrolifere per creare un fondo di 4 miliardi di dollari da destinare alle energie alternative e ridurre il consumo di petrolio del 25%. In Colorado, Sud Dakota e Nevada è stata bocciata la legalizzazione della marijuana. Sconfitti, in Sud Dakota, gli antiabortisti. In Arizona, Colorado, Nevada, Montana, Ohio e Missouri sono stati approvati referendum per l'aumento dei salari minimi. In conseguenza del deludente risultato delle elezioni si è dimesso il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, figura simbolo dell'amministrazione Bush, al centro delle critiche popolari per via della gestione fallimentare del conflitto in Iraq. Bush ha annunciato che alla Difesa sarà nominato Robert Gates, ex direttore della Cia (1991-93) e membro della commissione bipartisan che, sotto la presidenza di James Baker, sta esaminando la possibilità di un cambio di strategia per l'Iraq (l'insediamento ufficiale di Gates è rinviato al 2007 perché soggetto all'approvazione del nuovo Senato). In ogni caso Bush ha escluso il ritiro anticipato e l'avvio di negoziati diretti con Iran e Siria. La stessa vittoria democratica non implica un imminente ritiro americano da Baghdad o un cambio radicale della politica di Washington in Medio Oriente dal momento che Bush rimane, nonostante la perdita della maggioranza in entrambi i rami del Parlamento, il solo responsabile della politica estera, e l'unico mezzo che ha il Congresso per fargli cambiare idea sarebbe un taglio dei fondi per la guerra. In ogni caso i democratici, che pure hanno fatto dell'opposizione alla conduzione del conflitto una delle loro più efficaci armi propagandistiche, non hanno alcuna intenzione di abbandonare il campo e accettare la sconfitta. Neppure Nancy Pelosi, una dei pochi deputati che a suo tempo votarono contro l'attacco all'Iraq, ha intenzione di seguire questa linea. Inoltre le posizioni all'interno del partito democratico vanno dai sostenitori di un ritiro immediato (pochissimi) ai falchi che rimproverano a Rumsfeld di non avere inviato in Iraq truppe sufficienti per sconfiggere la guerriglia (posizione condivisa da una parte dei vertici militari). Resta il fatto che la vittoria dei democratici offre l'occasione per mettere fine a una politica di rigido unilateralismo che ha ignorato ogni critica all'amministrazione statunitense e apre la strada alla creazione di una commissione d'inchiesta sulle vere ragioni della guerra in Iraq e sulla gestione del dopoguerra. A gennaio dunque, quando inizieranno gli ultimi due anni del mandato di Bush, il partito repubblicano non avrà la maggioranza né alla Camera dei rappresentanti e nemmeno al Senato: non si pone comunque il problema delle dimissioni del presidente, poiché negli Usa l'amministrazione in carica non è legata alle maggioranze del potere legislativo e il Congresso non può far cadere l'esecutivo. Dopo il voto gli Usa sono tornati dunque al cosiddetto 'governo diviso', con il presidente e gli organi direttivi del Congresso appartenenti a due partiti diversi. Non è ancora possibile capire quale sarà l'indirizzo politico della nuova maggioranza del Congresso. Difficile dire cosa comporterà concretamente questo cambiamento per la politica interna e per quella internazionale dal momento che i democratici, nella loro campagna elettorale, non solo non hanno fatto vedere un programma coerente ma non hanno indicato una chiara strategia alternativa nemmeno su temi cruciali quali la guerra in Iraq, la lotta al terrorismo, la corruzione o la riduzione del carico fiscale. Anche per quanto riguarda le tematiche sociali (aborto, matrimoni gay, salario minimo, immigrati) le idee in campo democratico rimangono piuttosto confuse. Subito dopo le elezioni di metà mandato è cominciata la corsa per le candidature alle presidenziali del 2008 sia tra i democratici che tra i repubblicani. Così per i democratici si stanno preparando Hillary Clinton e Barack Obama, mentre per i conservatori l'ex sindaco di New York Rudolph Giuliani e il senatore John McCain. Quando il 6 dicembre la Commissione presieduta da James Baker ha presentato al presidente e al Congresso le 79 raccomandazioni per uscire dalla crisi irachena, ha sancito in qualche modo la fine dell'era Bush. Il rapporto infatti ha demolito punto per punto tutta la linea ispirata per sei anni dalla coppia Cheney-Rumsfeld e che Bush aveva fatto propria. Secondo lo studio presentato da Baker se la situazione in Iraq, già grave, dovesse continuare a deteriorarsi 'uno scivolamento verso il caos potrebbe causare il collasso del governo iracheno e una catastrofe umanitaria. I Paesi vicini potrebbero intervenire, gli scontri tra sciiti e sunniti potrebbero diffondersi mentre Al Qaeda vincerebbe una vittoria propagandistica e potrebbe espandere le sue basi di operazione. La posizione globale degli Stati Uniti potrebbe sminuirsi e gli americani potrebbero diventare più divisi'. Le accuse più pesanti all'amministrazione riguardano il mancato coinvolgimento dei Paesi della regione nella ricerca di una soluzione e la drammatica frattura che la guerra ha prodotto nell'opinione pubblica e nel mondo politico americani. Solo una soluzione adeguata del conflitto palestinese consentirebbe l'inizio della distensione in tutta la regione. Le 79 proposte sottolineano dunque la necessità di agire in almeno tre sfere: cambiare la missione delle forze militari americane da responsabilità di sicurezza a funzioni di sostegno; accentuare il tono di riconciliazione nazionale del governo iracheno; lanciare uno sforzo diplomatico attraverso una conferenza internazionale che esamini la questione in un'ottica più ampia, regionale. Non è possibile che gli Usa e l'Iraq, da soli, possano tirarsi fuori da una situazione così complessa. Pertanto ciò che occorre è 'una nuova offensiva diplomatica', capace di condurre ad un 'Gruppo di sostegno dell'Iraq' composto da tutti i Paesi vicini, dall'Egitto, dagli stati del Golfo, dai cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell'Onu e da altri Paesi ancora come Germania, Giappone e Corea del Sud, che intendano aderire all'iniziativa.


America del Sud

L'anno elettorale in America latina si è aperto sotto il segno della sinistra, così come si era chiuso il 2005, dopo la storica vittoria in Bolivia del leader cocalero Evo Morales. La candidata di centrosinistra Michelle Bachelet ha infatti trionfato nel ballottaggio cileno battendo il rivale conservatore, il ricco imprenditore Sebastián Piñera. Lo spostamento a sinistra dell'asse politico latinoamericano, che prese il via nel 2002 con l'elezione alla presidenza del Brasile di Lula da Silva, seguita dalla vittoria in Uruguay, nell'ottobre 2004, di Tabaré Vazquez del Frente Amplio, è stato dunque confermato dalle elezioni in Cile, Bolivia, Ecuador e dalla riconferma di Lula e di Chávez in Venezuela. Ci sono però pochi tratti in comune tra i candidati denominati 'progressisti', che sono tali soprattutto in contrapposizione ai programmi dei loro avversari. In realtà in Cile vi è una continuità con il presidente Lagos, già socialista e anch'esso espresso dalla Concertación, coalizione di quattro partiti di centrosinistra (Partito cristiano democratico, Pdc; Partito socialista, Ps; Partito per la democrazia, Ppd e il Partito radicale sociale democratico, Prsd).
