I MILLE PERCHÉ - CULTURA E CIVILTÀ - LE RELIGIONI

PERCHÉ CI SONO TANTE RELIGIONI?

La religione è un campo d'attività dello spirito umano, come la morale, l'arte e la politica, ed esprime nel suo insieme il tentativo dello uomo di spiegare tutto ciò che non ha un motivo evidente d'essere.
L'Universo, la Terra, gli animali, le piante, gli uomini, la vita, perché esistono? Chi li ha fatti? Queste sono domande antiche, sorte nella mente dell'uomo fin dai tempi, oscuri e lontanissimi, della sua comparsa sul pianeta Terra.
Come rispose a queste domande, come tentò le prime timide spiegazioni, nacque la religione. La religione può dunque essere definita come la fede nell'esistenza di forze soprannaturali da cui l'uomo sente di dipendere, fede accompagnata spesso da un insieme di riti, di pratiche di culto, di precetti morali e così via, che l'uomo attua per ingraziarsi la divinità e per innalzarsi ad essa.
È difficile stabilire quali fossero, presso l'umanità primordiale, le prime forme di religione, come l'uomo, cioè, abbia potuto scoprire il soprannaturale e come sia arrivato a concepirlo come divinità. Si può pensare, con l'antropologo inglese Tylor, che l'uomo primitivo ha scoperto l'anima attraverso i propri sogni, alla stessa maniera ha «animato» le cose che lo circondano (gli animali, le piante, gli oggetti) ed ha considerato ogni fenomeno come provocato da queste anime.
Successivamente è giunto alla formazione delle immagini di spiriti ed infine di divinità.
Si può pensare, con King e Marett, che l'uomo primitivo ha creduto, prima di tutto, ad una sorta di «dinamismo», all'efficacia cioè di forze impersonali diffuse nel mondo (ispirato forse dalla terribile potenza dei fenomeni naturali) forze ch'egli deve controllare se vuole servirsene e allontanare da sé ogni possibile danno che esse possono arrecargli.
Si può, infine, pensare con il poeta scozzese Andrew Lang e con il padre Wilhelm Schmidt, che la primitiva religione dell'uomo fu rigidamente monoteistica, fondata cioè sulla fede di un solo «autore» di tutte le cose, e che questa fede fu comunicata all'uomo attraverso un'originaria rivelazione divina e che solo in seguito questo monoteismo degenerò in politeismo, nella fede, cioè, in molte divinità.
Tutte queste teorie si basano sullo studio delle concezioni religiose dei popoli primitivi che presentano aspetti ora «animistici», ora «dinamistici», ora monoteistici.
Come presumibilmente avvenne per la diversificazione delle lingue, anche la religione assunse forme diverse e rimase per molto tempo, sotto forma di religione tribale, entro i confini del gruppo etnico e in quelli ancora più angusti della tribù. Solo con il sorgere dei grandi Stati cominciò a farsi sentire la necessità di unificare fede e culto, e solo verso la metà del secondo millennio avanti Cristo comparvero ad interpretare questa universale esigenza i primi predicatori religiosi. Grazie al loro messaggio ed alle loro dottrine, gran parte dei culti tribali furono abbandonati e col passare del tempo masse sempre maggiori si convertirono a forme religiose più precisamente delimitate.
Questo processo di unificazione può considerarsi quasi compiuto ai nostri giorni. Oggi, infatti, benché esistano ancora culti tribali diversi presso i popoli cosiddetti primitivi e religioni antiche e nuove che abbracciano però una parte piuttosto modesta dell'umanità (jaina, zoroastriani, ebrei, shintoisti etc.) quasi il 90% della popolazione mondiale appartiene a cinque grandi religioni: induismo, buddhismo, universismo cinese, cristianesimo ed islamismo.
Ritenendo superfluo in questa sede parlare del Cristianesimo di cui ognuno di voi conosce i caratteri generali, accenniamo solo al contenuto delle principali religioni non cristiane.
La civiltà e la religione indù sorsero dalla fusione tra gli invasori Arii e le popolazioni indigene che abitavano le regioni del fiume Indo, si presume tra il 1500 e il 1250 a.C.
All'induismo e brahmanesimo vero e proprio si giunse però verso l'800 avanti Cristo, con la stesura delle appendici filosofiche dei Veda, i sacri testi ariani, le cosiddette Upanishad (dottrine segrete): i rimasugli degli antichi culti, le credenze in una serie di dèi dispensatori di grazie, furono soppiantati da una forza nuova, il Brahman, l'Assoluto, e l'idea della sopravvivenza in un mondo celeste fu sostituita dalla certezza che l'anima dell'uomo, in rapporto alle sue azioni buone o cattive (karman), entra dopo la morte nel corpo di altri esseri, altri uomini o animali (reincarnazione). L'idea di questa migrazione, senza principio e senza fine, determinò a poco a poco il desiderio da parte dell'indù di spezzare questa catena, di raggiungere, mediante una rigida disciplina ascetica, la liberazione attraverso la conoscenza e la contemplazione del Brahman.
A queste antiche credenze religiose si deve il carattere particolarissimo del popolo indiano che ritiene naturali le differenze di casta, la miseria e la fame: ogni preoccupazione terrena ed ogni ribellione sono da ritenersi inutili e superflue di fronte al duro cammino di liberazione che conduce alla conoscenza del Brahman.
