CULTURA - LETTERATURA - LA NUOVA LETTERATURA

INTRODUZIONE

L'uomo, che rappresenta lo stato di transizione tra la vecchia e la nuova letteratura, è METASTASIO. L'antica letteratura, non essendo ormai più che forma cantabile e musicabile, ha come ultima espressione il dramma in musica, dove non è più fine, ma mezzo: è melodia e serve alla musica. Ma non vi si rassegna, e vuol conservare la sua importanza, rimanere letteratura. Quest'ultima forma della vecchia letteratura è Metastasio.

PIETRO METASTASIO

La sua vita si stende dal 1698 al 1782. Vincenzo Gravina, che l'educò a quel modo che richiamava lo studio delle leggi alle fonti romane illustrandole, e tentando una prima filosofia del diritto, voleva ritirare l'arte alla greca semplicità, purgandola della corruzione scientifica, e scrisse tragedie a modo di Sofocle, e tentò una teoria dell'arte che chiamò Ragion poetica. Il buon uomo vedea il male, ma non le sue cause e non i suoi rimedi. La semplicità è la forma della vera grandezza, di una grandezza inconscia e divenuta natura. Niente era più contrario al secolo manierato e pretenzioso al di fuori, vacuo al di dentro. Per combattere il manierismo, Gravina soppresse il colorito e vi supplì con la copia delle sentenze morali e filosofiche. L'intenzione era buona; parea volesse dire: - Cose e non parole. - Né altra è la tendenza della sua Ragion poetica, dove il vero è rappresentato come sostanza dell'arte, e il vero ignudo, non condito in molli versi. Così, volendo esser semplice, riuscì arido. La teoria non era nuova, anzi era la vecchia teoria di Dante, ringiovanita dal Tasso, ma parve nuova in un tempo che lo sforzo dell'ingegno era tutto intorno alla frase. Metastasio fu educato secondo queste idee. Il severo pedagogo gli proibì la lettura del Tasso e de' poeti posteriori, lo ammaestrò di buon'ora nel greco e nel latino, e lo volse allo studio delle leggi, vagheggiando se stesso redivivo in un Metastasio giureconsulto e letterato. Ma il giovine era poeta nato. E, morto il Gravina, si gettò avidamente sul frutto proibito, e la Gerusalemme liberata, l'Aminta, il Pastor fido, soprattutto l'Adone, furono il suo cibo. Quella prima educazione classica non gli fu inutile, perché lo avvezzò alla naturalezza e alla semplicità, e lo nutrì di buoni esempi e di solida dottrina. Ma, lasciato a sé medesimo, si sviluppò in lui, come in tutti quelli che hanno ingegno, il senso della vita contemporanea. Il maestro volea farne un tragico a uso greco, o piuttosto a uso suo. Ma la tragedia non era la sua vocazione, e l'autore del Giustino preferì Ovidio a Sofocle, e, come era moda, fece la sua comparsa trionfale in Arcadia con sonetti, canzonette, idilli, i cui eroi di obbligo erano Cloe, Nice, Fille, Tirsi Irene e Titiro. Il Sogno della gloria è l'ultimo lavoro a uso Gravina, ammassato di sentenze, che sono luoghi comuni, e pieno di reminiscenze classiche e dantesche. Il Ritorno della primavera, scritto l'anno appresso, 1719, ti mostra già i vestigi dell'Aminta e dell'Adone facilmente impressi in quell'anima ricca di armonie e d'immagini. L'ideale del tempo era l'idillio, il riposo e l'innocenza della vita campestre, in antitesi alla vita sociale, così come l'avevano sviluppato il Tasso, il Guarini e il Marino. L'idillio era un certo equilibrio interiore, uno stato di pace e di soddisfazione, a cui il dolore serviva come di salsa. L'Arcadia, volendo riformare il gusto, avea tolto all'idillio quella tensione intellettuale che si chiamava il seicentismo sì che la forma era rimasta una pura effusione musicale dell'anima beatamente oziosa, cullata da molli cadenze tra l'elegiaco e il voluttuoso: ciò che dicevasi melodia. La musica penetrava già in questa forma così apparecchiata a riceverla: e la canzone diveniva la canzonetta, la cantata e l'arietta, e il dramma pastorale diveniva il dramma in musica. Le canzonette del ROLLI erano in molta voga, ma già si disputava quale ne facesse di migliori, o il Metastasio o il Rolli. Sciupata l'eredità del Gravina, il nostro Metastasio, visto che l'Arcadia non gli dava pane, ricordò i consigli del maestro, e andò a Napoli col proposito di far l'avvocato. Ma Napoli era già il paese della musica e del canto. E le sue arringhe furono cantate ed epitalami. In occasione di nozze prima si scrivevano sonetti e canzoni; allora erano in voga epitalami, cantate e feste teatrali. Il Metastasio fu poeta di nozze, e restano di lui tre epitalami, storie mitologiche e idilliche, dove è visibile l'imitazione del Tasso e del Marino. Canta le nozze di Antonio Pignatelli e Anna de' Sangro, evocando gli amori di Venere e di Marte, ai quali intreccia gli amori degli sposi e naturalmente Anna è Venere, e Antonio è Marte. Vi trovi il monte dell'Amore, che ricorda il giardino di Armida, e tutto il vecchio repertorio mitologico, immagini e concetti. Ecco come descrive Anna:
Ritratto di Pietro Metastasio


Se in giro in liete danze il passo mena,
Se tace o ride, o se favella o canta,
Porta in ogni suo moto Amore accolto,
Pallade in seno e Citerea nel volto.
Vicino al lato suo siedono al paro
Con la dolce consorte il genitore,
Coppia gentil d'illustre sangue e chiaro,
Vivi esempli di senno e di valore:
Alme che prima in ciel si vagheggiaro,
E poi quaggiù le ricongiunse Amore:
E diêr tal frutto, che non vede il Sole
Più nobil pianta e più leggiadra prole.

Sono ottave mediocrissime e poco limate, ma dove già trovi facilità di verso e di rima e molta chiarezza. Un'ottava, dove descrive Anna che canta, rivela nell'evidenza e nel brio del colorito una certa genialità:

La voce pria nel molle petto accolta,
Con maestra ragion spigne o sospende;
Ora in rapide fughe e in groppi avvolta,
Velocissimamente in alto ascende;
Ora in placido corso e più disciolta,
Soavissimamente in giù discende;
I momenti misura annoda e parte ,
E talor sembra fallo, ed è tutt'arte.

Qui lascia le solite generalità, entra nel vivo de' particolari, e vi mostra la forza di chi sa già tutto dire e nel modo più felice. Gli epitalami non sono in fondo che idilli, col solito macchinismo: Amore, Venere, Marte, Diana, Minerva, Vulcano. Né altro sono le prime sue azioni teatrali, rappresentate in Napoli, come la Galatea, l'Endimione, gli Orti esperidi, l'Angelica. Diamo un'occhiata all'Angelica. Di rincontro a' protagonisti, Angelica e Orlando, stanno Licori e Tirsi. C'è il solito antagonismo tra la città e la campagna, la scaltrezza di Angelica e l'ingenuità di Licori: onde nasce un intrighetto che riesce nel più schietto comico. Le furie di Orlando non possono turbare la pace idillica diffusa su tutto il quadro, e lo stesso Orlando finisce idillicamente:

Torna, torna ad amarmi e ti perdono.
Aurette leggiere
Che intorno volate
Tacete, fermate,
Ché torna il mio ben.

Angelica lascia per sempre quegli ameni soggiorni con quest'arietta:

Io dico all'antro: Addio!
Ma quello al pianto mio
Sento che, mormorando,
- Addio! - risponde.
Sospiro, e i miei sospiri
Ne' replicati giri
Zeffiro rende a me
Da quelle fronde.

La canzonetta di Licori, penetrata di una malinconia dolce e molle, è già canto e musica, una pura esalazione melodica, una espressione sentimentale rigirata in se stessa, come un ritornello:

Ombre amene,
Amiche piante,
Il mio bene,
Il caro amante
Chi mi dice ove ne andò?
Zeffiretto lusinghiero,
A lui vola messaggiero:
Di' che torni, e che mi renda
Quella pace che non ho.

Concetti e immagini oramai comunissime, senza più alcun valore letterario, e rimaste interessanti solo come combinazioni melodiche. L'effetto non è nelle idee, ma in quel canto di due amanti a una certa lontananza e nascosti tra le fronde perché, mentre Licori cerca Tirsi, Tirsi cerca Licori con la stessa melodia:

La mia bella
Pastorella
Chi mi dice ove ne andò!

E' notabile che in questa cheta atmosfera idillica penetra una cert'aria di buffo, un certo movimento vivace e allegro, come è la dichiarazione amorosa di Licori a Orlando, ascoltatore non visto Tirsi.
La Bulgarelli, celebre cantante, che negli Orti esperidi rappresentava la parte di Venere, prese interesse al giovane autore e lo addestrò in tutt'i misteri del teatro. Il maestro Porpora gl'insegnò la musica. Questa fu la seconda educazione di Metastasio, corrispondente alla sua vocazione. Roma ne avea fatto un arcade: Napoli ne fece un poeta. La Didone abbandonata, scritta sotto l'ispirazione e la guida della Bulgarelli, fissò l'opinione, e Metastasio prese posto d'un tratto accanto ad Apostolo Zeno, che tenea il primato, poeta cesareo alla corte di Vienna. Più tardi, a proposta dello stesso Zeno, occupò egli quell'ufficio, e menò a Vienna vita pacifica e agiata, universalmente stimato e tenuto senza contrasto principe della poesia melodrammatica. La sua vita fu un idillio; e, se questo è felicità, visse felicissimo sino alla tarda età di ottantaquattro anni. Vivo ancora, fu divinizzato. Lo chiamarono il divino Metastasio.
Se guardiamo al meccanismo, il suo dramma è congegnato a quel modo che avea già mostrato Apostolo Zeno. Ma il meccanismo non è che la semplice ossatura. Metastasio spirò in quello scheletro le grazie e le veneri di una vita lieta e armoniosa. E fu il poeta del melodramma, di cui lo Zeno era stato l'architetto.
La sua idea fissa fu di costruire il melodramma come una tragedia, tale cioè che anche senz'accompagnamento musicale avesse il suo affetto. E la sua ambizione fu di lasciare le basse regioni dell'idillio e del buffo, e tentare i più alti e nobili argomenti del genere tragico, come se la nobiltà fosse nell'argomento. Questo si vede già nella Didone e nel Catone in Utica. Più tardi volle gareggiare coi grandi poeti francesi, e il Cinna di Corneille ebbe il suo riscontro nella Clemenza di Tito, e l'Atalia di Racine nel Gioas. Su questa via porse il fianco alla critica, e sorsero dispute se fino a qual punto i suoi drammi fossero tragedie. Ed ecco in mezzo l'inevitabile Aristotile e le famose quistioni delle unità drammatiche. Metastasio si mescolò nella contesa, e nell'Estratto dell'Arte poetica di Aristotile addusse indirettamente argomenti in suo favore. La critica era ancora così impastoiata nell'esterno meccanismo, che molti seriamente domandarono come potesse esser tragedia un dramma che aveva soli tre atti. A Metastasio pareva quasi una degradazione scendere dall'alto seggio di poeta tragico, ed essere relegato fra' melodrammatici. Pregiudizio instillatogli dal Gravina, che non veda di là dalla tragedia classica. La Merope del Maffei, che allora levava molto rumore, l'offuscava; e nol lasciava dormire la gloria di Corneille e di Racine. Ranieri de' Calsabigi, celebre per la polemica ch'ebbe poi con Alfieri intorno al Filippo, sosteneva che quei drammi fossero proprie e vere tragedie. E nella medaglia, che dopo la sua morte i Martinez fecero incidere in suo onore, si leggeva questo motto: Sophocli italo. Ma il pubblico, che lo idolatrava, si ostinò a chiamare le sue opere teatrali non tragedie, e neppure melodrammi, ma drammi, come quelli che avevano un valore in sé, anche fuori della musica. E il pubblico aveva ragione. Sono una poesia già penetrata e trasformata dalla musica, ma che si fa ancora valere come poesia. Stato di transizione che dà una fisionomia al nostro Sofocle. Più tardi, quei drammi, come letteratura, paiono troppo musicali, e ne nasce la reazione di Alfieri; come musica, paiono troppo letterari, e ne nasce la reazione del melodramma in due atti. Si potrebbe conchiudere che perciò appunto quei drammi sono cosa imperfetta, troppo musicali come poesia e troppo poetici come musica: perciò abbandonati dalla musica e offuscati dalla nuova letteratura. Il che avviene facilmente a chi sta tra due e non ha chiara coscienza di quello che vuol fare.
Pure, è certo che quei drammi ebbero al lor tempo un successo maraviglioso, e che anche oggi, in una società così profondamente mutata, producono il loro effetto. E' noto l'entusiasmo di Rousseau e l'ammirazione di Voltaire per questo poeta. In Italia i critici dopo un breve armeggiare, gli s'inchinarono, tratti dall'onda popolare. Certi luoghi, che fanno sorridere il critico, movono oggi ancora il popolo, gli tirano applausi. Nessun poeta è stato così popolare come il Metastasio, nessuno è penetrato così intimamente nello spirito delle moltitudini. Ci è dunque ne' suoi drammi un valore assoluto superiore alle occasioni, resistente alla stessa critica dissolvente del secolo decimonono.
Gli è che quella sua oscura coscienza, quel distacco tra quello che vuol fare e quello che fa, quella poesia che non è ancora musica e non è più poesia, è un capriccio, pregiudizio o pedanteria individuale, ma la forma stessa del suo genio e del suo tempo. Perciò non è costruzione artificiosa, come la tragedia del Gravina o il poema del Trissino, ma è composizione piena di vita, che nella sua spontaneità produce risultati superiori alle intenzioni del compositore. Ciò ch'egli vi mette con intenzione e con coscienza, non è il pregio, ma il difetto del lavoro. E intorno a questo difetto arzigogolavano lui e i critici.
Se vogliamo gustarlo, facciamo come il popolo. Non domandiamo cosa ha voluto fare, ma cosa ha fatto, e abbandoniamoci alla schiettezza delle nostre impressioni. Anche il critico, se vuol ben giudicare, dee abbandonarsi alla sua spontaneità, come l'artista.

LA «DIDONE»

Prendiamo il primo suo dramma, la Didone. Volea fare una tragedia. Studiò l'argomento in Virgilio, e più in Ovidio. Ma andate a fare una tragedia con quell'uomo e con quella società. Non capiva che a quella società e a lui stesso mancava la stoffa da cui può uscire una tragedia. Fare una tragedia con la Bulgarelli consigliera, con maestro Porpora direttore, con quel Sarro compositore, e col pubblico dell'Angelica e degli Orti esperidi, e in presenza della sua anima elegiaca, idillica, melodica, impressionabile e superficiale, come il suo pubblico! Ne uscì non una tragedia, che sarebbe stata una pedanteria nata morta, ma un capolavoro, tutto caldo della vita che era in lui e intorno a lui, e che anche oggi si legge con avidità da un capo all'altro. La Didone virgiliana è sfumata. Le reminiscenze classiche sono soverchiate da impressioni fresche e contemporanee. Sotto nome di Didone qui vedi l'Armida del Tasso messa in musica. La donna olimpica o paradisiaca cede il posto alla donna terrena, come l'ha abbozzata il Tasso in questa tra le sue creature la più popolare, dalla quale scappan fuori i più vari e concitati moti della passione femminile, le sue smanie e le sue furie. Ma è un'Armida col comento della Bulgarelli, alla cui ispirazione appartengono i movimenti comici penetrati in questa natura appassionata, com'è nella scena della gelosia, applauditissima alla rappresentazione. Una Didone così fatta non ha niente di classico: qui non ci è Virgilio, e non Sofocle: tutto è vivo, tutto è contemporaneo. La passione non ha semplicità e non ha misura, e nella sua violenza rompe ogni freno, perde ogni decoro. Se in Didone fosse eminente il patriottismo, il pudore, la dignità di regina, l'amore de' suoi, la pietà verso gl'iddii, se in lei fosse più accentuata l'eroina, il contrasto sarebbe drammatico, altamente tragico. Ma l'eroina c'è a parole, e la donna è tutto: la passione, unica dominatrice, diviene come una pazzia del cuore, cinica e sfrontata sino al grottesco, e scende dritta la scala della vita sino alle più basse regioni della commedia. Al buon Pindemonte dànno fastidio alcuni tratti comici, e non vede che sotto forme tragiche la situazione è sostanzialmente comica, sicché, se in ultimo Enea si potesse rappattumare con l'amata, sarebbe il dramma, con lievi mutazioni, una vera commedia. E non già una commedia costruita artificialmente, ma colta dal vero, perché è la donna come poteva essere concepita in quel tempo, ispirata dalla Bulgarelli e da quel pubblico nell'anima conforme del poeta, e contro le sue intenzioni e senza sua coscienza. A Metastasio, che voleva fare una tragedia, dire che aveva partorito una commedia in forma tragica, sarebbe stato come dire una bestemmia. Il comico è in quei sì e no della passione, in quei movimenti subitanei, irrefrenabili, che scoppiano improvvisi e contro l'aspettazione, nell'irragionevole, spinto sino all'assurto, negl'intrighi e nelle scaltrezze di bassa lega, più da donnetta che da regina: e tutto così a proposito, così naturale, con tanta vivacità, che il pubblico ride e applaude, come volesse dire: - E' vero. - Fu per il poeta un trionfo. Alcuni motti rimasero proverbiali, come:

Temerario! Che venga!

quando allora allora avea detto:

Mai più non mi vedrà quell'alma rea.

