La Divina Commedia di Dante Alighieri Inferno Canto XXX

 

 
    

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La Divina Commedia di Dante Alighieri Inferno Canto XXX

  

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La Divina Commedia di Dante Alighieri Inferno Canto XXX

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LA DIVINA COMMEDIA di Dante Alighieri (INFERNO) - CANTO XXX

 

-^

Nel tempo che Iunone era crucciata

per Semelè contra 'l sangue tebano,

come mostrò una e altra fïata, (3)

Atamante divenne tanto insano,

che veggendo la moglie con due figli

andar carcata da ciascuna mano, (6)

gridò: «Tendiam le reti, si ch'io pigli

la leonessa e ' leoncini al varco»;

e poi distese i dispietati artigli, (9)

prendendo l'un ch'avea nome Learco,

e rotollo e percosselo ad un sasso;

e quella s'annegò con l'altro carco. (12)

E quando la fortuna volse in basso

l'altezza de' Troian che tutto ardiva,

sì che 'nsieme col regno il re fu casso, (15)

Ecuba trista, misera e cattiva,

poscia che vide Polissena morta,

e del suo Polidoro in su la riva (18)

del mar si fu la dolorosa accorta,

forsennata latrò sì come cane;

tanto il dolor le fé la mente torta. (21)

Ma né di Tebe furie né troiane

si vider mai in alcun tanto crude,

non punger bestie, nonché membra umane, (24)

-^

quant' io vidi in due ombre smorte e nude,

che mordendo correvan di quel modo

che 'l porco quando del porcil si schiude. (27)

L'una giunse a Capocchio, e in sul nodo

del collo l'assannò, sì che, tirando,

grattar li fece il ventre al fondo sodo. (30)

E l'Aretin che rimase, tremando

mi disse: «Quel folletto è Gianni Schicchi,

e va rabbioso altrui così conciando». (33)

«Oh», diss' io lui, «se l'altro non ti ficchi

li denti a dosso, non ti sia fatica

a dir chi è, pria che di qui si spicchi». (36)

Ed elli a me: «Quell' è l'anima antica

di Mirra scellerata, che divenne

al padre, fuor del dritto amore, amica. (39)

Questa a peccar con esso così venne,

falsificando sé in altrui forma,

come l'altro che là sen va, sostenne, (42)

per guadagnar la donna de la torma,

falsificare in sé Buoso Donati,

testando e dando al testamento norma». (45)

E poi che i due rabbiosi fuor passati

sovra cu' io aveva l'occhio tenuto,

rivolsilo a guardar li altri mal nati. (48)

-^

Io vidi un, fatto a guisa di lëuto,

pur ch'elli avesse avuta l'anguinaia

tronca da l'altro che l'uomo ha forcuto. (51)

La grave idropesi, che si dispaia

le membra con l'omor che mal converte,

che 'l viso non risponde a la ventraia, (54)

faceva lui tener le labbra aperte

come l'etico fa, che per la sete

l'un verso l' mento e l'altro in sù rinverte. (57)

«O voi che sanz' alcuna pena siete,

e non so io perché, nel mondo gramo»,

diss' elli a noi, «guardate e attendete (60)

a la miseria del maestro Adamo;

io ebbi, vivo, assai di quel ch'i' volli,

e ora, lasso!, un gocciol d'acqua bramo. (63)

Li ruscelletti che d'i verdi colli

del Casentin discendon giuso in Arno,

faccendo i lor canali freddi e molli, (66)

sempre mi stanno innanzi, e non indarno,

ché l'imagine lor vie più m'asciuga

che 'l male ond' io nel volto mi discarno. (69)

La rigida giustizia che mi fruga

tragge cagion del loco ov' io peccai

a metter più li miei sospiri in fuga. (72)

-^

Ivi è Romena, là dov' io falsai

la lega suggellata del Batista;

per ch'io il corpo sù arso lasciai. (75)

Ma s'io vedessi qui l'anima trista

di Guido o d'Alessandro o di lor frate,

per Fonte Branda non darei la vista. (78)

Dentro c'è l'una già, se l'arrabbiate

ombre che vanno intorno dicon vero;

ma che mi val, c'ho le membra legate? (81)

S'io fossi pur di tanto ancor leggero

ch'i' potessi in cent' anni andare un'oncia,

io sarei messo già per lo sentiero, (84)

cercando lui tra questa gente sconcia,

con tutto ch'ella volge undici miglia,

e men d'un mezzo di traverso non ci ha. (87)

