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La Divina Commedia di Dante Alighieri Inferno Canto XI.

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La scuola consegue tanto meglio il proprio scopo quanto più pone l'individuo in condizione di fare a meno di essa.
(Ernesto Codignola)

Note al Canto XI

La Divina Commedia Inferno

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LA DIVINA COMMEDIA di Dante Alighieri (INFERNO) - CANTO XI

In su l'estremità d'un'alta ripa
che facevan gran pietre rotte in cerchio,
venimmo sopra più crudele stipa; (3)

e quivi, per l'orribile soperchio
del puzzo che 'l profondo abisso gitta,
ci raccostammo, in dietro, ad un coperchio (6)

d'un grand' avello, ov' io vidi una scritta
che dicea: 'Anastasio papa guardo,
lo qual trasse Fotin de la via dritta'. (9)

«Lo nostro scender conviene esser tardo,
sì che s'ausi un poco in prima il senso
al tristo fiato; e poi no i fia riguardo». (12)

Così 'l maestro; e io «Alcun compenso»,
dissi lui, «trova che 'l tempo non passi
perduto». Ed elli: «Vedi ch'a ciò penso». (15)

«Figliuol mio, dentro da cotesti sassi»,
cominciò poi a dir, «son tre cerchietti
di grado in grado, come que' che lassi. (18)

Tutti son pien di spirti maladetti;
ma perché poi ti basti pur la vista,
intendi come e perché son costretti. (21)

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D'ogne malizia, ch'odio in cielo acquista,
ingiuria è 'l fine, ed ogne fin cotale
o con forza o con frode altrui contrista. (24)

Ma perché frode è de l'uom proprio male,
più spiace a Dio; e però stan di sotto
li frodolenti, e più dolor li assale. (27)

Di vïolenti il primo cerchio è tutto;
ma perché si fa forza a tre persone,
in tre gironi è distinto e costrutto. (30)

A Dio, a sé, al prossimo si pòne
far forza, dico in loro e in lor cose,
come udirai con aperta ragione. (33)

Morte per forza e ferute dogliose
nel prossimo si danno, e nel suo avere
ruine, incendi e tollette dannose; (36)

onde omicide e ciascun che mal fiere,
guastatori e predon, tutti tormenta
lo giron primo per diverse schiere. (39)

Puote omo avere in sé man violenta
e ne' suoi beni; e però nel secondo
giron convien che sanza pro si penta (42)

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qualunque priva sé del vostro mondo,
biscazza e fonde la sua facultade,
e piange là dov' esser de' giocondo. (45)

Puossi far forza ne la deïtade,
col cor negando e bestemmiando quella,
e spregiando natura e sua bontade; (48)

e però lo minor giron suggella
del segno suo e Soddoma e Caorsa
e chi, spregiando Dio col cor, favella. (51)

La frode, ond' ogne coscïenza è morsa,
può l'omo usare in colui che 'n lui fida
e in quel che fidanza non imborsa. (54)

Questo modo di retro par ch'incida
pur lo vinco d'amor che fa natura;
onde nel cerchio secondo s'annida (57)

ipocresia, lusinghe e chi affattura,
falsità, ladroneccio e simonia,
ruffian, baratti e simile lordura. (60)

Per l'altro modo quell' amor s'oblia
che fa natura, e quel ch'è poi aggiunto,
di che la fede spezïal si cria; (63)

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onde nel cerchio minore, ov' è 'l punto
de l'universo in su che Dite siede,
qualunque trade in etterno è consunto». (66)

E io: «Maestro, assai chiara procede
la tua ragione, e assai ben distingue
questo baràtro e 'l popol ch'e' possiede. (69)

Ma dimmi: quei de la palude pingue,
che mena il vento, e che batte la pioggia,
e che s'incontran con sì aspre lingue, (72)

perché non dentro da la città roggia
sono ei puniti, se Dio li ha in ira?
e se non li ha, perché sono a tal foggia?». (75)

Ed elli a me «Perché tanto delira»,
disse, «lo 'ngegno tuo da quel che sòle?
o ver la mente dove altrove mira? (78)

Non ti rimembra di quelle parole
con le quai la tua Etica pertratta
le tre disposizion che 'l ciel non vole, (81)

incontenenza, malizia e la matta
bestialitade? e come incontenenza
men Dio offende e men biasimo accatta? (84)