La candidatura della Bachelet non era scontata: vi era infatti una richiesta democristiana di avvicendamento, ma la popolarità della candidata socialista e il risultato delle primarie, tra la stessa Bachelet e la democristiana Soledad Alvear, hanno fugato ogni possibile dubbio. Nell'America latina l'elezione di una donna (i precedenti sono pochi da Violeta Chamorro e Isabel Peron) ha rappresentato una rottura di forte significato, che la Bachelet ha sottolineato formando un governo con dieci donne su venti, alle quali ha affidato ministeri importanti quali la Difesa, la Sanità e l'Ambiente. Con l'elezione della Bachelet, figlia di un generale lealista dell'aviazione, morto d'infarto dopo esser stato torturato nelle carceri di Augusto Pinochet, e con la morte dello stesso generale si è chiuso il processo di ristabilimento della democrazia in Cile. Altrettanto simbolica la vittoria di Evo Morales (54%) e del suo Mas (Movimento al Socialismo) in Bolivia: per la prima volta è stato eletto un rappresentante degli indios (che pure costituiscono la maggioranza della popolazione) in un Paese in cui tutto il potere era nelle mani della aristocrazia creola di discendenza ispanica. I suoi punti di riferimento continentali sono Chávez, Lula, Kirchner e Castro e lo stesso programma di nazionalizzazione delle risorse minerarie ed energetiche non è una novità. Lula, simbolo di una sinistra ampia, che comprende settori della sinistra radicale e di quella istituzionale, è stato rieletto in ottobre anche se le difficoltà di mantenere contemporaneamente le promesse elettorali e di non scatenare le reazioni dei mercati finanziari, ma soprattutto gli episodi di corruzione in cui sono stati coinvolti dirigenti del suo partito ne hanno parzialmente compromesso l'immagine. Insomma la maggioranza dei Paesi latinoamericani ha cambiato orientamento nei confronti degli Stati Uniti. Ugualmente il fatto che l'Organizzazione mondiale del commercio (Wto) incontri continui ostacoli nei negoziati, che il Fondo monetario internazionale (Fmi) conti molto meno rispetto a una decina di anni fa e che Washington non riesca a far accettare l'Area di libero scambio delle Americhe (Alca), dipende dall'opposizione dei governi di sinistra e di centrosinistra. Ciononostante da sinistra si rimproverano a questi governi gli scarsi risultati raggiunti negli obiettivi di politica interna, in particolare riguardo ai diritti delle popolazioni indigene, alla riforma agraria e al controllo delle risorse naturali. Tramontato il piano statunitense di un unico mega-accordo (Alca), soprattutto per l'opposizione di Brasile, Argentina e Venezuela, Washington sta proseguendo la politica di accordi bilaterali e il 27 febbraio, al termine di un negoziato durato 22 mesi, il governo colombiano ha siglato il Trattato di libero commercio (Tlc) con gli Usa analogamente a quanto già fatto dal Cile. Vediamo ora più dettagliatamente quali sono stati gli avvenimenti principali dell'anno.

L'Argentina di Néstor Kirchner sta per uscire dalla spaventosa crisi in cui si sono volatilizzate le ricchezze del Paese e la stessa esistenza di una classe media è stata compromessa. Il risanamento finanziario è stato spettacolare tanto che anche l'Argentina, come il Brasile, si è liberata dai prestiti del Fondo monetario internazionale (Fmi): il 3 gennaio il governo ha estinto il suo debito con l'Fmi, pagando in anticipo l'ultima rata di 9.530 miliardi di dollari. Il sistema politico resta, peraltro, molto distante da quello europeo, che ha attecchito soltanto in Cile. A sinistra e a destra domina il peronismo: Kirchner è peronista, come lo erano i suoi predecessori Duhalde e Menem, oggi suoi avversari. A distanza di decenni è ancora il peronismo in tutte le sue tendenze, da quelle moderate a quelle estremiste dalle progressiste alle nazionaliste, che detta i ritmi del cambio politico e la dialettica interna al peronismo sostituisce la dialettica tradizionale tra destra e sinistra.

In Bolivia il 22 gennaio Evo Morales, l'indigeno aymara leader dei cocaleros del Chapare, ha assunto ufficialmente l'incarico di presidente dopo la vittoria del suo Movimento al socialismo (Mas) alle elezioni del dicembre 2005. Morales, primo indio della storia ad arrivare alla presidenza di uno Stato attraverso libere elezioni, ha partecipato a tre cerimonie di investitura: la prima secondo il rito aymara, la seconda in Parlamento, dove ha ricevuto la banda presidenziale e infine di fronte al popolo boliviano e ai rappresentanti di più di 200 movimenti sociali di tutto il continente (piqueteros argentini, sem terra brasiliani, zapatisti del Chiapas, circoli bolivariani venezuelani e Consiglio degli indigeni dell'Ecuador) oltre che di 14 capi di Stato e di governo, 52 delegazioni ufficiali e oltre un migliaio di giornalisti dei media di tutto il mondo. Gli Stati Uniti erano presenti con un sottosegretario. L'insediamento è stato preceduto da un tour internazionale che ha portato il neopresidente a Cuba, in Venezuela, Spagna, Francia, Olanda, Belgio e poi Cina, Sudafrica e Brasile. Morales si è lanciato in attacchi contro gli Stati Uniti insieme a Fidel Castro e a Hugo Chávez, ma ha parlato di affari e rapporti bilaterali con Madrid, Parigi, Bruxelles, L'Aja, Pechino e Pretoria. Questi due aspetti di Morales dovranno convivere perché se il discorso radicale prendesse il sopravvento l'oligarchia conservatrice, che da sempre controlla la vita politica ed economica della Bolivia, potrebbe insorgere. Nello stesso modo Morales non può scontentare la sua base elettorale altrimenti i movimenti sociali che hanno già cacciato due presidenti (Gonzalo Sanchez de Lozada, nel 2003, e Carlos Mesa nel 2005) tornerebbero a farsi sentire; quanto all'appoggio di Chávez e di Castro, servono a Morales per accreditare l'immagine di leader antiliberista vicino alle esigenze della maggioranza della popolazione. Ma ancora più importante è l'appoggio europeo, brasiliano e cinese, da usare come contrappeso all'influenza che gli Stati Uniti ancora esercitano sul Paese. Le risorse naturali della Bolivia, soprattutto il gas, sono ancora potenziali e l'industria nazionale non è in grado di sfruttarle. Gli ultimi governi hanno lasciato che l'intero settore energetico fosse comprato da alcune multinazionali straniere (l'ispano-argentina Repsol-Ypf, la francese Total, la brasiliana Petrobras ecc.): i giacimenti boliviani, concentrati nella regione di Tarija rappresentano la sola possibilità che il governo ha per mantenere le promesse di redistribuzione della ricchezza attraverso una 'nazionalizzazione' che però il Mas spiega come una rinegoziazione degli accordi con le multinazionali straniere, piuttosto che come un'espropriazione (sul modello di quello che Chávez ha fatto per i giacimenti di greggio). Alla vicepresidenza è salito Álvaro García Linares, un bianco, marxista, ex guerrigliero. Linares pensa che la riduzione delle enormi disuguaglianze del Paese si possa ottenere solo attraverso il rafforzamento del ruolo economico e sociale dello Stato. Un'idea che piace poco fuori dalla Bolivia se ciò dovesse comportare la riduzione del peso economico e degli interessi delle multinazionali; ma è un progetto che non trova consensi unanimi nemmeno all'interno del Paese, dove negli ultimi anni, di fronte al disfacimento dello Stato, sono nate molte esperienze di 'autogestione' popolare: servizi idrici a Cochabamba e a Oruro, raccolta di rifiuti a Oruro e a Santa Cruz, fino alle Giunte di quartiere di El Alto. Questi movimenti, riunitisi in un Fronte popolare in difesa della natura e della vita, hanno chiesto al Mas (oltre alla nazionalizzazione delle risorse) un'Assemblea costituente per riorganizzare tutto lo Stato. All'inizio di marzo il Parlamento ha dunque approvato la