O come:

Passato è il tempo, Enea,
Che Dido a te pensò.

La sua sortita contro Arbace, quasi nello stesso punto che gli avea promessa la sua mano, quel cacciar via da sé Osmida e Selene nella cecità del suo furore, le sue credulità, le sue dissimulazioni, le sue astuzie; tutto ciò è tanto più comico quanto è meno intenzionale, contemperato coi moti più variati di un'anima impressionabile e subitanea: sdegni che son tenerezze, e minacce che son carezze. C'è della Lisetta e della Colombina sotto quel regio manto. E tutto il quadro è conforme. Iarba con le sue vanterie e le sue pose rasenta il bravo della commedia popolare; Selene, ch'è l'Anna, soror mea, rappresenta la parte della patita, con molta insipidezza; e il pio Enea nella sua parte di amoroso attinge il più alto comico, massime quando Didone lo costringe a tenerle la candela. Il nodo stesso dell'azione ha l'aria di un intrigo di bassa commedia, co' suoi equivoci e i suoi incontri fortuiti.
La Didone fece il giro de' teatri italiani. E dappertutto piacque. Metastasio indovinava il suo pubblico, e trovava se stesso. Quel suo dramma, a superficie tragica, a fondo comico, coglieva la vita italiana nel più intimo: quel suo contrasto tra il grandioso del di fuori e la vacuità del di dentro. Il tragico non era elevazione dell'anima, ma una semplice fonte del maraviglioso, così piacevole alla plebe, come incendii, duelli, suicidii. Il comico riconduceva quelle magnifiche apparenze di una vita fantastica nella prosaica e volgare realtà, piccoli intrighi, amori pettegoli, stizze, braverie. Concordare elementi così disparati, fondere insieme fantastico e reale, tragico e comico, sembra poco meno che impossibile: pure, qui è fatto con una facilità piena di brio e senz'alcuna coscienza, com'è la vita nella sua spontaneità. L'illusione è perfetta. Una vita così fatta pare un'assurdità: pure è là, fresca, giovane, vivace, armonica, e t'investe e ti trascina. Il povero Metastasio, inconscio del grande miracolo, si difendeva con Aristotile e con Orazio: alle vecchie critiche si aggiunsero le nuove. Oggi la ragione e l'estetica condannano quella vita, come convenzionale e incoerente. Ma essa è là, nella sua giovinezza immortale, e le basta rispondere: - Io vivo. - E se l'estetica non l'intende, tanto peggio per l'estetica.
Metastasio aveva tutte le qualità per produrre quella vita. Brav'uomo, buon cristiano, nel suo mondo interiore ci erano tutte le virtù, ma in quel modo tradizionale e abituale ch'era possibile allora, senza fede, senza energia, senza elevatezza d'animo, perciò senza musica e senza poesia. Così erano Vico e Muratori, buonissima gente, ma senza quella fiamma interiore, dove si scalda il genio del filosofo e del poeta. Erano personaggi idillici, veneranda immagine di una società tranquilla e prosaica. Vico agitava i più grandi problemi sociali con la calma di un erudito. E si comprende come la poesia si cercasse in quel tempo fuori della società, nell'età dell'oro e nella vita pastorale. Ma nessuno può fuggire alla vita che lo circonda. Patria, religione, onore, amore, libertà operavano in quella vita posticcia, come in quella pacifica società, con perfetto riposo ed equilibrio dell'anima. Metastasio, che cercava la tragedia con la testa, era per il carattere un arcade, tutto Nice e Tirsi, tutto sospiri e tenerezze. Da questa natura idillica poteva uscire l'elegia, non la tragedia. Aveva, come il Tasso, grande sensibilità, molta facilità di lacrime, ma superficiale sensibilità, che poteva increspare, non turbare il suo mondo sereno. Non si può dire che la sua sensibilità fosse malinconia, la quale richiede una certa durata e consistenza: era emozione nata da subitanei moti interni e che passava con quella stessa facilità che veniva. Questo difetto di analisi e di profondità nel sentimento manteneva al suo mondo il carattere idillico, non lo trasformava, ma lo accentuava e lo coloriva nel suo movimento; perché l'idillio senza elegia è insipido. Una immaginazione non penetrata dalla serietà di un mondo interiore, appena ventilata dal pensiero, scorre leggiera su questo mondo idillico, e vi annoda e snoda una folla di accidenti, che gli dànno varietà e vivacità. Sembrano sogni che svaniscono appena formati, ma con tale chiarezza plastica ne' sentimenti e nelle immagini, che vi prendi la più viva partecipazione. Il poeta vi s'intenerisce, vi si trastulla, vi si dimentica:

Sogni e favole io fingo; e pure in carte
Mentre favole e sogni orno e disegno,
In lor, folle ch'io son, prendo tal parte,
Che del mal, che inventai, piango e mi sdegno.

Di sogni e favole ce n'era tutto un arsenale nelle nostre infinite commedie e novelle, dove attingevano anche i forestieri, e dove attinge Metastasio. Ciò a cui mira è sorprendere, fare un colpo di scena, guidato dalla sua grand'esperienza del teatro e del pubblico. Ingegno svegliato e rapido, non perde mai di vista lo scopo, non s'indugia per via, divora lo spazio, sopprime, aggruppa, combina, producendo effetti subitanei e perciò irresistibili. Combinazioni drammatiche, che, appunto perché mirano a uno scopo meramente teatrale mancano di serietà interiore, e spesso hanno aria d'intrighi comici, con quei viluppi, con quegli equivoci, con quei parallelismi. Né solo il comico è nella logica stessa di quelle combinazioni, ma nella natura de' fatti, che spesso sono episodi della vita comune nella sua forma più pettegola e civettuola. Così un eroico puramente idillico andava a finire ne' bassi fondi della commedia. Cesare sonava il violino e faceva all'amore. Tale era Metastasio, e tale era il suo tempo, idillico, elegiaco e comico: vita volgare in abito eroico, vellicata dalle emozioni dell'elegia e idealizzata nell'idillio.

CARATTERISTICHE DEL DRAMMA METASTASIANO

Si può ora comprendere il meccanismo del dramma metastasiano. Sta in cima l'eroe o l'eroina, Zenobia o Issipile, Temistocle o Tito. L'eroe ha tutte le perfezioni che la poesia ha collocate nell'età dell'oro, e sveglia l'eroismo intorno a sé, rende eroici anche i personaggi secondari. Più l'età è prosaica, più esagerato è l'eroismo, abbandonato a una immaginazione libera, che ingrandisce le proporzioni ad arbitrio, con non altro scopo che di eccitare la maraviglia. Il maraviglioso è in questo: che l'eroe è un'antitesi accentuata e rumorosa alla vita comune, offrendo in olocausto alla virtù tutt'i sentimenti umani, come Abramo pronto a uccidere il figlio. Così Enea abbandona Didone per seguire la gloria, Temistocle e Regolo vanno incontro a morte per amor della patria, Catone si uccide per la libertà, Megacle offre la vita per l'amico, e Argene per l'amato. Questa forza di soffogare i sentimenti umani e naturali, che regolano la vita comune, era detta generosità o magnanimità, forza o grandezza di animo, com'è il perdono delle offese, il sacrificio dell'amore o della vita. Situazione tragica, se mai ce ne fu, anzi il fondamento della tragedia. Ma qui rimane per lo più elegiaca, feconda di emozioni superficiali, momentanee e variate, che in ultimo sgombrano a un tratto e lasciano il cielo sereno. La generosità degli uni provoca la generosità degli altri; l'eroismo opera come corrente elettrica, guadagna tutt'i personaggi; e tutto si accomoda come nel migliore de' mondi, tutti eroi e tutti contenti. Di questa superficialità, che resta ne' confini dell'idillio e dell'elegia e di rado si alza alla commozione tragica, la ragione è questa: che la virtù vi è rappresentata non come il sentimento di un dovere preciso e obbligatorio per tutti, corrispondente alla vita pratica, ma come un fatto maraviglioso, che per la sua straordinarietà tolga il pubblico alla contemplazione della vita comune. Perciò è una virtù da teatro, un eroismo da scena. Più le combinazioni sono straordinarie, più le proporzioni sono ingrandite, e più cresce l'effetto. I personaggi posano, si mettono in vista, sentenziano, si atteggiano, come volessero dire: - Attenti! ora viene il miracolo. - Temistocle dice:

Sentimi, o Serse;
Lisimaco, m'ascolta: udite, o voi,
Popoli spettatori,
Di Temistocle i sensi; e ognun ne sie
Testimonio e custode.

In questo meccanismo trovi sempre la collisione, il contrasto tra l'eroismo e la natura. L'eroismo ha la sua sublimità nello splendore delle sentenze. La natura ha il suo patetico nelle tenere effusioni de' sentimenti. Ne nasce un urto vivace di sentimenti e di sentenze, con alterna vittoria e con crescente sospensione, come nel soliloquio di Tito; insino a che natura ed eroismo fanno la loro riconciliazione in un modo così inaspettato e straordinario, com'è tutto l'intrigo. Tito fa condurre Sesto all'arena, deliberato già di perdonargli: non basta la virtù, vuole lo spettacolo e la sorpresa. Questa, che a noi pare una moralità da scena, era a quel tempo una moralità convenuta, ammessa in teoria, ammirata, applaudita, a quel modo che le romane battevano le mani ai gladiatori che morivano per i loro begli occhi. Si direbbe che Tito facesse il possibile per meritarsi gli applausi del pubblico. Appunto perciò questo eroismo non aveva una vera serietà di motivi interni e non veniva dalla coscienza, quel mondo atteggiato all'eroica aveva del comico, ed era possibile che vi penetrasse senza stonatura la società contemporanea nelle sue parti anche buffe e volgari. Prendiamo l'Adriano. Vincitore de' Parti, proclamato imperatore, Adriano si trova in una delle situazioni più strazianti, promesso sposo di Sabina, amante di Emirena figlia del suo nemico, e rivale di Farnaspe, l'amato di Emirena. Situazione molto avviluppata e che diviene intricatissima per opera di un quarto personaggio, Aquilio, confidente di Adriano, amante secreto di Sabina, e che perciò fomenta la passione del suo padrone. Emirena, per salvare il padre, offre la mano ad Adriano. La generosità di Emirena eccita la generosità di Sabina, che scioglie Adriano dalla data fede. La generosità di Sabina eccita la generosità di Adriano, che libera il padre di Emirena, rende costei al suo amato, e sposa Sabina. E tutti felici, il coro intuona le lodi di Adriano. Ma guardiamo in fondo a questi personaggi eroici. Adriano è una buona natura d'uomo, tutt'altro che eroica, voltato in qua e in là dalle impressioni, mobile, superficiale, credulo, insomma un buon uomo che rasenta l'imbecille. Non è lui che opera: egli è il paziente, anzi che l'agente del melodramma, e, come colui che dà ragione a chi ultimo parla, dà sempre ragione all'ultima impressione. Si trova eroe per occasione, un eroe così equivoco, che impedisce ad Emirena di baciargli la mano, tremando di nuova impressione. Maggiori pretensioni all'eroismo ha Osroa, il re de' Parti, reminiscenza di Iarba. Un patriota, che appicca l'incendio alla reggia, che uccide un creduto Adriano, che è condannato a morte, che supplica la figlia di ucciderlo, sarebbe un carattere interessantissimo, se nel pubblico e nel poeta ci fosse il senso del patriottismo. Ma Osroa ha più dell'avventuriere che dell'eroe, e di un avventuriere sciocco e avventato, che non sa proporzionare i mezzi allo scopo, e nelle situazioni più appassionate della vita discute, sentenzia. A Emirena, la sua figlia, che ricusa di ucciderlo, risponde:

Non è ver che sia la morte
Il peggior di tutt'i mali:
E' un sollievo de' mortali
Che son stanchi di soffrir

Aquilio è una caricatura di Jago, un basso e sciocco intrigante da commedia. Sabina, Emirena, Farnaspe sono nature superficialissime, incalzate dagli avvenimenti, senza intima energia negli affetti, e tratte ad atti generosi per impeti subitanei. Se dunque ci approfondiamo in questo mondo eroico, vediamo con quanta facilità si sdrucciola nel comico e come, sotto un contrasto apparente, in verità questa vita eroica è in se stessa di quella mezzanità, che può accogliere nel suo seno il volgare e il buffo della società contemporanea. Di tal natura è la scena in cui Emirena finge di non riconoscere il suo innamorato, che rimane lì stupido e col naso allungato; o l'altra in cui Aquilio insegna ad Emirena l'arte della cortigiana, ed Emirena, botta e risposta, gli fa il ritratto del cortigiano; o quando Adriano si fa menare pel naso da Osroa; o l'arrivo improvviso di Sabina da Roma, e l'imbarazzo di Adriano; o quando Adriano giura di non vedere più Emirena, e gli si annunzia: - Viene Emirena. - Tutto questo, che in fondo è comico, non è sviluppato comicamente, Né c'è l'intenzione comica; perciò non c'è stonatura: è la società contemporanea nel suo spirito, nella sua volgarità e mezzanità, vestita di apparenze eroiche. Se Metastasio avesse il senso dell'eroico e lo rappresentasse seriamente e profondamente, la mescolanza sarebbe insopportabile, anzi mescolanza non ci sarebbe; ma concepisce l'eroico come era concepito e sentito in quella volgarità contemporanea. Il poeta è in perfetta buona fede: non sente ciò che di basso e di triviale è sotto quell'apparato eroico, uno di spirito e di carattere col suo pubblico. Ben ne ha una coscienza confusa, e non è proprio contento, e tenta talora alcunché di più elevato, come nel Regolo e nel Gioas, senza riuscirvi: si scopre l'antico Adamo. E fu ventura perché così non ci diè costruzioni artificiose e imitazioni aliene dalla sua natura, ma riuscì artista originale e geniale, l'artista indimenticabile di quella società.
Questa vita, così assurda nella sua profondità, ha tutta l'illusione del vero nella sua superficie. Approfondire i sentimenti, sviluppare i caratteri, graduare le situazioni sarebbe una falsificazione. La superficialità è la sua condizione di esistenza. E' una vita, di cui vedi le punte e ignori tutto il processo di formazione: una specie di vita a vapore, che nella rapida corsa divora spazi infiniti e non ti mostra che i punti di arrivo. Sbucciamo sentimenti e situazioni così di un tratto, e spesso ti trovi di un balzo da un estremo all'altro. Sei in un continuo flutto d'impressioni variatissime, di poca durata e consistenza, libate appena con sentimenti vivacissimi, penetranti gli uni negli altri, come onde tempestose. Scusano questa superficialità con la musica, quasi che la musica potesse o compiere o sviluppare o approfondire i sentimenti; ma la musica metastasiana non era se non il prolungamento o l'eco del sentimento, il semplice trillo della poesia il suo accompagnamento, perché quella poesia è già in sé musica e canto. Una vita così superficiale non può essere che esteriore. E' vita per lo più descritta, come già si vede nel Guarini e nel Marino. I personaggi nella maggior violenza de' loro sentimenti si descrivono: si analizzano, com'è proprio di una società adulta, in cui la riflessione e la critica ti segue nel momento stesso dell'azione. Ti trovi nel più acuto della concitazione, e quando alla fine ti aspetti quasi un delirio, ti sopraggiunge un'analisi, una sentenza, un paragone, una descrizione psicologica. Licida snuda il brando, vuole uccidere il suo offensore, poi lo volge in sé, e si arresta, e fa la sua analisi:

Rabbia, vendetta,
Tenerezza, amicizia,
Pentimento, pietà, vergogna, amore
Mi trafiggono a gara. Ah chi mai vide
Anima lacerata
Da tanti affetti e sì contrari! Io stesso
Non so come si possa
Minacciando tremare, arder gelando,
Piangere in mezzo all'ire,
Bramar la morte e non saper morire.

Il drammatico va a riuscire in un sonetto petrarchesco. Aristea così si descrive a Megacle:

Caro, son tua così,
Che per virtù d'amor
I moti del tuo cor
Risento anch'io.
Mi dolgo al tuo dolor
Gioisco al tuo gioir,
Ed ogni tuo desir
Diventa il mio.

E Megacle, seguendo l'amico Licida nella sua sventura, esce in questo bel paragone:

Come dell'oro il fuoco
Scopre le masse impure,
Scoprono le sventure
De' falsi amici il cor.

Questi riposi musicali sono come l'arpa di David, che calmava le furie di Saul: rinfrescano l'anima e la tengono in equilibrio fra passioni così concitate. E sono sopportabili, appunto perché mescolati co' moti più vivaci, con la più impetuosa spontaneità del sentimento, offrendoti lo spettacolo della vita nelle sue più varie apparenze. Argene, che sfida la morte per salvare l'amato e si sente alzare su di sé, come invasata da un iddio, è sublime:

Fiamma ignota nell'alma mi scende;
Sento il nume; m'inspira, m'accende,
Di me stessa mi rende maggior.
Ferri, bende, bipenni, ritorte,
Pallid'ombre, compagne di morte,
Già vi guardo, ma senza terror.