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Se tu riguardi ben questa sentenza,
e rechiti a la mente chi son quelli
che sù di fuor sostegnon penitenza, (87)

tu vedrai ben perché da questi felli
sien dipartiti, e perché men crucciata
la divina vendetta li martelli». (90)

«O sol che sani ogne vista turbata,
tu mi contenti sì quando tu solvi,
che, non men che saver, dubbiar m'aggrata. (93)

Ancora in dietro un poco ti rivolvi»
diss' io, «là dove di' ch'usura offende
la divina bontade, e 'l groppo solvi». (96)

«Filosofia», mi disse, «a chi la 'ntende,
nota, non pure in una sola parte,
come natura lo suo corso prende (99)

dal divino 'ntelletto e da sua arte;
e se tu ben la tua Fisica note,
tu troverai, non dopo molte carte, (102)

che l'arte vostra quella, quanto pote,
segue, come 'l maestro fa 'l discente;
sì che vostr' arte a Dio quasi è nepote. (105)

Da queste due, se tu ti rechi a mente
lo Genesì dal principio, convene
prender sua vita e avanzar la gente; (108)

e perché l'usuriere altra via tene,
per sé natura e per la sua seguace
dispregia, poi ch'in altro pon la spene. (111)

Ma seguimi oramai che 'l gir mi piace;
ché i Pesci guizzan su per l'orizzonta,
e 'l Carro tutto sovra 'l Coro giace,
e 'l balzo via là oltra si dismonta». (115)

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NOTE AL CANTO XI

(1-9) ripa: «I Poeti erano entrati per la porta guardata da diavoli nella città di Dite, la quale era nel sesto cerchio; questa città, che dalla parte dove entrò Dante, avea le mura rosse come ferro rovente, dovette aver qui, in luogo di mura, questa ripa altissima, per la quale scenderanno a suo tempo nell'altro cerchio» (Ces.). «Ripa è, o artificiale o naturale che ella sia, o terreno o pietre, la quale da alcuna altezza discenda al basso sì diritta che o non presti, o presti con difficultà la scesa per sé di quell'altezza al luogo nel quale essa discende, siccome in assai parti si vede nei luoghi montuosi naturalmente essere, o come per fortificamento delle castella e delle città gli uomini artificiosamente fanno» (B.). «Estremità è l'ultima parte, ripa è ogni tagliamento di terreno» (Buti); che facevan, ecc.: «formate di grandi pietre» (B. B.); sopra più crudele stipa: «Stipa, le cose stipate, cioè accumulatamente poste, siccome i naviganti le molte cose poste ne' lor legni dicono stivate: e s'intende che sotto il luogo dove pervennero, erano stivate grandissime moltitudini di peccatori in più crudel pena, che quelli i quali infino a quel luogo veduti avea» (B.); stipa: siepe che chiude e circonda; «stivare è empiere bene quanto cape, come si dice: La nave è stivata» (Buti). Inf., XXIV, 82-83: stipa - di serpenti; soperchio: eccesso; gitta: esala, svaporando in su; «ci raccostammo indietro, acciocché men lo sentissimo, che standovi direttamente sopra» (B.); avello: Dittamondo: «Fui in Cologna Dove son gli tre magi in ricchi avelli»; trasse Fotin de la vita dritta: «fecelo errare nella fede. Questo Fotino ebbe questa eresia, che in Cristo non fosse se non una natura; cioè umana tanto, e che Cristo fosse puro uomo, e così fece credere a papa Anastasio, e tanto vi mise questa eresia in lui, ch'elli volle restituire (nei Dittici) uno eretico (Acacio) che la Chiesa avea dannato, se non che i cardinali non consentirono; e finalmente male morì: imperò che, essendo ito al secreto luogo della natura, per miracolo divino gittò fuori tutte le intestine» (Buti). Isidoro: «Fotiniani a Fotino Gallograeciae Sirmiae episcopo nuncupati, qui ebionitarum haeresim suscitans, asseruit Christum a Maria per Joseph nuptiali coitu fuisse conceptum». Il Venturi volle che Dante scambiasse l'imperatore Anastasio I con papa Anastasio II. Il Borghini: «Seguitò quello che aveva scritto Graziano, il quale medesimamente s'ingannò». Il Blanc, col prof. Thilo di Halle, crede che s'intenda veramente di papa Anastasio, per essersi mostrato conciliante nelle quistioni prodotte dalla pubblicazione dell'Enotico, fatta da Zenone Isaurico nell'anno 482, per consiglio di Acacio, patriarca di Costantinopoli, e per credersi che volesse rimettere nei libri ecclesiastici il nome di esso Acacio, fattone radere da papa Gelasio. E pare verosimile ch'egli avesse accolto Fotino, diacono di Tessalonica, che fu uno dei mediatori della pace. Il Longfellow, appoggiandosi allo storico del Cristianesimo, Milman, s'accorda col professor Thilo, e vedi che così l'intese il Buti.
(10-14) tardo: adagio; sì che s'ausi, s'assuefaccia al tristo fiato. Quel compagno di san Francesco, il quale, nella sua visione infernale, vide la donna ch'avea falsato la misura del grano e della biada, ardere stretta in una misura di fuoco (avello singolare), trovò poi un fiume terribile, pieno di serpenti e di dragoni e di scorpioni, e gittava uno grandissimo puzzo: proprietà dell'Inferno. - Il Köpisch cita qui il verso del re fratricida in Amleto, III, 3: «O my offence is rank, it smells to heaven!»; no i fia riguardo: non bisognerà di molto curarsene. «Ab assuetis non fit passio» (B.); compenso: rimedio; «'l tempo dell'aspettare» (T.).
(18) di grado in grado: digradanti; come que' che lassi: «com'hai veduto delli sei passati, così de' essere de' tre che sono a vedere» (Buti).
(19-21) maladetti: dannati; perché poi ti basti pur la vista: a ciò che non abbi poi a domandare; intendi come e perché, ecc.: «vedi lo modo e la cagione» (Buti); costretti: stretti insieme, stivati. Il Todeschini, a cui s'accosterebbe volentieri il Blanc, riferisce non bene costretti ai cercbj spiegando: «stretti, serrati l'un dentro l'altro».

