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adLeggiad   La Divina Commedia di Dante Alighieri Inferno Canto V (Note al Canto).

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LA DIVINA COMMEDIA di Dante Alighieri (INFERNO) - CANTO V

Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia
e tanto più dolor, che punge a guaio. (3)

Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l'intrata;
giudica e manda secondo ch'avvinghia. (6)

Dico che quando l'anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata (9)

vede qual loco d'inferno è da essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa. (12)

Sempre dinanzi a lui ne stanno molte:
vanno a vicenda ciascuna al giudizio,
dicono e odono e poi son giù volte. (15)

«O tu che vieni al doloroso ospizio»,
disse Minòs a me quando mi vide,
lasciando l'atto di cotanto offizio, (18)

«guarda com' entri e di cui tu ti fide;
non t'inganni l'ampiezza de l'intrare!».
E 'l duca mio a lui: «Perché pur gride? (21)

Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare». (24)

Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
là dove molto pianto mi percuote. (27)

Io venni in loco d'ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti è combattuto. (30)

La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta. (33)

Quando giungon davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina. (36)

Intesi ch'a così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento. (39)

E come li stornei ne portan l'ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
così quel fiato li spiriti mali (42)

di qua, di là, di giù, di sù li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena. (45)

E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di sé lunga riga,
così vid' io venir, traendo guai, (48)

ombre portate da la detta briga;
per ch'i' dissi: «Maestro, chi son quelle
genti che l'aura nera sì gastiga?». (51)

«La prima di color di cui novelle
tu vuo' saper», mi disse quelli allotta,
«fu imperadrice di molte favelle. (54)

A vizio di lussuria fu sì rotta,
che libito fé licito in sua legge,
per tòrre il biasmo in che era condotta. (57)

Ell' è Semiramìs, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:
tenne la terra che 'l Soldan corregge. (60)

L'altra è colei che s'ancise amorosa,
e ruppe fede al cener di Sicheo;
poi è Cleopatràs lussurïosa. (63)

Elena vedi, per cui tanto reo
tempo si volse, e vedi 'l grande Achille,
che con amore al fine combatteo. (66)

Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille
ombre mostrommi e nominommi a dito,
ch'amor di nostra vita dipartille. (69)

Poscia ch'io ebbi 'l mio dottore udito
nomar le donne antiche e ' cavalieri,
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito. (72)

I' cominciai: «Poeta, volontieri
parlerei a quei due che 'nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggieri». (75)

Ed elli a me: «Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno». (78)

Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: «O anime affannate,
venite a noi parlar, s'altri nol niega!». (81)

Quali colombe dal disio chiamate
con l'ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l'aere, dal voler portate; (84)

cotali uscir de la schiera ov' è Dido,
a noi venendo per l'aere maligno,
sì forte fu l'affettuoso grido. (87)

«O animal grazïoso e benigno
che visitando vai per l'aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno, (90)

se fosse amico il re de l'universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c'hai pietà del nostro mal perverso. (93)

Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che 'l vento, come fa, ci tace. (96)

Siede la terra dove nata fui
su la marina dove 'l Po discende
per aver pace co' seguaci sui. (99)

Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende. (102)

Amor, ch'a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m'abbandona. (105)

Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense».
Queste parole da lor ci fuor porte. (108)

Quand' io intesi quell' anime offense,
china' il viso, e tanto il tenni basso,
fin che 'l poeta mi disse: «Che pense?». (111)

Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!». (114)

Poi mi rivolsi a loro e parla' io,
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio. (117)

Ma dimmi: al tempo d'i dolci sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri?». (120)

E quella a me: «Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa 'l tuo dottore. (123)

Ma s'a conoscer là prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice. (126)

Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto. (129)

Per più fïate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse. (132)

Quando leggemmo il disïato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso, (135)

la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante». (138)

Mentre che l'uno spirto questo disse,
l'altro piangëa; sì che di pietade
io venni men così com' io morisse.
E caddi come corpo morto cade. (142)