Commovente è la gioia quasi delirante di Aristea nel rivedere l'amato. Di un elegiaco ineffabile è il canto di Timante, quando la madre gli presenta il suo bambino:

Misero pargoletto,
il tuo destin non sai
Qual era il genitor.
Ah! non gli dite mai
Come in un punto, o Dio,
Tutto cambiò d'aspetto!
Voi foste il mio diletto,
Voi siete il mio terror.

Alcuni motti tenerissimi sono rimasti proverbiali, come:

Ne' giorni tuoi felici
Ricordati di me.

Questa vita, nei suoi moti alterni di spontaneità e di riflessione così equilibrata, essendo superficiale ed esteriore, ha per suo carattere la chiarezza, è visibile e plastica. Le gradazioni più fine, i concetti più difficili sono resi con una estrema precisione di contorni, e perciò non hanno riverbero: appagano e saziano lo sguardo, lo tengono sulla superficie; non lo gittano nel profondo. Questa chiarezza metastasiana, tanto vantata e così popolare, perché il popolo è tutto superficie, è la forma nell'ultimo stadio della sua vita, quando a forza di precisione diviene massiccia e densa come il marmo. La vecchia letteratura vi raggiunge l'ultima perfezione, l'espressione perde ogni trasparenza, e non è che se stessa e sola, e vi si appaga come un infinito. Stato di petrificazione, che oggi dicesi letteratura popolare, come se la letteratura debba scendere al popolo e non il popolo debba salire a lei. Metastasio vi spiega un talento miracoloso. Quella vecchia forma, prima di morire, manda gli ultimi splendori. La chiarezza non è in lui superficie morta, ma è la vita nella sua superficie, paga e contenta della sua esteriorità, con una facilità e una rapidità, con un giuoco pieno di grazia e di brio. Il periodo perde i suoi giri, la parola perde le sue sinuosità, liscia, scorrevole, misurata come una danza, accentuata come un canto, melodiosa come una musica. Le impressioni che te ne vengono, sono vivaci, ma labili; e ti lasciano contento, ma vuoto, come dopo una festa brillante che ti ha divertito e a cui non pensi più.
Il mondo metastasiano può parere assurdo innanzi alla filosofia, come innanzi alla filosofia pareva assurda la società ch'esso rappresentava. Come arte, niente è più vero per coerenza, per armonia, per interna vivacità. E' il ritratto più fiorito di una società vicina a sciogliersi, le cui istruzioni erano ancora eroiche e feudali, materia vuota dello spirito che un tempo l'animò, e che sotto quelle apparenze eroiche era assonnata, spensierata, infemminita, idillica, elegiaca e plebea. Guardatela. Essa è tutta profumata, incipriata, col suo codino, col suo spadino, cascante, vezzosa, sensitiva come una donna, tutta idolo mia, mio bene e vita mia. La poesia di Metastasio l'accompagna con la sua declamazione, con la sua cantilena; la parola non ha più niente a dirle; essa è il luogo comune, che acquista valore trasformata in trillo, con le sue fughe e le sue volate, coi suoi bassi e i suoi acuti; non è più un'idea, è un suono raddolcito dagli accenti, dondolato dalle rime, attenuato in quei versetti, ridotto un sospiro. Una poesia, che cerca i suoi mezzi fuori di sé, che cerca i motivi e i suoi pensieri nella musica, abdica già, pronunzia la sua morte. Ben presto Metastasio sembra troppo poeta al maestro di musica, né il pubblico sa più che farsi della parola, e non domanda cosa dice, ma come suona. La parola, dopo di avere tanto abusato di sé, non val più nulla, e la stessa parola metastasiana, così leggiera, così rapida, non può essere sopportata. La parola è la nota, e i nuovi poeti si chiamano Pergolese, Cimarosa, Paisiello. Così terminava il periodo musicale della vecchia letteratura iniziato nel Tasso, sviluppato nel Guarini e nel Marino, giunto alla sua crisi in Pietro Metastasio. Oramai si viene a questo: che prima si fa la musica, e poi Giuseppe II dice al suo nuovo poeta cesareo, all'abate CASTI: - Ora fatemi le parole.
In seno a questa società in dissoluzione si formava laboriosamente la nuova società. E che ce ne fosse la forza, si vedeva da questo: che non teneva più gran conto della forma letteraria, stata suo idolo, e che cercava nuove impressioni nel canto e nella musica. Il letterato che aveva rappresentata una parte così importante, cade in discredito. I nuovi astri sono Farinello e Caffarello, Piccinni, Leo, Iommelli. La musica ha un'azione benefica sulla forma letteraria, costringendola ad abbreviare i suoi periodi, a sopprimere il suo cerimoniale e la sua solennità, i suoi aggettivi, i suoi ripieni, le sue perifrasi, i suoi sinonimi, i suoi parallelismi, le sue trasposizioni, tutte le sue dotte inutilità, e a prendere un'aria più spedita e andante. Gli orecchi, avvezzi alla rapidità musicale, non possono più sopportare i periodi accademici e le tirate rettoriche. E se Metastasio è chiamato divino, è per la musicalità della sua poesia, per la chiarezza, il brio e la rapidità dell'espressione. Il pubblico abbandonando la letteratura, la letteratura è costretta a seguire il pubblico. E il pubblico non è più l'accademia, ancorché di accademie fosse ancora grande il numero, prima l'Arcadia. E non è più la corte, ancorché i principi avessero ancora intorno istrioni e giullari sotto nome di poeti. La coltura si è distesa. I godimenti dello spirito sono più variati: i periodi e le frasi non bastano più. Compariscono sulla scena filosofi e filantropi, giureconsulti, avvocati e scienziati, musici e cantanti. La parola acquista valore nell'ugola e nella nota, ed è più interessante nelle pagine di Beccaria o di GALIANI che ne' libri letterati. Oramai non si dice più letterato, si dice bell'ingegno o bello spirito. Il letterato viene sinonimo di parolaio e la parola come parola è merce scadente. La parola non può ricuperare la sua importanza se non rifacendosi il sangue, ricostituendo in sé l'idea, la serietà di un contenuto. E questo volea dire il motto che era già in tutte le labbra: Cose e non parole.

LA CRITICA E LA RIFORMA LETTERARIA

Già nella critica vedi i segni di questa grande rigenerazione. Rimasta fino allora nel vuoto meccanismo e tra regole convenzionali, la critica si mette in istato di ribellione, spezza audacemente i suoi idoli. Mentre ferveva la lotta giurisdizionale tra papa e principi, e i filosofi combattevano il passato nelle sue idee e nelle sue istituzioni, essa apre il fuoco contro la vecchia letteratura battezzandola senz'altro pedanteria. L'obiettivo de' filosofi e de' critici era comune. Combattevano entrambi la forma vacua, gli uni nelle istituzioni, gli altri nell'espressione letteraria, ancorché senza intesa.
E come i filosofi, così i critici erano avvalorati e riscaldati nella loro lotta dagli esempi francesi e inglesi. Il BARETTI veniva da Londra tutto Shakespeare: l'ALGAROTTI, il Bettinelli, il Cesarotti, il Beccaria, il VERRI erano in comunione intima con Voltaire e con gli enciclopedisti. Locke, Condillac, Dumarsais avevano allargate le idee e introdotto il gusto delle grammatiche ragionate e delle rettoriche filosofiche. Si vede la loro influenza nella Filosofia delle lingue del CESAROTTI e nello Stile del Beccaria. Cosa dovea parere il CRESCIMBENI o il MAZZUCCHELLI o il QUADRIO, cosa lo stesso TIRABOSCHI, il Muratori della nostra letteratura, dirimpetto a questi uomini, che pretendevano ridurre a scienza ciò che fino allora era sembrato non altro che uso e regola? E non si contentarono i critici de' trattati e de' ragionamenti, ma vollero accostarsi un po' più al pubblico, usando forme spigliate e correnti, che preludevano ai nostri giornali. Tali erano le Lettere virgiliane del BETTINELLI, la Difesa, del Gozzi la Frusta letteraria, il Caffè, l'Osservatore. Così la nuova critica dava a un tempo l'esempio di una nuova letteratura, gittando in circolazione molte idee nuove in una forma rapida, nutrita, spiritosa, vicina alla conversazione, in una forma che prendea dalla logica il suo organismo e dal popolo il suo tuono. Certo, questi critici non si accordavano fra loro, anzi si combattevano, come facevano anche i filosofi; ma erano tutti animati dalla stessa tendenza, uno era lo spirito. E lo spirito era l'emancipazione dalle regole o dell'autorità, la reazione contro il grammaticale, il rettorico, l'arcadico e l'accademico, e, come in tutte le altre cose, così anche qui non ammette altro giudice che la logica e la natura. Secondo il solito, la critica passò il segno e, nella sua foga contro le superstizioni letterari, toccò anche il sacro Dante: onde venne la bella Difesa che ne scrisse Gaspare Gozzi. Ma la critica veniva dalla testa e non aveva radice nell'educazione letteraria, che era stata anzi tutto l'opposto. Il che spiega come i critici, giudici ingegnosi de' vivi e de' morti, volendo essere scrittori, facevano mala prova, dando un po' di ragione ai retori e a' grammatici, i quali, chiamati da loro pedanti, chiamavano loro barbari. Posti tra il vecchio, che censurano, ed un nuovo modo di scrivere, chiaro nella loro testa, ma affatto personale, estraneo allo spirito nazionale e non preparato, anzi contraddetto nella loro istruzione, si gittarono alla maniera francese, sconvolsero frasi, costrutti, vocaboli, e, come fu detto poi, imbarbarirono la lingua. GASPARE GOZZI tenne una via mezzana, e, facendo buona accoglienza in gran parte alle nuove idee, non accettò sotto il nome di libertà la licenza, e si studiò di tenersi in bilico tra quella pedanteria e quella barbarie, usando un modo di scrivere corretto, puro, classico, e insieme disinvolto. Ma il buon Gozzi, misurato, elegante, savio, rimase solo, come avviene a' troppo savi nel fervore della lotta quando la via di mezzo non è ancora possibile, standosi di fronte avversari appassionati, confidenti nella loro forza e disposti a nessuna concessione. Stavano nell'un campo i puristi, che, non potendo invocare l'uso toscano, intorbidato anch'esso dall'imitazione straniera, invocavano la Crusca e i classici, e, come non era potuta più tollerare la prolissità vacua del Cinquecento, rimettevano in moda il Trecento, quale esempio di scrivere semplice, conciso e succoso; onde venne quel motto felice: Il Trecento diceva, il Cinquecento chiacchierava. Costoro erano, il maggior numero, cruscati, arcadi, accademici, più letterati: tutti brava gente, che avevano in sospetto ogni novità e non volevano essere turbati nelle loro abitudini. Nell'altro campo erano i filosofi, che non riconoscevano autorità di sorta e tanto meno quello della Crusca; che invocavano la loro ragione e vagheggiavano una nuova Italia così in letteratura come nelle istituzioni e in tutti gli ordini sociali. I critici rappresentavano la parte della filosofia nelle lettere, senza occuparsi di politica; anzi spesso la loro insolenza letteraria era mantello alla loro servilità politica, come fu del gesuita Bettinelli e del Cesarotti. In prima fila tra' contendenti erano l'abate Cesare e l'abate Cesarotti. Il CESARI, nella sua superstizione verso i classici, cancellò in sé ogni vestigio dell'uomo moderno. Il Cesarotti, di molto più spirito e coltura, nella sua irreligione verso gli antichi andò così oltre, che volle fare il pedagogo a Omero e Demostene, e andò in cerca di una nuova mitologia nelle selve calidonie. Quando comparve l'Ossian, girò la testa a tutti: tanto eran sazi di classicismo. Il bardo scozzese fu per qualche tempo in moda, e Omero stesso si vide minacciato nel suo tronco. Si sentiva che il vecchio contenuto se ne andava insieme con la vecchia società, e in quel vuoto ogni novità era la benvenuta. Quei versi armoniosi e liquidi, in tanto cozzo di spade scintillanti tra le nebbie, fecero dimenticare i Frugoni, gli Algarotti e i Bettinelli. Cominciava una reazione contro l'idillio, espressione di una società sonnolenta e annoiata in grembo a Galatea e a Clori, e piacevano quei figli della spada, quelle nebbie e quelle selve, e quei signori de' brandi e quelle vergini della neve. Gli arcadi si scandalizzavano; ma il pubblico applaudiva. Per vincere Cesarotti, non bastava gridargli la croce: bisognava fare e piacere al pubblico. Ora l'attività intellettuale era tutta dal canto de' novatori: chi aveva un po' d'ingegno, si gittava al moderno, come si diceva, nelle dottrine e nel modo di scrivere; e si acquistava nome di bello spirito dispregiando i classici, come di spirito forte dispregiando le credenze. La vecchia letteratura, come la vecchia credenza, era detta pregiudizio, e combattere il pregiudizio era la divisa del secolo illuminato, del secolo della filosofia e della coltura. Chi ricorda l'entusiasmo letterario del Rinascimento, può avere un giusto concetto di questo entusiasmo filosofico del secolo decimottavo. I fenomeni erano i medesimi. Allora si chiamava barbarie il medio evo; ora si chiama barbarie medio evo e Rinascimento. Lo stesso impeto negativo e polemico è ne' due movimenti, foriero di guerre e di rivoluzioni. E ci erano le stesse idee, maturate e sviluppate oltr'alpe, strozzate presso di noi e rivenuteci dal di fuori. Anzi il movimento non è che uno solo, prolungatosi per due secoli con diverse vicissitudini nelle varie nazioni, procedente sempre attraverso alle più sanguinose resistenze, e ora accentrato e condensato sotto il nome di filosofia, fatto della letteratura suo istrumento. Questo volea dire il motto: Cose e non parole. Volea dire che la letteratura, stata trastullo d'immaginazione senza alcuna serietà di contenuto e divenuta perfino un semplice giuoco di frasi, dovea acquistare un contenuto, essere l'espressione diretta e naturale del pensiero e del sentimento, della mente e del cuore: onde nacque più tardi il barbaro vocabolo cormentalismo. Messa la sostanza nel contenuto quell'ideale della forma perfetta, gloria del Rinascimento e rimasto visibile nelle stesse opere della decadenza, come nel Pastor fido, nell'Adone, nel dramma di Mestastasio, cesse il posto alla forma naturale, non convenzionale, non manifatturata, non tradizionale, non classica, ma nata col pensiero e sua espressione immediata. Perciò il Cesarotti, rispondendo al libro del conte Napione Sull'uso e su' pregi della lingua italiana, sostenea nel suo Saggio sulla filosofia delle lingue che la lingua non è un fatto arbitrario e regolato unicamente dall'uso e dall'autorità, ma che ha in sé la sua ragion d'essere; che la sua ragion d'essere è nel pensiero, e quella parola è migliore che meglio renda il pensiero, ancorché non sia toscana e non classica, e sia del dialetto o addirittura forestiera con inflessione italiana. Cosa era quel Saggio? Era l'emancipazione della lingua dall'autorità e dall'uso in nome della filosofia o della ragione, come si volea in tutte le istituzioni sociali; era la ragione, il senso logico, che penetrava nella grammatica e nel vocabolario; era lo spirito moderno che violava quelle forme consacrate e fossili, logore per lungo uso, e dava loro un'aria cosmopolitica, l'aria filosofica, a scapito del colore locale e nazionale. Aggiungendo l'esempio al precetto, il Cesarotti pigliò tutte le parole che gli venivano innanzi, senza domandar loro onde venivano; e, come, era uomo d'ingegno e avea mente chiara e spirito vivace, formò di tutti gli elementi stranieri e indigeni della conversazione italiana una lingua animata, armonica, vicina al linguaggio parlato, intelligibile dall'un capo all'altro d'Italia. Gli scrittori, intenti più alle cose che alle parole e stufi di quella forma, in gran parte latina, che si chiamava letteraria, screditata per la sua vacuità e insipidezza, si attennero senza più all'italiano corrente e locale, così com'era, mescolato di dialetto e avvivato da vocaboli e frasi e costruzioni francesi: lingua corrispondente allo stato della coltura. Così si scriveva nelle parti settentrionali e meridionali d'Italia, a Venezia, a Padova, a Milano, a Torino, a Napoli: così scrivevano Baretti, Beccaria, Verri, GIOIA, Galiani, GALANTI, Filangieri, Delfico, MARIO PAGANO. Resistenza ci era, massime a Firenze, patria della Crusca, e a Roma, patria dell'Arcadia: schiamazzi di letterati e di accademici abbandonati dal pubblico. Lo stesso era per lo stile. Si cercavano le qualità opposte a quelle, che costituivano la forma letteraria. Si voleva rapidità, naturalezza e brio. Tutto ciò che era finimento, ornamento, riempitura, eleganza fu tagliato via come un ingombro. Non si mirò più ad una perfezione ideale della forma, ma all'effetto, a produrre impressioni sul lettore, tenendo deste e in moto le sue facoltà intellettive. I secreti dello stile furono chiesti alla psicologia, a uno studio de' sentimenti e delle impressioni, base del Trattato dello stile del Beccaria. Al vuoto meccanismo, dottamente artificioso, solletico dell'orecchio, detto stile classico, e ridotto oramai un frasario pesante e noioso, succedeva un modo di scrivere alla buona e al naturale, vispo, rotto, ineguale, pieno di movimenti, imitazione del linguaggio parlato. Tipo dell'uno era il trattato; tipo dell'altro era la gazzetta. Il principio, da cui derivava quella rivoluzione letteraria, era l'imitazione della natura, o, come si direbbe, il realismo nella sua verità e nella sua semplicità, reazione alla declamazione e alla rettorica, a quella maniera convenzionale, che si decorava col nome d'ideale e di forma perfetta. La vecchia letteratura era assalita non solo nella sua lingua e nel suo stile, ma ancora nel suo contenuto. L'eroico, l'idillico, l'elegiaco, che ancora animava quelle liriche, quelle prediche, quelle orazioni, quelle tragedie, non attecchiva più, se n'era sazi sino al disgusto. L'eroico era esagerazione, l'idillio era noia, l'elegia era insipidezza; pastori e pastorelle, eroi romani e greci, erano giudicati un mondo convenzionale, già consumato come letteratura, buono al più a esser messo in musica, come facea Metastasio. Si volea rinnovare l'aria, rinfrescare le impressioni: si cercava un nuovo contenuto, un'altra società, un altro uomo, altri costumi. Vennero in moda i turchi, i cinesi, i persiani. Si divoravano le Lettere persiane di Montesquieu. L'Ossian era preferito all'Iliade. Comparve l'uomo naturale, l'uomo selvaggio, l'uomo di Hobbes e di Grozio, l'uomo che fa da sé, Robinson Crosuè. Il cavaliere errante divenne il borghese avventuriere, tipo Gil Blas. E ci fu anche la donna errante, la filosofessa, la lionne di oggi, che stimava pregiudizio ogni costume e decoro femminile. Ci fu l'uomo collocato in società, in lotta con essa in nome delle leggi naturali, e spesso sua vittima; come donne maritate o monacate a forza o sedotte, figli naturali calpestati da' legittimi, poveri oppressi da' ricchi, scienza soverchiata da ciarlatani, le Clarisse, le Pamele, gli Emili, i Chatterton. Questo nuovo contenuto, conforme al pensiero filosofico che allora investiva la vecchia società in tutte le sue direzioni, veniva fuori in romanzi, novelle, lettere, tragedie, commedie: una specie di repertorio francese, che faceva il giro d'Italia. Il concetto fondamentale era la legge di natura in contrasto con la legge scritta, la proclamazione sotto tutte le forme de' diritti dell'uomo dirimpetto la società che li violava. I capiscuola erano Rousseau, Voltaire, Diderot. Seguiva la turba. Tra questi Mercier ebbe molto sèguito in Italia, e vi furono rappresentati i suoi drammi: il Disertore, l'Amor familiare, il Jeneval, l'Indigente. Nel Disertore hai un giovine virtuoso e amabile, che per soccorrere il padre e per amore lascia il suo reggimento, ed è dannato a morte: è il grido della natura contro la legge scritta. Nell'Amor familiare è descritta con vivi colori l'oppressione degli eretici ne' paesi cattolici. Jeneval è il contrario della Clarissa: è un don Giovanni femmina, una Rosalia, che seduce il giovine e inesperto Jeneval fino al delitto. Nell'Indigente è vivo il contrasto tra il ricco ozioso, libidinoso, corteggiato e potente, che fa mercato di tutto, anche del matrimonio; e il povero operoso, virtuoso, disprezzato e oppresso. A contenuto nuovo nomi nuovi. Commedia e tragedia parve l'uomo mutilato e ingrandito, veduto da un punto solo ed oltre il naturale. La critica da' bassi fondi della lingua e dello stile si alzava al concetto dell'arte, alla sua materia e alla sua forma, al suo scopo e a' suoi mezzi. Iniziatore di quest'alta critica, che fu detta estetica, era Diderot. Da lui usciva l'affermazione dell'ideale nella piena realtà della natura, che è il concetto fondamentale della filosofia dell'arte. L'ideale scendeva dal suo piedistallo olimpico, e non era più un di là, si mescolava tra gli uomini, partecipava alle grandezze e alle miserie della vita; non era un iddio sotto nome di uomo, era l'uomo; non era tragedia e non commedia, era il dramma. La poesia era storia, come la storia era poesia. L'ideale era la stessa realtà, non mutilata, non ingrandita, non trasformata, non scelta, ma piena, concreta, naturale, in tutte le sue varietà: la realtà vivente. La tragedia ammetteva il riso, e la commedia ammetteva la lacrima; s'inventò la commedia lacrimosa e la tragedia borghese. Il nuovo ideale non era l'iddio o l'eroe de' tempi feudali: era il semplice borghese in lotta con la vita e con la società, e che sente della lotta tutt'i dolori e le passioni. Come il bambino entra nel mondo tra le lacrime, così l'ideale uscendo dalla sua astrazione serena, entrava nella vita lacrimoso, era patetico e sentimentale. Le Notti di Young ispiravano ad Alessandro Verri le Notti romane. Rousseau col suo sentimentalismo rettorico faceva una impressione così profonda come col suo naturalismo filosofico. Questi concetti e questi lavori, frutto di una lunga elaborazione presso i francesi, giungevano a noi tutt'in una volta, come una inondazione, destando l'entusiasmo degli uni, le collere degli altri. Le quistioni di lingua e di stile si elevavano, divenivano quistioni intorno allo stesso contenuto dell'arte; in breve tempo la critica meccanica diveniva psicologica, e la critica psicologica si alzava all'estetica. La vecchia letteratura, combattuta ne' suoi mezzi tecnici, era ancora contraddetta nella sua sostanza, nel suo contenuto. Ritrarre dal vero era la demolizione dell'eroico, com'era concepito e praticato fra noi: cosa divenivano gli eroi di Metastasio? Il patetico e il sentimentale era la condanna di quegl'ideali oziosi, sereni, noiosi, che costituivano l'idillio: cosa diveniva l'Arcadia? Il teatro, si diceva, non è un passatempo, è una scuola di nobili sentimenti e di forti passioni: cosa divenivano le commedie a soggetto? Tutto era riforma. L'abate GENOVESI, Verri, Galiani davano addosso al vecchio sistema economico; la vecchia legislazione era combattuta da Beccaria; tutti gli ordini sociali erano in quistione; Filangieri, andando alla base, proponeva la riforma dell'istruzione e dell'educazione nazionale; principi e ministri, sospinti dalla opinione, iniziavano riforme in tutt'i rami dell'azienda pubblica. La vecchia letteratura non potea durare così: ci voleva anche per lei la riforma. Già non produceva più, non destava più l'attenzione tutto era canto e musica, tutto era filosofia.