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(22-23) malizia: Alfr. Maury: «Cette méchanceté de l'homme, souillé de vices, est ce qu'Apulée nomme malitia (De dogmat. Platon.); expression qui fut adoptée dans le même sens par les chrétiens». «E' malizia di corpo e malizia d'animo; uno arbore quando è in alcuna parte guasto, si dice: egli è maliziato» (Anonimo fiorentino); acquista: in mal senso. Petr.: «Biasmo s'acquista»; ingiuria è 'l fine: «qualche atto ingiusto ne è lo scopo» (L.). Dittam.: «Eran giganti, a forza e con ingiuria A libito viveano...».
(25) frode, ecc.: consistendo nell'abuso della ragione, dote propria di lui e non comune, come la forza, agli altri animali.
(26-27) sutto: lat.: subtus, sotto; più dolor li assale: sono oppressi da maggior tormenti.
(28-33) è tutto: «perciocché il distingue in tre parti, le quali tutte e tre son piene di violenti» (B.); a tre persone: a tre sorte di persone; cose: Inf., XIX, 2: ...le cose di Dio; ragione: dimostrazione.
(34-36) Morte per forza: «come uccidere col coltello, col veleno, col capestro, col fuoco, o in altra maniera» (B.); nel suo avere: nelle sue possessioni e ricchezze; ruine: «come è disfargli le case, e incendi, come è ardergliele o ardergli le biade, e tollette dannose, come è il rubargli le sue cose, torgli la moglie, la figliuola, il bestiame, e simili sustanze» (B.); tollette: «tolte, sustantivo. Noi, d'una mercanzia comperata da noi, di cui s'è avuto piacere e buon mercato, diciamo: "Ella è stata per noi una buona tolta"; qui ruberie» (Salv.). Tollette, latrocinj, spiega il Blanc, con gli antichi interpreti, rispondendo a predon, come ruine, incendi a guastatori. Par., V, 33: mal tolletto, bene di mal acquisto. Altri per gabella, estorsione, dalla voce medieva tolletum: exatio quae per vim fit, onde malatolta, maltolletum, male tolletum, di qua il francese mal tote (da tollere: rubare). Altri legge collette, e questa lezione piace al Foscolo, che dice: «Io trovo nell'aurea latinità collectam exigere (Cicero, De Orat., II, 57), e parmi che Dante alluda alle tante taglie e tasse e concussioni, sotto nome di doni gratuiti per pubblico bene, imposte da principi e magistrati, e perciò vi aggiugne dannose. Altrove (nel Convito) s'adira ch'ei le vedeva da per tutto in Italia, e qui fors'anche ebbe in mente il passo della Scrittura: "Popolum meum exactores sui spoliaverunt (Isaìa, III, 12)"».
(37-39) onde omicide: il Bocc. legge odj, ecc., e spiega: «Odj, coloro che odio portano al prossimo, volendo per questo s'intendano coloro in questo medesimo luogo esser dannati, i quali, quantunque queste violenze non facciano, le farebbono volentieri, se potessono, e perché più non possono, hanno in odio il prossimo; omicide (plur. di omicida) e ciascun che mal fiere, a distinguer da questi cotali coloro, i quali, posti per esecutori della giustizia, giustamente uccidono e feriscono; guastatori, come sono incendiarj e simili uomini, e predon, cioè rubatori, corsari, e tiranni e simiglianti»; «lo giron primo del settimo cerchio, per diverse schiere, cioè guastatori con guastatori, predoni con predoni, ecc., quantunque nel girone medesimo» (L.).
(40-42) Puote omo: fare forza a sé medesimo, uccidendosi; e ne' suoi beni: ardendoli e disfacendoli, giocando e gittando il suo; si penta: «pentire in questa parte s'intende sostenere pena et avere stimolo e dolore d'aver fatto tal peccato» (Buti).

