I MILLE PERCHÉ - TECNOLOGIA - L'ELETTRICITA' AL SERVIZIO DEGLI UOMINI

PERCHÉ LA LAMPADA S'ACCENDE?

Ormai è per noi un gesto abituale, quando scende la sera, quello di schiacciare un'interruttore per accendere la luce.
Ma quel silenzioso «clic» che in un battibaleno illumina la nostra stanza, che con una leggera pressione noi provochiamo senza farci eccessivo caso, quali misteriosi meccanismi mette in moto?
Perché, se un momento prima la stanza era buia, adesso delle lampade la illuminano?
Tutto ciò è un miracolo dovuto alla corrente elettrica, una forma d'energia che gli uomini sfruttano per molti usi.
Dalla centrale elettrica, grandiosi meccanismi chiamati generatori, inviano costantemente grandi quantità d'energia elettrica alle città ed ogni abitazione, grazie ad appositi impianti, ne può disporre abbondantemente.
Passando attraverso dei «contatori» che servono per misurare la quantità d'energia erogata nella casa, la corrente elettrica raggiunge, correndo sempre lungo fili metallici, gli interruttori.
Qui giunta, se gli interruttori sono staccati, si ferma perché non può passare oltre.
Non appena ne schiacciamo uno, mettiamo in contatto i fili metallici carichi d'energia con altri fili che portano ai lampadari.
La corrente passa e, velocissima, raggiunge le lampade.
Avete mai visto com'è fatta una lampada? È un bulbo di vetro nel quale si scorge un filamento metallico che, raggiunto dalla corrente elettrica, diventa incandescente ed emette luce.
L'energia elettrica si è dunque trasformata in energia termica, in calore, e in energia luminosa.
Il filamento della lampada, fatto di un minerale capace di resistere a molto calore senza fondere, ed aiutato in ciò dal fatto che il bulbo di vetro che lo contiene è privo d'aria, diventa rosso, mantiene nel tempo questa sua incandescenza ed emette una luce più o meno potente e viva.
Per vari motivi, nel caso, ad esempio, in cui la corrente subisca brusche variazioni di tensione e d'intensità, oppure a causa di un difetto di fabbricazione del bulbo che permetta una pur minima presa d'aria, può succedere che il filamento non resista alle altissime temperature e fonda: una sorda esplosione ci rivela allora che la lampada si è «bruciata» e che occorre sostituirla con un'altra più nuova ed efficiente.

PERCHÉ I DISCHI PRODUCONO I SUONI?

Osservando un disco possiamo notare che la sua superficie è segnata da un solco che, procedendo a spirale, dal lato esterno raggiunge in un unico cammino la parte più interna.
Questo solco, e precisamente i suoi orli laterali, sono variamente ondulati in corrispondenza dei suoni registrati.
Come s'incide una canzone su un disco?
La voce del cantante e la musica dell'orchestra entrano in un microfono che trasforma le vibrazioni sonore in sollecitazioni elettriche.
Queste vengono indirizzate verso uno «stilo d'incisione», una punta che modella, vibrando, il solco a spirale di un disco di cera.
Terminata la canzone il disco di cera viene utilizzato come modello per la fabbricazione di una matrice negativa, fatta di materiale resistente, che servirà per lo stampaggio in serie di dischi, gli stessi che noi acquistiamo e che deponiamo sul piatto del nostro grammofono.
La materia di cui sono composti è a base di gommalacca e di altre sostanze speciali e le spire di un disco normale sono circa cento.
Quando la puntina del fonografo percorre queste spire, segue le ondulazioni che incontra sugli orli laterali del solco ed è costretta a compiere le vibrazioni corrispondenti.
Queste vibrazioni, che sono le stesse compiute al momento dell'incisione sul disco di cera dallo «stilo» del fonoincisore, vengono trasformate nuovamente dall'apparecchio riproduttore in suoni, opportunamente amplificati da un altoparlante: così noi possiamo ascoltare, a nostro piacimento, canzoni e cantanti apprezzati e preferiti.

PERCHÉ LA RADIO PARLA E SUONA?

Certamente, quando eravate piccoli, vi sarà capitato di curiosare nell'interno di una radio, nel tentativo di scoprire il misterioso autore di tante voci, musiche e canti.
Poi, non avendolo scoperto, avete rinunciato. Ciò è del tutto giustificabile se si considera la difficoltà che incontriamo nel voler tentar di capire qualcosa in quello straordinario groviglio di fili, di viti, di valvole e di luci.
Ma non è necessario penetrare nei complicati segreti di un apparecchio radio per capire il principio del suo funzionamento.
L'aria, che noi vediamo limpida e tersa, contiene gas diversi, polvere, vapore acqueo... e onde, sonore ed elettromagnetiche.
Come quando gettiamo un sasso nell'acqua e vediamo propagarsi, intorno al punto in cui è caduto, cerchi concentrici che si allontanano fino a scomparire, così quando emettiamo un suono esso colpisce l'aria come un sasso provocandone spostamenti con regolare frequenza, a cui diamo il nome di onde sonore.
Le onde elettromagnetiche non sono che altri tipi di onde provocate dalla corrente elettrica, impulsi elettrici che l'uomo, in maniera preordinata, lancia attraverso lo spazio, nell'atmosfera. L'apparecchio radio ha bisogno, per funzionare, di ricevere delle onde elettromagnetiche.
Non possiamo che spiegare schematicamente il funzionamento della radiodiffusione.
La voce e la musica che uno studio radiofonico intende trasmettere all'intera rete, entrano in un microfono che trasforma, grazie all'intervento di un circuito elettrico, le vibrazioni sonore in onde elettromagnetiche.
Queste, per mezzo di un'antenna trasmittente, vengono lanciate nell'aria.
Il nostro apparecchio radio funge da ricevitore. Ha un'antenna che riceve le onde e le trasmette ad un altro circuito elettrico.
Da qui passano all'apparecchio rivelatore, il complesso delle valvole, che le amplifica e le invia all'altoparlante che trasforma questi impulsi in suoni e ci riporta abbastanza fedelmente ciò che hanno trasmesso a molti chilometri di distanza.