convocazione dell'Assemblea costituente che, nelle parole del presidente, servirà a 'seppellire il modello neoliberista' e a fare in modo che le risorse naturali tornino nelle mani del popolo boliviano. L'accordo sulla costituente è stato possibile grazie all'opera di mediazione del vicepresidente Linares, anche se poi il governo ha dovuto fare qualche concessione. Così la ricca regione di Santa Cruz ha ottenuto che si tenesse un referendum per dare più autonomia alle regioni (referendum il cui risultato l'Assemblea avrebbe dovuto rispettare). Successivamente il Mas ha ottenuto il 51% dei seggi nelle elezioni per la Costituente; il referendum sull'autonomia regionale è stato invece respinto (2 luglio). Intanto con il decreto 28.701 Morales ha nazionalizzato le risorse naturali del Paese (1' maggio), dichiarando illegali i contratti firmati dallo Stato con le imprese straniere: non saranno più le multinazionali straniere a detenere il controllo delle riserve boliviane (gas e petrolio), ma lo Stato, più precisamente il Yacimientos Petroliferos Fiscales Bolivianos (Ypfb). Secondo il presidente questo è solo il primo passo verso una sorta di nazionalizzazione di tutte le risorse presenti in Bolivia: toccherà poi alle miniere, alle foreste e alle terre. Se prima del decreto lo Stato incassava solo il 18% dalle multinazionali, adesso la Bolivia percepirà l'82% degli utili e le aziende straniere si dovranno accontentare del rimanente 18%. Le multinazionali potranno accettare la negoziazione di nuovi contratti entro un termine di 180 giorni, oppure lasciare la Bolivia (secondo Paese dell'America latina per riserve di gas naturali dopo il Venezuela). Immediate le reazioni di alcune multinazionali (in particolare la brasiliana Petrobras e la ispano-argentina Repsol-Ypf,) e anche del presidente brasiliano Lula che ha definito la decisione di Morales come un 'gesto non amichevole nei confronti di Petrobras'. Già negli anni Trenta furono nazionalizzate le proprietà della Standard Oil e alla fine degli anni Sessanta quelle della Gulf, entrambe statunitensi. Ma queste misure non produssero alcun beneficio per il Paese né alleviarono le misere condizioni di vita della popolazione boliviana. Dopo aver annunciato la nazionalizzazione degli idrocarburi, Morales ha messo in agenda una profonda rivisitazione della riforma agraria e della distribuzione della terra (3 giugno). Saranno circa 2,5 milioni le persone che beneficeranno di questa nuova legge, proposta all'interno di una riforma agraria annunciata in campagna elettorale. I proprietari terrieri si sono subito messi in allarme anche se non si è parlato di espropri. Lo Stato si 'terrà tutte le terre che non hanno una funzione sociale o i cui titoli di proprietà sono stati ottenuti in passato in modo fraudolento' e le consegnerà 'agli indigeni, ai campesinos e a tutte le persone che vorranno lavorare la terra'. La notte del 29 novembre la Camera alta boliviana, grazie all'appoggio di tre senatori dell'opposizione, ha dunque ratificato la Ley de Tierras, promessa da Morales all'inizio del suo mandato. Il presidente ha impegnato tutte le risorse a sua disposizione per fare approvare la norma, minacciando di imporla come decreto presidenziale, nel caso il Congresso, dove l'opposizione ha la maggioranza, avesse fatto ostruzionismo. Il cambiamento di voto dei tre senatori ha evitato la decisione unilaterale dell'esecutivo, ma è diventato il bersaglio dell'attacco del Podemos (Potere democratico sociale, conservatore all'opposizione), che ha accusato il presidente di avere 'comprato' i voti indispensabili al raggiungimento del quorum per varare le leggi. Oltre alla riforma agraria infatti, nella stessa notte sono stati ratificati il controverso accordo di difesa con il Venezuela e le nuove disposizioni contrattuali con le 12 multinazionali che estraggono idrocarburi dal territorio nazionale. Ispirata alla riforma compiuta nel 1953 dal presidente Víctor Paz Estenssoro, la Ley de Tierras mira a riportare nelle mani del governo, entro la fine della legislatura, oltre 20 milioni di ettari (2,2 dei quali Morales aveva già ridistribuito a partire da giugno di quest'anno) per poi suddividerli tra comunità indigene e contadini senza terra. Secondo l'opposizione si tratta di un vero e proprio attacco al diritto alla proprietà privata e non è escluso il ricorso al Tribunale costituzionale. Per quanto riguarda le terre di confine, Morales ha specificato più volte che le terre che saranno confiscate al confine saranno solo quelle che riguardano i primi 50 km di territorio boliviano. Non solo: la terra che sarà confiscata, secondo il governo boliviano, è quella considerata improduttiva. Il ministro dell'Agricoltura Hugo Salvatierra ha ribadito che 'la riforma non include specifiche misure contro i grandi proprietari stranieri presenti in Bolivia'. In aprile infine Morales ha incontrato all'Avana il presidente venezuelano Hugo Chávez e quello cubano Fidel Castro, accordandosi per l'adesione della Bolivia all'Alba, l'Alternativa bolivariana per le Americhe, un trattato di libero commercio dei popoli, in alternativa all'Alca (Area di libero scambio delle Americhe), ovvero l'area di libero commercio sostenuta dall'amministrazione Bush. Con questo accordo, Cuba e Venezuela si impegnano ad acquistare, ad esempio, la soia prodotta in Bolivia, e altri cereali. Il Venezuela ha anche fornito 5.000 borse di studio per giovani boliviani nel settore della petrolchimica. Cuba invece aiuterà la Bolivia in due campi: l'istruzione e la medicina (fornendo insegnanti e medici).

Le presidenziali di ottobre sono state al centro dello scenario politico in Brasile dove il 'presidente operaio' Luíz Iñacio Lula da Silva ha tentato di governare cercando un difficile equilibrio tra le enormi aspettative dei ceti popolari e le pressioni dei mercati internazionali e delle oligarchie interne. Ha lanciato programmi ambiziosi di lotta alla povertà come 'Fame Zero' e 'Bolsa Famiglia', che hanno ridotto notevolmente i livelli di povertà e gli sono valsi la 'Medaglia agricola' della Fao. Inoltre con i salari minimi passati da 60 a 160 dollari al mese, il reddito reale dei lavoratori è anch'esso aumentato e, riconoscono persino gli avversari, non ci si può lamentare del livello d'inflazione tenuto sotto controllo e della stabilità economica raggiunta. Tutto questo è stato ottenuto seguendo le linee di Banca mondiale e Fondo monetario internazionale e pagando 70 miliardi di dollari di debito estero, contro i 28 destinati a riforma agraria, educazione e salute. Gli economisti del governo Lula hanno mantenuto l'impostazione di fondo gradita al Fmi: in primo luogo la priorità data alla lotta all'inflazione e il conseguente mantenimento di un alto tasso di sconto. D'altro canto quella di Lula è stata una scelta ragionata poiché al momento della sua elezione l'economia era sull'orlo del collasso con un'inflazione media che dal 1990 al 2001 era stata del 168%. L'equilibrio macroeconomico e il contenimento dell'inflazione erano dunque obiettivi necessari per evitare che il mercato si ribellasse al nuovo governo, avviando un altro ciclo di recessione, inflazione e aumento della disoccupazione. Tuttavia Lula non ha affrontato con la necessaria determinazione il potere dei latifondisti, in un Paese dove cinque milioni di famiglie di contadini non hanno nessun appezzamento di terra. I programmi assistenziali sono stati organizzati in modo capillare in tutte le città del Brasile, ma la riforma agraria è stata realizzata in modo deludente. Per il Foro nazionale per la riforma agraria, che raggruppa decine di organizzazioni di base, tra cui il Movimento dei sem terra (Mst), la riforma promessa dal governo 'si è ridotta ad un mero programma di insediamenti che non cambia