Io son per lor tra sì fatta famiglia;

e' m'indussero a batter li fiorini

ch'avevan tre carati di mondiglia». (90)

E io a lui: «Chi son li due tapini

che fumman come man bagnate 'l verno,

giacendo stretti a' tuoi destri confini?». (93)

«Qui li trovai - e poi volta non dierno -»,

rispuose, «quando piovvi in questo greppo,

e non credo che dieno in sempiterno. (96)

-^

L'una è la falsa ch'accusò Gioseppo;

l'altr' è 'l falso Sinon greco di Troia:

per febbre aguta gittan tanto leppo». (99)

E l'un di lor, che si recò a noia

forse d'esser nomato sì oscuro,

col pugno li percosse l'epa croia. (102)

Quella sonò come fosse un tamburo;

e mastro Adamo li percosse il volto

col braccio suo, che non parve men duro, (105)

dicendo a lui: «Ancor che mi sia tolto

lo muover per le membra che son gravi,

ho io il braccio a tal mestiere sciolto». (108)

Ond' ei rispuose: «Quando tu andavi

al fuoco, non l'avei tu così presto;

ma sì e più l'avei quando coniavi». (111)

E l'idropico: «Tu di' ver di questo:

ma tu non fosti sì ver testimonio

là 've del ver fosti a Troia richesto». (114)

«S'io dissi falso, e tu falsasti il conio»,

disse Sinon; «e son qui per un fallo,

e tu per più ch'alcun altro demonio!». (117)

«Ricorditi, spergiuro, del cavallo»,

rispuose quel ch'avëa infiata l'epa;

«e sieti reo che tutto il mondo sallo!». (120)

-^

«E te sia rea la sete onde ti crepa»,

disse 'l Greco, «la lingua, e l'acqua marcia

che 'l ventre innanzi a li occhi sì t'assiepa!». (123)

Allora il monetier: «Così si squarcia

la bocca tua per tuo mal come suole;

ché, s'i' ho sete e omor mi rinfarcia, (126)

tu hai l'arsura e 'l capo che ti duole,

e per leccar lo specchio di Narcisso,

non vorresti a 'nvitar molte parole». (129)

Ad ascoltarli er' io del tutto fisso,

quando 'l maestro mi disse: «Or pur mira,

che per poco che teco non mi risso!». (132)

Quand' io 'l senti' a me parlar con ira,

volsimi verso lui con tal vergogna,

ch'ancor per la memoria mi si gira. (135)

Qual è colui che suo dannaggio sogna,

che sognando desidera sognare,

sì che quel ch'è, come non fosse, agogna, (138)

tal mi fec' io, non possendo parlare,

che disïava scusarmi, e scusava

me tuttavia, e nol mi credea fare. (141)

«Maggior difetto men vergogna lava»,

disse 'l maestro, «che 'l tuo non è stato;

però d'ogne trestizia ti disgrava. (144)

E fa ragion ch'io ti sia sempre allato,

se più avvien che fortuna t'accoglia

dove sien genti in simigliante piato:

ché voler ciò udire è bassa voglia». (148)

Inferno, c. XXX, vv. 37-39

-^

NOTE AL CANTO XXX

(1-3) Nel tempo, ecc.: Semele, figlia di Cadmo, fondatore di Tebe, fu amata da Giove, che di lei generò Bacco, e perciò odiata da Giunone; per Semelè: per conto di Semele; contra 'l sangue tebano: «contro li reali di Tebe e per loro contro tutto il popolo» (B.); una e altra fïata: «più fiate. Il Bocc.: "Con una cosa e con l'altra", con alcune cose» (Ces.).

(4-12) Atamante, ecc.: re di Tebe, divenne tanto furioso, che, vedendosi venire incontro Ino, sua moglie e sorella di Semele, con due figliuolini, uno per braccio, e credendola una lionessa co' suoi lioncini, prese l'un d'essi ch'avea nome Learco, lo aggirò a guisa di pietra in fionda, e scagliò contro un sasso (Ovid.: ...bis terque per auras - More rotat fundae: rigidoque infantia saxo, - Discutit ossa ferox); di che disperata la madre s'annegò con l'altro figlio di cui era carcata, per nome Melicerta.