PERCHÉ, GIRANDO UNA MANOPOLA, SI CAPTANO STAZIONI DIVERSE?

Vi è capitato spesso di vedere il babbo che, stanco di ascoltare un programma radiofonico, ha girato una manopola e si è sintonizzato su un'altra «stazione».
Ora lo fate anche voi, anche troppo spesso, girando e rigirando quella stessa manopola, per cercare il programma che più vi interessa ascoltare.
Questo andirivieni della radio da una «stazione» all'altra rivela innanzitutto una cosa e cioè che vi sono molte antenne trasmittenti che emettono onde elettromagnetiche nello stesso momento, antenne poste in varie città, del territorio nazionale e di Paesi stranieri.
Come non succede che queste onde, tutte della medesima natura elettromagnetica, non si confondono tra loro sì che il nostro apparecchio riceva e ci trasmetta, in una confusione simile a quella della torre di Babele, programmi diversi in lingue diverse?
L'inconveniente, del tutto possibile, è stato eliminato assegnando ad ogni stazione trasmittente una particolare «lunghezza d'onda».
Ogni antenna, infatti, deve lanciare nello spazio onde elettromagnetiche con una frequenza prestabilita cosicché l'apparecchio radio, adattando il proprio apparato ricevente alle diverse onde, le seleziona e si «sintonizza» sulla trasmissione che più ci piace.
Ciò nonostante non è raro che, per cause fortuite, certe interferenze siano possibili.

PERCHÉ C'È L'ELETTRICITA'?

Un corpo si dice elettrizzato quando, in seguito a determinate azioni esterne (strofinamento o contatto con un altro corpo) ha acquistato la proprietà di attirare piccoli oggetti. Per esperimentare e «vedere» questa elettricità basta strofinare una bacchetta di vetro, di ebanite o di ceralacca con un panno di lana: la bacchetta si eccita e si elettrizza e, come una calamita può attirare a sé corpi leggeri, pezzi di carta, palline di sughero.
Questa esperienza è la stessa che eseguì nel VI secolo avanti Cristo il filosofo scienziato Talete con una bacchetta di ambra.
L'esperimento rivelò all'uomo questa nuova forza cioè l'elettricità, il cui nome deriva da «electron» denominazione greca di ambra.
Ma sono stati necessari molti secoli prima che egli riuscisse a conoscere e a dominare questo misterioso agente e ad utilizzarlo per il progresso della civiltà. E solo in epoca recente ha cominciato a capire qualcosa sull'intima natura dei fenomeni elettrici che sono strettamente legati alla stessa costituzione della materia, alla sua struttura molecolare e atomica.
Infatti è ormai definitivamente accertato che un corpo carico d'elettricità differisce da un corpo neutro, cioè non elettrizzato, nella struttura atomica; quindi, per poter capire che cosa sia l'elettricità, occorre entrare nella materia fino a giungere al piccolissimo elemento base che la forma: l'atomo.
Gli atomi che costituiscono ogni elemento sono formati da una particella centrale, più o meno pesante, (letta «nucleo», intorno alla quale ruotano incessantemente, così come fanno i pianeti intorno al Sole, altre particelle molto più leggere e tutte eguali qualunque sia l'elemento: gli elettroni, cariche elettriche, corpuscoli di massa circa 1800 volte più piccola di quella dell'atomo di idrogeno.
Il numero di questi elettroni, tra l'altro, determina il «numero atomico» degli elementi: dall'elemento più semplice, ad esempio, che è l'idrogeno, il quale ha il numero atomico I ed il cui atomo è formato da un nucleo intorno al quale ruota un solo elettrone, si passa al più complesso, l'uranio, che ha il numero atomico 92, un nucleo cioè attorniato da ben 92 elettroni.
Un corpo neutro mantiene pressoché invariato il suo numero atomico, mentre un corpo elettrizzato contiene in alcuni suoi atomi un numero di elettroni diverso da quello caratteristico dell'elemento quando non è elettrizzato.
Se il numero degli elettroni è superiore al numero atomico si dice che il corpo è elettrizzato «negativamente», quando è inferiore «positivamente».
Ritornando all'esperimento di Talete, lo strofinio non è niente altro che un contatto prolungato tra la bacchetta e il panno di lana.
Se la bacchetta è di vetro, ad esempio, perde elettroni e si carica d'elettricità positiva, se invece è d'ebanite tende ad assorbirne e si carica negativamente.
Un corpo elettrizzato possiede dunque una certa quantità d'elettricità, della cui entità si può avere un'idea dalla forza con cui attrae i corpi vicini; ma è interessante conoscere un'altra grandezza elettrica d'eccezionale importanza: il potenziale.
Esso vuol definire, misurandola, la forza dell'elettricità posseduta da un corpo rispetto alla terra a cui, convenzionalmente, si attribuisce potenziale zero.
L'unità di misura del potenziale elettrico si chiama «volt» (in omaggio ad Alessandro Volta, il grande scienziato italiano che tanto studiò i fenomeni elettrici) e corrisponde all'unità di lavoro occorrente per trasportare una carica elettrica dal corpo elettrizzato alla terra.
Il potenziale di un corpo elettrizzato (o «conduttore») è molto importante poiché il passaggio dell'elettricità avviene sempre dal conduttore che ha potenziale più alto a quello a potenziale più basso, indipendentemente dalla quantità di elettricità che essi contengono.
La causa del movimento dell'elettricità è da ricercarsi; dunque, nella «differenza di potenziale» tra due corpi elettrizzati, misurata dal lavoro corrispondente al passaggio di una carica elettrica unitaria da un conduttore all'altro.
A questa grandezza elettrica siamo soliti dare definizioni diverse, tutte a voi note, come «forza elettromotrice», «tensione» o «voltaggio», ma si tratta sempre della stessa causa del movimento dell'elettricità, della differenza di potenziale tra un conduttore ed un altro.