la concentrazione delle terre e non rafforza l'agricoltura famigliare'. Lo stesso Mst da principale sostenitore si sta trasformando in critico sempre più severo di Lula. Se dunque il presidente si è guadagnato la fiducia dei mercati e delle classi più povere, ha perso la fiducia di molti tra coloro che lo appoggiavano nel 2002 e in particolare dei movimenti popolari, a causa delle promesse rimaste tali (riforma agraria e quella del lavoro). Gli si rimprovera di seguire una politica economica che segue l'ortodossia dell'Fmi invece di perseguire una maggior equità sociale in un Paese con uno dei più alti indici di disuguaglianza del mondo: pur essendo l'ottava potenza industriale al mondo, il Brasile è all'ottavo posto anche in quanto a disuguaglianza sociale. Ugualmente la classe media urbana che aveva sperato in un rinnovamento, soprattutto etico, della politica, non ci crede più. Anche nelle politiche scolastiche e della sanità i risultati del governo Lula sono deludenti. L'unico progetto sostanziale è un ampliamento del sistema di perequazione approvato dal governo precedente per aiutare gli Stati e i comuni più poveri; ma deve ancora superare la barriera del Congresso. Lo stesso vale per un progetto di riforma delle università pubbliche. In compenso, è stato varato un sistema di borse di studio per studenti poco abbienti nelle università private, che in Brasile accolgono i due terzi degli studenti. In questo scenario di crescenti tensioni tra Lula e la sua base elettorale è scoppiato lo scandalo della corruzione in Parlamento. Alti funzionari del Pt (Partido dos trabahadores, il Partito dei lavoratori fondato dallo stesso Lula), che si era presentato come l'unico in grado di lottare davvero contro la corruzione, e del governo sono stati scoperti a gestire un sistema di pagamenti illeciti per comprare voti dell'opposizione e manipolare gli appalti pubblici. Una cinquantina di funzionari sono stati condannati e hanno dovuto abbandonare le cariche. Un ulteriore colpo alla popolarità di Lula è giunta dalla nuova crisi di governo (la seconda in meno di un anno) apertasi a fine marzo con le dimissioni del ministro dell'Economia, Antonio Palocci, travolto dalle accuse di corruzione. Al suo posto il presidente ha nominato Guido Mantega, titolare del Banco nazionale di sviluppo sociale. Alle mancate riforme e alla corruzione si aggiunge il fatto che resta ancora molto da fare per quanto riguarda la lotta alla criminalità. Sulla critica situazione sociale e sulla corruzione hanno fatto leva i suoi oppositori durante la campagna elettorale: Geraldo Alckmin, candidato del Partido Social Demócrata Brasileño (Psdb, partito che ha governato il Paese per molti anni) e governatore uscente dello Stato di San Paolo; Heloísa Helena, candidata del Partido Socialismo y Libertad (Psol), espulsa due anni fa dal Pt per essere una delle voci più critiche contro le scelte neoliberali di Lula, sostenuta dal cosiddetto Frente de la Izquierda; Cristovam Buarque, del Partito democratico laburista (Pdt), ex ministro dell'Istruzione nel primo anno di governo Lula; Luciano Bivar, candidato del Partito sociale liberale (Psl) e José Maria Eymael, candidato del Partito socialdemocratico cristiano (Psdc). Alckmin, lo sfidante più accreditato, ha cercato di offrire un'alternativa credibile ai ceti medi che considerano il governo Lula corrotto e inefficiente. L'ex governatore ha promesso di mantenere il programma assistenziale e la stabilità macroeconomia, aumentando però il rigore in materia di spesa pubblica in modo da poter ridurre le imposte e i tassi di interesse. La popolarità di Lula si è fortemente ridotta, fino a mettere in dubbio non solo la sua rielezione ma anche la sua candidatura, ufficialmente annunciata solo il 24 giugno. Proprio le alte aspettative generate dallo stesso Lula hanno acuito nella sua base elettorale il senso di delusione. Ciononostante la sua rielezione non era da escludere, sia per la mancanza di valide alternative sia per gli indubbi risultati raggiunti dal presidente sul piano della credibilità internazionale. Inoltre Lula, che rischiava di essere travolto dalla crisi economica e dalle accuse di corruzione che hanno investito i suoi più stretti collaboratori, è stato aiutato dalla ripresa dell'economia, da un programma di welfare che garantisce un reddito minimo a 36 milioni di persone e dall'assenza di prove che dimostrassero il suo coinvolgimento diretto negli scandali. Benché i sondaggi lo dessero vincente già al primo turno, questo si è concluso con il rinvio al ballottaggio di Lula (con il 48,61% dei suffragi) e del suo diretto rivale Geraldo Alckmin, sostenuto dall'Opus Dei e appoggiato dal ceto medio, che ha raggiunto il 41,64% dei consensi. Probabilmente a compromettere la vittoria già al primo turno è stato anche l'ennesimo scandalo: il 20 settembre Lula ha destituito Ricardo Benzoini, presidente del Pt e responsabile della campagna elettorale perché accusato, insieme ad altri dirigenti del partito, dal Tribunale superiore elettorale di aver comprato documenti per screditare alcuni candidati dell'opposizione. Lo scandalo non solo è costato le dimissioni di segretari speciali e amici fraterni, ma ha anche fatto vacillare lo stesso presidente, che si è dovuto impegnare seriamente per evitare le accuse. Oltre al presidente, i brasiliani sono stati chiamati alle urne per scegliere 513 deputati federali, 27 senatori (un terzo della Camera, gli altri due terzi vengono eletti ogni otto anni) e i governatori di 27 Stati del Paese. Se da una parte il Psdb ha confermato il suo potere in Stati quali San Paolo e Minas, il Pt non solo si è riconfermato dove già era vincente, ma ha vinto al primo turno in quattro Stati che prima non aveva, avvicinandosi sensibilmente a ottenere la maggioranza alla Camera. A Minas è stato rieletto, con una maggioranza schiacciante del 77%, Aecio Neves, nipote di Tancredo Neves, il primo presidente ad assumere un governo civile dopo la dittatura militare (1964-85); San Paolo, lo Stato più grande e quello in cui si concentra la maggior ricchezza del Paese, ha spostato l'ago della bilancia a favore di Alckmin e ha scelto come suo governatore l'ex ministro della Salute José Serra, uomo di fiducia di Fernando Henrique Cardoso, presidente dal 1995 al 2002. Eletto senatore per lo Stato di Alagoas anche l'ex presidente Fernando Collor de Mello, costretto ad abbandonare la presidenza del Brasile nel 1992 in seguito ad uno scandalo di corruzione. In vista del ballottaggio Lula e Alckmin hanno cercato di guadagnarsi l'appoggio dei governatori degli Stati della federazione e di conquistare i voti dei candidati usciti al primo turno (6,8% conquistato da Heloisa Helena e il 2,64% ottenuto da Cristovam Buarque). Rispettando i sondaggi che lo davano in vantaggio del 20% sull'avversario, Lula infine ha vinto al ballottaggio le presidenziali con un consenso quasi plebiscitario, aggiudicandosi il 60,8% dei consensi contro il 39,7 del suo avversario (29 ottobre). Alckmin ha perso il vantaggio che aveva acquisito su Lula nelle regioni più ricche del Brasile, ovvero San Paolo e il Rio Grande do Sul, mentre Lula si è rafforzato sempre più nel Nord-Est, la zona del 'sertao' e nell'Amazzonia, regione che sperava nella sua presidenza per poter frenare la deforestazione rafforzando l'economia sostenibile. Nonostante gli scandali a catena che hanno colpito il suo governo e il Pt negli ultimi due anni, i brasiliani hanno dunque dato di nuovo fiducia al presidente uscente, ignorando il battere costante sull'etica e contro gli scandali di Alckmin. Ora Lula dovrà far fronte a un difficile compito: l'attuazione del suo programma elettorale, tutto incentrato sulla politica sociale e quasi una sfida alla comunità finanziaria internazionale.