NOTE AL CANTO V

(1-3) primaio: primo; cinghia: cinge; e tanto più dolor, ecc.: e contiene tanto più dolore che tormenta (che punge) quelli spiriti fino a farli trar guai (a guaio), e non soli sospiri come nel Limbo; guaio è propriamente la voce lamentevole che manda fuori il cane percosso, e allora si dice il cane guaire. Discendendo si scema il sito del luogo e cresce la pena.
(4-6) Minòs: «figliuolo di Giove e d'Europa, re e legislatore de' Cretensi, uomo di severa giustizia, il quale finsero i poeti che fosse giudice all'Inferno con Eaco e Radamanto» (Volpi). Dante ne fa un demonio, in cui raccoglie le due pitture virgiliane di Minosse e Radamanto; orribilmente: in atto orribile; ringhia: digrigna i denti, freme d'ira; ne l'entrata: nell'entrare di ciascun'anima, o meglio sull'ingresso d'esso cerchio; manda: manda il dannato tanti cerchj più quante volte rivolge intorno a sé la coda.
(7-12) mal nata: sciagurata, cui meglio sarebbe stato il non nascere; tutta: «pienamente, non lasciando alcuna colpa» (Buti); conoscitor, ecc.: «è proprio voce tutta del fôro, che vien dal latino cognoscere, in senso di far il processo; come altresì cognitio. Tac. Dav., Ann., III, 12: Basti Germanico privilegiare che in consiglio dal senato, non in corte da giudice si conosca della sua morte» (Cesari); peccata: peccati; è da essa: «si conviene all'anima confessata» (Buti); cignesi, ecc.: il Blanc, non sapendosi acquetare all'idea che la coda fosse sì mostruosamente lunga da poter avvolgersela intorno sino a nove volte, ché tanti sono i cerchj infernali, spiega: «Il demonio cinge tante volte intorno a sé a colpi semplici e ripetuti la coda (ch'è di giusta lunghezza), quanti sono i cerchj ch' e' vuole indicare. Come il leone quando levasi in ira, si sferza i fianchi colla coda, così questo dimonio, il cui bestiale furore sì bellamente è descritto, Inf., XXVII, 124:
A Minòs mi portò; e quelli attorse
otto volte la coda al dosso duro;
e poi che per gran rabbia la si morse,
disse: . . . . .»;
quantunque: quanti; gradi: i cerchj infernali, perché sono appunto come i gradi di anfiteatro.
(13-15) molte: anime; a vicenda: l'una dopo l'altra; dicono e odono: dicono i peccati e odono la sentenza; giù volte: una forza suprema, quella che dêtta a Minosse il giudizio, lo eseguisce, spingendo giù l'anima per l'appunto nel luogo assegnato.
(16-20) ospizio: dal lat. hospitium: abitazione; lasciando, ecc.: sospendendo la funzione del suo sì grande ufficio di giudice infernale; di cui: di chi; fide: fidi; ampiezza: Aen., VI: Patet atri jauna Ditis; «larga la porta e spaziosa la via che mena alla perdizione» (Matteo, VII, 13).
(22-24) fatale: voluto dal fato di Dio; vuolsi così, ecc.: le medesime parole dette da Virgilio a Caronte (Inf., III, 95-96).
(25-28) le dolenti note: le voci di lamento dei dannati; mi percuote: l'orecchio e l'animo; muto: privo.
(31-32) bufera: «è un vento impetuoso, forte, il qual percuote e rompe e abbatte ciò che dinanzi gli si para» (B.); mai non resta: non cessa mai (cfr. verso 96); mena: trae seco; rapina: rapinoso movimento; «La rapina del primo mobile» (Dante, Convito). «Emporte les esprits dans sa course rapide» (Ls.). Il Kopisch ricorda la leggenda medieva di Erodiade, che presa di mal amore pel tronco capo di S. Giovanni Battista lo baciò in bocca, donde uscì una tempesta che la portò per aria, ove la turbina senza posa in eterno.
(34) davanti a la ruina: il Tommaseo e il Filalete intendono per ruina il lembo interiore di questo cerchio, cioè quello che riesce a' cerchi più bassi, e spiegano: «le ombre gittate qua e là dal vento, appressandosi a quest'orlo, temevano di essere precipitate all'ingiù. Ma Dante pose per legge fondamentale dell'Inferno, che né demonj, né dannati possano mai abbandonare il cerchio loro assegnato, e che anzi le ombre dovevano mano mano essere fatte certe di questa legge per propria esperienza, e non potevano quindi temere del contrario...». Il Vellutello pensa che i lamenti e le strida incomincino al punto che le anime mandate da Minosse toccano l'orlo del cerchio, e sono colte dalla bufera; e della stessa sentenza sono lo Scolari e lo Zani de' Ferranti. Una sola objezione potrebbesi fare, che a questo modo le parole di Dante varrebbero solo per l'anime giunte di fresco, mentre è manifesto che nel poema non solo a queste riguarda, ma più a quelle altresì che sono là da gran tempo. Perciò noi crederemmo col Magalotti, che, come per gli altri cerchj, così per questo, uno solo sia il luogo accessibile, e che questo formi l'ingresso. E proprio là nasce la bufera, là la bufera coglie le anime, tanto le nuovamente arrivate quanto le altre del cerchio, quando cioè, come è d'uopo figurarci, menate dal vento ci capitano. Il Magalotti assai bellamente le paragona ad un oggetto, che, galleggiando su larga fiumana, come arriva allo sbocco d'infuriato torrente, è rapinato e buttato qua e là.
(37-39) Intesi: o udì da Virgilio, o intese da per sé, argomentandolo dalla natura della pena; talento: appetito sensuale.
(40-42) stornei: plurale di stornello. Il Venturi creò stornèo; nel freddo tempo: nell'inverno. «Nel mezzo dell'autunno, nel qual tempo usano gli stornelli e molti altri uccelli, secondo lor natura, di convenirsi insieme, e di passare dalle regioni fredde nelle più calde per loro scampo» (B.); a schiera larga e piena: «à bandes épaisses et larges» (Ls.); fiato: vento; mali: malvagi. Dopo mali il Witte e il Torelli pongono punto fermo.
(46-47) lor lai: «lor versi, ed è questo vocabolo preso per parlar francesco, nel quale si chiamano lai certi versi in forma di lamentazione nel lor volgare composti» (B.); Purg., IX, 13-14: i tristi lai - la rondinella...; lunga riga: «perciocché stendono il collo, il quale essi hanno lungo, innanzi, e le gambe, le quali similmente hanno lunghe» (B.). «Se formant dans l'air en une longue ligne» (Lamennais).
(49-54) briga: tempesta; allotta: allora; favelle: nazioni.
(55-57) sì rotta: abbandonata ed ardente in lussuria; libito: il beneplacito; fe' licito: fosse lecito quel che piaceva; per torre il biasmo, ecc.: per levar via l'infamia per l'opere sue disoneste. «Venus, deorum et hominum libidinibus exposita, cum regnaret in Cypro, artem meretriciam reperit ac mulieribus imperavit, ut quaestum facerent ne sola esset infamis» (Lattanzio).
(59-60) succedette (altri: sugger dette): «Sì le stampe sì i mss. del poema leggono con rarissime varietà succedette, e conviene a capello colla storica tradizione di Semiramide, che era stata consorte a Nino, e, morto lui, aveva usurpato l'impero del figlio Ninia. Ma né storia né leggende accennano punto che fosse stata sposa del figlio Nino (il quale veramente chiamavasi Ninia); anzi la tradizione suona ch'ella volesse usare con lui, e ch'egli per ciò l'uccise» (Blanc); tenne, ecc.: governò la terra che regge (corregge) il Sultano di Babilonia in Egitto.
(61-63) colei, ecc.: Didone, la quale, abbandonata da Enea, s'uccise per disperazione d'amore (s'ancise amorosa), e non si tenne casta (e ruppe fede), come aveva promesso a Sicheo moribondo (al cener di Sicheo) suo marito; Cleopatràs: regina d'Egitto, che dapprima si diede a Giulio Cesare e poi ad Antonio.
(64-66)
Elena: uccisa da una donna greca per vendetta del marito, uccisole sotto Troia. Tutti i qui nominati da Dante morirono di mala morte; reo: di guerra; Achille: «Egli invitto nell'armi, d'amore di Polissena fu vinto, e nello sposarla morto (Aen. VI)» (Tommaseo). Lattanzio di Giove che s'astenne da Teti: «Pugnavit ergo cum amore, ne quis se major nasceretur»; combatteo: combatté.
(67-69) Parìs: Paride, rapitore di Elena, e non, come alcuni affermano (Tommaseo), il cavaliere del medio evo, amante di Vienna; Tristano: «Amante d'Isotta, trafitto dal re Marco, marito di lei, con dardo avvelenato, ed ella morì con lui» (Tommaseo); ch'amor... dipartille: che per amore morirono.