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(45) e piange là dove esser de' giocondo: «nell'altra vita, ove dovrebbe avere allegrezza» (Buti).
(47-49) col cuor negando, ecc.: Salmi: «Dixit insipiens in corde suo: Non est Deus»; spregiando natura sua bontade: «adoperando contro alle naturali leggi» (B.). «sua bontade: i suoi doni» (T.); minor: quel di mezzo più stretto del primo. «Nel detto girone piove falde di fuoco sopra quelle tre fitte di peccatori, e quelle fiamme cadendo lor sulla carne, a modo di marchio rovente, la segnano e suggellano colle piaghe, onde que' corpi sono impressi, a colore del sangue delle cotture e delle ulceri» (Ces.).
(50-54) Caorsa: latino: Cadurcum, già capoluogo dell'alto Quercy, ora capoluogo del dipartimento del Lot, venuto in mala voce ai tempi di Dante per vizio di usura. Vedi Paradiso, XXVII, 58. «Caorsa è una città sì del tutto data al prestare a usura, che in quella non è né uomo né femmina, né vecchio né giovane, né piccolo né grande che a ciò non intenda; e non che altri, ma ancora le serventi, non che il lor salario, ma se d'altra parte sei o otto denari venisser loro alle mani, tantosto gli dispongono e prestano ad alcun prezzo; per la qual cosa è tanto questo lor miserabile esercizio divulgato, e massimamente appo noi, che come l'uom dice d'alcuno: Egli è Caorsino, così s'intende che egli sia usuraio» (B.). Matteo Paris, nella sua Historia Major, all'anno 1235: «Invaluit autem his diebus adeo Caursinorum pestis abominanda, ut vix esset aliquis in tota Anglia, maxime Praelatus, qui retibus illorum jam non illaquearetur. Etiam ipse Rex, debito inestimabili eis tenebatur obligatus. Circumveniebant enim in necessitatibus indigentes, usuram sub specie negotiationis palliantes: et nescire dissimulantes, quod quicquid accrescit sorti, usura est, quocumque nomine censeatur». Qui dà la formula delle obbligazioni che i Caorsini imponevano ai debitori; e suggella: «Judaei novum genus usurae in Christianis comperientes. Sabbatha nostra non immerito deridebant». E lo stesso altrove: «Temporibus sub eisdem (1251), usurari Transalpini, quos Caursinos appellamus, adeo multiplicati sunt, et ditati, quod nobilissima palatia Londini sibi comparantes, stabilem sibi more civium indigenarum mansionem statuerunt. Nec sunt ausi Praelati obmutire, quia se mercatores domini Papae extitisse affirmarunt: nec audebant cives obloqui, quia Magnatum quorundam, quorum, ut dicebatur, pecuniam ad multiplicandum seminabant, exemplo Romanae curiae, favore defendebantur». E di questo favore che dava lor Roma, si doleva il vescovo di Lincoln (1253). «Nunc domini Papae mercatores vel scambiatores, obmurmurantibus Judaeis, palam Londini foenerantur». E spiega il modo di quest'usura: «Mutuo accipio marcas per annum pro centum libris: cogor conficere scriptum et signare, in quo confiteor me centum libras mutuo in fine anni solvendas recepisse. Et si forte sortem pecuniae tibi infra mensem vel dies pauciorem adquisitam usurario Papali solvere volueris, non recipiet, nisi integraliter centum libras; quae conditio gravior est quam Judaeorum, quia quandocunque sortem Judaeo attuleris, recipiet benigne, cum tanto lucro quod tempori tanto se commensurat»; e chi: «colui che fintamente, per mondano utile o tema, spaccia credenza in Dio, ed internamente lo nega e bestemmia. V. verso 47» (L.); è morsa: «Questo dice perché ciascuno che l'usa n'ha rimordimento di coscienza» (Buti). Cic., pro Rosc. Amer.: «Sua quemque fraus, et suus terror maxime vexat; suum quemque scelus agitat». O perché tutti, più o meno, n'eran macchiati a quei tempi; non imborsa: «il quale non ha fidanza nel fraudolente» (B.). «Inf., XXIV: La speranza ringavagna. Dal metter la speranza in borsa al metterla in paniere non corre gran cosa». (T.).
(55-57) «Questo modo di retro, della frode contro chi non si fida, par ch'uccida, rompa, pur lo vinco d'amor, lo legame d'amor naturale tra l'uno uomo e l'altro» (Buti); che fa: caso obliquo; uccida: altri legge: incida. «Incidere vincoli suona più positivo; ma uccidere i vincoli della natura fa sentire anima in essi e intendere i sentimenti e gli affetti scambievoli fra uomo e uomo» (Fosc.); s'annida: «l'è dato per stanza, s'alloga» (B.).
(58-60) «ipocrisia, che è mostrarsi buono ed essere reo, e questo intende l'ipocriti; lusinghe, li lusinghieri, e chi affattura, li maliosi; falsità, falsatori di moneta, di scrittura e d'ogni altra cosa; ladroneccio, rubatori che usano ladroneccio, e simonia, di chi mercata le cose sacre; ruffian, ingannatori di femmine; baratti, barattieri che vendono le grazie de' lor signori, e simile lordura, altre spezie simili a queste» (Buti). «Ipocrisia, Inf., XXIII. Lusinghe, XVIII. Affattura, XX. Falsità, XXIX-XXX. Ladroneccio, XII. Simonia, XIX. Ruffian, XVIII. Baratti, XXI-XXII» (T.).
(61-63) «Per l'altro modo, per l'usar frode in colui che d'altrui si fida - quel (amore) ch'è poi aggiunto al naturale, o per amistà, o per beneficj ricevuti, o per parentado; di che, delle quali cose, la fede spezial si cria, la singulare e intera confidenza che l'uno uomo prende dell'altro, per singulare amicizia congiuntogli» (B.); natura: caso retto.