PERCHÉ UNA SCARICA ELETTRICA È LUMINOSA?

Si ha una scarica elettrica spesso luminosa quando, posti a contatto o vicini due corpi elettrizzati tra i quali esiste una certa differenza di potenziale, si ha un brusco passaggio d'elettricità dal corpo a potenziale più alto al corpo a potenziale più basso.
La scarica può non essere visibile se a stabilire il contatto è un buon conduttore, un filo di rame ad esempio: la corrente passa attraverso il mezzo interposto e i due corpi elettrizzati si neutralizzano in breve tempo qualunque sia la differenza di potenziale tra loro.
Se invece tra i due corpi elettrizzati c'è l'aria che, per sua natura, è un cattivo conduttore, il passaggio dell'elettricità avviene in modo visibile, con forte produzione di luce e di calore. La scarica elettrica, sotto forma di luminosa scintilla, passa da un corpo all'altro producendo un fragore caratteristico nel vincere la resistenza dell'aria, cattivo conduttore, che, ingigantito, noi conosciamo bene se abbiamo assistito allo scatenarsi di un temporale.
Che cos'è infatti il fulmine se non una violentissima scarica elettrica tra le nubi e la terra? Tra le nubi e la terra si stabilisce una forte differenza di potenziale e l'elettricità, naturalmente portata a trasferirsi da un corpo a potenziale più alto ad un corpo a potenziale più basso, si scarica violentemente bruciando i gas che attraversa.
La scarica elettrica luminosa trova moltissime applicazioni nella tecnica moderna. Sono basate su questo principio le «lampade ad arco» ed i forni elettrici che utilizzano l'arco elettrico luminosissimo, detto «voltaico», tra due carboni resi incandescenti dalla corrente.
Altre applicazioni molto note sfruttano il particolare comportamento della scarica elettrica nei gas rarefatti. Il fenomeno si può osservare usando un tubo di vetro nel quale mediante una pompa si è prodotta la voluta rarefazione nel gas.
Il tubo è provvisto di due «elettrodi» posti in comunicazione con una sorgente ad alta tensione. Il passaggio di elettricità tra i due poli provoca nei gas un'illuminazione variamente colorata, a seconda della natura del gas che si trova nel tubo. Il fenomeno è largamente sfruttato per le insegne luminose e in un'applicazione di cui riteniamo interessante parlare: le lampade a tubo fluorescente.
Queste lampade sono costituite da un tubo di vetro, provvisto di elettrodi ai due estremi, contenente tracce di vapori di mercurio.
Il passaggio dell'elettricità tra i due elettrodi eccita questi vapori che emettono una radiazione ultravioletta e quindi invisibile; ma sulla superficie interna del tubo è spalmata una sostanza che, colpita dalle radiazioni ultraviolette, emette una luce bianca ed intensa.

PERCHÉ TOCCANDO I FILI ELETTRICI SI PUO' MORIRE?

Per trasportare la corrente elettrica dal luogo in cui viene prodotta al luogo dove viene consumata, si usano fili metallici.
La linea, composta da un certo numero di fili, mette in comunicazione due punti, uno ad alto potenziale (centrale elettrica), l'altro a basso potenziale (luogo di consumo). I fili corrono nelle campagne, appesi ad altissime torri di ferro, convenientemente isolati da terra.
Gli uccelli vi si posano sopra senza pericolo perché non sono in contatto con la terra che, come sappiamo, ha convezionalmente un potenziale zero.
Se per disgrazia dovessimo toccare uno di quei fili, sarebbe per noi morte certa, poiché metteremmo in contatto un conduttore a potenziale altissimo (quelle linee si chiamato «ad alta tensione» perché trasportano corrente ad una tensione che va da 10.000 a 100.000 volt) con un conduttore a potenziale zero.
Il nostro corpo sarebbe il mezzo attraverso cui avviene la scarica e questa sarebbe tanto violenta da farci ardere come una fiaccola.
Meno pericolosa ma sempre possibile causa di morte per noi è la stessa corrente che, giunta sul luogo di consumo e ridotta a 160-220 volt di tensione da un trasformatore, entra nelle nostre case.
Una presa di corrente è senz'altro un misterioso congegno su cui un bambino può esercitare la sua curiosità e le sue potenziali doti di elettrotecnico: ma il risultato può essere disastroso se le sue piccole dita mettono in contatto i due morsetti carichi di elettricità con la terra. La scarica che ne segue, anche se provocata solo da una tensione di 220 Volt, può provocare orrende scottature e la morte.

PERCHÉ UNA LAMPADINA TASCABILE DA' LUCE?