(74-75) quei due: Paolo e Francesca. «Francesca fu figliuola di messer Guido di Polenta da Ravenna, signor di Ravenna, e fu maritata a Gianciotto, figliuolo di messer Malatesta, da Rimino. Questa era bellissima del corpo; il marito era sozzissimo, et era sciancato, e questo Gianciotto avea un suo fratello che avea nome Paolo, ch'era bellissimo giovane: onde s'innamorarono insieme. Stando un dì soli in una camera sicuramente come cognati, e leggendo come Lancellotto s'innamorò della reina Ginevra, e come per mezzo di messer Galeotto si congiunsero insieme, Paolo, acceso d'amore, baciò Francesca, e trascorsero a peccato, e dopo quello venne tanto palese il loro amore e usanza, che venne alli orecchi di Gianciotto: onde appostatili e trovatili un dì insieme, confisse l'uno insieme con l'altra con uno stocco, sì che amendue insieme morirono» (Buti). «Troppo bene (Polo) si sarebbe partito, se non che una maglia del coretto ch'egli avea indosso s'appiccò a una punta d'aguto della cateratta, e rimase così appiccato. Gianciotto gli corse addosso con uno spuntone; la donna entrò nel mezzo; di che, menando, credendo dare a lui, diede alla moglie et uccisela; e poi uccise medesimamente Polo dove era appiccato» (Anonimo fiorentino). «Il tragico fatto seguì nel 1284 o 1285, non in Rimini, ma a Pesaro» (Fraticelli); e paion... leggieri: e sembra che volino con minor fatica degli altri dannati.
(78-81) che i: che li; venite a noi parlar: venite a parlare con noi; s'altri: modo antico per indicare forza superiore indeterminata. «In Inferno si evita al possibile di mentovare il nome di Dio» (Filalete).
(82-84) Quali colombe: «E' la colomba animale molto lussurioso, e per questo gli antichi dedicarono la colomba a Venere» (Land.); con l'ali, ecc.: intendi: «volan per l'aere con l'ali aperte e ferme, cioè dirette al dolce nido; o volano al dolce nido con l'ali aperte e ferme descrivendo in tal guisa il volo delle colombe, quando con l'ali tese volano velocissimamente, senza punto dibatterle; in che si raffigura un certo non so che più di voglia e di desiderio di giungere» (Magalotti). Il Cesari: «questo è il volar da alto al basso, o forse più rapido che nessun altro, tanto che paion saetta, che da ben teso arco diverberat auras». «Radit iter liquidum, celeres neque commovet alas» (Virg., Aen., V).
(85-87) ov'è Dido: «E pare che Dante distingua pur qui come nel cerchio antecedente le anime nobili, vinte dalla passione, ma non corrotte del tutto, da quelle che peccarono per brutale sensualità. Di Francesca, della cui sorte è profondamente commosso, stretto com'era per amicizia alla famiglia di lei, nota questa particolarità ch'ella era uscita dalla schiera ove trovavasi Didone, e quindi da compagnia ben diversa da quella ove sono Semiramide e Cleopatra. Questa presunzione diventa quasi certezza per i versi 40-49, ne' quali con due similitudini ne fa raffigurare lo stato dell'anime turbinate dal vento. Primieramente elle sono paragonate agli stornelli, i quali a schiera larga e piena al venire del freddo tempo volan stranamente confusi uno a ridosso all'altro, e queste sono le anime abbiette, perdutissime; in secondo luogo ai gru, i quali van tranquillamente cantando lor lai, di sé facendo lunga riga nell'aria; e con ciò vuole dinotare apertamente la preminenza di queste anime più nobili sulle vili. E' questa la differenza stessa che corre nel cerchio antecedente fra le anime illustri e le oscure. Di siffatte distinzioni non si trovano nel resto del poema, che al canto XV in fine, ove le ombre sono divise in diverse schiere secondo il grado e la condizione che teneano nel mondo» (Blanc); sì forte: sì possente, sì efficace.
(88-90) animal: «Sensibilis anima et corpus, est animal (Dante, De Vulgari Eloquentia). Aristotele chiama l'uomo animal civile; grazïoso: cortese; perso: oscuro. Dante nel Conv.: «Perso è un colore misto di purpureo e di nero, ma vince il nero e da lui si denomina»; di sanguigno: di lagrime e di sangue. Sanguigno qui è sostantivo come rosso: «E tinto in rosso il mar di Salamina» (Cesari). L'Ottimo commento lo dice curiosamente «colore cardinalesco».
(91-93) fosse: a noi; pace: salute spirituale.
(95-96) vui: voi; ci tace: «Non contraddice qui al detto di sopra: che mai non resta; perciocché presuppone che in suo favore si conceda una breve tregua alle anime alle quali egli parla, durando tuttavia eterna la legge che quivi regna» (Blanc). Il Boccaccio: «ne tace, che non fa il mal suono di ci tace, lezione che piacque ad alcuno».
(97-99) Siede la terra: «Dice che la terra ove ella nacque, cioè Ravenna, siede sul mare, perocché dal mare solamente tre miglia discosta; anzi un tempo v'era del tutto vicina» (L. Venturi); nata fui: nacqui, modo latino; dove 'l Po discende: in vicinanza, a circa una decina di miglia dove si scarica il Po; per aver pace co' seguaci sui: per riposare le acque sue e de' suoi affluenti.
(100-102) Amor, ecc.: Vita Nuova: «Amore essenza del cuor gentile»; prese costui: invaghì Paolo; e 'l modo ancor m'offende: il modo onde fui uccisa ancora mi cruccia per la macchia che impresse al mio nome; ovvero, secondo il Foscolo, allude all'inganno di averle fatto credere, come vuole il Boccaccio, che Paolo, andato a Ravenna a sposarla con procura del fratello, dovesse essere il suo marito. «Mi martira il modo della mia morte, perché mi colse nel peccato, e non mi lasciò tempo a pentirmi» (Blanc).
(103-109) Amor, ecc.: Amore che non consente, che chi è amato non riami; mi prese, ecc.: m'invaghì sì forte della costui bellezza. «Più del piacer di lui s'accese» (Boccaccio); non m'abbandona: intendi: l'amore (di Paolo) mi segue anche qui, nell'oltretomba; ad una morte: poiché li uccise insieme; Caina: luogo dell'Inferno assegnato ai traditori ed uccisori de' propri consanguinei, detto così da Caino, uccisore dei fratello Abele; da lor: perché Francesca parlava anche in nome del cognato; porte: dette; offense: offese di doppio dolore.
(113-114)
pensier: Conv.: «Non subitamente nasce amore, e fassi grande e viene perfetto; ma vuole tempo alcuno e nutrimento di pensieri, massimamente là ove sono pensieri contrari che lo impediscono»; al doloroso passo: alla morte e dannazione.
(117) a lacrimar, ecc.: «Tes souffrances m'attristent et me touchent jusqu'aux larmes» (Lamennais).
(119-120) a che e come: a qual indizio e in qual modo; dubbiosi: per non essersi ancora l'un l'altra discoperti.
(123) e ciò sa 'l tuo dottore: il tuo maestro Virgilio, il quale nel presente stato si ricorda con dolore del dolce mondo. Altri intese Boezio, studiatissimo da Dante, che nel libro De consolatione philosophiae disse: «In omni adversitate fortunae infelicissimum est genus infortunii fuisse felicem».
(124-125) la prima radice: la prima origine; cotanto affetto: sì gran desiderio.
(128) di Lancialotto: eroe della Tavola Rotonda, del quale Goffredo di Montmouth celebra le lodi di bellezza, di cortesia, di valore; lo strinse: lo legò, lo invaghì di Ginevra.
(130-133) li occhi ci sospinse: ci spinse a guardarci amorosamente; il disiato riso: la desiderata bocca sorridente.
(137-138) Galeotto fu il libro e chi lo scrisse: qui il nome proprio è preso per appellativo, e vuol dire che quella impura leggenda e il suo autore indussero Paolo e Francesca a peccare, come Galeotto quei due amanti (cfr. nota 74-75). Benvenuto nota che si diceano così al suo tempo i mezzani d'amore; ond'è che insegnandosi amorose malizie nel Decamerone, fu cognominato Principe Galeotto; quel giorno più, ecc.: «Accenna con nobil modestia l'interrompimento della lettura, ed in conseguenza il passaggio dai tremanti baci agli amorosi abbracciamenti» (Magalotti).
(140-141) l'altro piangeva: Paolo piangeva sentendosi autore principale della sventura dell'amata donna; morisse: morissi.