Nel VI secolo dopo Cristo l'India vide sorgere una quantità innumerevole di sette e di scuole che si disputavano il privilegio di interpretare nel verso giusto il brahmanesimo. Tra esse un movimento di riforma ebbe il sopravvento e divenne ben presso una delle più interessanti «religioni» del mondo: il buddismo.
Il buddismo (dal suo fondatore Buddha) confutò il brahmanesimo soprattutto su due punti: la dottrina della conoscenza del Brahman, dell'identificazione, cioè, dell'anima individuale nell'anima universale, e la dottrina della trasmigrazione delle anime. I sacerdoti brahmani ritenevano che l'identificazione con l'Assoluto fosse una prerogativa della loro casta e che le caste inferiori fossero costrette a passare per numerose reincarnazioni prima di poter nascere brahmani.
Buddha affermò invece che l'identificazione con il Brahman è una sorta d'illusione e che ognuno poteva trovare nella vita pratica, soprattutto nella conoscenza del proprio karman (il risultato delle proprie azioni compiute nelle esistenze anteriori), la via della liberazione.
Buddha, rifiutando sia l'anima universale sia quella individuale, si rivelò in definitiva ateo e materialista e più che una religione fondò una disciplina filosofica.
La sua dottrina si limitò volontariamente alla sola ricerca della via della salvezza e questa limitazione, pur costituendo sotto certi aspetti la sua forza, risultò col tempo la sua debolezza. Il buddismo ebbe così all'inizio una prodigiosa diffusione ma, essendo solo una disciplina, non offrì alimento sufficiente ai bisogni religiosi dell'animo umano: il brahmanesimo, se pur arricchito da contenuti filosofici buddisti, finì per trionfare. Con il nome di Universismo cinese (termine coniato dal sinologo J.J.M. de Groot) si designa il comune fondamento spirituale delle concezioni morali, politiche e scientifiche cinesi. L'universismo è una dottrina che pone al suo centro l'Universo con tutte le sue parti e cerca d'istaurare l'armonia fra cielo, terra e uomo. Al vertice di questo ordinamento sta il sovrano universale, il Figlio del Cielo, in cinese T'ien-tse. L'universismo si basa sul «tao» (via, sentiero), su una legge universale, cioè, che si manifesta nella natura, nella morale e nel rito.
Le origini dell'universismo cinese sono antichissime e solo nel 500 a.C. il ceppo originario si divise in due rami: il confucianesimo, dal nome del suo fondatore Confucio e il taoismo, fondato dal filosofo mistico Lao-Tse.
Confucio fu soprattutto un moralista e, in armonia con l'ordinamento sociale del tempo, vedeva nella tradizione, nella famiglia patriarcale, nella pietà filiale, nel giusto comportamento verso il prossimo, i mezzi per realizzare l'armonia tra uomo e universo. Nel coltivare il nocciolo buono presente in ogni uomo sta la possibilità di ognuno di diventare «nobile», di realizzarsi e di raggiungere un grado di umana perfezione tale da riunire in sé le virtù ottime quali l'autocontrollo, l'umanità e la bontà. Per Confucio, dovere del governo è educare il popolo in questo senso ed applicare nella vita statale gli stessi principi.
Il confucianesimo della fine del III secolo a.C. divenne in Cina la religione di stato e in gran parte ai suoi contenuti è dovuto il perpetuarsi millenario della civiltà cinese così attaccata alla tradizione e restia per tanto tempo ad accettare mutamenti radicali.
Al confucianesimo, tutto volto allo Stato ed alla comunità, si oppose il taoismo di Lao-Tse, una filosofia individualistica, una dottrina che può essere compendiata nell'esortazione rivolta all'individuo singolo di liberarsi dalle passioni terrene e di immergersi quietamente nell'origine delle cose.
Religione relativamente moderna è l'Islamismo. Islam, la cui traduzione significa «dedizione a Dio», è il termine scelto da Maometto per la religione da lui predicata.
La data di nascita dell'Islamismo è il 622 dopo Cristo, anno della fuga (egira) di Maometto dalla Mecca a Medina e che costituisce l'inizio del computo cronologico arabo.
L'importanza storica di Maometto è grandissima: oltre ad aver unificato le molte tribù arabe dando loro una religione comune in cui credere, liberò le loro poderose riserve d'energia spingendole alla conquista del mondo, rendendo in questo modo possibili la nascita e lo sviluppo della civiltà araba.
L'islamismo è una religione rigidamente monoteistica: Allah è il solo ed unico Dio. Maometto, il profeta, ha raccolto le rivelazioni di Allah e le ha trascritte nel Corano.
Il contenuto del Corano è assai vario: accanto alle lodi a Dio che dimostrano un profondo sentimento religioso, grande spazio occupano le diverse disposizioni sul culto e sulla vita sociale. L'onnipotenza di Allah fa sì che il musulmano non riconosca alcuna legge naturale, per cui il giusto atteggiamento spirituale dell'uomo pio consiste nella completa dedizione alla volontà di Allah: solo così, infatti, è possibile guadagnarsi il paradiso. Ciò spiega, tra l'altro, il poderoso slancio degli arabi nel compiere le loro «guerre sante» (gihad) intraprese nel nome di Allah contro i pagani, gli ebrei ed i cristiani.
Tempio buddhista in Thailandia