L'anno si è aperto in Cile con il ballottaggio (15 gennaio) tra i due candidati alle presidenziali Michelle Bachelet, di centrosinistra, e Sebastián Piñeda, di centrodestra. Il Cile è dagli anni Novanta uno dei fiori all'occhiello del Fondo monetario internazionale (Fmi): i governi democratici, tutti di centrosinistra, hanno applicato quasi alla lettera le ricette neoliberali basate su privatizzazioni, contenimento della spesa pubblica ed equilibrio macroeconomico, ottenendo tassi di sviluppo attorno al 5-6 % per un decennio ma, secondo la Commissione economica per l'America latina delle Nazioni unite (Cepal) e la Banca mondiale, il Cile è uno dei Paesi con le maggiori disuguaglianze sociali al mondo (secondo solo al Brasile in termini di disuguaglianza sociale e concentrazione della ricchezza): infatti il 15% della popolazione detiene quasi l'80% della ricchezza nazionale. Entrambi i candidati si sono presentati quindi promettendo di risolvere questi problemi con una sostanziale omogeneità di programmi. Non è un caso che ci sia stata una polemica sui 120 punti del programma di Piñeda, accusato dalla Bachelet di averli copiati da quello della Concertación (coalizione tra democristiani, socialisti e socialdemocratici che governa dal 1989). Ed effettivamente, il programma elettorale di Piñeda coincideva in ben 66 punti con quello della Bachelet. Ma è anche vero che il sistema elettorale (il sistema binominale prevede che per ogni circoscrizione, sia per Camera che per Senato, siano eletti solo due candidati: questo sistema, che costringe i partiti ad allearsi ma determina l'impossibilità per le formazioni minori di ottenere rappresentanti, fu concepito per escludere il Partito comunista che pur ottenendo circa il 10% alle comunali, dove si votava con un sistema proporzionale, non ha mai avuto un rappresentante in Parlamento) che ha contribuito a mantenere le disuguaglianze sociali ed è stato ereditato dalla dittatura è stato in buona parte mantenuto dalla Concertación. Molti analisti concordavano nel ritenere che, chiunque fosse stato il nuovo presidente, non sarebbe cambiata molto l'azione di governo: il Cile avrebbe confermato il suo modello liberista, la sua politica di accordi bilaterali e una politica fiscale che mira sia ad evitare processi inflattivi sia un eccessivo indebitamento. Il ballottaggio si è concluso come previsto con la vittoria della Bachelet che si è aggiudicata il 53,5% dei voti contro il 46,5% di Piñera. Prima donna ad essere eletta presidente nella storia del Cile (e di tutta l'America latina), la Bachelet, pediatra ed esperta di salute pubblica e questioni militari, è figlia di un generale rimasto fedele al legittimo presidente socialista Salvador Allende e per questo torturato a morte dalla dittatura di Pinochet. Divorziata con due figlie, si professa agnostica e favorevole al riconoscimento delle unioni di fatto e dei diritti degli omosessuali in un Paese dove la Chiesa cattolica (e l'Opus Dei) ha un peso enorme. Proprio sulle sue prese di posizione in tema diritti civili ha cercato di far leva la destra nel tentativo di sottrarle consensi. Al contrario, sui temi economici ed anche politici i toni sono stati pacati. Con la vittoria della Bachelet la Concertación democratica ha ottenuto la sua quarta affermazione elettorale consecutiva. La neopresidente dovrà proseguire lo sviluppo economico e la modernizzazione del Cile, ma anche modificare la tendenza all'esclusione sociale insita nel suo modello. La Bachelet, eletta al ballottaggio anche grazie ai voti dei partiti minori, il Partito comunista e il Partito umanista, si è impegnata solennemente a riformare la legge elettorale e a lottare contro le disuguaglianze, ma per farlo dovrà probabilmente misurarsi con forti resistenze dell'establishment, anche all'interno della sua stessa coalizione. La vittoria della Bachelet segna una svolta importante, perché fino alla presidenza di Rícardo Lagos, l'influenza dei militari sulla vita del Paese era molto forte, a causa del retaggio della dittatura militare. Dopo la fine della dittatura, i leader del Paese, espressione della Concertación, non sono riusciti a ridimensionare il peso dell'esercito. Tra le promesse fatte dalla Bachelet in campagna elettorale, c'è anche la fine del servizio militare obbligatorio. La presidente si è impegnata poi a varare misure importanti quali una legge contro la discriminazione della donna; la sanità gratuita per gli ultrasessantenni; 20.000 nuovi posti per i bambini negli asili nido; l'aumento automatico delle pensioni minime sulla base dell'inflazione. Sul piano economico, il Cile ha fatto una scelta neoliberista e ha aderito al Trattato di libero commercio con gli Usa, rifiutato dalle altre nazioni latinoamericane, mentre prende sempre più piede il Mercosur, l'accordo di integrazione economica stretto tra Brasile e Argentina e a cui hanno poi aderito Uruguay, Venezuela e Bolivia. Il primo problema con cui ha dovuto confrontarsi la neopresidente è stato lo sciopero a oltranza indetto dagli studenti che a fine maggio sono scesi in piazza per chiedere una riforma dell'istruzione (è una legge varata da Pinochet a regolare ancora l'insegnamento in Cile). Oltre alla generica necessità di cambiare l'educazione del Paese e quindi di rivedere l'intero sistema, gli studenti hanno chiesto trasporti gratuiti e il test di ingresso all'università esente da tasse, in modo da facilitare l'istruzione anche ai non abbienti. Con gli studenti delle scuole superiori, si sono schierati anche gli universitari e il corpo docente; non sono mancati sassaiole e attacchi contro vetrine di centri commerciali a cui i poliziotti hanno risposto usando idranti e lacrimogeni: il bilancio è stato di 700 arresti e 28 feriti. La protesta è stata sospesa il 9 giugno quando il governo ha annunciato test di ingresso all'università gratuiti per l'80% degli studenti e la creazione di un Comitato presidenziale (Cap) incaricato di preparare la riforma dell'istruzione. Il Cap sarà formato da 74 membri, di cui 12 rappresentanti degli studenti. Dopo le manifestazioni contro lo stato dell'istruzione, la presidente ha dovuto fare i conti con l'ennesimo aumento del prezzo del gas argentino. Per cercare di contrastare il calo di popolarità dell'esecutivo, la Bachelet ha annunciato un parziale rimpasto di governo (16 luglio), assicurando ai democristiani il ministero dell'Economia, e si è impegnata a rendere il Paese indipendente dal gas argentino entro due anni. L'anno si è chiuso con la morte del generale Augusto Pinochet, il dittatore che ha governato col pugno di ferro il Cile dal 1973 al 1990, reprimendo ogni forma di dissenso e uccidendo chiunque tentasse di opporsi al suo potere. Pinochet, che aveva 91 anni, è morto dopo essere stato ricoverato nell'ospedale militare di Santiago per infarto del miocardio (10 dicembre). La morte lo ha colto proprio mentre la giustizia cilena stava cercando di inchiodarlo alle sue responsabilità: durante il suo governo 3.000 persone sono state assassinate, più di mille sono scomparse, decine di migliaia sono state torturate e centinaia di migliaia mandate in esilio politico (in un Paese che allora aveva 11 milioni di abitanti). Nei giorni successivi all'infarto il governo della Bachelet ha fatto sapere che non essendo Pinochet un capo di Stato non avrebbe avuto diritto a un funerale di Stato, ma unicamente alle esequie da ex comandante delle Forze armate alla presenza, per il governo, del solo ministro della Difesa.