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Alighieri, Dante.

Poeta italiano. Nacque da Alighiero Bellincione e da donna Bella, in una famiglia della piccola nobiltà fiorentina. Trascorse gli anni della giovinezza dedicandosi allo studio della filosofia, della grammatica e della retorica. Importanti furono le amicizie letterarie con Brunetto Latini (di cui A. parla nel canto XV dell'Inferno), con i cultori della scuola toscana tra i quali Guittone d'Arezzo e con i poeti dello Stil Novo, primo fra tutti Guido Cavalcanti. Al 1274 risale il suo incontro con Beatrice, il cui vero nome era Bice di Folco Portinari, sposatasi poi con Simone de' Bardi e morta nel 1290. Chiamato alle armi dal Comune di Firenze, impegnato nella conquista dell'egemonia regionale, combatté a Campaldino (1289) e partecipò alla presa del castello pisano di Caprona. Nella Firenze divisa tra le due parti dei Guelfi neri e dei Guelfi bianchi, appoggiò questi ultimi schierandosi contro l'ingerenza di Bonifacio VIII, che proprio sui dissidi interni fondava le sue speranze di dominio. Dopo la cacciata di Giano della Bella e l'abrogazione degli ordinamenti di giustizia, la possibilità offerta ai nobili di ricoprire cariche pubbliche, purché iscritti a qualche arte anche senza esercitarla, permise ad A. di entrare attivamente in politica dopo l'iscrizione all'Arte dei medici e degli speziali. Dal novembre all'aprile del 1296 presenziò ai consigli della città e divenne membro del Consiglio delle capitudini. Nel 1300 fu incaricato di condurre un negoziato con il Comune di San Gimignano per promuovere l'adesione alla lega guelfa. Dal giugno all'agosto dello stesso anno ricoprì la carica di priore; in seguito agli scontri tra i Guelfi neri e quelli bianchi, decise, insieme agli altri priori, di espellere otto capi di ciascuna delle due fazioni. Nei mesi successivi però i Bianchi poterono fare ritorno mentre i Neri si appoggiarono sempre di più al Papa che inviò allora come suo legato Carlo di Valois con il finto proposito di sedare le rivolte ma con l'intento effettivo di appoggiare i Neri. A. insieme ad altri ambasciatori venne mandato a Roma per placare il risentimento del pontefice. Mentre l'ambasceria era ancora in corso, Carlo di Valois consegnò a tradimento la città nelle mani di Corso Donati. Sulla via del ritorno il poeta venne condannato all'interdizione dai pubblici uffici e alla confisca dei beni, se entro tre giorni non avesse pagato 5.000 fiorini piccoli; non essendosi presentato, venne condannato al rogo, cui sfuggì con l'esilio. Nei primi tempi si unì ai compagni esuli: a San Gaudenzo fu tra i firmatari del patto con gli Ubaldini per attaccare Firenze, quindi cercò aiuto tra i fuoriusciti a Forlì e Verona e nutrì qualche speranza nell'opera di pacificazione del cardinale Niccolò da Prato. Successivamente si staccò dai fuoriusciti, optando per un atteggiamento di orgogliosa solitudine; non partecipò così al tentativo di un attacco armato a Firenze (in località La Lastra nel luglio del 1304). Iniziò da allora un periodo di lunghe peregrinazioni. Il signore di Verona, Cangrande della Scala, gli offrì ospitalità: A. non avrebbe più rivisto Firenze, dove aveva lasciato la moglie e i figli. Tra il 1304 e il 1306 fu a Bologna, quindi in Lunigiana presso i Malaspina, in seguito a Lucca, nel 1308, e successivamente nel Casentino. Coltivò in quegli anni la speranza che la salvezza di Firenze potesse essere ottenuta nella rinunzia dei papi al potere temporale e nel dominio assoluto di Arrigo VII, di cui sperava l'arrivo trionfante in Italia. L'imperatore morì però proprio prima della discesa in Italia nel 1313, vanificando le speranze del poeta. Nel 1316 A. ritornò a Verona, presso Cangrande e quindi si recò a Ravenna da Guido Novello da Polenta dove compose La Divina Commedia. Assunta un'ambasceria a favore di Guido, si recò presso la Repubblica di Venezia. Sulla via del ritorno fu colpito da una malattia e morì tra il 13 e il 14 settembre 1321. Fu sepolto in un'arca di pietra nella chiesa di S. Pier Maggiore, ora dedicata a S. Francesco, a Ravenna. ║ Opere minori: la prima opera certa di A. è la Vita nuova, composta tra il 1292 e il 1293. È costituita da 42 capitoli in prosa poetica che fungono da itinerario autobiografico e da commento delle poesie (secondo la tradizione della letteratura latina e provenzale). I componimenti poetici hanno diverse strutture metriche: sonetto semplice (23), sonetto doppio (2), canzone (4), ballata. Nell'opera A. racconta il suo amore per Beatrice dal primo incontro, avvenuto quando egli aveva solo nove anni, fino alla morte della donna. Lo scrittore riferisce del turbamento provato alla vista di Beatrice, della decisione di dedicare a Beatrice alcune poesie fingendo di rivolgerle ad altra donna per non far conoscere la sua identità, dell'indignazione di Beatrice che toglie il saluto al poeta, del proposito di scrivere allora poesie in nome di Beatrice, del sogno premonitore della morte della donna e della sua effettiva scomparsa, della consolazione di una donna gentile, dell'apparizione di Beatrice in sogno, della volontà ultima di scrivere in suo onore qualcosa mai scritto per nessuna altra donna (il preannunzio della Commedia). Nella Vita Nuova la figura di Beatrice appare già "trasfigurata" e investita di quelle profonde attribuzioni filosofiche e devozionali, che fanno di quest'opera il punto di svolta e di decisiva maturazione della poetica stilnovistica. Beatrice è infatti la donna "angelicata" che avvince, purifica ed eleva spiritualmente A. fin dal primo incontro. Superando quindi la breve esperienza d'amore degli stilnovisti, la donna diventa fondamento di eterna salvezza. Il Convivio, scritto tra il 1304 e il 1307 nell'intenzione dell'autore doveva essere una sorta di enciclopedia in volgare, un'esaltazione della scienza come mezzo indispensabile per raggiungere la salvezza e la conoscenza della verità e per elevarsi a Dio. Contiene canzoni filosofiche e morali, accompagnate dal commento (in prosa volgare) che facilita la lettura e la decodificazione delle implicazioni intellettuali e simboliche. Doveva essere composto da quindici trattati uno di introduzione e gli altri incentrati su un argomento. Il poeta compose però solo 4 trattati di complessivi 74 capitoli e tre canzoni. Nel primo trattato l'autore espone i presupposti e gli intendimenti dell'opera; nel secondo affronta il problema dell'ordine e della natura degli angeli; nel terzo esalta la filosofia quale patrimonio di conoscenza riservato a Dio e agli angeli, ma accessibile anche all'uomo che realizza uno stato di beatitudine morale proprio attraverso l'appagamento dell'ansia di sapere; nel quarto definisce il concetto di nobiltà, modernamente intesa come qualità dell'animo, e non come privilegio legato