(13-21) E quando, ecc.: la fortuna depresse la grandezza (arrogance; Lf.) de' Troiani, che si facevan lecita ogni enormezza. «Accenna allo spergiuro di Laomedonte e al ratto d'Elena» (T.); volse in basso: «arrecò a disfacimento» (B.); casso: abbattuto, estinto; Ecuba, ecc.: Ecuba, moglie di Priama, dopo l'eccidio di Troia, vide Polissena, sua figlia, svenata dai Greci sulla tomba d'Achille. Dipoi, essendo condotta cattiva, serva, sui lidi della Tracia, s'abbatté a vedere il cadavere di Polidoro suo figlio, ucciso da Polinnestore: onde il dolore travolgendole la mente, urlò come cane, e in cagna fu trasformata. Gioven.: Torva canino - Latravit rictu. Ecuba conciò male Polinnestore. Ovid., XIII, 192: «Co' diti più che può ne' lumi il punge, - Talché per forza fuor gli occhi ne scaccia, - Salta del proprio albergo ogni occhio lunge, - E 'l sangue in copia va giù per la faccia; - Perseguon di ferir gli stessi diti - Gli occhi non già, ma ben degli occhi i siti»; forsennata: «fuor del senno: cioè insanita e diventata furiosa. Questo è vocabolo fiorentino» (B.); torta: «dalla ragione umana» (B.).

(22-30) Ma né, ecc.: di Tebe, né di Troia si videro mai furie tanto crudeli contro alcuno, né si videro straziare bestie non che uomini, quant'io vidi furibonde e crudeli due ombre pallide e nude, ecc. Il Blanc intende per furie: frenesie disperate; si schiude: «quando esce dal porcile, che 'l truova aperto» (B.); nodo - del collo: «l'esofago detto volgarmente gorgozzule o pomo d'Adamo; ma il contesto richiede che s'intenda: la nuca, poiché se il folletto avesse azzannato Capocchio alla gola e gittato a terra, costui sarebbe caduto supino, e non dato della pancia contro il suolo» (Bl.); l'assannò, sì, ecc.: «tirando col morso il detto Capocchio, li fece strofinar lo ventre, strascicandolo, al fondo della bolgia ch'era di pietra» (B.). «Il poeta introduce qui una parte dei dannati non solo quale paziente, ma altresì quale operante la pena altrui, come accade di Caco, XXV, 17, e in qualche modo anche dei suicidi e de' dissipatori, XIII, 115, che vanno intorno e tormentano gli altri» (Bl.).

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(31-36) E l'Aretin: «Griffolino; che rimase tremando: per paura che l'altro non mordesse così lui» (B.); Quel folletto: «Der Kobold hier» (Bl.). «Les follets étaient des esprits qu'on croyait répandus dans l'air» (Ls.) V. Morg., XXV, 160-161; Gianni Schicchi: «de' Cavalcanti, abilissimo nel contraffare le persone. Morto Buoso Donati, uomo assai ricco, Simone Donati, suo lontano parente, per carpire l'eredità ai più prossimi, cui, ab intestato, perveniva, fece entrar Gianni nel letto del morto e testare. Onde da Simone ebbe in dono la più bella cavalla della sua mandra, la quale dicono si chiamasse Madonna Tonina» (B. B.). «La cavalla ch'è donna dell'armento; e chi dice che fu una mula, ch'è donna e guidatrice della torma de' muli vettureggianti» (O.). Benv. ed altri fanno Simone figlio di messer Buoso. L'Anonimo fiorentino: «Gianni entra nel letto, et mostrasi appenato, et contraffà la voce di messer Buoso, che parea tutto lui (ch'era uso con lui e avea la cappellina sua in capo), e comincia a testare e dire: "Io lascio soldi XX all'opera di Santa Reparata, et lire cinque a' Frati Minori, et cinque a' Predicatori"; et così viene distribuendo per Dio, ma pochissimi danari. A Simone giovava del fatto. "Et lascio, soggiunse, cinquecento fiorini a Gianni Sticchi (sic.)". Dice Simone: "Questo non bisogna mettere in testamento; io gliel darò come voi lascerete". "Simone, lascierai fare del mio a mio senno: io ti lascio sì bene, che tu dei esser contento". Simone per paura si stava cheto. Questi segue: "Et lascio a Gianni Sticchi la mula mia"; ché avea messer Buoso la migliore mula di Toscana. "Oh, messer Buoso, dicea Simone, di cotesta mula si cura egli poco et poco l'avea cara". "Io so ciò che Gianni Sticchi vuole, meglio di te". Simone si comincia adirare et a consumarsi, ma per paura si stava. Gianni Sticchi segue: "Et lascio a Gianni Sticchi fiorini cento, che io debbo avere da tale mio vicino; et nel rimanente lascio Simone mia reda universale, con questa clausula, ch'egli dovesse mettere ad esecuzione ogni lascio fra quindici dì; se non che tutto il reditaggio venisse a' Frati Minori del convento di Santa Croce": et fatto il testamento, ogni uomo si partì. Gianni esce del letto, et rimettonvi messer Buoso, et lievono il pianto et dicono ch'egli è morto...». Secondo Benv. Buoso volea dei suoi beni di mal acquisto far molti legati, credendo così far ammenda: onde Simone sommosse lo Schicchi, che lo somigliava nella voce e nel parlare, ad entrare nel letto di lui, e ordinare il testamento a suo modo, guadagnandone una cavalla del valore di 1000 fiorini. - Nella commedia di Giorgio Farquhar: I gemelli rivali, il Dottor Sottile, per autenticare il testamento falsificato a pro del figlio nato dopo, ma generato prima, viola il sepolcro del padre, morto d'apoplessia, e gli mette l'atto in bocca, e ne lo trae a costo di qualche dente. - Il Dottor Sottile: «Vostro padre non ha smesso il vecchio rancore, a quel che vedo; faticai molto a recarlo al mio volere. Non vidi mai a mia vita un uomo più restìo di parlare». Il Figlio: «Fu sempre uomo di poche parole». Il Dottor Sottile: «Ora posso tranquillamente far testimonianza io stesso, come il notaio qui. Io amo fare le cose a buona coscienza»; conciando: malmenando; se: così; l'altro: folletto; non ti sia fatica: non t'incresca, non ti gravi; di qui si spicchi: «si parta quinci» (B.).