In Colombia il 12 marzo si sono tenute le elezioni parlamentari seguite in maggio dal voto per le presidenziali. Grande favorito il presidente uscente Álvaro Uribe nonostante rimangano irrisolti i gravi problemi in cui si dibatte il Paese (dalla guerriglia al narcotraffico). I colombiani erano chiamati a scegliere 102 senatori e 166 deputati, usando per la prima volta il voto di preferenza (prima passavano il turno soltanto i capolista scelti dal partito). Mentre l'Esercito di liberazione nazionale (Eln) ha dichiarato una tregua per assicurare il regolare svolgimento del voto, le Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc) hanno aumentato le azioni di guerriglia e nelle settimane precedenti alle elezioni numerose persone sono rimaste uccise. Nelle giornate preelettorali in molte zone del Paese, specialmente nel Sud, si sono verificati scontri a fuoco quasi quotidiani fra esercito, polizia e paramilitari uniti contro i guerriglieri; diversi sono stati gli attentati volti a colpire i punti strategici dell'economia colombiana e numerose e ripetute sono state le pressioni, le minacce e le violenze sui cittadini delle zone agricole. Uribe ha sempre negato ogni possibilità di trattativa con le Farc e sta temporeggiando nell'applicare l'accordo già raggiunto con l'Eln. Le elezioni parlamentari a cui hanno partecipato meno del 50% degli aventi diritto, sono terminate con la vittoria schiacciante della coalizione di sette partiti che sostiene Uribe, che ha ottenuto più di due terzi dei seggi del Senato e la maggioranza di quelli della Camera dei rappresentanti. Per quanto riguarda l'opposizione il Polo democratico alternativo ha conquistato 11 seggi. Il voto ha dunque rafforzato la posizione di Uribe in vista delle presidenziali del 28 maggio terminate con la vittoria schiacciante al primo turno del presidente uscente, che ha ottenuto il 62% dei voti contro il 26% dello sfidante principale, Carlos Gaviria, leader del Polo democratico (29 maggio). Il trionfo di Uribe si può spiegare in primo luogo con l'esasperazione della società di fronte alla violenza e all'insicurezza. È uscita quindi legittimata dal voto la politica della Seguridad Democratica, la scelta di sottoscrivere il Trattato di libero commercio con gli Stati Uniti e la lotta armata alla guerriglia. Mentre dunque nel continente latinoamericano stanno nascendo governi progressisti in qualche modo impegnati a correggere l'ingiustizia e la disuguaglianza sociale, in Colombia sembra, al contrario, consolidarsi uno dei governi più lontani dall'interesse della popolazione. In ogni caso il voto è servito a far chiarezza nel panorama politico colombiano presentando ai colombiani un'alternativa chiara tra la destra oligarchica, autoritaria e neoliberista e una proposta di sinistra. Le priorità del governo di Uribe sono state la suddetta politica della sicurezza democratica e la sua determinazione a sconfiggere militarmente le Farc. Buona parte del bilancio del Paese è stata destinata a questo e ad aumentare gli effettivi di esercito e polizia (+30% dal luglio 2002 al marzo 2006). Uribe ha presentato come un grande successo del suo governo il processo di smobilitazione dei paramilitari delle Autodifese unite della Colombia (Auc: secondo le fonti ufficiali circa trentamila paramilitari hanno deposto le armi e si stanno reintegrando nella società). Ma il lavoro per favorire il pieno reinserimento è solo agli inizi e ogni giorno si presentano nuovi ostacoli che rischiano di far fallire il processo. Migliaia di paramilitari hanno conti aperti con la giustizia e sono accusati di gravi violazioni dei diritti umani. Il problema è che il quadro giuridico della smobilitazione (legge 782, decreto 128 e la cosiddetta 'legge di giustizia e pace') è molto vago su questioni delicate come il risarcimento delle vittime e la punizione dei colpevoli. I paramilitari, in un processo di apparente smobilitazione, proseguono non solo con il controllo territoriale e le intimidazioni alla popolazione, bensì legittimando la loro economia basata sul narcotraffico e sugli apparati militari. La stessa amministrazione statunitense ha criticato la 'legge di giustizia e pace' sottolineando come si stia di fatto rivelando una sorta di indulto per i paramilitari. Per questo Uribe ha deciso di lanciare un'operazione dimostrativa (16 agosto), arrestando a sorpresa i leader delle Auc in diverse città del Paese e minacciando di estradare negli Usa quelli che non si presenteranno davanti ai giudici del processo di pace. Intanto le fumigazioni di glifosato (erbicida non selettivo) lungo la frontiera con l'Ecuador da parte del governo Uribe hanno scatenato una pericolosa tensione diplomatica, accompagnata dal ritiro dell'ambasciatore ecuadoriano, Alejándro Suárez, a Bogotà e la cancellazione della visita prenatalizia del neopresidente Correa nella capitale colombiana. Le fumigazioni sono parte della strategia del Plan Colombia (il finanziamento da parte degli Usa di progetti per 'la lotta alla guerriglia e al narcotraffico', entrato in vigore nel 2000), in cui gli Stati Uniti hanno investito quattro miliardi di dollari, soprattutto in operazioni di fumigazione aerea delle coltivazioni. Molti specialisti statunitensi e colombiani contestano ora l'efficacia del piano e il suo enorme costo economico. Il governo colombiano sostiene che per distruggere completamente tutte le coltivazioni illegali occorrerebbero molti più uomini e mezzi di quelli impiegati, ma per il momento Washington non sembra disposta ad aumentare il suo contributo economico. In ogni caso invece di diminuire le piantagioni si sono spostate verso zone dove in passato non esistevano (Chocò). Noto è il coinvolgimento delle Farc e dei gruppi paramilitari delle Auc che cercano di assicurarsi il controllo delle coltivazioni illegali. I profitti del narcotraffico sono superiori agli investimenti per combatterlo e una guerra cominciata per ragioni ideologiche si è ormai trasformata in un affare molto vantaggioso.

A meno di un anno dalla destituzione del presidente Lucio Gutiérrez, costretto alle dimissioni dalla popolazione con l'accusa di voler consegnare le risorse naturali ecuadoriane alle multinazionali straniere, in Ecuador sono scoppiate nuove sollevazioni popolari. L'ex colonnello Gutiérrez era salito al potere grazie a una piattaforma progressista e popolare, ma dalla quale si era ben presto distaccato per tornare a seguire le politiche neoliberiste dei suoi predecessori. Nel 2003 avviò trattative con la Banca mondiale per rinegoziare il debito estero e giunse a un accordo secondo cui il 70% della ricchezza proveniente dall'estrazione del petrolio avrebbe dovuto essere utilizzato per rimborsare il debito, mentre solo il 10% di tali proventi sarebbe stato destinato alle spese in servizi sociali a favore della popolazione. In politica estera, Gutiérrez favorì un sostanziale avvicinamento dell'Ecuador agli Stati Uniti e alla Colombia, impegnata nella applicazione del Plan Colombia. Sempre nel solco delle politiche neoliberiste, Gutiérrez aveva anche iniziato a negoziare con gli Stati Uniti il Trattato di libero commercio (Tlc) sul modello del Nafta (North American Free Trade Agreement, stipulato tra Usa, Canada e Messico), attirandosi subito le critiche di varie organizzazioni popolari come la Conaie (Confederazione di nazionalità indigene dell'Ecuador), che temeva che un simile accordo avrebbe ulteriormente rafforzato la penetrazione nel Paese da parte delle multinazionali straniere oltre che favorire, con l'abbattimento dei dazi, i contadini americani sostenuti da cospicui sussidi. Le controverse decisioni assunte da Gutiérrez determinarono un notevole calo della sua popolarità, scatenando le proteste popolari che portarono alla sua sostituzione nell'aprile 2005 con il suo vice Alfredo Palacio. Questi, consapevole delle conseguenze delle politiche adottate dal suo predecessore sullo Stato e sulla popolazione, ha subito voluto imporre una strategia diversa. Non ha rifiutato il Plan Colombia, ma ha preso posizione contro i suoi effetti più deleteri sulla popolazione (le fumigazioni aeree) chiedendo e ottenendo dal presidente colombiano Uribe la loro sospensione nel raggio di almeno 10 km dalle frontiere con l'Ecuador. In febbraio alcuni appartenenti alla Conaie hanno manifestato per giorni, bloccando le principali arterie stradali contro le trattative con gli Usa per la firma del Tlc e contro la presenza dell'azienda petrolifera Oxy nel Paese, arrivando allo scontro con le forze dell'ordine. Dopo aver decretato lo Stato di emergenza il presidente Palacio ha aperto la porta a un referendum sul Trattato. La scena politica è stata comunque dominata dalle elezioni presidenziali del 15 ottobre, che hanno visto in campo quattro candidati: Cynthia Viteri, esponente di un partito che si ispira a valori sociali e cristiani; León Roldos, espressione del partito socialdemocratico Rete etica e Democrazia; Alvaro Noboa, uomo ricchissimo e potente, candidato del Partito rinnovatore istituzionale azione nazionale; Rafael Correa, indigeno ex ministro dell'Economia del governo Palacio candidato di sinistra per il Movimento Alianza País. Le consultazioni sono terminate con il passaggio al ballottaggio del 26 novembre di Noboa e Correa aggiudicatisi rispettivamente il 26,24% dei voti contro il 23,03%. Da un lato dunque, Noboa, l'uomo della Casa Bianca, impresario bananero ricco e potente, difensore del libero commercio e della globalizzazione, che ha fra i punti cardine del suo programma il rinnovo del Tlc e la rottura di ogni relazione con Cuba e Venezuela. Dall'altro Correa, il candidato dal programma più radicale che si è detto contrario al Tlc e ispirato alle linee politiche inaugurate dal venezuelano Hugo Chávez e dal boliviano Evo Morales. Almeno sulla carta Correa ha puntato su un programma radicale che prevede lo scioglimento del Congresso e la nomina di un'Assemblea costituente, sospensione delle trattative per il Tlc e richiesta di una moratoria al Fondo monetario internazionale. In ogni caso il leader di Alianza País ha specificato di essere vicino al leader venezuelano, ancorché 'diverso' da lui. Diversa è anche la formazione dei due: Correa si definisce della 'sinistra cristiana', ha studiato nell'università cattolica di Quayaquil e ha ottenuto due master in Economia, negli Stati Uniti e in Belgio, oltre a un dottorato in Illinois. Il ballottaggio si è concluso con la vittoria di Correa che ha ottenuto il 57,88% dei voti contro il 42,12% di Noboa (26 novembre). Correa si è imposto nella regione della Sierra, roccaforte dei settori moderati e professionali, a Quito e nelle aree dei piccoli produttori di banane, come la provincia dell'Oro, dove forte è stato il di-sagio dimostrato contro i grandi impresari tipo Noboa. Anti-Noboa anche il voto della classe media e dei professionisti, schierati contro l'uomo più ricco del Paese. Alla fine Correa, 43 anni, con il 57,88% dei voti è diventato il nuovo capo del Paese sudamericano: subito dopo la proclamazione dei risultati, Correa ha voluto rassicurare gli ambienti economico-finanziari, precisando che manterrà il dollaro come moneta ufficiale. Quindi, contro ogni aspettativa, ha annunciato parte della squadra di governo: agli Interni andrà Gustavo Larrea, responsabile della sua campagna elettorale, esperto in diritti umani e da sempre uomo di sinistra; al ministero per l'Energia, Alberto Acosta, duro critico della dollarizzazione, e all'Economia, invece, Ricardo Patiño, ex sottosegretario del dicastero economico, forte oppositore al pagamento del debito estero. Ai vertici dell'impresa statale Petroecuador, infine, sarà Carlos Pareva Yannuzzelli, l'ideatore della strategia che è culminata con la rottura del contratto con l'impresa Usa Occidental (Oxy). La vittoria di Correa conferma così la nuova tendenza dell'America latina, condivisa da Argentina, Brasile, Venezuela, Bolivia, Cile e Uruguay che non vede di buon occhio il Tlc mentre guarda con favore al rafforzamento del Mercosur (Mercato comune del Cono Sud: comprende Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay e Venezuela).