Voi tutti sapete come è fatta una lampadina tascabile: essa è formata da un recipiente in metallo contenente una «pila a secco» che fornisce una certa quantità di corrente elettrica ad una lampada a incandescenza, e da una lente che, posta di fronte alla lampada, concentra i raggi luminosi in un sol punto.
Che cos'è una pila e come funziona.
Noi sappiamo che posti in contatto due elementi diversi, tra di essi avviene un passaggio di elettricità. La.scoperta della forza elettromotrice di contatto è dovuta a Luigi Galvani e alle sue famose esperienze sulla rana.
La sua successiva applicazione pratica è dovuta ad Alessandro Volta, inventore della pila, meccanismo capace di moltiplicare, teoricamente all'infinito, la forza elettromotrice di contatto tra due metalli che è sempre molto piccola, dell'ordine di circa un volt.
Consideriamo una coppia bimetallica rame-zinco: l'unione di questi due metalli consente la produzione di una certa quantità di forza elettromotrice del tutto irrilevante.
Lo stesso Volta ha trovato il modo di renderla grande quanto si vuole mediante numerosi contatti bimetallici le cui forze elettromotrici potessero sommarsi fra di loro.
Occorre subito tener presente però che, unendo varie coppie tra di loro, non si ottiene alcun risultato. Come ha risolto il problema Alessandro Volta? Ha inserito tra una coppia e l'altra un pezzo di stoffa imbevuta di acqua acidulata.
La forma della prima pila costruita dal Volta è appunto una colonna di dischi sovrapposti di rame e di zinco in contatto, di cui ogni coppia è separata dalla successiva da una rotella di stoffa imbevuta di acqua acidulata.
Ben presto Volta sostituì alle rotelle di stoffa delle tazzine da caffè contenenti acqua acidulata disposte a corona sopra un vassoio: ogni tazzina con i due bastoncini, uno di rame l'altro di zinco, costituisce un elemento della pila.
Tra il primo e l'ultimo dei dischi o tra la prima e l'ultima tazzina si ottiene una notevole differenza di potenziale capace di dare a chi li tocca una buona «scossa elettrica».
Come funziona una pila? Consideriamo un elemento, un bicchiere con acqua acidulata (bastano poche gocce di acido solforico) in cui sono immersi i due bastoncini, quello di rame e quello di zinco. Il primo è il «polo positivo», il secondo il «polo negativo»: tra essi esiste spontaneamente una certa differenza di potenziale che costituisce la forza elettromotrice della pila. Essa è dovuta al contatto e all'azione chimica dell'acqua acidulata sui due metalli.
Se con un filo si collegano tra loro esternamente i due poli della pila subito un fiume di elettroni prende a scorrere nel «circuito» procedendo dallo zinco attraverso il filo verso il rame e da questo, attraverso l'acqua del bicchiere, verso lo zinco... e così via.
Questo flusso continuo di elettroni costituisce la corrente elettrica della pila e fa della pila il più semplice «generatore di corrente».
Naturalmente, collegando tra loro più elementi simili a quello descritto si ottiene una «batteria di pile» capace di dare corrente a tensione maggiore.
La pila contenuta nella lampadina tascabile funziona seguendo questo principio con la sola differenza che l'elettrolita liquido è immobilizzato in una pasta così da formare una massa gelatinosa quasi solida: per questa sua caratteristica si chiama, appunto, pila a secco.

PERCHÉ LA DINAMO DA' LUCE AL FANALE DELLA BICICLETTA?

Anche la bicicletta, nella sua semplicità, possiede un impianto elettrico capace di fornire una certa quantità di energia alla lampadina del fanale.
Questo impianto è tra i più semplici, ma ci consente di parlare di un meccanismo importantissimo, la dinamo, uno dei più diffusi generatori di corrente elettrica. Come funziona una dinamo?
La dinamo sfrutta il principio dell'«induzione elettromagnetica», scoperta dovuta al fisico Faraday intorno al 1840, e cioè la possibilità di produrre correnti indotte di notevole potenza grazie al movimento di un circuito entro un campo magnetico.
Se noi inseriamo tra i poli di una calamita un circuito e lo teniamo immobile parallelamente ai poli e perpendicolarmente alle linee di forza del campo magnetico, non abbiamo nessuna produzione di corrente. Ma, non appena il circuito si muove ruotando su se stesso, produce una certa quantità di corrente elettrica, detta «corrente indotta».
La dinamo, pur sfruttando ii principio dell'induzione elettromagnetica, porta un'innovazione fondamentale dovuta a Pacinotti (la dinamo non è altro che il famoso «anello») che non sfrutta tanto la corrente indotta del circuito quanto la differenza di potenziale che il circuito viene ad avere, girando tra i due poli della calamita, nei due punti in cui il flusso non varia e cioè quando le linee di forza del campo magnetico attraversano il circuito perpendicolarmente.
Parliamo dunque della dinamo e, affinché voi possiate ben capire, vi consigliamo di tener presente il disegno.
La dinamo comprende una calamita detta «induttore»; tra i suoi poli N e S, opportunamente sagomati, ruota un cilindro di ferro detto «indotto», su cui è avvolto un circuito comprendente numerose spire, fatte di fili di rame, i cui estremi sono collegati tra loro.
Quando noi facciamo scattare la molla della piccola dinamo della bicicletta e costringiamo la rotella che si trova nella parte superiore a toccare la gomma anteriore, il movimento della ruota della bicicletta viene trasmesso alla rotella che fa girare il cilindro all'interno dei poli della calamita.
Ogni spira dell'indotto, durante la rotazione, è attraversata da un flusso magnetico, variabile in rapporto alla posizione assunta rispetto ai poli della calamita e di conseguenza è sede di una certa forza elettromotrice indotta, anch'essa variabile. Questa forza elettromotrice cambia in ogni spira con il mutare della posizione di questa e in particolare è nulla quando la spira passa nei punti A e B poiché, come abbiamo detto, in questa posizione non si registrano variazioni di flusso magnetico, è positiva quando è a destra del piano A B ed è negativa quando è a sinistra. In pratica, girando l'indotto, le forze elettromotrici di tutte le spire che passano a destra del «piano di commutazione» AB si sommano e la stessa cosa avviene contemporaneamente alle spire che passano a sinistra così che, durante la rotazione, l'indotto equivale a due batterie di pile i cui poli sono rispettivamente i punti A e B.
Tra di essi nasce una notevole differenza di potenziale e per poter mutare questa tensione in corrente elettrica occorre prendere contatto con le varie spire nell'attimo in cui passano nei punti A e B. A ciò provvede il «collettore», un cilindro più piccolo, coassiale all'indotto, su cui sono disposte tante lastrine di rame isolate tra loro quante sono le spire: ogni lamina è collegata ad una spira e il collettore, saldato rigidamente all'indotto, gira con questo.
Sul collettore si appoggiano, a semplice sfregamento, due contatti striscianti, le «spazzole» (S e S' nel disegno), formate da blocchetti di carbone che, posti in corrispondenza dei punti A e B, vengono in contatto, in successione continua, con le lamine di rame collegate alle spire e si caricano della loro forza elettromotrice. Unendo le spazzole con dei fili possiamo portare all'esterno questa corrente ed utilizzarla per dar luce alla lampada del fanale.