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(64-66) «onde nel cerchio minore, nono et ultimo, ov'è 'l punto - de l'universo, centrale, non della terra, ma dell'universo, cioè di tutti li cerchj de' cieli; e questo dice per verificare la fizione, che porrà di sotto, della terra, che essa venisse più su verso il nostro emisperio per fuggire lo lucifero, quando cadde dal cielo, in su che Dite, cioè Plutone, secondo li poeti, lo quale è Lucifero, secondo la fizione dell'autore siede; imperò che l'autor finge che Lucifero, quando cadde, venisse infino al centro e qui si fermasse; imperò che le cose gravi non possono andare, se non infino al centro» (Buti); «qualunque trade, tradisce, in eterno è consunto, tormentato» (B.).
(69) questo baratro, ecc.: «questa voragine e li peccatori che ci sono» (Buti). «Ci desta alla dolorosa meditazione che l'Inferno è l'unica possessione, la quale avanza ai dannati» (Fosc.).
(70-72) «quei de la palude pingue, gli iracondi e gli accidiosi, i quali son tormentati nella palude di Stige, la quale cognomina pingue per la sua grassezza del loto e del fastidio il quale v'è dentro; e quelli che mena il vento, i lussuriosi, che son di sopra nel secondo cerchio, e quelli che batte la pioggia, i golosi, i quali sono di sopra nel terzo cerchio, e quelli che s'incontran con sì aspre lingue, gli avari e prodighi, i quali sono nel quarto cerchio» (B.).
(73-78) roggia: rossa; se non li ha in ira; a tal foggia puniti?; delira: «esce dal solco, si svia» (Buti); la mente dove altrove mira, si svaga. Altri la mente tua.
(80-84) tua Etica: «Tua, per darne a vedere che questo libro fosse familiarissimo all'autore» (B.); pertratta: tratta distesamente. Voce assai famigliare a Dante ne' suoi scritti latini; disposizion: abiti viziosi. V. Aristotile, nel principio del VII libro dell'Etica a Nicomaco; matta: «perché al tutto è accecato l'intelletto» (Buti). Il Blanc, col Boccaccio, al rovescio degli altri interpreti, pensa che nel settimo cerchio si punisca la bestialità e nel seguente la malizia: sia perché Aristotile dice la bestialità non esser sì gran male quanto la malizia morale, e alla bestialità ascrive le passioni snaturate; sia perché presso lo stesso Dante le persone mitologiche del settimo cerchio, il Minotauro, i Centauri e le Arpie inferiscono degenerazione bestiale della natura umana, quindi bestialità.