al lignaggio. Vi appare al figura della donna gentile che porta l'uomo alla salvezza attraverso la conoscenza. Il De vulgari eloquentia è un'opera incompiuta probabilmente scritta nello stesso periodo del Convivio. Consta di due libri per complessivi 31 capitoli. A. vi affronta in chiave critica la questione della legittimazione del "volgare" come mezzo linguistico adatto all'espressione letteraria. L'opera venne composta in latino (la lingua della cultura e dell'erudizione), perché godesse del necessario prestigio presso gli intellettuali del tempo. Attraverso l'esposizione di una teoria di linguistica generale e la minuziosa ricognizione delle parlate regionali, A. perviene alla definizione di un'ideale lingua unitaria, il vulgaris illustris. Tale strumento linguistico doveva dare origine, secondo lo scrittore, a una forma di comunicazione artistica che, superando il frammentismo municipale e la mancanza di un centro direttivo, doveva possedere i seguenti quattro attributi: "illustre" (ovvero illuminata da sapienza e prestigio); "cardinale" (in quanto rappresentativa di un centro cittadino); "aulica" (regale); "curiale" (ispirata a criteri artistici). L'intento dominante di A. era infatti quello di sostenere le ragioni del volgare facendo breccia nell'ostilità della classe intellettuale dell'epoca. Interrompendo la stesura della Commedia in occasione dell'arrivo in Italia di Arrigo VII A. si accinse a scrivere il De Monarchia, in 3 libri. Nel primo libro A. sostiene la centralità del ruolo dell'imperatore, poiché solo una fonte di autorità universale può garantire la pace all'umanità e un'equa amministrazione della giustizia. Nel secondo, lo scrittore passa in rassegna la storia dell'antica Roma, rivendicando al popolo romano l'ufficio imperiale contro le usurpazioni dei grandi elettori tedeschi. Nel terzo vengono analizzati i rapporti fra Chiesa e Stato: la netta separazione fra potere temporale e spirituale si basa sulla teorizzazione della totale indipendenza e sovranità del papa e dell'imperatore nelle rispettive sfere di influenza. Il De Monarchia fu avversato dai fautori del papato e dei Guelfi, quindi bruciato per ordine del cardinale Bertrando del Poggetto. Della produzione epistolografica di A. restano solo 13 Epistole latine scritte tra il 1304 e il 1320. Sono informate alla stilistica medievale che traeva dall'Ars dictandi regole precise e minuziose di redazione. Fra le più importanti si ricordano: Universis et singulis Italiae regibus, scritta in occasione della discesa di Arrigo VII; Cardinalibus Italicis, diretta ai cardinali italiani dopo la morte di Clemente V per deplorare le condizioni della Chiesa e di Roma. Tra il 1319 e il 1320 A. scrisse due Egloghe latine di tipo virgiliano in risposta a Giovanni del Virgilio, che aveva mosso delle critiche all'uso del volgare nella Commedia. Fra le altre opere ricordiamo la Quaestio, una breve dissertazione in latino tenuta al clero di Verona nel 1320. Lo scrittore vi discute un argomento allora di grande attualità: ovvero la disputa pseudo-scientifica inerente all'altezza del livello del mare e della terra. Il Fiore, che recenti autorevoli studi attribuiscono certamente ad A., è il rifacimento in 232 sonetti del famoso romanzo francese Roman de la rose, codice dell'amor profano. ║ La Divina Commedia (V. anche DIVINA COMMEDIA, LA): poema didascalico allegorico scritto in terzine di endecasillabi, a rima alternata (ABA, BCB, ecc.). A. la chiamò semplicemente Commedia per la materia trattata e lo stile corrispondente, per l'impiego del volgare e per l'iter narrativo che da un esordio amaro approda a una conclusione felice. Il giudizio dei posteri vi aggiunse l'attributo di divina. In quest'opera trova espressione tutto il Medioevo con le sue istituzioni, i suoi problemi, le sue passioni, elevati dal poeta a problemi e sentimenti umani. La prima idea del poema era presente già nella Vita Nuova quando A. pensava a una celebrazione eterna della figura di Beatrice. L'opera venne però iniziata anni dopo, forse nel 1306 in coincidenza con l'interruzione del Convivio e del De Vulgari Eloquentia. Il disegno originario venne modificato e l'opera concepita con un'ampiezza ben maggiore sulla scorta di tutta una nuova serie di componenti letterarie, filosofiche e morali. Il poeta vi descrive il suo miracoloso viaggio attraverso i tre regni dell'aldilà (Inferno, Purgatorio, Paradiso), dominato dall'intenso desiderio di giungere alla conoscenza di Dio. Dopo essersi smarrito in una misteriosa selva (rappresentazione allegorica della caduta nel peccato), A. riesce con la guida di Virgilio (incarnazione della ragione) ad attraversare il regno delle anime dannate (l'Inferno) ed espianti (il Purgatorio) per giungere infine al Paradiso, dove la guida di Beatrice (simboleggiante la teologia e la fede) lo conduce alla sospirata visione di Dio. Nel viaggio del poeta nell'aldilà è adombrato il cammino esistenziale e spirituale dell'uomo che, dopo la caduta nel vizio, recupera, con l'aiuto della ragione e della fede e attraverso la fondamentale illuminazione della grazia divina, una dimensione spirituale compiuta. L'ascesa di A. dall'Inferno al Paradiso suggerisce dunque un percorso di purificazione morale e di conquista della cognizione dei supremi valori spirituali: dopo la presa di coscienza delle conseguenze del peccato (Inferno), l'uomo anela tramite il pentimento alla catarsi (Purgatorio), fino a innalzarsi alla contemplazione serena della luce divina (Paradiso). Tutta la Commedia si svolge su un duplice registro, che fonde testimonianza storica e riflessione etica, verità e allegoria, invenzione narrativa e finalità edificante. L'opera può essere considerata come il tentativo di dare una visione sintetica e unitaria della realtà. Poiché il mondo appare ad A. corrotto (corrotte sono infatti le supreme istituzioni del Papato e dell'Impero, gli istituti civili e gli uomini), con il suo viaggio il poeta, attraverso la meditazione sul peccato, vuole riaccendere nel cuore degli uomini la luce dell'intelletto. Attraverso l'Inferno e il Purgatorio A. affronta il mondo delle debolezze umane sotto la guida di Virgilio, la ragione. Di fronte alle passioni terrene incarnate dai personaggi, il poeta reagisce come un uomo dibattuto, con l'animo agitato da turbamenti e contrasti. Uscito dal Purgatorio A. è purificato dal peccato e come un novello Adamo può ricevere la grazia illuminatrice. Con le discussioni con Beatrice egli si avvicina progressivamente alla verità in ogni suo aspetto: scientifico, morale, filosofico, politico, religioso. Se dunque nel Convivio la scienza era intesa come raggiungimento della verità attraverso la conoscenza razionale, ora scienza diventa conoscenza del reale coincidente con quella di Dio (Firenze 1265 - Ravenna 1321).