PERCHÉ LE CENTRALI ELETTRICHE SORGONO VICINO AI FIUMI?

L'energia elettrica che gli uomini utilizzano per scopi diversi: per uso domestico, per l'illuminazione, per far procedere tram o convogli ferroviari, per il funzionamento delle industrie e così via, viene prodotta mediante generatori meccanici, grandiose dinamo (si tratta di solito di «alternatori trifasi») azionate da motori termici o idraulici.
Se utilizzano i primi si chiamano «centrali termoelettriche» e sorgono, di solito, nei pressi delle città come centrali di riserva, provvedendo a fornire energia elettrica quando viene a mancare od è insufficiente quella prodotta dalla centrale idroelettrica.
Le centrali termoelettriche usano macchine a vapore, turbine a vapore o motori Diesel, per far girare gli alternatori.
Le centrali idroelettriche, invece, sorgono spesso lontane dalle città, sui fiumi o nei loro pressi, poiché sfruttano la spinta dell'acqua per far girare le turbine idrauliche, direttamente accoppiate agli alternatori.
Spesso i corsi d'acqua vanno ad alimentare immensi serbatoi montani realizzati tramite apposite dighe di sbarramento e l'acqua dei serbatoi è collegata alla centrale da tubi metallici, detti «condotte forzate», che, superando notevoli dislivelli, consentono all'acqua di scendere con forza ed irruenza straordinarie.
Quando è possibile, invece, si sfrutta la forza dell'acqua provocata naturalmente da una cascata.
Come funziona una centrale elettrica?
L'acqua viene convogliata con forza contro le pale della turbina che prendono a girare vorticosamente. Alla turbina è collegato il rotore di un alternatore che, girando, produce energia elettrica.
L'alternatore differisce dalla dinamo per il fatto che ha le elettrocalamite mobili che girano sotto la spinta della turbina idraulica e i circuiti che producono la corrente fissi (mentre nella dinamo, come abbiamo visto, è il contrario); poi per il fatto che la dinamo produce corrente continua mentre l'alternatore corrente alternata.
Che cos'è la corrente alternata? Abbiamo visto come un circuito ruotante entro un campo magnetico, è sede di forza elettromotrice. Poiché questa corrente indotta è generata dal flusso magnetico della calamita, variabile a seconda della posizione della spira rispetto ai relativi poli, Nord e Sud, la corrente ha ora un senso, ora il senso opposto: da un punto massimo, il flusso decresce, si annulla, si inverte, torna a crescere... e così via, assumendo un andamento «sinusoide».
Questa forza elettromotrice che cambia continuamente valore e periodicamente segno si chiama «corrente alternata». Per il trasporto dell'energia elettrica prodotta da una centrale è necessario che la corrente abbia una tensione molto alta (da 10.000 a 100.000 volt) affinché la potenza perduta lungo la linea sia contenuta entro limiti tollerabili.
La corrente fornita dai generatori meccanici viene quindi inviata ad un trasformatore «elevatore» che ne eleva la tensione.
A questo punto la si fa giungere sul luogo di consumo attraverso dei fili di notevole sezione. Ad attenderla sono altri trasformatori, «riduttori» questa volta, che ne abbassano la tensione a seconda dell'uso per cui è destinata: una «media tensione» per le fabbriche o per i trasporti elettrificati, una tensione di 160-220 volt per gli usi domestici, per l'illuminazione, i frigoriferi, i televisori, le lavatrici... e così via.
Il funzionamento di una centrale idroelettrica

PERCHÉ I FILI ELETTRICI SONO COPERTI DI GOMMA?

Abbiamo già parlato della pericolosità costituita dai fili della corrente. In essi viene trasportata l'energia elettrica proveniente dai generatori al luogo di consumo.
Prima che essa giunga alle città e ai grandi trasformatori che ne riducono il potenziare per metterla a disposizione degli uomini ad una tensione opportuna, essa ha un voltaggio elevatissimo.
Eppure corre nelle campagne, sorretta da alte torri, in grossi fili scoperti. La loro disposizione, comunque, garantisce una certa sicurezza proprio perché questi fili sono posti ad altezze irraggiungibili, in luoghi isolati ed impervi.
Ogni filo elettrico, invece, che pur trasporti correnti a tensioni più basse ma che possa essere facilmente raggiunto dall'uomo, è convenientemente protetto da materiali isolanti, tra cui la gomma e certe materie plastiche.
Perché una certa sostanza è isolante?
Perché offre una notevole resistenza al passaggio della corrente, ovvero è un cattivo conduttore di corrente.
Noi sappiamo che l'elettricità non è altro che una continua fuga di elettroni che da un corpo elettrizzato passano ad un altro corpo a potenziale minore.
Bisogna però tener presente che la corrente che da un conduttore passa ad un altro conduttore non è una certa quantità di materia che si trasferisce da un punto all'altro ma, possiamo dire, solo una certa quantità di energia che mette in moto gli elettroni dei conduttori e del mezzo interposto.
Se però mettiamo in comunicazione due conduttori con un filo, il campo elettrico agisce sugli elettroni del conduttore a maggior potenziale, che scuotono gli atomi e le molecole del filo e i loro relativi elettroni, i quali mettono in movimento gli elettroni del conduttore a minor potenziale.
Se tra i due conduttori interponiamo un materiale «isolante» che cosa avviene?
Non appena la fuga degli elettroni raggiunge la sostanza isolante, trova delle molecole e degli atomi che non si lasciano strappare elettroni tanto facilmente e il campo elettrico subisce un'inevitabile battuta d'arresto.
Ecco perché, per evitare che la corrente elettrica di un filo attraverso il nostro corpo si scarichi a terra, si «isola» il filo avvolgendolo con materiali quali la gomma o speciali sostanze sintetiche.
Tra i materiali isolanti più noti ed usati, ricordiamo il vetro, la porcellana, la paraffina, il quarzo, l'olio e il legno.