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(87-90) su di fuor: della città di Dite; vendetta: altri: giustizia; li martelli: «tormenta, e dice men crucciata, imitando nel parlare il costume umano, il quale, quanto più di cruccio porta verso alcuno, tanto più crudelmente il batte» (B.).
(94-96) in dietro ti rivolvi: ritorna alla sentenza già detta, e 'l groppo solvi: sviluppa il nodo, sciogli il dubbio, ecc.
(97-105) a chi la 'ntende: il Tomm. legge: a chi l'attende, e cita quel passo del Convivio: «Aristotele pare ciò sentire, chi bene lo attende, nel primo di cielo e mondo». «Natura lo suo corso prende, suo processo da divino intelletto, perché Idio è prima cagione di tutte le cagioni, e da sua arte, dal suo operare; lo suo operare è il suo volere, imperò che come Idio intende, così vuole, e come vuole, così opera; imperò che così le cose vengono ad effetto. Non dopo molte carte, presso al principio del libro, dice "Ars imitatur naturam in quantum potest"» (Buti); note: riguardi; nepote: il Tasso: «L'arte è prima nell'intelletto divino, secondo i Platonici, e poi nella natura, e ultimamente nell'intelletto dell'uomo; la qual arte è in terzo grado lontana dal divino artifizio».

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(107-108) Genesì: il Tomm. legge Genesis, e dice: «L'accento posa sull'ultima come in Semiramìs. Inf., V, 58». Fazio degli Uberti: «Come nel Genesis trovar puoi tu». Vi si legge: «Oportuit ab initio saeculi humanum genus sumere vitam et excedere», ecc.; prender sua vita: «l'ordine e il modo del vivere, ed avanzar la gente, li uomini avanzare l'uno l'altro nelle ricchezze e beni temporali» (Buti). Il Fraticelli: «Le parole son queste: Posuit Deus hominem ut operaretur... Vesceris in sudore vultus tui». Il Foscolo: «Dall'esempio del primo padre conviene a noi procacciarci vita dalla natura e dall'arte». E il Ls.: «De ces deux (arts, celui de la nature et le vôtre) il convient que l'homme tire sa vie et son progrès».
(109-110) e perché l'usuriere: «L'usura è una figliatura della pecunia, perciò detta dai Greci "tokos", cioè parto; e usurae usurarum, gl'interessi degl'interessi, "anatokismos", cioè rifigliamento. Gli Ebrei l'usura la chiamano morso, e santo Ambrogio le chiama sanguinolenti» (Salv.); altra via tene: «imperò ch'elli vuole che il danaio faccia danaio, la quale cosa è contro natura» (Buti); tua seguace: l'arte.
(112-115) Ma seguimi oramai: «Finora sono stati fermi presso la tomba di papa Anastasio. V. verso 6» (B. B.); ché i Pesci, ecc.: «I Pesci, ossia le stelle che formano il segno dei Pesci zodiacali, son nel punto dell'oriente due ore prima del sole, quando questo è in Ariete. Si viene qui dunque ad accennare il principio dell'aurora» (B. B.); orizzonta: orizzonte. Fazio degli Uberti: Camaleonta; e 'l Carro, ecc.: «L'orsa maggiore era scesa sopra il luogo onde trae il Ponente maestro, detto Caurus, Coro» (Ces.); 'l balzo: l'alta ripa; via là oltra: lontano di qui.

Ritratto di Dante Alighieri

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