L'interno di una moschea musulmana

Il Tempio d'oro dei Sikh ad Amritsar, in India

PERCHÉ GLI EBREI NON MANGIANO CARNE DI MAIALE?

Parlando delle religioni in genere abbiamo accennato al fatto che tutte, accanto all'insieme dei riti, dei precetti di culto e morali, presentano un insieme di leggi che riguardano la vita e l'organizzazione sociale della comunità.
Queste leggi, soprattutto quelle relative ai cibi, hanno un evidente carattere igienico e dietetico. Il savio e antico compilatore dei codici, sciamano o sacerdote, avendo tratto le debite conclusioni dall'osservazione della realtà e assunto l'esatta consapevolezza che un particolare cibo nuoccia alla sua gente, dal momento che non può fornire ragioni scientifiche per vietarlo, lo rende inviso ai fedeli bollandolo come «impuro» e contrario ai voleri del dio. Ciò che non sarebbe accettato dagli uomini come consiglio igienico, viene invece accettato dai fedeli come comandamento religioso.
Ecco perché gli Ebrei (e non solo gli ebrei ma anche i musulmani e molti altri popoli delle regioni calde) non mangiano carne di maiale.
La carne di maiale, ricca di grassi ed altamente calorifica, non è consigliabile nei paesi caldi dove l'organismo richiede invece una dieta preferibilmente vegetariana.
È interessante comunque ricordare che, dopo la «diaspora» (la dispersione degli Ebrei nel mondo), queste norme igieniche avrebbero potuto cadere in disuso venendo a mancare le ragioni obiettive e le condizioni ambientali che le avevano determinate.
Ma, essendo ormai entrate a far parte del culto, esse sono state, e sono tuttora rispettate, anche dagli ebrei che vivono da generazioni in regioni fredde, ed a cui la carne di maiale non nuocerebbe certo!
Questa la fondamentale differenza tra pratiche religiose e scienza. Le conoscenze scientifiche vengono abbandonate non appena si dimostrano inadeguate alla realtà e vengono sostituite da altre nozioni più progredite e moderne; le pratiche religiose invece, consacrate dall'uso e «sacre» per la loro millenaria veste divina, tendono a perdurare ed a perpetuarsi anche se affatto inadeguate ai tempi.

PERCHÉ IN INDIA LE VACCHE SONO SACRE?