(38-39) Mirra: innamorata di suo padre Cinira; fuor del dritto amore: contro le leggi dell'amore legittimo e concesso; amica: amante. «In Mirra figurò Firenze, unita in politico incesto col Papa. Epist. ad Arrigo: "Haec (Florentia) Myrrha scelesta et impia in Cinyrae patris amplexus exaestuans"» (B. B.).

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(41-45) falsificando, ecc.: fingendo d'essere quella giovane che la nutrice aveva promessa al padre; come l'altro: Gianni Schicchi; sostenne: tenne l'impegno di contraffare la persona di Buoso Donati. «Sostenne, patì di falsificare, ecc., il che noi diciamo di chi si lascia da passione strascinare a far cosa disonorata e laida come era questa: egli è modo latino» (Ces.); dando al testamento norma: osservando le formalità legali perché fosse valido.

(49-57) Io vidi un, ecc.: «che, avendo il volto ed il collo scarni ed assai grosso per idropisia il ventre, avrebbe avuto sembianza di quell'istrumento da corde, che chiamasi liuto, se il suo corpo fosse stato tronco presso l'inforcatura delle coscie» (B. B.). «S'elli avesse avuto meno una coscia con tutta la gamba sì, che li fosse rimasa pur l'una come ha il liuto» (B.). «Il liuto infatti ha la cassa sonora, costrutta in modo che s'assomiglia a una grossa pancia» (B. B.); che sì dispaia - le membra: «fa disuguale l'uno membro dall'altro» (B.). La quale così disproporziona le membra, alcune ingrossandole, ed altre dimagrandone; converte: «assimila o rivolge a' luoghi dove non dovrebbe» (T.); che 'l viso, ecc.: «non ha giusta proporzione col ventre - essendo il volto piccolo e 'l ventre grosso» (B.); l'un: labbro; rinverte: rivolta, arrovescia.

(59-66) nel mondo gramo: nel mondo tristo, nell'Inferno; maestro Adamo: da Brescia, abile nel fondere e lavorare metalli; a petizione dei conti da Romena falsificò il fiorino d'oro, - preso e processato dal governo di Firenze, fu arso (probabilmente dopo il 1281) sulla via pubblica in faccia al detto castello. «Di questi fiorini se ne spesono assai; ora nel fine venendo un dì il maestro Adamo a Firenze, spendendo di questi fiorini, furono conosciuti essere falsati: fu preso et ivi fu arso» (Anonimo fiorentino). «Questi Conti e simili potenti attendono molto al fabbricare falso per difetto di moneta, perocché le loro rendite non sono sofficienti alle loro disordinate uscite, e perocch'elli non temono li Comuni d'intorno» (O.); lo ebbi, ecc.: da vivo ebbi abbondanza di tutte le cose che bramai; un gocciol d'acqua bramo: «Come l'Epulone del Vangelo, che pregava Abramo di mandar Lazzaro a portargli sulla cima del dito un gocciol d'acqua; quia crucior in hac flamma» (Ces.); Casentin: è una contrada di su quel di Firenze, nell'alpi che caggiono tra Bologna e Firenze; discendon, ecc.: quelli rivi che caggiono dal Casentino, tutti entrano in Arno; i lor canali: «li fossati et altri luoghi cavati, onde corrono li rivi, ecc.» (B.).