PERCHÉ I FILI DELLA CORRENTE SONO DI RAME?

Nella risposta precedente abbiamo detto come esistano in natura delle sostanze che non si lasciano perturbare dalla corrente elettrica e che perciò sono chiamate isolanti.
Ma vi sono altre sostanze che, per la loro particolare struttura, sono dei buoni conduttori di corrente.
Un campo elettrico, infatti, agisce sulle molecole e sugli atomi che compongono queste sostanze e la sua azione è particolarmente sensibile sugli elettroni dei vari atomi tanto che le loro traiettorie intorno al nucleo vengono modificate.
In queste sostanze il legame di attrazione che vincola gli elettroni al nucleo dell'atomo non è molto forte e perciò sotto la spinta del campo elettrico alcuni elettroni di superficie vengono sbalzati via dalle loro orbite e passano via via ad altri atomi.
In conclusione, se il campo elettrico di un conduttore produce un movimento di elettroni in un corpo con cui viene in contatto, la sostanza di cui questo corpo è composto può essere considerata buona conduttrice di corrente.
Una tra le sostanze più adatte alla buona conduzione d'elettricità è il rame: per questo la maggior parte dei fili utilizzati per ii trasporto della corrente è fatta di questo materiale.
È interessante sapere, però, che un'altra sostanza sta soppiantando il rame, per le sue ottime proprietà conduttrici: l'alluminio.

PERCHÉ A VOLTE MANCA LA CORRENTE?

Parlando della conducibilità elettrica dei corpi sappiamo che ognuno di essi presenta una minore o maggiore resistenza al passaggio della corrente elettrica. Abbiamo detto, ad esempio, che il rame e l'alluminio sono degli eccellenti conduttori di corrente, mentre altri metalli, come l'acciaio, ad esempio, si dimostrano poco inclini a favorire il passaggio degli elettroni. Ogni conduttore percorso dalla corrente elettrica sviluppa un certo calore, tanto maggiore quanto maggiore è la resistenza che offre al passaggio della corrente.
Il nichelcromo, ad esempio, presenta una resistività così elevata che con questo materiale si fanno le «resistenze» degli apparecchi di riscaldamento.
Abbiamo già visto alcune applicazioni pratiche del calore svolto dalla corrente quando abbiamo parlato del filamento della lampada e della resistenza del ferro da stiro.
La corrente che circola nelle nostre case, dunque, è una potenziale fonte di calore che potrebbe, imbizzarrendosi, incendiarci la casa.
Una prima misura di sicurezza contro gli incendi è costituita dal metallo usato nei fili del nostro impianto: il rame, essendo buon conduttore, consente un agevole passaggio di corrente, una modesta resistenza e quindi una scarsa produzione di calore. Ma il nostro impianto, costruito per sopportare una certa quantità di corrente ad una determinata intensità, può per cause esterne essere modificato e «andare in corto circuito».
Che cosa significa «corto circuito»?
Il termine stesso lo dice: il circuito elettrico, opportunamente esteso per accogliere una certa quantità di elettricità, si «accorcia», una o più parti, cioè, si annullano o riducono notevolmente la loro funzionalità.
Avviene così che una gran quantità di energia elettrica sia costretta a passare solo attraverso la restante parte del circuito ancora in funzione, provocando in essa un'eccessiva produzione di calore. Ed ecco che «salta» l'impianto, i fili vanno a fuoco e la nostra casa rischia di tramutarsi in un rogo.
Per scongiurare questo pericolo in ogni impianto è inserita una «valvola di sicurezza». Questa non è altro che un pezzetto di filo facilmente fusibile, per esempio di piombo, nel quale passa la corrente senza alcun intoppo finché questa presenta un'intensità normale. Non appena si verifichi un «corto circuito» e la corrente aumenti vertiginosamente d'intensità producendo un calore elevatissimo, il filo di piombo fonde, apre il circuito e interrompe il passaggio della corrente. Non appena il circuito è stato riattivato, eliminate le cause del «corto», si sostituisce il pezzetto di filo della «valvola» e tutto torna alla normalità.
Perché, dunque, a volte manca la corrente?
Generalmente la causa è ancora dovuta a dei corti circuiti in quel grandioso impianto che è una città, nel complesso groviglio di linee che trasportano l'energia elettrica dalla centrale alle nostre case. Nelle centrali di distribuzione ogni linea è dotata di interruttori automatici che svolgono la stessa funzione dei fusibili delle nostre case. Non appena si verifica un aumento di intensità, essi scattano automaticamente... lasciandoci temporaneamente al buio.

PERCHÉ LE PILE SI SCARICANO?