Divina Commèdia.

Poema didattico allegorico in terza rima, in tre cantiche e cento canti, di Dante Alighieri. Composto durante l'esilio del poeta, forse a partire dal 1307, le prime due cantiche (Inferno, Purgatorio) vennero divulgate durante la vita di Dante, mentre il Paradiso fu pubblicato postumo. Fu concepito, nell'ultimo capitolo della Vita nova, come una celebrazione di Beatrice: ma, sgorgato da tutto l'intimo dramma del poeta riuscì un'opera più vasta e complessa di quel che il primitivo disegno comportasse, quadro vivo e vero di tutta un'epoca e sintesi di tutta la cultura mistico-filosofica del Medioevo. Fu inizialmente intitolata Comedia, con esplicita allusione al suo svolgimento a lieto fine ed allo stile dimesso e piano in cui fu redatta. L'attributo di "divina", prepostole dal Boccaccio, venne ripreso dagli editori del XVI sec., ed è rimasto indissolubilmente connesso al titolo originario a significare la grandezza dell'opera più che non a qualificarne il contenuto. La sua struttura esterna rivela una costante, quasi superstiziosa preoccupazione dell'ordine e della simmetria: tre le cantiche, di trentatré canti ognuna (novantanove in totale più un canto introduttivo), terminanti tutti con la parola "stelle", la rima è tripla, ecc. Dante stesso aveva attribuito al suo poema il quadruplice significato che gli esegeti cristiani riconoscevano alla Sacra Scrittura: letterale, allegorico, morale ed analogico. L'Inferno è concepito come un'immensa voragine ad imbuto digradante in nove cerchi sino al centro della Terra, dove si trova confitta la mole di Lucifero. Nei nove cerchi, talvolta suddivisi in gironi o bolge, sono puniti, con un progresso di gravità stabilito dalla dottrina di san Tommaso, i vari peccati di incontinenza, di violenza e di frode. La sacra montagna del Purgatorio s'innalza al centro dell'emisfero delle acque agli antipodi di Gerusalemme: ha la forma di un cono tronco che va progressivamente restringendosi in cornici sino a dar luogo ad un ripiano dove è collocato il Paradiso terrestre. Anche qui le pene dei vari peccati, che si susseguono secondo un ordine crescente di gravità, sono regolate come nell'Inferno dalla legge del contrappasso. Nel Paradiso la sola e vera sede dei Beati è l'Empireo: ma per far comprendere sensibilmente all'ingegno umano del poeta la diversità dei meriti, Dio fa sì che le anime gli appaiano prima distribuite nei sette cieli planetari noti all'astronomia tradizionale per fargliele poi ricomparire dinnanzi nella grande rosa mistica che si aduna intorno a Lui nel trionfo finale. Ciascun cielo Dante immagina mosso da un coro angelico (intelligenza motrice): Angeli, Arcangeli, Principati, Potestà, Virtù, Dominazione, Troni, Cherubini e Serafini. ║ Inferno. Il fantastico viaggio s'immagina iniziato l'8 aprile del 1300, durante un venerdì santo. Perdutosi in un'orrida selva simboleggiante il peccato, il poeta tenta la via d'un colle allietato dai raggi solari; ma tre belve, una lonza, un leone ed una lupa, gli sbarrano il passo. A trarlo d'impaccio gli si presenta Virgilio, che si offre di scortarlo attraverso il regno dei morti; ed egli lo segue (I canto). Dubita Dante che le sue sole forze non bastino al terribile viaggio, ma apprendendo che il poeta latino è mandato da Beatrice, discesa appositamente dal cielo nel limbo, si decide a seguirlo (II canto). Varcata la soglia dell'Inferno, su cui nereggia un tremendo monito ("Lasciate ogni speranza, voi ch'entrate!"), i due attraversano l'Antinferno dove purgano il loro peccato gli ignavi, continuamente stimolati a correre da sciami di mosconi e di vespe. Sulle rive dell'Acheronte, dove a Caronte incombe l'ufficio di trasbordare le anime, Dante è vinto da un misterioso sopore (III canto) e si risveglia al di là del fiume. Visita il Limbo dove sono ospitate le anime di coloro che, pur senza colpe, non hanno ricevuto il battesimo. Fanno da scorta ai due verso il castello, che accoglie in disparte "gli spiriti magni", Omero, Orazio, Ovidio e Lucano venuti ad onorare l'ombra del poeta mantovano (IV canto). Nel secondo cerchio, guardato da Minosse, sono puniti i lussuriosi, travolti senza posa da una bufera sulle cui ali sono recati a Dante, Paolo e Francesca, amanti infelici (V canto). Ripresi i sensi perduti per l'emozione provata durante il colloquio con la peccatrice, Dante si ritrova nel cerchio dove i golosi sono percossi da pioggia e grandine. Tra essi riconosce il concittadino Ciacco, con cui indugia a parlare delle cose di Firenze (VI canto). Nel cerchio seguente, custodito da Plutone, i prodighi e gli avari sono condannati a far rotolare pesi grandissimi ed a cozzare tra loro, mentre gli iracondi e gli accidiosi del quinto cerchio si trovano immersi nel brago della palude Stigia (VII canto). Flegiàs traghetta i due poeti al di là del pantano dal quale emerge per un attimo Filippo Argenti, e li depone alle porte della città di Dite, la cui entrata è loro impedita da una torma di demoni (VIII canto). Un messo celeste apre ai due poeti le porte della città infernale, che nelle sue mura rinserra gli avelli infuocati degli eresiarchi (IX canto); fuori d'uno di essi si erge ancora fiera e indomita la figura di Farinata degli Uberti assieme a quella di Cavalcante Cavalcanti (X canto). Sostando dietro uno dei sepolcri degli eretici perché Dante si abitui al fetore che esala dal sottostante abisso, Virgilio espone al discepolo la topografia morale dell'Inferno (XI canto). Quindi, per una rovina che rende meno scoscesa l'erta, i due calano nel settimo cerchio, riservato ai violenti. Nel girone dei violenti contro il prossimo, immersi in un lago di sangue, sono collocati Ezzelino da Romano, Dionisio, Attila, Pirro e Pompeo (XII canto); nel secondo girone purgano le loro colpe i violenti contro se stessi, trasformati in sterpi che le Arpie vanno schiantando, fra cui c'è Pier delle Vigne, e i violenti contro la roba, inseguiti e dilaniati da instancabili cagne, e tra essi Dante scorge Rocco de' Mozzi (XIII canto); il terzo girone ospita i violenti contro Dio, fra i quali Capaneo: su di essi imperversa continuamente una pioggia di fuoco (XIV canto). Tra i violenti contro natura Dante s'imbatte in Brunetto Latini, che lo intrattiene sul suo avvenire, su Firenze e sui suoi compagni (XV canto). Da una seconda schiera di sodomiti, tutta di uomini politici, si staccano Guido Guerra, Tegghiaio Aldobrandi e Jacopo Rusticucci, a ragionare con Dante sulle cose fiorentine. Sul bordo interno del cerchio Virgilio chiama Gerione che venga a calarli nel cerchio successivo (XVI canto); e mentre Virgilio tratta col mostro, Dante visita i violenti contro l'arte, cioè gli usurai, tra i quali identifica un Gianfigliazzi, un Obriachi, Reginaldo degli Scrovegni, Vitaliano del Dente e un Buiamonti. Poi, in groppa a Gerione, i due scendono in volo nell'ottavo cerchio (XVII canto), che, suddiviso in dieci bolge, dà ricetto alle varie specie di peccatori di frode. Nella prima, riservata ai seduttori, si scorgono Venedico Caccianimico e Giasone; nella seconda Alessio Interminelli e Taide (XVIII canto). Nella terza tra i simoniaci, infilati a testa in giù nella bocca di stretti pozzi infiammati, Dante colloca papa Niccolò III, che gli offre un pretesto per lanciare un'invettiva contro l'avarizia papale (XIX canto). Nella quarta bolgia sfilano gli indovini condannati per contrappasso a muoversi col