(67-69) innanzi: agli occhi e nel pensiero; m'asciuga: mi dissecca, mi consuma; che 'l male, ecc.: che l'idropisia per la quale perdo la carne e fo il viso sottile.

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(70-72) mi fruga: «mi stimola e puniscemi della mia colpa» (B.); del loco, ecc.: dalle frescure del Casentino; a metter più, ecc.: «a farmi sospirar più spesso» (B.). «Mi tien viva la memoria per farmi più soffrire del contrasto - dimostrando che per severità di giustizia e per dirittura, che lo luogo che li fu a diletto a commettere lo peccato, ora li sia a pena la sua memoria» (B.).

(73-78) Romena: castello del Casentino, oggi distrutto; falsai: falsificai; la lega: propr. è quella piccola dose di rame o altro inferiore metallo o mistura minerale, che si fonde coll'oro o coll'argento, per dare alle monete una maggior consistenza. Qui, per dirla col Buti: «Lo fiorino fatto a lega giusta - suggellata, improntata - con l'impronta del Batista, di san Giovanni Battista. Il fiorino d'oro aveva da una parte san Giovanni Battista e dall'altra un fiore di giglio, dal qual fiore esso fiorino si nominò». Davanzati, Lez. Mon.: «Noi, nel 1252, avendo sconfitti i Sanesi a Monte Alcino, battemmo il fiorin dell'oro d'una dramma tutto fine». I poveri fuorusciti fiorentini, nelle lor querele contro al duca Alessandro, dicevano: Ha ancora mutato la forma delle monete e levato il segno pubblico e in luogo di quello messo da una parte la insegna di casa sua, e dall'altra, dove si solea scolpire la imagine del precursore di Cristo, san Giovanni Battista protettore della città nostra, vi ha fatto scolpire e porre la imagine di san Cosmo e san Damiano, particolari avvocati della casa de' Medici, acciocché non resti memoria dell'antica repubblica; o di lor frate: del loro fratello. Aghinolfo II, Guido II, e Alessandro I falsificarono il fiorino. Rimane una lettera di Dante ad Oberto e Guido III, nipoti di Alessandro II, amico al poeta; per fonte Branda, ecc.: Il piacere di veder costoro qui meco a patire, non cangerei con quello di potermi dissetare all'acqua di fonte Branda, fonte bellissima e abbondantissima presso alla città di Siena, e che ha dato il nome alla porta cui è vicina. Secondo l'Ampère e il Forsyth non si dee intendere di questa, ma d'altra che scorre non lungi dalla torre di Romena; che, sebbene meno nota, era più famigliare al poeta, il quale vi rifuggì proscritto, ed una imagine più naturale al monetiere, che fu arso sul luogo. Il Barlow, insistendo sulla maggior fama di fonte Branda di Siena, aggiunge che se ne cava un'imagine più adatta alla sete insaziabile di maestro Adamo.

(79-90) l'una: l'anima d'uno de' conti di Romena; legate: impedite dall'idrope; leggero: agile a muovermi; un'oncia: un pollice; io sarei messo, ecc.: «io mi sarei messo a trovare l'anima di quel conte che c'è» (B.); sconcia: «infetta d'infermità e guasta» (B.); ella volge, ecc.: la valle, indicata dal gesto del parlante. Sebbene la bolgia abbia undici miglia di circonferenza, e non vi sia meno di un mezzo miglio per andar di traverso da un lato all'altro; e men d'un mezzo: «lessero i vecchi Accademici della Crusca, assai male; da che questo Adamo, che volea esagerare la larghezza della bolgia, dovea notare il meno della medesima» (Ces.); non ci ha:

«rima con sconcia, come per li con merli, nel XX del Purg.» (T.); famiglia: di dannati; tre carati: E' il carato la 24 parte dell'oncia; mondiglia: «propr. la feccia, la scoria che nel fondere i metalli e nel ripulirli si stacca, e quivi vale la giunta ignobile, p. e.: di argento e di rame alle monete d'oro» (Bl.). «Alliage» (Ls.). «Il fiorino dell'oro di Firenze è allegato fino di ventiquattro carati. Quello che costui batté aveva le sette parti d'oro fine e l'ottava di rame» (O.).