CHIARI, GOZZI, GOLDONI E IL TEATRO

Si concepisce in questo stato degli spiriti il maraviglioso successo de' romanzi e delle commedie dell'abate CHIARI, che per sostentare la vita adulava il pubblico e gli offriva quell'imbandigione che più desiderava. Sarebbe interessante un'analisi delle infinite opere, già tutte dimenticate, del Chiari, perché mostrerebbe qual era il genio del tempo. Donne erranti, filosofesse, gigantesse, figli naturali, ratti di monache, scontri notturni, finestre scalate, avvenimenti mostruosi, caratteri impossibili, un eroico patetico e un patetico sdolcinato, una filosofia messa in rettorica, un impasto di vecchio e di nuovo, di ciò che il nuovo avea di più stravagante e di ciò che il vecchio avea di più volgare: questo era il cibo imbandito dal Chiari. Il Martelli aveva inventato il verso alla francese, come prima si era inventato il verso alla latina. Parve cosa stupenda al Chiari, e ne fece molto uso, e fino la Genesi voltò in versi martelliani. Questo impiastricciatore del Chiari è l'immagine di un tempo, che la vecchia letteratura se ne andava e la nuova fermentava appena in quella prima confusione delle menti; sicché egli ha tutt'i difetti del vecchio e tutte le stranezze del nuovo. Ben presto si trovò fra' piedi CARLO GOLDONI, costretto dalle stesse necessità della vita a servire e compiacere al pubblico. Per qualche tempo si accapigliarono i partigiani del Chiari e del Goldoni. E tra' due contendenti sorse un terzo, che diè addosso all'uno e all'altro: dico CARLO GOZZI, fratello di Gaspare. Uscì a Parigi la Tarlana degl'influssi, caricatura di due comici:

Il primo si chiamava "Originale",
Ed il secondo «Saccheggio» s'appella...
I partigiani ogni giorno crescevano,
Chi vuole Originale e chi Saccheggio;
Tutto il paese a rumore mettevano...
Il parlar mozzo e lo stare infradue
Niente vale per trarsi di tedio:...
Dir bisognava - Saccheggio è migliore -
Ovvero: - Originale è più dottore. -

Gozzi avea maggior coltura del Chiari e del Goldoni, era d'ingegno svegliatissimo, avea fatto buoni studi, come il fratello, apparteneva all'accademia de' Granelleschi, che si proponeva di ristaurare la buona lingua, della quale quei due si mostravano ignorantissimi. Tutto quel mondo nuovo letterario, predicato con tanta iattanza e venuto fuori con tanta stravaganza, non gli parea una riforma, gli parea una corruzione, e non solo letteraria, ma religiosa, politica e civile:

Usciti son certi autorevol dotti,
Con un tremuoto di nuova scienza,
Ch'han tutti gli scrittori mal condotti.
Tratto il lor, di saper non c'è semenza,
Dicono che gli autor morti fur cotti,
E condannano i vivi all'astinenza.
Leggonsi certe nuove "Marianne".
Certi "baron", certe "marchese" impresse,
Certe fraschette buse come canne,
E le battezzan poi "filosofesse"
Che il mal costume introducono a spanne:
Credo il dimonio al torchio le mettesse.
Chi dice: Egli è un comporre alla francese.
Certo è peggior del mal di quel paese.

La sua Marfisa è una caricatura de' nuovi romanzi, alla maniera del Chiari. Carlo Magno e i paladini diventano oziosi e vagabondi; Bradamante una spigolistra casalinga; Marfisa, l'eroina, guasta da' libri nuovi, vaporosa, sentimentale, isterica, bizzarra, e finisce tisica e pinzochera. La mira era alle donne del Chiari e de' romanzi in voga. Gli parea che quel predicar continuo dritti naturali, leggi naturali, religione naturale, uguaglianza, fratellanza, dovesse render gli uomini cattivi sudditi, ammaestrandoli di troppe e avvezzandoli a guardare con invidia al di sopra della loro condizione. Questo pericolo era più grave, quando massime tali fossero predicate in teatro, che non era una scola, ma un passatempo; e invocava contro i predicatori di così nuova morale la severità dei governi. Il povero Chiari non ci capiva nulla. Goldoni, che era un puro artista come il Metastasio, buon uomo e pacifico, e che di tutto quel movimento del secolo non vedeva che la parte letteraria, dovea trasecolare e sentirsi dipingere poco meno che un ribelle, un nemico della società. Vi si mescolarono gl'interessi delle compagnie comiche, che si disputavano furiosamente gli scarsi guadagni. Gozzi difendeva la compagnia Sacchi, tornata di Vienna e trovato il suo posto preso dalle compagnie Chiari e Goldoni. Il Sacchi era l'ultimo di quei valenti improvvisatori comici, che giravano l'Europa e mantenevano la riputazione della commedia italiana a Vienna, a Parigi, a Londra. Musici, cantanti e improvvisatori erano la merce italiana che ancora avea corso di là dalle Alpi. La commedia a soggetto, alzatasi sulle rovine delle commedie letterarie, accademiche e noiose, era padrona del campo a Roma, a Napoli, a Bologna, a Milano, a Venezia, era della vecchia letteratura il loro genere vivo ancora, considerato gloria speciale d'Italia e solo che ricordasse ancora in Europa l'arte italiana. Gli attori venuti in qualche fama andavano a Parigi dov'erano meglio retribuiti. Ma, come a Parigi Molière fondava la commedia francese, combattendo le commedie a soggetto italiane, così a Venezia Goldoni, vagheggiando a sua volta una riforma della commedia, l'avea forte con le maschere e con le commedie a soggetto. Questo pareva al Gozzi quasi un delitto di lesa-nazione, un attentato ad una gloria italiana. La contesa oggi sembra ridicola, e pare che potevano vivere in buon'amicizia l'uno e l'altro genere. Ma ci era la passione e ci era l'interesse, e i sangui si scaldarono, e molte furono le dispute, insino a che Goldoni, cedendo il campo, andò a Parigi. La sua fama s'ingrandì, e impose silenzio al Baretti e rispetto al Gozzi, soprattutto quando Voltaire lo ebbe messo accanto a Molière. Da tutto quest'arruffio non uscì alcun progresso notabile di critica, essendo i Ragionamenti del Gozzi pieni più di bile che di giudizio, e vuote e confuse generalità, come di uomo che non conosca con precisione il valore de' vocaboli e delle quistioni. Ma ne uscirono i primi tentativi della nuova letteratura, le commedie del Goldoni e le fiabe del Gozzi, la commedia borghese e la commedia popolana.

GOLDONI E LA RIFORMA DEL TEATRO

Carlo Goldoni era, come Metastasio, artista nato. Di tutti e due se ne volea fare degli avvocati. Anzi Goldoni fece l'avvocato con qualche successo. Ma alla prima occasione correva appresso agli attori, insino a che il natural genio vinse. Tentò parecchi generi, prima di trovare se stesso. Zeno e Metastasio erano le due celebrità del tempo; il dramma in musica era alla moda. Scrisse l'Amalasunta, il Gustavo, l'Oronte, più tardi il Festino e qualche altro melodramma buffo, scrisse anche tragedie, la Rosmunda, la Griselda, l'Enrico, e tragicommedie, come il Rinaldo. Poeta stipendiato di compagnie comiche, costretto in ciascuna stagione teatrale di dare parecchie opere nuove - e in una stagione ne diè sedici - saccheggiò, raffazzonò, tolse di qua e di là ne' repertorii italiani e francesi e anche ne' romanzi. Non ci era ancora il poeta, ci era il mestierante: ci era Chiari, non ci era ancora Goldoni. Trattava ogni maniera di argomento secondo il gusto pubblico: commedie sentimentali, commedie romanzesche come la Pamela, Zelinda e Lindoro, la Peruviana, la Bella selvaggia, la Bella georgiana, la Dalmatina, la Scozzese, l'Incognita, l'Ircana, raffazzonamenti la più parte e imitazioni francesi. Scrisse anche commedie a soggetto, come il Figlio di Arlecchino perduto e ritrovato, le Trentadue disgrazie di Arlecchino. Si rivelò a se stesso e al pubblico nella Vedova scaltra. Cominciarono le critiche, e cominciò lui ad avere una coscienza d'artista. La vecchia letteratura ondeggiava tra il seicentismo e l'arcadico, il gonfio e il volgare. Goldoni nelle sue Memorie dice:

«I miei compatrioti erano accostumati da lungo tempo alle farse triviali e agli spettacoli giganteschi. La mia versificazione non è mai stata di stil sublime; ma ecco appunto quel che bisognava per ridurre a poco a poco nella ragione un pubblico accostumato alle iperboli, alle antitesi ed al ridicolo gigantesco e romanzesco».

Per sua ventura gli capitò una buona compagnia:

«Ora - dicea io a me medesimo, - ora sto bene, e posso lasciare il campo libero alla mia fantasia. Ho lavorato quanto basta sopra vecchi soggetti. Avendo presentemente attori che promettono molto, convien creare, conviene inventare. Ecco forse il momento di tentare quella riforma, che ho in vista da così lungo tempo. Convien trattare soggetti di carattere: essi sono la sorgente della buona commedia, ed è appunto con questi che il gran Molière diede principio alla sua carriera, e pervenne a quel grado di perfezione che gli antichi ci avevano soltanto indicato e che i moderni non hanno ancor potuto eguagliare».

Goldoni conosceva pochissimo Plauto e Terenzio; faceva il cappello a Orazio e Aristotile; rispettava per tradizione la regola; ma dice: Non ho mai sacrificata una commedia che poteva esser buona ad un pregiudizio che la poteva render cattiva. Ciò che chiama pregiudizio è l'unità di luogo. La sua scarsa coltura classica avea questo di buono: che tenea il suo spirito sgombro da ogni elemento che non fosse moderno e contemporaneo. Ciò ch'egli vagheggia non è la commedia dotta, regolata, letteraria, alla latina o alla toscana, di cui ultimo esempio dava il FAGIUOLI, ma la buona commedia, com'egli la concepiva: la commedia essendo stata la mia tendenza, la buona commedia dee essere la mia meta. E il suo concetto della buona commedia è questo: Tutta l'applicazione, che ho messo nella costruzione delle mie commedie, è stata quella di non guastar la natura. Carattere idillico, superiore a' pettegolezzi e alle invidiuzze provinciali del letterato italiano, pigliandosi la buona e la cattiva fortuna con eguaglianza d'animo, quest'uomo, che visse i suoi bravi ottantasei anni e morì a Parigi pochi anni dopo il Metastasio, morto a Vienna, dice di sé:

«Il morale mio è analogo al fisico; non temo né il freddo né il caldo e non mi lascio infiammar dalla collera né ubbriacar dalla gioia».