Parlando della pila di Volta abbiamo visto come il flusso di elettroni che ne costituisce la forza elettromotrice segua un vorticoso cammino dallo zinco (polo negativo), attraverso il filo conduttore, verso il rame (polo positivo) e da questo, attraverso la soluzione acidula, verso lo zinco... e così via.
In teoria questo carosello di elettroni dovrebbe continuare indefinitivamente, garantito dalla differenza di potenziale tra i due poli. In pratica, però, tutti lo sappiamo benissimo, le pile si scaricano, hanno, cioè, una autonomia alquanto limitata.
Perché, dunque, le pile si scaricano?
Per comprendere questa loro progressiva perdita di funzionalità occorre penetrare un fenomeno molto interessante che si riferisce agli effetti chimici della corrente, alla sua capacità di scindere molti corpi composti nei loro elementi.
Questa sua capacità è utilizzata per la scomposizione dei liquidi (vedremo poi gli strani effetti che provoca nei gas rarefatti) e prende il nome di elettrolisi. La scoperta fu casuale: dopo l'invenzione della pila si voleva studiare se la corrente può passare attraverso i liquidi e si scoprì che se l'acqua chimicamente pura non è conduttrice lo diventa quando contiene disciolto un acido, un sale o una base e inoltre che la corrente, attraversando il soluto, determina la scomposizione dei suoi componenti.
Così, immergendo due elettrodi in un recipiente con acqua resa acidula, ad esempio, da acido cloridrico, si assiste alla scomposizione dello stesso nei due gas che lo compongono: idrogeno e cloro. L'idrogeno si sviluppa al polo negativo (catodo) e il cloro a quello positivo (anodo).
Procedendo in un'indagine più approfondita dobbiamo mettere in evidenza che la molecola dell'acido cloridrico, formata da un atomo di idrogeno e da uno di cloro, può mantenere la sua stabilità solo se questi due atomi sono elettrizzati: se fossero neutri non vediamo perché dovrebbero stare insieme. L'atomo d'idrogeno, infatti, è elettrizzato positivamente ed è privo del suo elettrone, mentre il cloro elettrizzato negativamente ha un elettrone in più: questa è la condizione del loro procedere uniti.
Atomi così modificati hanno un nome che spesso avrete occasione d'udire: ioni. In ogni sostanza composta, infatti, gli atomi dei vari componenti sono degli «ioni», non atomi neutri propri della sostanza a sé stante, ma atomi modificati la cui elettrizzazione garantisce il legame con le altre sostanze del composto.
Nella soluzione, specialmente se è piuttosto diluita, le molecole dell'acido urtandosi tra di loro si dissociano nei due «ioni» e se la soluzione ha in sé due elettrodi in attività, l'ione positivo (l'idrogeno) si dirigerà verso il polo negativo (catodo) e quello negativo (il cloro) verso il polo positivo (anodo). Qui giunti l'idrogeno strappa all'elettrodo l'elettrone che gli manca, torna atomo completo e neutro e si libera; il cloro, invece, cede all'elettrodo l'elettrone in più ed anch'esso si libera. Ecco spiegata, in dettaglio, la dissociazione elettrolitica.
Il recipiente contenente l'acqua acidulata e i due elettrodi si chiama «voltametro» e trova molte applicazioni, tra cui una a voi nota: gli accumulatori che forniscono corrente all'impianto elettrico di un'automobile.
Facciamo ora la conoscenza con un altro fenomeno, una corrente che si sviluppa in un voltametro, detta «forza elettromotrice di polarizzazione».
Abbiamo visto come i due elettrodi, catodo ed anodo, in un voltametro subiscano l'attacco degli ioni: uno perdendo l'altro acquistando elettroni risultano modificati a tal punto che tra loro si determina una differenza di potenziale con un passaggio di corrente dall'elettrodo a potenziale maggiore a quello a potenziale minore. Si dice allora che il voltametro è polarizzato.
Le batterie delle auto utilizzano appunto questa forza elettromotrice di polarizzazione, dovuta alla differenza di potenziale tra elettrodi costituiti da lastre di piombo immerse in una soluzione di acqua acidulata con acido solforico.
Le batterie di accumulatori per autoveicoli si scaricano poiché, dando corrente per un certo tempo, finiscono per depolarizzarsi: in questo caso occorre «ricaricarle», sottoporle cioè all'azione della corrente che esegua, per qualche ora, una costante dissociazione elettrolitica finché tra gli elettrodi si ristabiliscano tali modificazioni da consentire una notevole differenza di potenziale tra loro e la ripresa, quindi, del passaggio di corrente tra l'uno e l'altro.
Una pila, invece, si carica proprio quando si polarizza. Essa, quando fornisce corrente, si comporta come un voltametro e i suoi due poli, rame e zinco, determinano una dissociazione elettrolitica della soluzione in cui sono immersi e sono sede di forza elettromotrice di polarizzazione, di flusso contrario a quello della normale corrente svolta dalla pila.
È facilmente intuibile come le due correnti opposte finiscano per annullarsi e come la pila cessi di produrre corrente.
Questo spiega come Alessandro Volta poteva far funzionare le sue pile solo per pochissimo tempo. Si è trovato, in seguito, che responsabile della polarizzazione è soprattutto l'idrogeno che si svolge al polo negativo, intorno cioè al rame della pila, e si è potuto procrastinare la polarizzazione avvolgendo il rame con sostanze «depolarizzanti», avide d'idrogeno, tese ad assorbire gli ioni prima ch'essi raggiungano l'elettrodo.

PERCHÉ CON I RAGGI X SI PUO' VEDERE ATTRAVERSO UN CORPO?