Il 9 aprile si sono tenute in Perù le elezioni generali. Benché Alejandro Toledo sia stato il primo ad aprire la svolta a sinistra dell'America latina, forte è la delusione tra i suoi elettori. L'ultimo, contestato atto della sua presidenza è stata la firma del Trattato di libero commercio con gli Stati Uniti. Messa sotto controllo nell'ultimo anno l'inflazione, Toledo non è riuscito a fare molto di più: la disoccupazione è aumentata, non ci sono state le riforme promesse e i casi di corruzione nel governo non si contano. Nonostante la crescita economica ' nel 2005, il Pil è aumentato del 6,6% ', la redistribuzione della ricchezza in Perù è ancora un miraggio: le stime ufficiali collocano oltre il 48% della popolazione sotto la soglia della povertà. Nel 2001 anche Toledo aveva fatto ricorso all'indigenismo per essere eletto, ma nei cinque anni che sono seguiti ha portato avanti una politica di segno contrario, giungendo fino all'invio di carri armati ad Arequipa per reprimere una protesta cittadina. La popolarità del presidente uscente era crollata ai minimi storici lo scorso anno dopo lo scandalo delle firme false al suo partito, il Perú Posible (Pp), scandalo dal quale non è uscito completamente scagionato. Preso atto del crollo del consenso sotto il 10%, Perú Posible ha addirittura rinunciato a correre per la presidenza. Nella corsa alla presidenza è sceso in campo l'ex colonnello Ollanta Humala, nazionalista, nemico della globalizzazione e anticileno, che con il passare dei giorni ha visto aumentare la sua percentuale nei sondaggi, soprattutto nei settori popolari che lo hanno paragonato a Hugo Chávez e a Evo Morales, anche se nei suoi comizi i diritti delle popolazioni andine o le pari opportunità sono rimasti marginali, sopraffatti dalle rivendicazioni per un Perù chiamato a svolgere un ruolo di primo piano in America latina. Stranamente, per un Paese con oltre metà della popolazione sotto la soglia di povertà, al centro della campagna elettorale nelle settimane prima del voto non è stata tanto la politica interna, quanto le relazioni con il vicino Venezuela e più in generale la posizione del Perù nel Continente latinoamericano. L'ideologia di Humala, figlio di un avvocato comunista, è un misto di populismo e socialismo che gli ha procurato le simpatie del presidente Chávez. Eroe della guerra con l'Ecuador, Humala punta a nazionalizzare le risorse naturali del Paese e a creare una nazione dove l'etnia indigena occupi i posti chiave nell'amministrazione dello Stato. Ollanta si richiama all'etnocacerismo, movimento che mescola l'indigenismo a un forte sentimento nazionalista e che deve il suo nome al generale Andrés Cáceres, un militare che alla fine del XIX secolo aveva combattuto l'esercito cileno. Non è un caso che tra le pretese degli etnocaceristi ci sia la restituzione della grossa fetta di territorio che il Cile ha tolto al Perù durante quel conflitto. Humala ha fondato il Partido nacionalista peruviano e nel 2000 ha guidato un'insurrezione militare contro Alberto Fujimori e Vladimiro Montesinos. Fallita l'insurrezione, è stato espulso dall'esercito, per esservi riammesso poco dopo. Implicato nella guerra sporca contro i guerriglieri di Sendero Luminoso, ha sfidato l'esercito a rendere pubblici tutti i documenti segreti relativi a quel periodo della storia recente del Perù. Chávez ha apertamente dichiarato il suo appoggio a Humala: un'intromissione indebita, secondo il presidente uscente Toledo, che ha ritirato l'ambasciatore dal Venezuela. Il centro si è presentato diviso tra Lourdes Flores Nano, militante del Partido popular cristiano, che aveva perso contro Toledo nelle elezioni precedenti, e Valentín Paniagua che, come presidente di transizione, aveva traghettato il Perù del dopo Fujimori alla democrazia. Infine come candidato dell'Alleanza popolare rivoluzionaria americana (Apra) è sceso in campo l'ex presidente Alan García Pérez, sul quale pesava però il ricordo di una presidenza disastrosa che, venti anni fa, aveva portato il Paese sull'orlo della rovina. Dagli anni Novanta è stato introdotto in Perù un modello economico di stampo neoliberale, che ha portato stabilità e crescita dell'economia, ma senza modificare gli indici di povertà. Ollanta si è sforzato di moderare le sue dichiarazioni e di presentarsi davanti all'elettorato più come un riformista che come un rivoluzionario. Ha attaccato la Nano accusandola di essere conservatrice e di difendere le imprese, salvaguardando i privilegi di pochi. Di García, invece, ha ricordato il disastro che significò per il Perù il suo governo, durante il quale l'inflazione era arrivata a livelli record (fino al milione per mille) generando quel crollo economico che aveva aperto la strada all'autoritarismo di Fujimori. La Nano, invece, si è proposta più radicale nelle sue riforme, pur facendo attenzione a non venire interpretata come una garanzia di inversione, e ha promesso di lottare contro l'esclusione sociale e la povertà, accusando Ollanta di non avere un partito, né un'organizzazione che lo sostenga al governo, e di aver dunque l'intenzione di trovare l'appoggio nell'esercito, configurando così una nuova dittatura civico-militare e quindi la fine della democrazia. Infine García si è presentato come candidato del centro e come l'unica scelta veramente democratica, contro la possibile dittatura militare di Humala e contro la Nano, candidata, a suo giudizio, dei ricchi e dei potenti del Paese. Come previsto Humala si è aggiudicato il primo turno con il 30,62% dei voti davanti a García e a Lourdes Flores. Dopo una serie di rinvii dovuti al conteggio dei voti tra i due candidati piazzatisi al secondo posto (divisi da una manciata di voti), il ballottaggio è stato fissato per il 4 giugno con l'ex presidente Alan García (24,32%). Nonostante il suo governo negli anni Ottanta fosse finito in un disastro economico, tra rivolte e accuse di abusi sui diritti umani, il ballottaggio è terminato con la sua vittoria. Con il 53,5% dei consensi, il leader dell'Apra è tornato alla guida del Paese ' era stato presidente dal 1985 al 1990 ' battendo Humala fermo al 46,7%. Molti peruviani hanno votato per García considerandolo il male minore e il meno ostile al mondo degli affari. Chiedendo perdono ai peruviani, García ha promesso che non mancherà questa 'seconda opportunità'. Poi ha aggiunto di aver vinto perché i peruviani hanno respinto 'in modo schiacciante' il tentativo di 'penetrazione e dominazione' messo in atto dal venezuelano Chávez, appoggiando Humala. Aspri sono stati gli scambi di accuse fra García e Chávez, il quale si era apertamente schierato contro il presidente appena rieletto, sottolineando la catastrofica prova durante il quinquennio in cui governò il Paese. Humala si è comunque detto soddisfatto del risultato dal momento che in 15 dei 24 dipartimenti ha battuto il suo antagonista, pur perdendo nel conteggio finale poiché i dipartimenti più popolosi erano quelli a favore di García. Ricordiamo infine che il 13 aprile, nonostante l'opposizione di Humala e García, l'allora capo di Stato Alejandro Toledo ha firmato il Trattato di libero commercio con gli Usa.