Con questo temperamento più di spettatore che di attore, mentre gli altri operavano, Goldoni osservava e li coglieva sul fatto. La natura bene osservata gli pareva più ricca che tutte le combinazioni della fantasia. L'arte per lui era natura, era ritrarre dal vero. E riuscì il Galileo della nuova letteratura. Il suo telescopio fu l'intuizione netta e pronta dal reale, guidata dal buon senso. Come Galileo proscrisse dalla scienza le forze occulte, l'ipotetico, il congetturale, il soprannaturale, così egli volea proscrivere dall'arte il fantastico, il gigantesco, il declamatorio e il rettorico. Ciò che Molière avea fatto in Francia, lui voleva tentare in Italia, la terra classica dell'accademia e della rettorica. La riforma era più importante che non apparisse; perché, riguardando specialmente la commedia, avea a base un principio universale dell'arte, cioè il naturale nell'arte, in opposizione alla maniera e al convenzionale. Goldoni aveva da natura tutte le qualità che si richiedevano al difficile assunto: finezza di osservazione e spirito inventivo, misura e giustezza della concezione, calore e brio nella esecuzione. La Mandragola, capitatagli ch'era giovanissimo, gli avea fatta molta impressione. Il Misantropo, l'Avaro, il Tartufo, le Preziose, e simili commedie di Molière compirono la sua educazione. Il fondamento della commedia italiana era l'intreccio; la buona commedia come la concepiva lui, dovea avere a fondamento il carattere. - Voi avete la commedia d'intreccio; io voglio darvi la commedia di carattere - diceva Goldoni. E commedia di carattere era tirare l'effetto non dalla moltiplicità di avvenimenti straordinari, ma dallo svolgimento di un carattere nelle situazioni anche più ordinarie della vita. Era tutt'un altro sistema, e non solo nella commedia, ma nello scopo e ne' mezzi dell'arte. Il protagonista nel primo sistema è il caso o l'accidente, le cui bizzarre combinazioni generano il meraviglioso. Gli uomini ci stanno come figure o comparse, appena schizzati, avvolti nel turbine degli avvenimenti. La vita è nella superficie: l'interno è occulto. In questa superficialità ottusa si era consunta la vecchia letteratura, ed esaurite tutte le forme del maravigiioso, non bastava più a conseguire l'effetto con mezzi propri senza il sussidio del canto, della musica, del ballo, della mimica, della declamazione. La parola non era più il principale: era l'accessorio, il semplice tema, l'occasione. Anche la commedia si credea inetta a conseguire il suo effetto senza il sussidio delle maschere, senza quell'improvviso de' lazzi degli Arlecchini, de' Truffaldini, de' Brighella e de' Pantaloni. Ora l'idea fissa di Goldoni era che la commedia potea per se sola interessare il pubblico, e che non le era necessario a ciò lo spettacoloso, il gigantesco, il maraviglioso in maschera e senza maschera. La sua riforma era in fondo la restaurazione della parola, la restituzione della letteratura nel suo posto e nella sua importanza, la nuova letteratura. E vide chiaramente che a ristaurare la parola bisognava non lavorare intorno alla parola, ma intorno al suo contenuto, rifare il mondo organico o interiore dell'espressione. Questo vide nella commedia, e mirò a instaurarvi non gli elementi formali e meccanici, ma l'interno organismo, sopra questo concetto: che la vita non è il gioco del caso o di un potere occulto, ma è quale ce la facciamo noi, l'opera della nostra mente e della nostra volontà. Concetto del Machiavelli, dal quale usciva la Mandragola. Perciò il protagonista è l'uomo, con le sue virtù e le sue debolezze, che crea o regola gli avvenimenti o cede in balìa di quelli. Manca a Goldoni non la chiarezza, ma l'audacia della riforma, obbligato spesso a concessioni e a mezzi termini per contentare il pubblico, la compagnia e gli avversari. E, come era il suo carattere, vinse talora più con la pazienza o la destrezza che con la risoluta tenacità dei propositi. Di queste concessioni trovi i vestigi nelle sue migliori commedie, dove non rifiuta certi mezzi volgari e grossolani di ottenere gli applausi della platea. E mi spiego come insino all'ultimo continuò nel romanzesco, nel sentimentale e nell'arlecchinesco: le necessità del mestiere contrastavano alle aspirazioni dell'artista. D'altra parte, intento all'interno organismo della commedia, neglesse troppo l'espressione, e, per volerla naturale, la fece volgare, sì che le sue concezioni si staccano vigorose da una forma più simile a pietra grezza che a marmo. Ciò che in lui rimane è quel mondo interno della commedia, tolto dal vero e perfettamente sviluppato nelle situazioni e nel dialogo. Il centro del suo mondo comico è il carattere. E questo non è concepito da lui come un aggregato di qualità astratte, ma è colto nella pienezza della vita reale, con tutti gli accessori. Base è la società veneziana nella sua mezzanità, più vicina al popolo che alle classi elevate: ciò che dà più presa al comico per quei moti improvvisi, ineducati, indisciplinati, che son propri della classe popolana, alla quale si accostava molto la borghesia veneta, non giunta ancora a quel raffinamento e delicatezza di forme, che sono come l'aria della civiltà. I caratteri, come il maldicente, il bugiardo, l'avaro, l'adulatore, il cavalier servente, inviluppati in quest'atmosfera, escono fuori vivi, coloriti, originali, nuovi: vi contraggono la forma della loro esistenza. Ci è nel loro impasto del grossolano e dell'improvviso; anzi qui è la fonte del comico. Cadendo in nature di uomini non disciplinate dall'educazione, paion fuori in modo subitaneo e senza freno o ritegno o riguardo, in tutta la loro forza primigenia, e producono con quella loro improvvisa grossolanità la più schietta allegria, tipo il Burbero benefico. Non essendo concezioni subbiettive e astratte, ma studiate dal vero e colte nel movimento della vita, il comico non si sviluppa per via di motti, riflessioni e descrizioni - ciò che dicesi propriamente spirito e appartiene a una società più colta e raffinata - ma erompe nella brusca vivacità delle situazioni e dei contrasti. Il Goldoni è felicissimo a trovare situazioni tali che il carattere vi possa sviluppare tutte le sue forze. La situazione è per lo più unica, semplice, naturalissima, sobriamente variata, messa in rilievo da qualche contrasto, di rado complicata o inviluppata, graduata con un crescendo di movimenti drammatici, e ti porta rapidamente alla fine tra la più viva allegria. Indi viene la superiorità del suo dialogo, che è azione parlata, di rado interrotta o raffreddata per soverchio uso di riflessioni e di sentenze. La situazione non è mai perduta di vista: non digressioni, non deviazioni, rari intermezzi o episodi, nessuna parte troppo accarezzata o rilevata; onde è che l'interesse è nell'insieme, e di rado se ne stacca un personaggio, una scena, un motto. Tutto è collegato saldamente con tutto: la situazione è il carattere stesso in posizione, nelle sue determinazioni; l'azione è la stessa situazione nel suo sviluppo; il dialogo è la stess'azione ne' suoi movimenti. Questo mondo poetico ha il difetto delle sue qualità: nella sua grossolanità è superficiale, e nella sua naturalezza è volgare. In quel suo correre diritto e rapido, il poeta non medita, non si raccoglie, non approfondisce, sta tutto al di fuori, gioioso e spensierato, indifferente al suo contenuto, e intento a caricarlo quasi per suo passatempo e con l'aria più ingenua, senza ombra di malizia e di mordacità: onde la forma del suo comico è caricatura allegra e smaliziata, che di rado giunge all'ironia. Nel suo studio del naturale e del vero, trascura troppo il rilievo, e, se ha il brio del linguaggio parlato, ne ha pure la negligenza: per fuggire la rettorica, casca nel volgare. Gli manca quella divina malinconia, che è l'idealità del poeta comico e lo tiene al di sopra del suo mondo, come fosse la sua creatura, che accarezza con lo sguardo e non la lascia che non le abbia data l'ultima finitezza. Attribuiscono il difetto alla sua ignoranza della lingua ed alla soverchia fretta; il che, se vale a scusare le sue scorrezioni, non è bastante a spiegare il crudo e lo sciacquo del suo colorito.
La nuova letteratura fa la sua prima apparizione nella commedia del Goldoni, annunziandosi come una ristaurazione del vero e del naturale nell'arte. Se la vecchia letteratura cercava ottenere i suoi effetti scostandosi possibilmente dal reale e correndo appresso allo straordinario o al maraviglioso nel contenuto e nella forma, la nuova cerca nel reale la sua base e studia dal vero la natura e l'uomo. La maniera, il convenzionale, il rettorico, l'arcadico, il meccanismo mitologico, il meccanismo classico, l'imitazione, la reminiscenza, la citazione, tutto ciò che costituiva la forma letteraria è sbandito da questo mondo poetico, il cui centro è l'uomo, studiato come un fenomeno psicologico, ridotto alle sue proporzioni naturali e calato in tutte le particolarità della vita reale. Vero è che la realtà è appena lambita e le sue profondità rimangono occulte. Ma la via era quella, e in capo alla via trovi Goldoni.

LE CONTRADDIZIONI DI CARLO GOZZI

A Carlo Gozzi parea che quel vero e quel naturale fosse la tomba della poesia; e, quando il successo del Goldoni gl'impose rispetto, parlando pure con riguardo dell'avversario, non poté risolversi ad accettare per buona la sua riforma. Il romanzesco, il gigantesco, l'arlecchinesco, o, in altri termini, il mirabile e il fantastico, gli parevano elementi essenziali della poesia: quel ritrarre dal reale gli pareva una volgarità. D'altra parte, non vedea senza rincrescimento assalita da ogni parte la commedia a soggetto, che gli sembrava una gloria italiana. Dicevano che l'era oramai un vecchio repertorio, che l'era ridotta a mero meccanismo, che l'era una scuola d'immoralità, di scurrilità, roba da trivio, goffe buffonate, fracidumi indecenti in un secolo illuminato. C'era esagerazione nelle accuse, ma un fondamento di verità c'era. La commedia improvvisa, dell'arte o a soggetto, era isterilita, come tutt'i generi della vecchia letteratura, e tutti quei lazzi, che tanto divertivano, erano con poca varietà un vecchiume trasmesso da una generazione all'altra: si viveva sul passato, i nuovi attori riproducevano gli antichi; la parte improvvisata era così poco nuova e improvvisa come la parte scritta. Piaceva più che la commedia letteraria, perché ci era sempre maggior comunione col pubblico; ma oramai quel Dottor bolognese e Truffaldino stancavano, come un professore che ripeta ogni anno lo stesso corso. I letterati e i fautori delle commedie regolate ne pigliavano argomento per dichiarar guerra alle maschere, e volevano proscrivere addirittura quel genere di commedia indecente in un secolo illuminato. Gozzi, che l'avea contro quei lumi e vedea di mal occhio tutte quelle novità che ci venivano d'oltr'alpe, se ne fece paladino e scese in campo co' ragionamenti e coll'esempio, scrivendo sotto nome di fiabe commedie con le maschere, e perciò con una parte improvvisata le quali ebbero successo grandissimo e oggi sono quasi dimenticate. Gozzi parea a quel tempo un retrivo, e Goldoni era il riformatore: pure avrei desiderato a Goldoni un po' di quella fibra rivoluzionaria ch'era in quel retrivo; ché così sarebbe proceduto più ardito e conseguente nella sua riforma. Il taciturno solitario Gozzi come lo chiamavano, era uomo d'ingegno; e perciò penetrato della vita contemporanea e trasformato senza saperlo da quelle stesse idee nuove, che gli movevano la bile. Volendo ristaurare il vecchio, si chiarì novatore e riformatore, e, correndo dietro alla commedia a soggetto, s'incontrò nella commedia popolana, e ne fissò la base. Grande confusione era nella testa, come si vede da' suoi ragionamenti: indi la sua debolezza. Goldoni sa quello che vuole, ha la chiarezza dello scopo e dei mezzi, e va diritto e sicuro; perciò la sua influenza rimase grandissima. Ma Gozzi ha chiaro lo scopo, e vuole una cosa e fa un'altra, e procede a balzi, tirato da varie correnti. Vuole favorire le maschere; vuole parodiare gli avversari; vuole rifare Pulci e Ariosto, ristaurando il fantastico; vuole toscaneggiare, e vuole insieme essere popolare e corrente, vuol ricostruire il vecchio a comparir nuovo. Fini transitorii, i quali poterono interessare i contemporanei, dargli vinta la causa nella polemica e nel teatro, e che oggi sono la parte morta del suo lavoro. Queste intenzioni penetrano in tutta la composizione come elementi perturbatori e rimasti inconciliati. Ciò che resta di lui è il concetto della commedia popolana, in opposizione alla commedia borghese. Le maschere, cioè certi caratteri e caricature tipiche del popolo come Tartaglia, Pantalone, Truffaldino, Brighella, Smeraldina, rimangono nella sua composizione come elementi di obbligo e convenzionali e soprapposti. Il contenuto è il mondo poetico com'è concepito dal popolo avido del maraviglioso e del misterioso, impressionabile, facile al riso e al pianto. La sua base è il soprannaturale nelle sue forme: miracolo, stregoneria, magia. Questo mondo dell'immaginazione, tanto più vivo quanto meno l'intelletto è sviluppato, è la base naturale della poesia popolana sotto le sue diverse forme: conti, novelle, romanzi, storie, commedie, farse. La vecchia letteratura se n'era impadronita, ma per demolirlo, per gittarvi entro il sorriso incredulo della colta borghesia. Rifare questo mondo nella sua ingenuità, drammatizzare la fiaba o la fola, cercare ivi il sangue giovine e nuovo della commedia a soggetto. Questo osò Gozzi in presenza di una borghesia scettica e nel secolo de' lumi, nel secolo degli spiriti forti e de' belli spiriti. E riuscì a interessarvi il pubblico, perché quel mondo ha un valore assoluto e risponde a certe corde che, maneggiate da abile mano d'artista, suonano sempre nell'animo: ciascuno ha entro di sé più o meno del fanciullo o del popolo. E poiché il pubblico s'interessava ancora alla commedia del Goldoni, se ne doveva conchiudere, se le conclusioni ragionevoli fossero possibili in mezzo alla disputa, che tutti e due i generi erano conformi al vero, l'uno rappresentando la società borghese nella sua mezza coltura, e l'altro il popolo nelle sue credulità e ne' suoi stupori. E tutti e due erano una riforma della commedia ne' suoi aspetti, la commedia dotta e la commedia improvvisa: era l'apparizione della nuova letteratura. Ma questo, che fece Gozzi, non era precisamente quello che credeva di fare. Ci si messe per picca e per occasione, disprezzava il pubblico che l'applaudiva, non prendeva sul serio la sua opera, e, perché Goldoni imitava dal vero, s'innamorò lui del romanzesco e del fantastico. Ora l'arte non è un capriccio individuale, e, perché Shakespeare ti piace, non ne viene che tu possa rifare Shakespeare, quando anche avessi forza da ciò. L'arte, come religione e filosofia, come istituzioni politiche ed amministrative, è un fatto sociale, un risultato della coltura e della vita nazionale. Gozzi volea rifare un mondo dell'immaginazione, quando egli medesimo segnava la dissoluzione di quel mondo nella Marfisia, quando la parte colta e intelligente della nazione era mossa da impulsi affatto contrari, e quando il popolo, ebete nella sua miseria, stava come una massa inerte e non dava segno di vita letteraria. Se Gozzi fosse sceso in mezzo al popolo e vi avesse attinte le sue ispirazioni, potea forse fare opera viva. Ma Gozzi era aristocratico, odiava tutte quelle novità che sentivano troppo di democrazia, e viveva co' suoi Granelleschi in un ambiente puramente letterario. Rimase perciò un letterato: non divenne un poeta. Oltre a ciò, un fatto letterario in quel tempo non potea sorgere di mezzo al popolo, divenuta acqua stagnante: un movimento c'era, e veniva dalla borghesia, e con quelle tendenze si sviluppava la vita nazionale in tutt'i suoi indirizzi. Creare un mondo d'immaginazione, quando la guerra era appunto contro l'immaginazione in nome della scienza e vi della filosofia, era un andare a ritroso. Gozzi nacque troppo presto. Venne il tempo che la borghesia, spaventata da quelle esagerazioni che stomacavano Gozzi, si riafferrò a quel mondo soprannaturale, come a tavola di salute. Quello era il tempo di Gozzi; e Gozzi ci fu, e si chiamò Manzoni. Al suo tempo Gozzi fu un elemento contraddittorio e perciò inconcludente, e la sua idea, altamente estetica in astratto riuscì un fatto letterario e artificiale. Volea ristorare l'antico, odiava le novità e senza saperlo le portava nel suo seno; ond'è che tratta quel suo mondo dell'immaginazione a quello stesso modo che il forense Goldoni rappresenta la società borghese. Gli manca il chiaroscuro, gli manca l'impressione e il sentimento del soprannaturale, anzi il suo studio è di rappresentarlo con tutte le apparenze della naturalezza, come fosse un fatto volgare e ordinario, a quel modo che andava predicando Goldoni. Perciò il suo stile non ha rilievo, il suo colorito non ha trasparenza, le sue tinte non sono fuse, e, volendo esser naturale, spesso ti casca nell'insipido e nel volgare. La naturalezza di questo mondo è nella ingenuità delle sue impressioni, curiosità, maraviglia, sospensione, terrore, collera, pianti, riso, com'è nei racconti delle società primitive. Questa ingenuità è perduta: la naturalezza di Gozzi è negligenza e volgarità. Quelle apparizioni non hanno per lui serietà, sono giochi e passatempi: perciò scherzi abborracciati e senza alcun valore proprio, che aiutati dalla mimica, da' lazzi, dallo scenario, potevano produrre effetto nella rappresentazione, e alla lettura piacciono, senza che ti lascino nell'animo alcun vestigio. Il Baretti predicava in lui un nuovo Shakespeare; e, quando gli fallì alla prova, se la prese con lui furiosamente, come l'avesse tradito, e dovea prendersela con se medesimo che andava sognando uno Shakespeare nel secolo decimottavo. Che avvenne? La commedia popolana ritornò nel suo pantano, con le sue maschere, le sue indecenze e le sue volgarità; e di Gozzi rimase una bella idea, presto dimenticata. La società prendeva altra via e seguiva Goldoni.