La proprietà dell'elettricità di dissociare un corpo composto nei suoi elementi (ioni) si determina non solo nei liquidi, con l'elettrolisi, ma anche nei gas. Abbiamo visto come lo straordinario comportamento dell'elettricità nei gas abbia dato origine a molte utili applicazioni, dalle insegne luminose e multicolori alla lampada a tubo fluorescente. Il meccanismo della propagazione dell'elettricità nei gas è analogo a quello già esposto a proposito delle soluzioni liquide: si tratta sempre di «ionizzazione», della dissociazione di un composto nei suoi elementi e della loro corsa, secondo la rispettiva carica elettrica, ora verso il catodo (polo negativo) ora verso l'anodo (polo positivo).
Così come per una buona elettrolisi il soluto deve essere abbastanza diluito, anche per quanto riguarda il movimento degli ioni positivi verso il catodo e degli ioni negativi verso l'anodo in un gas, esso avviene molto più agevolmente se il gas è rarefatto.
Quando la rarefazione non è eccessiva il fenomeno è accompagnato dalla produzione di una certa luminosità, variabile per quanto riguarda l'intensità o il colore a seconda della natura del gas attraversato dalla corrente e dalla sua rarefazione.
Più procediamo nella rarefazione del gas dentro il tubo di vetro, più la luminescenza si attenua... finché scompare. Voi direte: ecco, tutto è finito. Niente affatto! Ora sì che comincia il bello!
In questa atmosfera altamente rarefatta, se un elettrone passa vicino al catodo, questo lo respinge violentemente lontano da sé: l'elettrone, lanciato come una palla di fucile, attraversa in moto rettilineo lo spazio «semivuoto» e va ad abbattersi sulla parete di vetro opposta al catodo. Nonostante l'estrema rarefazione, di elettroni ce n'è sempre a iosa e pertanto dal catodo partono incessantemente miliardi di elettroni che, con rapidità fulminea, bombardano la parete opposta Le traiettorie rettilinee degli elettroni respinti dal catodo costituiscono i cosiddetti «raggi catodici», che bombardando la parete di vetro opposta al catodo la colorano di una vivace luminescenza verde.Abbiamo già accennato ad una interessante ed importantissima applicazione dei raggi catodici quando abbiamo parlato del microscopio. Essi, infatti, sostituiscono la luce ordinaria nel microscopio elettronico aumentandone straordinariamente il «potere separatore».
Una delle più clamorose scoperte, avvenuta grazie ai raggi catodici, è dovuta al premio Nobel per la fisica (1901) Wilhelm Conrad Röntgen, che utilizzò appunto questi raggi per la produzione di un altro tipo di radiazione: i raggi X. I raggi X vengono prodotti concentrando un intenso fascio di raggi catodici su una lastrina metallica di notevole spessore: il punto colpito dai raggi catodici diventa centro di emissione di raggi X che si propagano in ogni direzione è che, pur essendo invisibili, rivelano la loro presenza in quanto capaci di impressionare lastre fotografiche o di rendere fluorescenti certe sostanze come, ad esempio, il platinocianuro di bario.
Il tubo per la produzione e l'utilizzazione dei raggi X è, schematicamente, formato da un recipiente di vetro molto resistente e spesso, da un catodo di forma concava (per concentrare i raggi catodici in un sol punto) un anodo che ha una funzione del tutto secondaria, da una spessa lastra metallica, detta «anticatodo», di tungsteno o di platino.
I raggi catodici prodotti dal catodo bombardano l'anticatodo e, in certo senso, vengono riflessi sotto forma di luce invisibile che ha la singolare proprietà di attraversare molti corpi, opachi alla luce ordinaria. A ciò debbono la loro fama.
Se i raggi X vengono inviati sopra uno schermo ricoperto di platinocianuro di bario (che diviene fluorescente) e se s'interpone sul cammino dei raggi un corpo umano, ecco apparire sullo schermo l'ombra delle ossa.
Più la capacità penetrativa delle radiazioni è elevata, più nitida apparirà l'immagine dell'interno del nostro corpo... e più facilmente si potrà scoprire tutto ciò che non va.
In questo caso, dunque, attraverso i raggi X, si ottiene la «radioscopia», mentre sostituendo allo schermo fluorescente una lastra fotografica, si avrà la «radiografia» del soggetto esaminato.
I raggi X, inoltre, non sono soltanto utilizzati in medicina ma trovano anche utili applicazioni nell'industria: grazie ad essi si possono ottenere delle radiografie di metalli e controllarne così l'integrità.

PERCHÉ LA CALAMITA ATTIRA IL FERRO?

Esistono in natura alcuni minerali di ferro che possiedono la singolare proprietà di attirare piccoli oggetti di ferro che si trovino loro vicini: questi minerali vengono chiamati «magneti» o «calamite» naturali. La stessa proprietà può essere comunicata, con vari mezzi, a sbarrette di acciaio o di leghe speciali, ottenendo così le calamite artificiali a voi note.
In ogni calamita la proprietà di attirare il ferro è localizzata in alcune zone specifiche, dette «poli magnetici».
Voi conoscerete senza dubbio una delle più antiche applicazioni della calamita, l'ago magnetico, un magnete lungo e sottile appoggiato al centro su una punta aguzza in modo da poter ruotare su di essa, sul quale è fondato l'uso della bussola. Vi sarà ancora noto che l'ago magnetico, lontano da altre calamite o da pezzi di ferro, volge spontaneamente un suo estremo verso il settentrione e l'altro, di conseguenza, verso mezzogiorno.
Per questa ragione i due poli di ogni calamita si chiamano rispettivamente polo Nord e polo Sud. Avvicinando due calamite notiamo subito un fenomeno fondamentale: il polo Nord dell'una viene attratto dal polo Sud e respinto dal polo Nord dell'altra.
È facilmente intuibile dunque che i poli di una calamita si comportano come dei corpi elettrizzati aventi cariche elettriche opposte.
In realtà la proprietà magnetica della calamita non è altro che una manifestazione dell'elettricità che circola incessantemente entro i suoi atomi. Tanto è vero che una sbarra di acciaio non magnetica può essere resa tale avvolgendola con dei fili in cui ci sia corrente.
Questo è il principio del funzionamento dell'elettrocalamita di cui abbiamo parlato a proposito del campanello elettrico e del clacson dell'automobile.
La regione che circonda una calamita, entro la quale la sua azione è sensibile, si chiama «campo magnetico». Esso è un insieme di linee di forza, infinite, a cui si attribuisce convenzionalmente il senso che va dal polo Nord al polo Sud, e che si presentano secondo una dirittura leggermente curva.
Queste linee di forza possono essere rese visibili grazie ad una semplice esperienza, ponendo cioè entro il campo magnetico di una calamita una lastra orizzontale cosparsa di limatura di ferro. Battendo leggeri colpi sulla lastra i granelli di limatura, magnetizzati per «induzione» e trasformati in tanti piccolissimi aghi magnetici, si dispongono in catena seguendo l'andamento delle linee di forza.
 

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