La mentalità della maggior parte dei popoli primitivi attribuisce agli animali qualità superiori a quelle umane. Ciò è dovuto al fatto che per il primitivo non esiste una netta separazione tra uomo ed animale: ambedue, infatti, sono inseriti nella medesima cornice naturale, hanno in comune la necessità di soddisfare i bisogni fondamentali dell'esistenza, di garantire la sopravvivenza della specie.
Proprio per il fatto che per il primitivo non esistono differenze sostanziali tra l'uomo e gli animali, è comprensibile come attribuisca loro qualità superiori, desunte dalla sicurezza dell'istinto che li fa eccellere nel comportamento per quanto riguarda ora l'agilità, ora la forza, ora la velocità, ora l'astuzia.
Tutto ciò spiega il culto che i primitivi tributavano agli animali, considerandoli addirittura come esseri che portano in sé un che di divino.
All'idea della superiorità e della «divinità» dell'animale, è strettamente legato il «totemismo» in genere, ed in particolare il «nagualismo», forma di totemismo individuale.
Sotto il nome di totemismo, appunto, si è soliti comprendere il complesso di credenze, di usi e di norme sociali, fondato sulla concezione di un particolare rapporto di parentela e di reciproca protezione tra un gruppo umano o un individuo ed una specie animale (o, raramente, piante o fenomeni naturali, quali la pioggia o un corpo celeste). Un uomo o un gruppo sociale (clan, tribù etc.) scelgono un animale che ammirano, temono ed onorano affinché li protegga, ed in cambio non uccidono gli animali di quella specie. Spesso accade che questo rapporto sia spinto fino alla completa identità tra uomo ed animale: la morte dell'uno comporta, di conseguenza, la morte dell'altro.
Il patto di reciproca protezione comporta generalmente l'assunzione, da parte dell'individuo o del gruppo, del nome dell'animale e, in questi casi, il totem funge da emblema.
Oltre a questo aspetto comune a quasi tutti i primitivi, aspetto che si presenta in forma di vero e proprio sistema, corredato di tabù, di doveri e di proibizioni, presso molti popoli civili dell'antichità l'animale è stato spesso il simbolo e l'effigie stessa del dio: ricordiamo il bue-Apis a Menfis, il montone-Ammone a Tebe e così via.
Il culto degli animali, in forme più o meno rudimentali, si ritrova presso quasi tutti i popoli: figure animalesche come simboli divini in Babilonia, il toro come animale sacro in Creta Tipica, infine, presso i Greci, la consuetudine di associare gli animali agli dei (civetta-Atena, serpente-Asclepio, aquila-Zeus etc.).
Si incontrano inoltre particolarità straordinarie, comuni a molti popoli, che, pur considerando un animale «sacro», lo ritengono «impuro»: questa sorte è toccata spesso ai maiali, ai cani ed ai serpenti.
Verso alcuni animali, invece, come ad esempio la vacca, per lo più si è portati ad avere considerazione. In India, infatti, la vacca è tradizionalmente sacra ed intoccabile: nessuno può ucciderla, in nessun caso. Questa consuetudine risale ad epoche antichissime ed è stata rafforzata nel tempo dalla concezione indù della trasmigrazione delle anime: la placidità, la serena tranquillità di questo animale ha forse convalidato la certezza che in esso alberghi un'anima buona, amica ed incline ad esercitare influssi favorevoli e benefici.
Le vacche in India vagano tranquillamente per le strade

PERCHÉ I FACHIRI SI PUNGONO SENZA PROVARE DOLORE?