In Venezuela prosegue l'esperienza di riforme sociali avviata nel 1998 con la prima elezione di Hugo Chávez. Tra le riforme più importanti, realizzate con la collaborazione di Cuba in cambio di aiuti, la campagna di istruzione, che ha contribuito ad abbattere sensibilmente l'analfabetismo nel Paese, e la campagna della sanità, la quale ha permesso a moltissimi poveri di accedere a cure mediche e chirurgiche gratuite. Con la riforma agraria lo Stato venezuelano è rientrato in possesso di terre poi redistribuite ai meno abbienti. Infine con la rinazionalizzazione del petrolio e di parte dell'economia lo Stato è rientrato in possesso delle leve economiche, in precedenza controllate da una ristretta oligarchia, necessarie per supportare un vasto programma di redistribuzione della ricchezza. No-nostante una certa retorica populista e no-nostante il fatto che otto anni di Revoluciòn abbiano concentrato sempre di più il potere nelle mani di Chávez, il Venezuela è un Paese dove finora la proprietà privata non è stata toccata e la libertà di espressione è garantita. Sul piano internazionale, Chávez ha stabilito relazioni strategiche con i Paesi latinoamericani puntando a un processo di integrazione regionale che trova espressione in iniziative come l'Alternativa bolivariana per le Americhe (Alba) che si contrappone all'Alca (Area di libero scambio delle Americhe), promossa da Washington. Per quanto riguarda Russia e Cina le loro relazioni con il Venezuela ruotano intorno a una strategia legata al mercato del petrolio e ugualmente fanno gli Usa dal momento che a tutti serve un fornitore ricco di materie prime. Gli accordi con Siria, Corea del Nord e Iran sono invece strettamente politici e servono al Venezuela per rompere l'isolamento internazionale attuato anche dalla sinistra democratica, che guarda con preoccupazione al chavismo. Di qui l'irrigidimento del regime, ma i buoni rapporti con questi Stati non rappresentano il sentimento comune alla popolazione venezuelana. Dopo il vertice dei Paesi non allineati tenutosi a Cuba, il presidente Chávez ha incontrato a Caracas il suo omologo dell'Iran, Mahmoud Ahmadinejad, sottoscrivendo una serie di accordi (sul petrolio e la sua lavorazione, sull'acciaio e la lavorazione dei metalli, sulla produzione comune di infrastrutture industriali e civili), confermando così l'alleanza strategica bilaterale che esiste fra le due nazioni (19 settembre). I due presidenti hanno creato un fondo da utilizzare per finanziare gli accordi di cooperazione. Parte del fondo (circa 2 miliardi di dollari) sarà utilizzata per la nascita di un'azienda petrolifera mista con lo scopo di gestire l'estrazione del greggio e l'eventuale ricerca nella regione dell'Ayacucho. Venezuela e Iran insieme producono 7 milioni di barili di petrolio al giorno e se si dovessero sommare le riserve dei due Paesi arriverebbero ad avere le maggiori riserve petrolifere della terra. Fra gli accordi firmati ci sono anche quelli che prevedono la collaborazione in campo medico, agroindustriale e l'apertura di una rotta aerea diretta da Teheran a Caracas a scopo esclusivamente commerciale. Infine Chávez ha dichiarato, in aperta polemica con gli Stati Uniti, che il Venezuela è pronto a schierarsi a fianco dell'Iran nel caso in cui questo venisse attaccato e invaso. In aprile Chávez ha lanciato in aprile la cosiddetta Misión Disarmo che prevede la consegna di denaro alla popolazione in cambio di armi, in modo da far diminuire le violenze e i morti causati dalle armi da fuoco (ogni anno muoiono in scontri a fuoco circa 10.000 persone). Il progetto, che vuole anche cercare di annullare la vendita illegale delle armi e, una volta recuperate quelle in circolazione, distruggerle, dovrebbe prendere il via nella capitale Caracas, città molto violenta. Infine il 3 dicembre si sono tenute le elezioni presidenziali che hanno visto Manuel Rosales, governatore dello Stato di Zulia (dove sono concentrati i pozzi petroliferi), socialdemocratico e leader di Unità nazionale, per la prima volta candidato unico dell'opposizione, sfidare il presidente Chávez. Alle legislative dello scorso anno l'opposizione si era ritirata dalla competizione elettorale per cercare di delegittimare il governo dando così a Chávez il controllo totale dell'Assemblea nazionale (l'astensione aveva raggiunto il 75%). La campagna elettorale ha avuto al centro le risorse del Paese, innanzitutto il petrolio. Riferendosi al petrolio destinato a Cuba, Haiti e ad altre nazioni amiche di Chávez, Rosales ha detto che 'non si possono regalare le nostre ricchezze agli altri Paesi'. Il programma di governo di Rosales ha puntato molto sulla ridistribuzione delle ricchezze derivate dalla vendita del petrolio, sulla creazione di un salario minimo garantito per i di-soccupati, sul miglioramento dei programmi sociali, sulla guerra alle discriminazioni politiche e religiose e sull'istruzione. A questo proposito Rosales ha proposto un modello educativo che permetta una formazione scolastica di alto livello dal primo anno di scuola all'ultimo. Per quanto riguarda la sanità invece verrà realizzata una rete di nuovi ospedali e saranno adottati programmi per assistere le donne in gravidanza, i neonati e gli anziani. Infine in caso di vittoria Rosales ha promesso come primo atto l'introduzione per decreto della carta di credito 'Mi Negra', con cui i poveri potranno ricevere parte dei proventi della vendita del petrolio. Dal canto suo Chávez chiudendo a Caracas la sua campagna elettorale davanti a centinaia di migliaia di persone, ha indicato Rosales come candidato dell'impero sostenuto dagli Usa. Come previsto dai sondaggi, le consultazioni sono terminate con la vittoria di Chávez che ha ottenuto il 62,9% dei consensi, contro il 37,1% del suo avversario, e che potrà così governare fino al 2012, proseguendo l'attuazione del suo programma politico stilato in base alle scelte da seguire per completare la rivoluzione bolivariana. Si allontana così anche la possibilità di un avvicinamento politico fra il Venezuela e gli Stati Uniti e l'instaurazione della democrazia sociale, due dei principali punti del programma di Rosales. Secondo gli osservatori internazionali dell'Ue, del Mercosur e dell'Organizzazione degli Stati americani le votazioni si sono svolte in modo corretto, ma Rosales ha denunciato il cattivo funzionamento di alcune macchine elettroniche utilizzate per il voto. In occasione del discorso per la sua rielezione, Chávez ha ribadito la volontà di approfondire la rivoluzione socialista ed eliminare i privilegi di classe. Il programma si articolerà in alcuni punti chiave, partendo dalla nazionalizzazione delle società di telecomunicazioni, dell'elettricità, e, soprattutto, delle imprese per l'estrazione del petrolio.
 
     
     

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