IDEE NUOVE E UOMINI VECCHI

Il movimento a Venezia rimase puramente letterario. C'era un centro toscaneggiante nell'accademia de' Granelleschi, divenuta presto ridicola, della quale erano anima i fratelli Gozzi; e c'era dall'altra parte Goldoni con intenzioni più alte, che attingevano l'organismo dell'arte. Il solo Carlo Gozzi presentì il significato politico del movimento e sonò la campana a stormo; ma nessuno rispose, perché il nemico non si trovò. Goldoni anche a Parigi non ci capiva nulla di quel vertiginoso rimescolìo d'idee, e Rousseau non era per lui che un fenomeno curioso, un magnifico carattere da commedia, qualche cosa come il burbero benefico. Questa sua concentrazione in un punto solo e la sua perfetta innocenza in tutto l'altro fu la sua forza e la sua debolezza. La sua idea fissa, ch'era rappresentare dal vivo e dal vero e non guastar la natura, era il principio rinnovatore della letteratura, negazione dell'Arcadia, ricostituzione del contenuto e della forma, incarnato in alcune commedie di esecuzione più o meno perfetta, ma tutte indimenticabili per la chiarezza e la verità della concezione, delle situazioni e de' caratteri: qui fu la sua forza. E la sua debolezza fu il carattere meramente letterario della sua riforma, che lo tiene nella superficie e gli fa produrre un mondo locale e particolare, a cui la sua indifferenza religiosa, filosofica, politica, morale, sociale, la sua poca coltura, la scarsezza de' suoi motivi interni toglie rilievo e vigore, toglie quella idealità che viene da un significato generale e permanente. Cosa manca a Goldoni? Non lo spirito, non la forza comica, non l'abilità tecnica: era nato artista. Mancò a lui quello che a Metastasio: gli mancò un mondo interiore della coscienza, operoso, espansivo, appassionato, animato dalla fede e dal sentimento. Mancò a lui quello che mancava da più secoli a tutti gl'italiani e che rendeva insanabile la loro decadenza: la sincerità e la forza delle convinzioni. Ciò che attestava una possibile rigenerazione era la riapparizione di quel mondo interiore negli spiriti più eletti, che rimetteva in moto il cervello e svegliava il sentimento. Il maggiore impulso veniva dal di fuori. Ma l'entusiasmo pubblico mostrava che ci era la materia atta a riceverlo, e che l'Italia dopo lungo riposo si rimetteva in via. Nel mezzodì l'attività speculativa, da Telesio a Cuoco, non mancò mai, e vi si era formata una scuola liberale, che avea per materia la quistione giurisdizionale, e si andava allargando a tutte le utili riforme nell'assetto dello Stato. Quando le nuove idee vi si affacciarono, trovarono gli spiriti educati e pronti a riceverle, e se ne fecero interpreti eloquenti ed efficaci Filangieri, Pagano e Galiani. Vi si andava così elaborando un nuovo contenuto in una forma piena di spirito e di movimento, spesso ingegnosa e appassionata: filosofia volgarizzata, col linguaggio vivo e spiritoso della gazzetta. Farse, tragedie, commedie, orazioni, dissertazioni, prediche, trattati, sonetti, canzoni, tutt'i generi della vecchia letteratura continuavano la loro vita solita e meccanica, senza alcun segno di movimento nel loro interno organismo: imitazioni, raffazzonamenti, contraffazioni, un mondo di convenzione accolto con applausi di convenzione. Già Salvator Rosa aveva a suon di tromba mosso guerra alla declamazione e alla rettorica, senz'accorgersi che faceva della rettorica anche lui. Un po' di rettorica c'era pure in alcuno di quegli scrittori, massime in Filangieri, ma vivificata dalla novità e importanza delle cose, e da quello spirito moderno e contemporaneo che desta sempre la più viva partecipazione. Il sentimento puramente letterario, errante in quelle provincie tra il voluttuoso, l'ingegnoso e il sentimentale, ciò che vi rendea così popolari il Tasso e il Marino, stagnato il movimento letterario, s'era trasformato nel sentimento musicale, e vi educava Metastasio, e vi apparecchiava quella scuola immortale di maestri di musica, che furono i veri padri di un'arte serbata a così grandi destini. La musica sorgeva animata da quegli stessi impulsi che non trovavano più soddisfazione nella imputridita forma letteraria; sorgeva tutta melodia, piena di voluttà, di spirito e di sentimento. Mentre l'attività speculativa e il sentimento musicale si andava sviluppando nel mezzogiorno d'Italia, e Goldoni tentava a Venezia la sua riforma della commedia, Milano diveniva il centro intellettuale e politico della vita nuova, principali motori Pietro Verri e Cesare Beccaria. A Venezia c'era l'accademia de' Granelleschi, a Milano c'era l'accademia de' Trasformati. Lì si concepiva la riforma come una restaurazione degli studi classici, e si combatteva il Goldoni, ch'era il vero riformatore. Qui dominava sotto tutti gli aspetti lo spirito nuovo, l'Enciclopedia vi era penetrata con tutto il corteggio degli scrittori francesi, vi si elaboravano non frasi, ma idee, e per maggiore libertà si usava non di rado il dialetto e non la lingua. Ci erano i due Verri, il Beccaria, il Baretti, il Balestrieri, il PASSERONI; ci era il fiore dell'intelligenza milanese. Si chiamavano i Trasformati, e si può dire che filosofia, legislazione, economia, politica, morale, tutto lo scibile era già trasformato nelle loro menti, con più o meno di chiarezza e di coscienza. La letteratura non potea sfuggire a questa trasformazione, e alla solennità classica succedeva una forma svelta e naturale, e ne' più briosa e sentimentale alla francese. Si rideva a spese di Alessandro Bandiera, che voleva insegnar lingua e stile al padre Segneri, da lui tenuto non abbastanza boccaccevole, e di padre Branda, che levava a cielo l'idioma toscano e scriveva vituperi del dialetto. Il Passeroni mettea in canzone quella vecchia società nella Vita di Cicerone e nelle Favole esopiane, e alla vuota turgidezza del Frugoni, ai lambicchi dell'Algarotti, a' lezi del Bettinelli, che erano i tre poeti alla moda, opponeva quel suo scrivere andante, alla buona, tutto buon senso e naturalezza. Bravissimo uomo, senza fiele, senza iniziativa, rideva saporitamente della società, in mezzo alla quale viveva povero e contento. Metastasio, Goldoni e Passeroni erano della stessa pasta: idillici e puri letterati. Sono i tre poeti della transizione. Vedi in loro già i segni di una nuova letteratura, una forma popolare, disinvolta, rapida, liquida, chiara, disposta più alla negligenza che all'artificio. Ma è sempre un giuoco di forma, alla quale manca altezza e serietà di motivi: ci è il letterato, manca l'uomo. Senti in questi riformatori il vecchio uomo italiano di cui era espressione letteraria l'arcade e l'accademico. Combattevano l'Arcadia, ed erano più o meno arcadi.

G. PARINI E LA SUA POESIA

In questi tempi di nuove idee e di vecchi uomini nacque GIUSEPPE PARINI, il 23 maggio del 1729. Venuto dal contado di Milano, cominciò i soliti studi classici sotto i barnabiti, e il padre Branda fu suo maestro di rettorica. Il babbo volle farne un prete, per nobilitare il casato; ma sul più bello fu costretto per le strettezze domestiche a troncare i suoi studi e a ingegnarsi per trarre innanzi la vita. Fece il copista e il pedagogo, e ne' dispregi e nella miseria si temprò il suo carattere. Come Metastasio e come tutt'i poeti di quel tempo, cominciò arcade, e le sue prime rime le leggi in una raccolta di poesie a cura di quegli accademici. Rivelò la sua personalità combattendo il padre Bandiera e il padre Branda, di cui era stato un cattivo scolaro. Pare che nella scuola facesse poco profitto, impaziente soprattutto di quei giuochi di memoria, che erano allora la sostanza degli studi. Padrone di sé, ne' ritagli di tempo obliava la sua miseria, conversando con Virgilio, Orazio, Dante, Ariosto e Berni. E che cosa dovea parergli il padre Branda col suo toscano, o il padre Bandiera co' suoi periodi? Ma se aveva a dispetto quella pedanteria, non gli rincresceva meno quel francesizzare de' più, divenuta moda nelle alte e basse classi. Usando per il suo mestiere in case signorili, poté studiare dappresso questa strana mescolanza di vecchio e di nuovo che costituiva allora la società italiana. Già questo pigliar subito posizione, questo soprastare alla lotta e schivarne tutte le esagerazioni mostra una spiccata personalità. Hai innanzi un carattere.
Parini era uomo più di meditazione che di azione. Non aveva il gusto de' piaceri, aveva pochi bisogni e nessuna cupidigia di onori e di ricchezze. La società non avea presa su di lui: rimase indipendente e solitario, inaccessibile alle tentazioni e a' compromessi, e, come Dante, fece parte da sé. Quel mondo nuovo, che fermentava negli spiriti, fondato sulla natura e sulla ragione e in opposizione al fattizio e al convenzionale del secolo, giuntogli attraverso Plutarco e Dante più che per influssi francesi, rimase in lui inalterato, puro di quelle macchie e ombre che vi soprappongono la vanità e le passioni e gl'interessi mondani, perciò puro di esagerazioni e ostentazioni. Era in lui una interna misura, quell'equilibrio delle facoltà che è la sanità dell'anima, quella compiuta possessione di se stesso, che è l'ideale del savio, quella mente rettrice che sta sopra alle passioni e alle immaginazioni le tiene nel giusto limite. La sua forza è più morale che intellettuale, perché la sua intelligenza si alza poco più su del luogo comune ed è notabile più per giustezza e misura che per novità e profondità di concetti. Lo alza su' contemporanei la sincerità e vivacità del suo senso morale, che gli dà un carattere quasi religioso, ed è la sua fede e la sua ispirazione. Rinasce in lui quella concordia dell'intendere e dell'atto mediante l'amore, che Dante chiamava sapienza: rinasce l'uomo.
Ritratto di Giuseppe Parini

E l'uomo educa l'artista. Perché Parini concepisce l'arte allo stesso modo. Non è il puro letterato, chiuso nella forma, indifferente al contenuto; anzi la sostanza dell'arte è il contenuto, e l'artista è per lui l'uomo nella sua integrità, che esprime tutto se stesso: il patriota, il credente, il filosofo, l'amante, l'amico. La poesia ripiglia il suo antico significato, ed è voce del mondo interiore: ché non è poesia dove non è coscienza, la fede in un mondo religioso, politico, morale, sociale. Perciò base del poeta è l'uomo.
La poesia riacquista la serietà di un contenuto vivente nella coscienza. E la forma si rimpolpa, si realizza, diviene essa medesima l'idea, armonia tra l'idea e l'espressione.
La base del contenuto è morale e politica: è la libertà, l'uguaglianza, la patria, la dignità, cioè la corrispondenza tra il pensiero e l'azione. E' il vecchio programma di Machiavelli, divenuto europeo e tornato in Italia. La base della forma è la verità dell'espressione, la sua comunione diretta col contenuto, risecata ogni mediazione. E' la forma di Dante e di Machiavelli, riverginata con esso il contenuto.
Il contenuto è lirico e satirico. E' l'uomo nuovo in vecchia società.
L'uomo nuovo non è un concetto o un tipo d'immaginazione: ha tutte le condizioni della realtà, è esso medesimo il poeta. Protagonista in questo mondo lirico è Giuseppe Parini, che canta se stesso, esprime le sue impressioni, si effonde, così com'è, nella ingenuità nella sua natura. Spariscono i temi astratti e fattizi di religione, di amore, di moralità. Tutto è contemporaneo e vivo e concreto, prodotto in mezzo al movimento de' fatti e delle impressioni. Il poeta, ritirato nella pace della natura e nella calma della mente, sta al disopra del suo mondo, e sente le sue agitazioni, i suoi piaceri e le sue punture, ma non sì che giungano a turbare l'eguaglianza e la serenità del suo animo. Ci è in questo uomo nuovo una vena d'idillio e di filosofia, come di uomo solitario, più spettatore che attore, avvezzo a vivere tranquillo con sé, a conservare l'occhio puro e spassionato nel giudizio delle cose. Ci è nel poeta un po' del pedagogo, ammaestrando, librando con giusta misura i fatti umani. Ma il pedagogo è trasfigurato nel poeta, e vi perde ogni lato pedantesco e pretensioso. Il suo amore per la vita campestre non è misantropia, anzi è accompagnato con la più tenera sollecitudine per l'umanità. La sua rigidità pel decoro e l'onestà femminile è raddolcita da un vivo sentimento della bellezza. La sua dignità è scevra di orgoglio, la sua severità è amabile, la sua virtù è pudica, piena di grazia e di modestia. Ne' suoi concetti e ne' suoi sentimenti ci è sempre il limite, un'armonica temperanza, dov'è la sua perfezione intellettuale e morale di uomo e di poeta. Quando leggi la Vita rustica, la Salubrità dell'aria, il Pericolo, la Musa, la Caduta e la sua Nice e la sua Silvia, provi una soddisfazione più che estetica, senti in te appagate tutte le tue facoltà.
La vecchia società è colta non nelle sue generalità rettoriche, come nel Rosa, nel Menzini e in altri satirici, ma nella forma sostanziale della sua vecchiezza, che è la pompa delle forme nella insipidezza del contenuto. Quelle forme così magnifiche alle quali si dà una importanza così capitale, sono un'ironia, messe allato al contenuto. La Batracomiomachia è l'ironia dell'Iliade, la Moscheide è l'ironia dell'Orlando: sono forme epiche applicate a un mondo plebeo. L'ironia è la forma delle vecchie società, non ancora conscie della loro dissoluzione. E' il vecchio che vuol farla da giovane, con tanta più ostentazione nelle apparenze quanto più meschina è la sostanza. Questo e il concetto fondamentale del Giorno, fondato su di un'ironia che è nelle cose stesse, perciò profonda e trista. Parini non vi aggiunge di suo che il rilievo, una solennità di esposizione che fa più vivo il contrasto. E perché sente in quelle mentite forme negato se stesso, la sua semplicità, la sua serietà, il suo senso morale, non ha forza di riderne e non gli esce dalla penna uno scherzo o un capriccio. Ride di mala grazia, e sotto ci senti il disgusto e il disprezzo. L'Italia avea riso abbastanza, e rideva ancora ne' versi di Passeroni e di Goldoni. Qui il riso è alla superficie, sotto alla quale giace repressa e contenuta l'indignazione dell'uomo offeso. La sua interna misura e pacatezza, la sua mente rettrice gli dà la forza della repressione, sì che il sentimento di rado erompe sulla superficie e l'ironia di rado piglia la forma del sarcasmo. L'ironia de' nostri padri del Risorgimento era allegra e scettica, come nel Boccaccio e nell'Ariosto, perché era rivendicazione intellettuale dirimpetto alle assurdità teologiche e feudali, rivendicazione accompagnata con la dissoluzione morale: era l'ironia della scienza a spese dell'ignoranza, e l'ignoranza fa ridere. Ma qui l'ironia è il risveglio della coscienza dirimpetto ad una società destituita di ogni vita interiore: lì era l'ironia del buon senso, qui è l'ironia del senso morale. Senti che rinasce l'uomo, e con esso la vita interiore.
La parola di quella vecchia società era a sua immagine cascante, leziosa, vuota sonorità, travolta e seppellita sotto la musica. Qui risuscita la parola. E vien fuori faticosa, martellata, ardua, pregna di sensi e di sottintesi. La parola scopre l'ironia perché in antitesi con quella società molle ed evirata che il poeta finge di celebrare.