Il termine fachiro deriva dall'arabo «faqir» che significa «bisognoso della misericordia divina» o semplicemente «povero».
Fin dagli inizi del XVIII secolo gli Europei estesero il termine ai religiosi mendicanti indiani, dediti a particolari pratiche ascetiche (voga), che determinano un vero e proprio stato di catalessi ipnotica, uno stato, cioè, d'insensibilità che consente di subire, senza dimostrare nessun segno di dolore, azioni traumatizzanti come trafitture con chiodi, spilli e lame taglienti. Forse, se avete visto un fachiro, vi sarete stupiti e vi sarete senz'altro chiesti perché mai un uomo debba sottoporsi a simili torture.
Se non consideriamo i classici fenomeni da Circo, mangiatori di spade e simili, i quali utilizzano solo una parte della complessa disciplina «yoga» a scopi spettacolari, il fachiro, o meglio lo «yogi» vero e proprio, compie duri esercizi in virtù delle proprie concezioni religiose.
In questo caso lo yoga non è affatto spettacolo ma una pratica ascetica che si propone di sottrarre l'individuo alla costante influenza degli stimoli fisici e psichici per condurlo ad uno stato di assoluta integrità spirituale e predisporlo così al successivo procedimento ascetico.
Per capire il significato profondo della disciplina yoga occorre rifarsi alle concezioni religiose indiane, di cui abbiamo già parlato. Lo voga è una disciplina comune a varie forme di induismo e al buddismo, ma lo si può far risalire alle tecniche ascetiche dell'India prearia. Per gli indù lo yoga è il mezzo per pervenire alla identificazione dell'anima individuale con l'anima universale, con il Brahman.
Per il buddista lo yoga è il mezzo per facilitare l'approssimarsi dell'individuo al «nirvana». La concezione del nirvana è il culmine della dottrina buddista. La parola significa «estinzione» e Buddha la usò per definire, così come la luce che si spegne per mancanza di combustibile, lo stato in cui l'individuo «si spegne» poiché non lo alimenta più il fuoco delle passioni: come la lampada non può più trasmettere la luce, così la vita dell'uomo, in questa condizione, non è seguita da alcuna reincarnazione.
Il nirvana buddista è dunque lo stato che permette all'uomo di spezzare la catena che lo lega irriducibilmente alle infinite vite terrene. Poiché la coscienza individuale, attuandosi nelle azioni quotidiane (perpetuando il karman) è l'elemento motore che determina il perpetuarsi della reincarnazione (la trasmigrazione dell'anima da un, animale all'altro, da un animale all'uomo, ad una pianta o ad un oggetto, senza fine...), il nirvana è raggiunto quando ogni pensiero, ogni volontà ed ogni sensazione sono aboliti.
Ed ecco perché il buddismo, nello spirito della tradizione indiana, raccomanda la pratica dello yoga per determinare l'annullamento dell'individualità fisica e psichica ed il raggiungimento della completa ed assoluta liberazione.
Lungi dal costituire un atteggiamento passivo, lo yoga buddista è un metodo attivo e controllato e si realizza in quattro stadi successivi: acquisizione del controllo dei sensi, limitazione della immaginazione, soppressione della sensibilità ed infine... il nirvana.
La disciplina yoga ebbe la sua sistemazione classica nel V secolo d.C., formulata da Patanjali nello Yoga-Sutra. Esso prevede un itinerario ascetico che comprende otto stadi fondamentali; i primi due costituiscono solo stadi preliminari, comprendendo cinque proibizioni e cinque prescrizioni di carattere morale e filosofico (ad es.: non uccidere, non mentire, non rubare, e sii sereno, sforzati di vedere Dio come causa).
I due gruppi successivi fissano le regole della posizione del corpo e del ritmo del respiro e fanno parte della fisiologia voga vera e propria: controllando ed infine dominando i movimenti esterni ed interni della struttura corporea, consentono allo «yogi» di emancipare e quindi di padroneggiare la propria sensibilità. Lo scopo raggiunto ha un duplice aspetto, fisico e psichico: lo yogi infatti domina il proprio corpo e può così eludere facilmente gli stimoli esterni, il dolore, la fame, i bisogni più svariati; e domina anche il proprio spirito rendendolo a poco a poco inattaccabile dalle passioni terrene.
Le pratiche fisiologiche yoga predispongono così l'asceta alla concentrazione assoluta, alla meditazione profonda ed infine al «samadhi», meta finale dell'itinerario vogico, stato ascetico di pura contemplazione.
Lo voga ha conosciuto una vastissima diffusione e ha dato luogo a numerose manifestazioni popolari, indipendentemente dal rigido cammino della santità. Le pratiche yoga, soprattutto riguardo alle tecniche fisiologiche relative al controllo della sensibilità corporea, hanno infatti una validità in sé. Ogni posizione che il cultore dello «yoga» assume ha un senso rigidamente determinato ed è tesa a stimolare determinati organi del corpo. Lo stimolo determina quindi vantaggi di ordine sia fisiologico che psicologico. Molti sono i cultori dello yoga in Occidente, anche se per la maggior parte la disciplina è solo un insieme di esercizi ginnici. Ognuno quindi può diventare un fachiro, con l'allenamento: più difficile è diventare un «santone».
Un fachiro

Esercizi yoga

 

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