viso stravolto all'indietro: Anfiarao, Tiresia, Aronta, Manto, Euripilo, Michele Scotto, Guido Bonatti e Asdente. La vista di Manto induce Virgilio a narrare l'origine della sua città (XX canto). Nella bolgia successiva, in un lago di pece bollente cuociono i barattieri, sorvegliati da una turba di demoni crudeli e beffardi che tentano pure di ingannare i due visitatori (XXI canto). Qui languono Ciampolo di Navarra, frate Gomita e Michele Zanche, il primo dei quali riesce a giocare abilmente i suoi custodi (XXII canto). Nella bolgia degli ipocriti, tra i quali Dante ritrova Loneringo e Catalano, i dannati camminano sotto pesanti cappe di piombo indorate; altri - Caifas, Anna ed i membri del sinedrio che condannò Cristo alla crocifissione - sono inchiodati al suolo e calpestati (XXIII canto). Passato a gran fatica nella settima bolgia il poeta sosta a parlare con Vanni Fucci, un ladro che gli vaticina la rovina dei Bianchi di Firenze (XXIV canto). Dopo il centauro Caco, Dante scorge altri ladri: Cianfa, Agnello, Buoso degli Arbati, Puccio Sciancato, Francesco Guercio Cavalcanti, assoggettati a pene diverse a seconda delle particolarità del loro peccato (XXV canto). Diomede, Ulisse (XXVI canto) e Guido da Montefeltro rappresentano la schiera dei consiglieri fraudolenti tramutati in tante fiammelle (XXVII canto). al ponte che attraversa la nona bolgia Dante scorge lo spettacolo che i seminatori di discordie - Maometto, Alì, fra' Dolcino, Pier da Medicina, Curione, Mosca Lamberti, Bertram dal Bornio e Geri del Bello - offrono con le loro membra straziate che di continuo si rinsaldano per offrirsi di nuovo ai colpi di un demonio armato di spada (XXVIII canto). L'ultima bolgia è quella dei falsari, puniti con diverse orribili malattie. I falsificatori di metalli, tra cui Dante riconosce Griffolino d'Arezzo e Capocchio sono tormentati dalla lebbra scabbiosa (XXIX canto); i falsificatori di persone - Gianni Schicchi e Mirra - in preda a rabbia violenta s'azzannano a vicenda; l'idropisia e la sete colpiscono i falsificatori di monete, rappresentati da Mastro Adamo e dai Conti di Romena, mentre una febbre ardente divora la moglie di Putifarre, Sinone e tutti i falsificatori di fatti o di parole (XXX canto). Giunti al gran pozzo che si spalanca dentro le fasce delle malebolge, uno dei giganti custodi, Anteo, solleva i due pellegrini e li depone delicatamente nel fondo dell'abisso che costituisce il nono ed ultimo cerchio dell'inferno (XXXI canto). Ivi, in un lago ghiacciato ripartito in quattro zone concentriche si scontano i diversi peccati di tradimento. Dante visita successivamente la Caina, ove s'imbatte in Sassol Mascheroni, nei conti di Mangona, in Camicion de' Pazzi, traditori dei propri parenti, e l'Antenagora, dove, imprigionati fino a metà viso dal ghiaccio, languono i traditori della patria: Bocca degli Abati, Buoso da Buera, Tesauro da Beccheria, Gianni de' Soldanieri, Ganellone, Tebaldello (XXXII canto), il conte Ugolino e l'arcivescovo Ruggieri, protagonisti dell'indimenticabile episodio che apre il penultimo canto dell'Inferno. Dante passa poi nel reparto dei rei di tradimento verso gli ospiti, esemplificati da frate Alberigo e da Branca d'Oria, la Tolomea, e poi nella Giudecca destinata ai traditori dei benefattori (XXXIII canto). In mezzo alla palude ghiacciata di Cocito sporge l'immensa mole di Lucifero, che maciulla tra i denti i maggiori traditori dell'umanità: Giuda, Bruto e Cassio. Calando lungo il corpo villoso dell'"imperator del doloroso regno" e quindi attraverso un condotto sotterraneo, i due poeti riescono nell'emisfero opposto "a riveder la stelle". ║ Purgatorio. La montagna del Purgatorio s'innalza su un'isola sita al centro dell'emisfero australe degradante in convalli e spiagge nel mare, sulla cui sponda Catone fa da guardia all'Antipurgatorio (I canto). Da una navicella governata da un angelo sbarca una schiera di anime destinate a purgare nel regno della misericordia divina i loro peccati terreni. Tra esse Dante ravvisa un amico, Casella, che a richiesta intona una canzone da lui forse musicata in vita. Interviene però Catone a troncare gli indugi (II canto). Ai piedi del monte Dante e Virgilio si imbattono nella schiera dei contumaci alla Chiesa, condannati a sostare fuori del Purgatorio trenta volte il tempo della loro contumacia. Tra essi Manfredi di Svevia narra al poeta la sua fine (III canto). Più in alto attendono che s'apra loro la porta del regno i pigri, fra cui Belacqua; la loro attesa si protrae per tanto tempo quanto vissero (IV canto). La balza superiore ospita coloro che, come Jacopo del Cassero, Buonconte da Montefeltro e Pia de' Tolomei, si preoccuparono della loro salvezza eterna solo al momento della loro morte violenta (V canto). Più oltre ancora in una valletta appartata, sostano i principi il cui ufficio distrasse alle cure dell'anima e rese eccessivamente solleciti delle glorie terrene. Guida ai due poeti è qui Sordello, il cui nome richiama subito alla mente la famosa invettiva all'Italia discorde (VI canto). Ospiti della valletta amena sono Rodolfo d'Asburgo, Ottocaro di Boemia, Filippo III di Francia, Enrico di Navarra, Pietro III d'Aragona, Carlo d'Angiò, Arrigo III d'Inghilterra, Guglielmo VII di Monferrato (VII canto). Con Nino de' Visconti di Pisa e Corrado Malaspina, Dante si trattiene un poco a ragionare (VIII canto) fino a che il sonno non lo prende e, nel sonno, Lucia lo trasporta sino alla soglia del Purgatorio vero e proprio dentro il quale è assoggettato a mistiche formalità (IX canto). La prima cornice della montagna ospita i superbi, curvi sotto il peso di grandi massi (X canto); è qui che Dante incontra Omberto Aldobrandeschi, Oderisi di Gubbio e Provenzano Salvani (XI canto). Percorrendo il ripiano s'offrono agli occhi del poeta esempi di superbia punita; quindi ai piedi della scala che monta alla seconda cornice un angelo cancella il primo delle sette P tracciate dal custode del regno degli spiriti purganti sulla fronte di Dante (XII canto). Tra gli invidiosi, vestiti con un cilicio e con gli occhi cuciti da un filo di ferro, Dante incontra Sapia da Siena (XIII canto). In bocca ad un altro invidioso, Guido del Duca, Dante mette un'accesa deplorazione dei costumi di Toscana e della degenerazione dei romagnoli prima di sciorinare i rituali esempi di virtù premiata (XIV canto). Esempi memorabili di mansuetudine edificano il poeta, rapito in spirito, al suo entrare nella balza degli iracondi, che un fumo denso ed acre avvolge a somiglianza del fumo dell'ira che li rese ciechi in vita (XV canto). Marco Lombardo gli parla della corruzione del mondo, dovuta non tanto all'influsso degli astri quanto piuttosto alla confusione del potere spirituale col civile (XVI canto). All'inizio della quarta cornice, dove la notte sorprende i due viaggiatori dell'oltre tomba e li costringe a sostare, Virgilio spiega al suo discepolo l'ordinamento morale del Purgatorio, il principio secondo cui radice della virtù e del vizio è sempre amore (XVII canto) e le ragioni dell'umano maritare. Passano quindi correndo gli accidiosi, preceduti da due di loro che gridano esempi di attività e seguiti da due altri che proclamano esempi di accidia punita. Solo uno di essi, un abate di san Zeno, rivolge la parola ai visitatori, pur continuando la corsa (XVIII canto). Nella quinta cornice si trovano gli avari, e tra essi un papa: Adriano