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(91-96) Chi son, ecc.: i due miseri stretti l'uno accanto all'altro, al tuo destro lato? che fumman, ecc. (cfr. v. 99); Qui li trovai, ecc.: quando discesi in questa bolgia (impero che l'autore finge che le bolge avesson greppo dall'una parte e dall'altra. Greppo è ciglione di fossa e sommità di terra; B.), e d'allora in poi non si mossero punto, né credo che sian per muoversi fino al dì del giudizio.

(97-99) la falsa: la bugiarda moglie di Putifar; da Troia: «Lo qualifica dal paese che egli, mentendo, fe' cader nell'aguato teso dai Greci. - Perché a Troia seminò le sue falsità» (B.). «Così sant'Antonio da Padova, che era da Lisbona, dalle gran cose operate in quella città, n'ebbe il nome» (Ces.); leppo: «è puzza d'arso unto, come quando lo fuoco s'appiglia alla pentola o alla padella» (B.). «Fumo puzzolente delle materie oleose che bruciano» (Bl.).

(100-108) l'un di lor: Sinone; sì oscuro: sì oscuramente, con infamia; l'epa: la pancia; croia: tesa, irrigidita come cuoio. Croio, forse da corium. Il Perticari: epa croia, ventre infermo. I Romagnoli dicono: e' sta croi, è malaticcio; come fosse un tamburo: «La timpanite ha questo nome, perché l'addome è disteso dall'aria raccoltavi, e suona come un tamburo quando è battuto» (Lf.); men duro: men forte del pugno di Sinone; a tal mestiere sciolto: «libero a tale uso» (B.). Al dar pugni.

(110-129) al fuoco: al supplizio del fuoco; non l'avei, ecc.: non avevi il braccio così spedito. «Chi è menato alla giustizia è menato con le mani legate di rietro sì che non può avere il braccio sciolto» (B.); ma sì, ecc.: così spedito e anche più l'avevi allora che coniavi le monete false; tu non fosti, ecc.: tu mentisti quando Priamo ti addimandò: «A che fine hanno - Qui sì grande edificio i Greci eretto? - Per consiglio di cui, con qual avviso - L'han fabbricato? è voto, è magia, è macchina? - Che trama è questa?»; e tu: all'incontro; per più: falli, delitti, ecc.; dimonio: anima dannata. Sopra, verso 32, folletto dell'ombra di Gianni Schicchi; e sieti reo, ecc.: e ti sappia amaro, ti dolga, che ne se' diffamato per tutto il mondo; E te: disse Sinone, sia tormentosa la sete, per cui ti si crepa la lingua; e sia tormentoso il putrido umore, il quale ti gonfia tanto il ventre da fartene una siepe innanzi agli occhi; si squarcia: si spalanca; mi rinfarcia: mi riempie.

Lat.: infarcire. «Mi rinsacca» (Anonimo fiorentino); l'arsura: l'ardore della febbre; e per leccar, ecc.: non ti faresti molto pregare - alla prima parola d'invito correresti a bere; lo specchio di Narcisso, ecc.: il Marini: «...Il bel garzon ch'all'ombra - Là d'un liquido specchio in su la riva, - Idolo ed idolatra è di se stesso».

(132-148) non mi risso: «non mi corruccio» (B.). «That I quarrel with thee» (Lf.); mi si gira: «ancora vi penso» (B.); dannaggio: danno; sì che quel ch'è, ecc.: così che brama quello che è, quasi non fosse. - Brama che sia sogno, quando è sogno di fatti; scusava - me, ecc.: si scusava per la stessa sua confusione; Maggior difetto, ecc.: minor vergogna lava maggior fallo che il tuo non è stato; d'ogni tristizia, ecc.: pon giù ogni tristizia, racconsolati; E fa ragion, ecc.: «ordina: E se altra volta avviene che fortuna accoglia, ti colga, o ti faccia imbattere ove sono genti che si villaneggino, fa conto, fa pensiero che io sia sempre teco; è bassa voglia: è gusto indegno d'una mente elevata» (B. B.).

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