VITTORIO ALFIERI

Togliete ora l'ironia, fate salire alla superficie in modo scoperto e provocante l'ira, il disgusto, il disprezzo, tutti quei sentimenti che Parini con tanto sforzo dissimula sotto il suo riso; e avete VITTORIO ALFIERI. E' l'uomo nuovo che si pone in atto di sfida in mezzo a' contemporanei: statua gigantesca e solitaria col dito minaccioso.
Ritratto di Vittorio Alfieri

Alfieri si rivelò a se stesso, e per proprio impulso, e in opposizione alla società. Fino a ventisei anni avea menata la vita solita di un signorotto italiano, tra dissipazioni, viaggi, amori, cavalli, che non gli empivano però la vita. De' primi studi non gli era rimasto che l'odio allo studio. Ricco, nobile, non ambiva né onori né ricchezze né uffici: viveva senz'altro scopo che di vivere. Vita vuota de' ricchi signori, che se ne contentano, e a cui guardano con invidia i men favoriti dalla fortuna. Ma non se ne contentava Alfieri, e spesso era tristo, e fra tanto inutile affaccendarsi sentiva la noia. Era malattia italiana, propria di tutt'i popoli in decadenza, l'ozio interno, la vacuità di ogni mondo interiore. Alfieri aveva il sentimento di quel vuoto, e quella sua vita puramente esteriore era per lui noia mal dissimulata sotto il mondano rumore. Coloro, che questa vita esteriore debbono conquistarsela col sudore della fronte, possono nel loro travaglio trovare un centro lenitivo di quella noia. Ma natura e fortuna aveano data ad Alfieri tutta fatta quella vita: i suoi padri aveano lavorato per lui. Nato non a lavorare, ma a godere, le sue forze interne poderosissime, soprattutto quella tenace energia di carattere, atta a vincere ogni resistenza, rimanevano inoperose, perché tutto piegava innanzi a lui, tutto gli era facile. Corse parecchie volte tutta Europa, e non vi trovò altro piacere che il correre, simulacro dell'interna irrequietezza non soddisfatta. Questo è ciò che dicesi dissipazione: una vita senza scopo e a caso, dove fra tanto moto rimangono immobili le due forze proprie dell'uomo, il pensiero e l'affetto. Se Alfieri fosse stato un cavallo, quel suo correre l'avrebbe contentato, come contenta moltissimi, che pur si chiamano uomini. Ma si sentiva uomo, e stava tristo e annoiato, e non sapeva perché. Il perché era questo: che, nato gagliardissimo di pensiero e di affetto, non avea trovato ancora un centro intorno a cui raccogliere ed esercitare quelle sue facoltà. Una passione si piglia facilmente in quell'ozio, e Alfieri ebbe i suoi amori e i suoi disinganni, e gli parve allora di vivere. Ne' momenti più feroci della noia si gettò a' libri. Di latino non intendeva più nulla, e pochissimo d'italiano; parlava francese da dieci anni. Leggendo per passatempo, tutto natura e niente educazione, lo stile classico lo annoiava: Racine lo faceva dormire, e gittò per la finestra un Galateo del Casa, intoppato in quel primo conciossiaché. Si diè a' romanzi, come i giovanetti alle Mille e una notte. Tutto il suo piacere era di seguire il racconto e vederne la fine e gli dispiacque l'Ariosto per le sue interruzioni, e lesse Metastasio saltando le ariette, e non poté leggere l'Henriade e l'Emilio per quel rettoricume che gli toglieva la vista del racconto. Aspettando i cavalli in Savona, gli capitò un Plutarco. Qui sentì qualche cosa di più che il racconto, gli batté il cuore: quelle immagini colossali non lo sbigottivano, anzi suscitarono la sua emulazione: - Non potrei essere anch'io come loro? - E il potere c'era, perché le sue forze non erano da meno. Una notte, assistendo l'amata nella sua infermità, sceneggiò una tragedia, la quale, rappresentata poi a Torino, ebbe grandi applausi. - Perché non potrei io essere scrittore tragico? - Venutogli questo pensiero, ci si fermò. Secondo le opinioni di quel tempo, l'Italia era innanzi a tutte le nazioni in ogni genere di scrivere, ma le mancava la tragedia. Quest'era l'idea fissa di Gravina e l'ambizione di Metastasio, a questo lavorarono il Trissino, il Tasso, il Maffei. Ma la tragedia non c'era ancora, per sentenza di tutti. E dare all'Italia la tragedia gli pareva il più alto scopo a cui un italiano potesse tendere. Da' suoi viaggi avea portata ingrandita l'immagine dell'Italia, non trovato nulla comparabile a Roma, a Firenze, a Venezia, a Genova. Aggiungi la maestà dell'antica Roma, le memorie di una grandezza non superata mai. E quantunque l'Italia a quei dì fosse tanto degenere, avea fermissima fede in una Italia futura, che vagheggiava nel pensiero simile all'antica. Di questa nuova Italia fondamento era il rifarvi la pianta uomo; e gli parea che la tragedia, rappresentazione dell'eroico, fosse acconcia a ritrovarvi questo nuovo uomo, che gli ferveva nella mente, ed era lui stesso. Questi concetti erano del secolo penetrati qua e là nelle menti, e da lui bevuti insieme con gli altri. Ma divennero in lui passione, scopo unico e ultimo della vita, e vi pose tutte le sue forze. Volle essere redentore d'Italia, il grande precursore di una nuova era, e, non potendo con l'opera, co' versi. Così trovò alla vita un degno scopo, che gli prometteva gloria, lo ingrandiva nella stima degli uomini e di se stesso. Lo scopo era difficilissimo, perché tutto gli mancava ad ottenerlo. E la difficoltà gli fu sprone, e glielo rese più caro. Vi spiegò quella sua energia indomabile, esercitata fino allora ne' cavalli e ne' viaggi. Per disfrancesizzarsi e intoscanirsi visse il più in Toscana, ristudiò il latino, si pose in capo i trecentisti, contento di spensare per pensare, fece suoi compagni indivisibili, Dante, Petrarca, Ariosto e Tasso. Copiò, postillò, tradusse, s'inabissò nel vortice grammaticale e non guasto dalla scuola, e tutto lui, si fece uno stile suo. Scrisse come viaggiava, correndo e in linea retta: stava al principio e l'anima era già alla fine, divorando tutto lo spazio di mezzo. La parola gli sembra non via, ma impedimento alla corsa; e sopprime, scorcia, traspone, abbrevia: una parola di più gli è una scottatura. Fugge le frasi, le circonlocuzioni, le descrizioni, gli ornamenti, i trilli e le cantilene: fa antitesi a Metastasio. Tratta la parola come non fosse suono, e si diletta di lacerare i ben costrutti orecchi italiani, e a quelli che strillano dà la baia:

Mi trovan duro?
Anch'io lo so:
Taccia ho d'oscuro?
Pensar li fo.
Mi schiarirà
Poi libertà.

All'Italia del Frugoni e del Metastasio dice ironicamente:

Io canterò d'amor soavemente:
Molle udirete il flauticello mio
L'aure agitare armoniosamente
Per lusingare il vostro eterno oblio.

Ciò che parevano i suoi versi e ciò che ne pare a lui, si vede da questo epigramma contro i pedanti:

Vi paion strani?
Saran toscani.
Son duri duri,
Disaccentati...
Non son cantati.
Stentati, oscuri
Irti, intralciati...
Saran pensati.

Pure Alfieri, discepolo di se, non era ben sicuro del fatto suo, e consultò Cesarotti, Parini, tutti quelli che andavano per la maggiore. Voleva un modello di verso tragico, e un barlume ne vedeva nell'Ossian. Ma voleva l'impossibile, e in ultimo prese il miglior partito, fece da sé. Osa, contendi, gli diceva in un bel sonetto Parini. E lui a sudare intorno a' suoi versi, tormentandoli in mille guise; ma:

Gira, volta, ei son francesi.

Gira, volta, ei son versi di Alfieri energicamente individuali, carme più aguzzo assai che tondo. Questo ei chiamava stile tragico. La forma letteraria era vuota e sonora cantilena. Lui, vi oppone questo stile, pensato e non cantato, energico sino alla durezza e pieno di senso. E non gli venne già da un preconcetto filosofico intorno all'arte: gli venne dalla sua natura; perciò in quelle sue asprezze è vivo e originale.
I critici biasimavano lo stile e lodavano tutto il resto, quasi lo stile fosse un fenomeno arbitrario e isolato. Non vedevano l'intima connessione che è tra quello stile e tutto il congegno della composizione. Perché Alfieri, come sopprime periodi, ornamenti e frasi, con lo stesso impeto sopprime confidenti, personaggi, episodi. Nasce una forma nervosa, tesa, spesso convulsa, che risponde al suo modo di concepire e di sentire: perciò non pedantesca, anzi viva, interessante, sincera e calda espressione dell'anima. Se vogliamo conoscere il segreto di questa forma, vediamo non come è fatta, ma come è nata.

LA TRAGEDIA ALFIERIANA

Alfieri cercò la tragedia non nel mondo vivo, ma nelle tragedie apparse. Trovò definizioni e regole, e le accettò per buone senza esame. Questo fu non il suo problema, ma il dato e l'antecedente. Poste quelle definizioni e quelle regole, il suo problema fu di recare a perfezione la tragedia. Conosceva poco la tragedia greca, avea letto Seneca, gli erano familiari le tragedie italiane e francesi. Ma di queste appunto facea poca stima, come prolisse e rettoriche, e confidava di far meglio. Posto che la tragedia sia rappresentazione dell'eroico, la concepì come un conflitto di forze individuali, dove l'eroe soggiace alla forza maggiore. In Metastasio la forza maggiore è essa eroica, essa clemente e benefattrice: il mondo prodotto dalla sua immaginazione musicale è un riso, un canto, un inno, il mondo della misura e dell'armonia glorificato e divinizzato. Qui la forza maggiore è la tirannide o l'oppressione, e la sua vittima è l'eroismo o la libertà: è il mondo della violenza e della barbarie condannato e marchiato a fuoco. Metastasio compiva un ciclo. Alfieri ne comincia un altro. I contemporanei disputavano sullo stile dell'uno e dell'altro, e volevano somiglianza di stile in tanta opposizione di concetto.
Ponendo la tragedia come conflitto di forze individuali, Alfieri rimaneva nel quadro delle tragedie francesi. Il secolo decimosettimo o decimottavo, come reazione al soprannaturale, cercavano di spiegare la storia con mezzi umani e naturali, e rappresentavano come azione de' caratteri e delle passioni individuali quello, che gli antichi chiamavano il destino, e Dante con tutto il mondo cristiano chiamava ordine provvidenziale. Un concetto scientifico della storia era nato in Italia, dove il destino e l'ordine provvidenziale si era trasformato nella natura delle cose di Machiavelli, nello spirito di Bruno, nella ragione di Campanella, nel fato di Vico. Ma il concetto era rimasto nelle alte sfere dell'intelligenza, e appena avvertito, e fuori dell'arte. Shakespeare, con la profonda genialità del suo spirito, avea colto queste forze collettive e superiori che sono il fato della storia. Ma lo spirito di Alfieri era superficiale, più operativo che meditativo, più inteso alla rapidità e al calore del racconto che a scrutarne le profondità. Rimase dunque ne' cancelli del secolo decimottavo. La tragedia fu per lui lotta d'individui, e il fato storico fu la forza maggiore e la tirannide, e la chiave della storia fu il tiranno. Più tardi, ispirato dalla Bibbia, gli lampeggiò innanzi il Saul e intravvide un ordine di cose superiore. Ma il suo Dio inesorabile ci sta per figura rettorica, ed esiste più nell'opinione e nelle parole degli attori che nel nesso degli avvenimenti, tutti spiegati naturalmente. E come un tiranno ci ha da essere, Dio è il tiranno, e tutto l'interesse è per Saul i cui moti sono inconsci e determinati più dalla malizia di Abner che da malizia sua propria. Il suo Saul è la Bibbia al rovescio, la riabilitazione di Saul e i sacerdoti tinti di colore oscuro.
Or questo concetto era la negazione dell'Arcadia, anzi la sua aperta ed esagerata contraddizione. Al mondo di Tasso, di Guarini, di Marino e di Metastasio succedeva la tragedia, non accademica e letteraria, com'erano le tragedie francesi e italiane, ma politica e sociale, fondata su di una idea maneggiata allora in tutti gli aspetti dagli scrittori; ed era questa: che la società apparteneva al più forte, e che giustizia, virtù, verità, libertà giacevano sotto l'oppressione di un doppio potere assoluto e irresponsabile, la tirannide regia e la tirannide popolare. Or questa era tragedia viva, la tragedia del secolo sotto nomi antichi, la lotta di un pensiero adulto e civile contro un assetto sociale ancor barbaro, fondato sulla forza; ma è tragedia di puro pensiero, rimasta in regioni meramente speculative, non divenuta storia. Anzi la società tra quelle agitazioni speculative era ancora idillica e rettorica, confidente in un progresso pacifico, concordi principi e popoli. A quello stato sociale corrispondea la tragedia filosofica e accademica, come era quella di Voltaire. Alfieri vi aggiunse un suo se stesso. La tragedia è lo sfogo lirico dei suoi furori, de' suoi odii, della tempesta che gli ruggia dentro. In mezzo alla società imparruccata e incipriata, che gioiosamente declamava tirannide e libertà, egli prende sul serio la vita e non si rassegna a vivere senza scopo, prende sul serio la morale e vi conforma rigidamente i suoi atti, prende sul serio la tirannide e freme e si dibatte sotto alle sue strette imprecando e minacciando, prende sul serio l'arte e vagheggia la perfezione. Le sue idee sono i suoi sentimenti; i suoi principi sono le sue azioni. L'uomo nuovo, che sente in sé, ha la coscienza orgogliosa della sua solitaria grandezza, e della solitudine si fa piedistallo e vi si drizza sopra col petto e colla fronte come statua ideale del futuro italiano, come il liber'uomo esempio:

Giorno verrà, tornerà il giorno, in cui
Redivivi ormai gl'itali staranno
In campo audaci...
Al forte fianco sproni ardenti dui,
Lor virtù prisca ed i miei carmi, avranno:
Onde in membrar ch'essi già fur, ch'io fui,
D'irresistibil fiamma avvamperanno.
Gli odo già dirmi: O vate nostro, in pravi
Secoli nato, eppur create hai queste
Sublimi età, che profetando andavi

Ci è dunque nella tragedia alfieriana uno spirito di vita, che scolpisce le situazioni, infoca i sentimenti, fonde le idee, empie del suo calore tutto il mondo circostante. Ci è lì dentro l'uomo nuovo, solitario, sdegnoso verso i contemporanei, e che pure s'impone ai contemporanei, sveglia l'attenzione e la simpatia. Gli è che, se quest'uomo nuovo non era ancora entrato ne' costumi e ne' caratteri, informava di sé tutta la coltura, era vivo negl'intelletti, una parentela c'era fra lo spirito di Alfieri e lo spirito del secolo. Perché dunque Alfieri si sente solo? Perché guarda con occhio nemico il suo secolo? Gli è per questo: che il nuovo uomo era in lui un modello puro, concretato nella sua potente individualità, divenuto non solo la sua idea, ma la sua anima, tutta la vita, e che lo vede nella pratica manomesso e contraddetto da quelli stessi che pur con le parole lo glorificavano. Perciò sente uno sdegno più vivo forse verso i democratici facitori di libertà, che verso re e papi e preti, e fugge la loro compagnia, vergine di lingua, di orecchi e di occhi persino:

Non l'opra lor, ma il dir consuona al mio

E muore tristo, maledicendo il secolo e confidando nella posterità:

Ma non inulia l'ombra mia né muta
Starassi no: fia de' tiranni scempio
La sempre viva mia voce temuta.
Né lunge molto, al mio cessar, d'ogni empio
Veggio la vil possanza al suol caduta,
Me forse altrui di liber'uomo esempio.

Tutta la sua compassione è per Luigi XVI, e tutta la sua indegnazione è per l'Assemblea nazionale, per quei profumati barbari, balbettanti una qualche non lor libera idea, per quei ribaldi fortunati, contro i quali gitta l'ultimo strale nel Misogallo:

Tiene 'l Ciel dai ribaldi, Alfier dai buoni.

Eccolo dunque quest'Alfieri solitario, che serba in sé inviolato e indiviso il suo modello, e, se il cielo gli dà torto, lui dà torto al cielo. Taciturno e malinconico per natura, sospinto dalla società ancora più in se stesso, solo col suo modello, rimane nel mondo vago e illimitato de' sentimenti e de' fantasmi, dove non ci è di concreto e di compiuto che il suo individuo. Per ciò i suoi fantasmi sono più simili a concetti logici che a cose effettuali, più a generi e specie che ad individui. Non sono astrazioni, come le chiamano. Potrebbero vuote astrazioni destare un interesse così vivo? Anzi sono fantasmi appassionati, ribollenti, sanguigni: non ci e vacuità, ci è congestione di un sangue non ingenito e proprio, ma trasfuso e comunicato. Senti nella tragedia la solitudine dell'uomo, che armeggia con se stesso e produce la sua propria sostanza. Non ama ciò che gli è estrinseco, la natura, la località, la personalità e non intende e non la tollera, e la stupra, lasciandovi le sue orme impresse. Il calore di una potentissima individualità non gli basta a infonder la vita, e resta impotente alla generazione, perché gli manca l'amore, quel sentirsi due e cercar l'altro e obbliarsi in quello. Impotenza per soverchio di attività, che gli toglie la facoltà di ricevere le impressioni e riprodurle. L'occhio torbido della passione non guarda intorno, non si assimila gli oggetti esterni. Alfieri è tutto passione, diresti quasi che voglia con un solo impeto mandar fuori il vulcano che gli arde nel petto, non ha la pazienza e il riposo dell'artista, quel divino riso col quale segue in tutti i suoi movimenti la sua creatura. Quel suo furore, del quale si vanta, è il furore di Oreste che gl'intorbida l'occhio, sì che, investendo il drudo, uccide la madre; e gli fa scambiare i colori, abbozzare le immagini, appuntare i sentimenti, dare al tutto un aspetto teso e nervoso. Indi quella sceneggiatura e quello stile, quel sopprimere gradazioni, chiaroscuri, quel soverchio rilievo, quel dir molto in poco, come si vanta, quella mutilazione e congestione, quell'abbreviazione tumultuosa della vita, quel fondo oscuro e incolore della natura, quelle situazioni strozzate, que' personaggi in abbozzo, che più fremono e meno li comprendi. Di che aveva Alfieri un sentore confuso, quando scriveva:

Nulla di quanto l'uom scienza chiama
Per gli orecchi mai giunto erami al core:
Ira, vendetta, libertade amore
Sonava io sol, come chi freme ed ama.