V (XIX canto). L'episodio di Ugo Capeto occupa quasi interamente il XX canto. Quindi i due sono raggiunti dall'anima liberata di Stazio che si unisce a loro e, dopo aver parlato della sua opera (XXI canto), racconta la storia del suo peccato e della sua redenzione. Insieme salgono al sesto balzo dove, da un albero ricco di frutti e di fronde, una voce arcana grida esempi di temperanza (XXII canto). Siamo nel luogo dove si purga il peccato di gola. Un goloso, Forese Donati, loda la virtù di sua moglie e biasima l'inverecondia delle donne fiorentine (XXIII canto); poi mostra a Dante, fra i suoi compagni, Buonaggiunta da Lucca, Ubaldino de la Pila, Martino IV, Bonifacio de' Fieschi e Marchese de' Argogliosi (XXIV canto). Nella successiva cornice i lussuriosi purgano il loro vizio nelle fiamme, esaltando la virtù contraria (XXV canto). Nel medesimo luogo si purgano i sodomiti, che volgono i loro passi in direzione opposta ai primi: fra i quali parlano a Dante Guido Guinizelli e Arnaldo Daniello (XXVI canto). Cancellato dalla fronte di Dante l'ultima P, egli può accedere al Paradiso terrestre, sito sulla sommità del monte dove Virgilio si dichiara assolto dal suo compito di guida e lascia il suo discepolo libero (XXVII canto). Inoltratosi nell'amena selva che gli si stende innanzi, il poeta è costretto a sostare ad un fiumicello, e dalla riva opposta una vaga e lieta donna, Matelda, gli spiega la topografia di quel luogo felice (XXVIII canto). è ancora lei che gli spiega il significato d'una misteriosa processione simbolica che si svolge davanti all'esterrefatto Dante (XXIX canto). A questo punto gli appare Beatrice ravvolta in un velo e, mentre Virgilio sparisce, rimprovera al suo innamorato i suoi traviamenti (XXX canto). Solo dopo che è stato immerso nel fiume dell'oblio il poeta ottiene di vedere Beatrice in tutto il fulgore della sua bellezza celeste (XXXI canto). Vicende e trasformazioni misteriose subisce il carro sul quale Beatrice s'era mostrata al suo protetto (XXXII canto). Dopo di che questi è condotto al fiume Eunoè, bevendo l'acqua del quale si sente rinnovato e disposto al viaggio celeste (XXXIII canto). ║ Paradiso. Dal Paradiso terrestre il poeta ascende alla sfera di fuoco e Beatrice gli rende ragione di questa sua miracolosa ascensione (I canto). Nel cielo della Luna la celeste guida descrive al discepolo l'ordine generale dei cieli (II canto). Qui egli incontra gli spiriti di Piccarda Donati, la quale gli parla di sé e dell'imperatrice Costanza assurte alla gloria di Dio malgrado avessero mancato ai voti religiosi (III canto). Varie questioni teologiche e morali risolve Beatrice al poeta prima di condurlo nel cielo di Mercurio riservato alle anime degli operosi per desiderio d'onore (IV e V canto). Giustiniano ritesse la storia dell'Impero, dimostrandone la funzione provvidenziale, e fa l'elogio di Romeo di Villanova (VI canto). Quindi Beatrice tratta della morte di Cristo e della Redenzione (VII canto), mentre a Carlo Martello, beato tra gli spiriti amanti nel cielo di Venere, è fatta recitare una deplorazione sull'indole degenere di Roberto, il successore di Carlo II d'Angiò, e una disquisizione sull'origine delle inclinazione umane (VIII canto). Poi sono indotti a parlare di questioni più personali e terrene Cunizza da Romano e Folchetto da Marsiglia (IX canto). Nel cielo del Sole compaiono le anime dei sapienti e dei dottori della Chiesa: san Tommaso d'Aquino, Alberto Magno, Graziano, Pietro Lombardo, Salomone, san Dionigi Aeropagita, Paolo Orosio, Boezio, Isidoro, Beda, Riccardo di San Vittore, Sigieri (X canto). Un domenicano, san Tommaso, tesse l'elogio dell'ordine dei francescani (XI canto): un francescano, san Bonaventura, risponde facendo un panegirico dei frati di san Domenico e censurando il proprio ordine. Con lui formano una corona di luci sante Illuminato, Agostino, Ugo di San Vittore, Pietro Mangiadore, Pietro Ispano, Natan, Crisostomo, sant'Anselmo, Donato, Rabano Mauro e Gioacchino di Fiore (XII canto). San Tommaso spiega a Dante in che cosa consista la sapienza di Salomone (XIII canto), prima che prenda la parola Salomone stesso sul tema della resurrezione della carne. Quindi Dante passa nel cielo di Marte che accoglie gli spiriti guerrieri raggruppati in forma di croce splendente (XIV canto). Insieme al suo trisavolo Cacciaguida, che gli parla del buon tempo antico di Firenze (XV canto), sono Giosuè, Giuda Maccabeo, Carlo Magno, Orlando, Guglielmo d'Orange, Rinoardo, Goffredo di Buglione e Roberto Guiscardo. Li lascia per salire verso Giove, al cielo dei principi giusti (XVIII canto), che ordinandosi a forma d'aquila luminosa lo intrattengono sull'impenetrabilità della giustizia di Dio e sulla generale corruzione dei principi cristiani (XIX canto). Dante si meraviglia di trovare qui accanto a David, Ezechia Costantino e Guglielmo il Buono due pagani, Traiano e Rifeo, e l'aquila spiega subito come essi abbiano potuto salvarsi (XX canto). Nel cielo di Saturno vengono ospitate le anime di coloro che vissero vita contemplativa, sotto forma di fiammelle che salgono e scendono per una scala altissima san Pier Damiano, che parla della predestinazione e del lusso del clero (XXI canto) e san Benedetto che lamenta la corruzione dei frati. Salito quindi all'ottavo cielo, il cielo delle stelle fisse, il poeta si volge a misurare con gli occhi lo spazio percorso e la piccolezza del nostro pianeta (XXII canto). Scende Gesù Cristo trionfante con Maria ed i Beati dell'Empireo; Gesù e Maria presto risalgono alla loro sede ma restano i Beati (XXIII canto). San Pietro interroga Dante circa la fede e premia la sua risposta cingendo tre volte la fronte dell'esaminato con la propria luce (XXIV canto). Sulla speranza lo ascolta e approva san Giacomo (XXV canto), mentre san Giovanni lo giudica sul tema della carità. Adamo dà ragguagli di sé e della lingua da lui parlata (XXVI canto). Udito san Pietro tuonare contro i suoi indegni successori, Dante passa al primo Mobile, dove anche Beatrice, prendendo spunto dalle considerazioni delle eterne bellezze, volge il discorso alle conseguenze del malgoverno sui costumi degli uomini (XXVII canto). Qui Dante ha la visione delle nove gerarchie angeliche che s'aggirano come cerchi di fuoco intorno ad un punto luminoso che è Dio (XXVIII canto). La genesi degli angeli, i predicatori di vanità e il commercio delle indulgenze offrono argomento al XXIX canto, che prelude alla salita del poeta all'Empireo. Ivi la miriade dei Beati disposti per gradi intorno alla luce divina forma una mistica rosa dentro la quale un posto è riservato ad Arrigo VII (XXX canto). Anche Beatrice lascia Dante per raggiungere il suo seggio, dal quale risponde con un sorriso benevolo ai ringraziamenti ed alle preghiere di lui, ed è sostituita da san Bernardo, che mostra a Dante Maria Vergine (XXXI canto). San Bernardo chiarisce al poeta l'ordine del divino consesso in cui siedono, tra gli altri Rachele, Sara, Rebecca, Giuditta, Ruth, san Giovanni Battista, sant'Agostino, san Francesco, san Benedetto, san Giovanni Evangelista, Mosè, sant'Anna, santa Lucia e i piccoli innocenti (XXXII canto). Quindi per grazia intercessa dalla Madonna, Dante può fissare lo sguardo nella divina Trinità di Dio e particolarmente nella divina unità di Gesù Cristo. E con ciò la visione finisce (XXXIII canto).

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