E così è. La sua tragedia freme ira, vendetta, libertà, amore. Ma non basta fremere o sonare, e l'attica dea, che gli dice: - O dormi o crea - ha torto: non chi dorme, ma chi studia e medita è buono a creare. Non vale cuore pieno e mente ignuda. Manca a lui la scienza della vita, quello sguardo pacato e profondo, che t'inizia nelle sue ombre e ne' suoi misteri e te ne porge tutte le armonie. Perciò dalla concitata immaginazione escon fuori punte arditissime, un certo addensamento di cose e d'immagini, che par folgore, ma in cielo scarno e povero, com'è il Pace di Nerone, il celebre - Scegliesti? - Ho scelto - e il Vivi, Emon tel comando, e il Fui padre, e il Ribelli tutti. E ubbidiran pur tutti: uno stile a fazione di Tacito e di Machiavelli, con una ostentazione che scopre l'artificio, una vita a lampi e salti, più dialogo che azione, e, sotto forme brevi, spesso prolissa e stagnante. Si succedono sentimenti crudi, aguzzi, senza riposi o passaggi, e accumulati con una tensione intellettuale di poca durata e che finisce nello scarno e nell'insipido. E si comprende perché fra tanto calore la composizione riesce nel suo insieme fredda e monotona, perché in quell'esaltazione fittizia del discorso ti senti nel vuoto e perché fra tanti motti e sentenze memorabili non ricordi un solo personaggio, uomo o donna che sia. Non uno è rimasto vivo. E il difetto è maggiore negli eroi, soprattutto ne' rari casi che la forza è con loro e sono essi i vincitori. Le loro qualità eroiche, religione, patria, libertà, amore, si esalano in frasi generiche, e non puoi mai coglierli nella loro intimità e nella loro attività. Ci è il patriottismo, e non la patria; ci è l'amore e non l'amante; ci è la libertà, e manca l'uomo: sembrano personificazioni più che persone ne' contrasti, nelle gradazioni, nella ricchezza della loro natura. Tali sono Carlo e Isabella, Davide e Gionata, Icilio e Virginio, e i Bruti, gli Agidi, i Timoleoni. Manca alla virtù ogni semplicità e modestia, e nella concitata espressione senti la povertà del contenuto. Maggior vita è nei personaggi tirannici o colpevoli, dove Alfieri ha condensata tutta la sua bile, e l'odio lo rende profondo. Uno dei personaggi da lui meno stimati e più interessanti per ricchezza e profondità di esecuzione è il suo Egisto nell'Agamennone; e la scena, dove l'iniquo con tanta abilità fa sorgere nella mente di Clitennestra l'idea dell'assassinio, è degna di Shakespeare.
Alfieri è l'uomo nuovo in veste classica. Il patriottismo, la libertà, la dignità, l'inflessibilità, la morale, la coscienza del diritto, il sentimento del dovere, tutto questo mondo interiore, oscurato nella vita e nell'arte italiana, gli viene non da una viva coscienza del mondo moderno, ma dallo studio dell'antico, congiunto col suo ferreo carattere personale. La sua Italia futura è l'antica Italia nella sua potenza e nella sua gloria o, com'egli dice, il sarà, e l'è stato. Risvegliare negl'italiani la virtù prisca, rendere i suoi carmi sproni acuti alle nuove generazioni, sì che ritornino degne di Roma, è il suo motivo lirico che ha comune con Dante e col Petrarca. L'alto motivo che ispirò il patriottismo de' due antichi toscani, divenuto a poco a poco un vecchiume rettorico e messo in musica da Metastasio, ripiglia la sua serietà nell'uomo nuovo che si andava formando in Italia, e di cui Alfieri era l'espressione esagerata, a proporzioni epiche. Perché Alfieri, realizzando in sé il tipo di Machiavelli, si avea formata un'anima politica: la patria era la sua legge, la nazione il suo dio, la libertà la sua virtù; ed erano idee povere di contenuto, forme libere e illimitate, colossali come sono tutte le aspirazioni non ancora determinate e concretate nel loro urto con la vita pratica. Se avesse rappresentato il cozzo fatalmente tragico delle aspirazioni con la realtà, ne sarebbe uscito un alto pathos, il vero motivo della tragedia moderna. Ma un concetto così elevato del mondo era prematuro; e, d'accordo col suo secolo, Alfieri non vede di tutta quella realtà che il fenomeno più grossolano, la forza maggiore o il tiranno; e non lo studia e non lo comprende, ma l'odia, come la vittima il carnefice; l'odia di quell'odio feroce da giacobino, che, non potendo spiegarsi e assimilarsi l'ostacolo taglia il nodo con la spada. Alfieri odiava i giacobini; ma egli era un Robespierre poetico e, se i giacobini avessero lette le sue tragedie, potevano dirgli: - Maestro, da voi abbiamo imparato l'arte. - L'uomo che glorificava il primo Bruto, uccisore de' figli, e l'altro Bruto, uccisore di Cesare padre suo, l'uomo che non avea che parole di dispregio per Carlo I, vittima de' repubblicani inglesi, non aveva nulla a dire a coloro che tagliarono la testa al decimosesto Luigi. Ridotte le forze collettive e sociali a forza e arbitrio di un solo individuo, era naturale che l'individuo prendesse grandezza epica e colossale sotto il nome di tiranno, e che l'odio contro di quello fosse proporzionato a quella grandezza. Ma in questo caso divenuta la tragedia un gioco di forze individuali, eliminato ogni elemento collettivo e superiore, essa non può avere per base che la formazione artistica dell'individuo. Se non che, il nostro tragico è più preoccupato delle idee che mette in bocca a' suoi eroi che della loro anima e della loro personalità. Il contenuto politico e morale non è qui semplice stimolo e occasione alla formazione artistica, ma è la sostanza, e invade e guasta il lavoro dell'arte. Il qual fenomeno ho già notato come caratteristico della nuova letteratura. Il contenuto esce dalla sua secolare indifferenza e si pone come esteriore e superiore all'arte, maneggiandola quasi suo istrumento, un mezzo di divulgarlo e infiammare la coscienza, per modo che i carmi sieno sproni acuti. Il sentimento politico è troppo violento e impedisce l'ingenua e serena contemplazione. Più è vivo in Alfieri, e meno gli concede il godimento estetico. Perciò le sue concezioni, i suoi sentimenti, i suoi colori sono crudi e disarmonici, e, per dar troppo al contenuto, toglie troppo alla forma. Egli è la nuova letteratura nella più alta esagerazione delle sue qualità, più simile a violenta reazione contro il passato che a quella tranquilla affermazione di sé, paga di un'ironia senza fiele, così nobile in Parini. Nell'ironia pariniana senti un nuovo mondo affacciarsi nel sicuro possesso di se stesso. Nel sarcasmo alfieriano senti il ruggito di non lontane rivoluzioni. Né ci volea meno che quella esagerazione e quella violenza per colpire le torpide e vuote immaginazioni.
Gli effetti della tragedia alfieriana furon corrispondenti alle sue intenzioni. Essa infiammò il sentimento politico e patriottico, accelerò la formazione di una coscienza nazionale, ristabilì la serietà di un mondo interiore nella vita e nell'arte. I suoi epigrammi, le sue sentenze, i suoi motti, le sue tirate divennero proverbiali, fecero parte della pubblica educazione. Declamare tirannide e libertà venne in moda, spasso innocente allora, e più tardi, quando i tempi ingrossarono, dimostrazione politica piena di allusione a' casi presenti. I contemporanei, applaudendo in teatro alle sue tirate, non credevano che quelle massime dovessero impegnar la coscienza, e trovavano lui, che ci credeva, selvatico ed eccentrico. Né si meravigliavano della esagerazione, perché l'esagerazione era da un pezzo la malattia dello spirito italiano, smarrito il senso della realtà e della misura. Ma nelle nuove generazioni, travagliate da' disinganni e impedite nella loro espansione, quegl'ideali tragici, cosí vaghi e insieme appassionati, rispondevano allo stato della coscienza, e quei versi aguzzi e vibrati come un pugnale, quei motti condensati come un catechismo, ebbero non poca parte a formare la mente ed il carattere. La sua fama andò crescendo con la sua influenza, e ben presto parve all'Italia di avere infine il suo gran tragico, pari a' sommi. Ci era la tragedia, ma non c'era ancora il verso tragico, a sentenza de' letterati. Chiedevano qualche cosa di mezzo tra la durezza di Alfieri e la cantilena di Metastasio. E quando fu rappresentato l'Aristodemo, il problema parve sciolto. Vedevano in quella tragedia la fierezza dantesca e la dolcezza virgiliana, di Dante il core e del suo duca il canto. E in verità, di Dante e di Virgilio qualche cosa era in VINCENZO MONTI. Avea Dante nell'immaginazione e Virgilio nell'orecchio.

VINCENZO MONTI

L'abate Monti, nato fra tanto fermento d'idee, ne ricevè l'impressione, come tutti gli uomini colti. Ma furono in lui più il portato della moda che il frutto di ardente convinzione. Fu liberale sempre. E come non esser liberale a quel tempo quando anche i retrivi gridavano libertà, bene inteso la vera libertà, come la chiamavano? E in nome della libertà glorificò tutt'i governi. Quando era moda innocente declamare contro il tiranno, gittò sul teatro l'Aristodemo, che fece furore sotto gli occhi del papa. Quando la rivoluzione francese s'insanguinò, in nome della libertà combatté la licenza, e scrisse la Baswilliana. Ma il canto gli fu troncato nella gola dalle vittorie di Napoleone, e allora in nome della libertà cantò Napoleone; e in nome anche della libertà cantò poi il governo austriaco. Le massime eran sempre quelle, applicate a tutt'i casi dal duttile ingegno. Il poeta faceva quello che i diplomatici. Erano le idee del tempo e si torcevano a tutti gli avvenimenti. I suoi versi suonavano sempre libertà, giustizia, patria, virtù, Italia. E non è tutto ipocrisia. Dotato di una ricca immaginazione, ivi le idee pigliano calore e forma, sì che facciano illusione a lui stesso e simulino realtà. Non aveva l'indipendenza sociale di Alfieri e non la virile moralità di Parini: era un buon uomo che avrebbe voluto conciliare insieme idee vecchie e nuove, tutte le opinioni, e, dovendo pur scegliere, si tenea stretto alla maggioranza, e non gli piacea di fare il martire. Fu dunque segretario dell'opinione dominante, il poeta del buon successo. Benefico, tollerante, sincero, buono amico, cortigiano più per bisogno e per fiacchezza di animo che per malignità o perversità d'indole, se si fosse ritratto nella verità della sua natura, potea da lui uscire un poeta. Orazio è interessante, perché si dipinge qual è scettico, cinico, poltrone, patriota senza pericolo, epicureo. Monti raffredda, perché sotto la magnificenza di Achille sentì la meschinità di Tersite, e più alza la voce e più piglia aria dantesca, più ti lascia freddo. Ci è quel falso eroico, tutto di frase e d'immagine, qualità tradizionale della letteratura e caro ad un popolo fiacco e immaginoso, che aveva grandi le idee e piccolo il carattere. Monti era la sua personificazione, e nessuno fu più applaudito. La natura gli aveva largito le più alte qualità dell'artista: forza, grazia, affetto, armonia, facilità e brio di produzione. Aggiungi la più consumata abilità tecnica, un'assoluta padronanza della lingua e dell'elocuzione poetica. Ma erano forze vuote, macchine potenti prive d'impulso. Mancava la serietà di un contenuto profondamente meditato e sentito mancava il carattere che è l'impulso morale. Pure i suoi lavori, massime l'Iliade, saranno sempre utili a studiarvi i misteri dell'arte e le finezze dell'elocuzione. E la conclusione dello studio sarà: che non basta l'artista, quando manchi il poeta.
Monti, come Metastasio, fu divinizzato in vita. Ebbe onori, titoli, forza, molto seguito. Un popolo così artistico come l'italiano ammirava quel suo magistero a freddo, quella felicità di armonie. Dopo la sua morte ebbe gli elogi di Alessandro Manzoni e di Pietro Giordani. E l'esagerazione delle accuse rese cari quegli elogi, quasi pio ufficio alla memoria di un uomo, in cui era più da compatire che da biasimare.
Fondata la repubblica cisalpina, in quel primo fervore di libertà, Monti fu censurato per la sua Basvilliana con lo stesso furore che l'avevano applaudito. Un giovane scrisse la sua apologia. L'atto ardito piacque. E il giovane entrava nella vita tra la stima e la benevolenza pubblica. Parlo di UGO FOSCOLO, formatosi alla scuola di Plutarco, di Dante e di Alfieri.

UGO FOSCOLO

L'Italia, secondo il solito, se la contendevano francesi e tedeschi. Ritornava la storia, ma con altri impulsi. Non si trattava più di dritti territoriali. La sete del dominio e dell'influenza era dissimulata da motivi più nobili. Venivano in nome delle idee moderne. Gli uni gridavano libertà e indipendenza nazionale: dietro alle loro baionette ci era Voltaire e Rousseau. Gli altri, proclamatisi prima difensori del papa e ristoratori del vecchio, finivano promettitori di vera libertà e di vera indipendenza. Le idee marciavano appresso a' soldati e penetravano ne' più umili strati della società. Propaganda a suon di cannoni, che compì in pochi anni quello che avrebbe chiesto un secolo. Il popolo italiano ne fu agitato ne' suoi più intimi recessi: sorsero nuovi interessi, nuovi bisogni, altri costumi. E quando, dopo il 1815, parve tutto ritornato nel primo assetto, sotto a quella vecchia superficie fermentava un popolo profondamente trasformato da uno spirito nuovo, che ebbe, come il vulcano, le sue periodiche eruzioni, finché non fu soddisfatto.
Quei grandi avvenimenti colsero l'Italia immatura e impreparata. Non ancora vi si era formato uno spirito nazionale, non aveva ancora una nuova personalità, un consapevole possesso di se stessa. Il sole irradiava appena gli alti monti. Nella stessa borghesia, ch'era la classe colta, trovavi una confusione d'idee vecchie e nuove, niente di chiaro e ben definito, audacie ed utopie mescolate con pregiudizi e barbarie. Non erano sorti avvenimenti atti a stimolare le passioni, a formare i caratteri. Privi d'iniziativa propria, aspettavano prima tutto da' principi, poi tutto da' forestieri. Fatti liberi e repubblicani senza merito loro, rimasero al seguito de' loro liberatori, come clientela messa lì per batter le mani e far la corte al padrone magnanimo. E quando, passata la luna di miele, il padrone ebbe i suoi capricci e prese aria di conquistatore e d'invasore, gittarono le alte grida, e cominciò il disinganno.
I centri più attivi di questi avvenimenti furono Napoli e Milano, colà dove le idee nuove si erano mostrate più vive. Napoli, fatta repubblica e abbandonata poco poi a se stessa, ebbe in pochi mesi la sua epopea. Felici voi, Pagano, Cirillo, Conforti, Manthonè, cui il patibolo cinse d'immortale aureola! La loro morte valse più che i libri, e lasciò nel regno memorie e desideri non potuti più sradicare. Sfuggirono alla strage alcuni patrioti, che ripararono a Milano, e tra gli altri il CUOCO, che narrò gli errori e le glorie della breve repubblica con una sagacia aguzzata dall'esperienza politica. Milano divenne il convegno de' più illustri patrioti. Metastasio e Goldoni, Filangieri e Beccaria erano morti da pochi anni. Bettinelli, il Nestore, sopravviveva a se stesso. Alfieri, che ne' primi entusiasmi avea cantata la liberazione dell'America e la presa della Bastiglia, vedute le esorbitanze della Rivoluzione, sdegnoso e vendicativo sfogava nel Misogallo, nelle Satire l'acre umore; e, contraddetto dagli avvenimenti, si seppelliva, come Parini, nel mondo antico, e, studiando il greco, finiva la vita nel riso sarcastico di commedie triste. Cesarotti, addormentato sugli allori, recitava dalla cattedra lodi ufficiali e scriveva in versi panegirici insipidi. Pietro Verri, salito in ufficio, maturava con poca speranza progetti e riforme. La vecchia generazione se ne andava al suono dei poemi lirici di Vincenzo Monti, professore, cavaliere, poeta di corte. I repubblicani a Napoli e a Milano venivano gallonati nelle anticamere regie. E non si sentì più una voce fiera, che ricordasse i dolori e gli sdegni e le vergogne, fra tanta pompa di feste e tanto strepito di armi.
Comparve Iacopo Ortis. Era il primo grido del disinganno, uscito dal fondo della laguna veneta, come funebre preludio di più vasta tragedia. Il giovane autore aveva cominciato come Alfieri: si era abbandonato al lirismo di una insperata libertà. Ma, quasi nel tempo stesso, lui cantava l'eroe liberatore di Venezia, e l'eroe, mutandosi in traditore, vendeva Venezia all'Austria. Da un dì all'altro Ugo Foscolo si trovò senza patria, senza famiglia, senza le sue illusioni, ramingo.
Ritratto di Ugo Foscolo

Sfogò il pieno dell'anima nel suo Iacopo Ortis. La sostanza del libro è il grido di Bruto: O virtù, tu non sei che un nome vano! Le sue illusioni, come foglie di autunno, cadono ad una ad una, e la loro morte è la sua morte, è il suicidio. A breve distanza hai l'ideale illuminato di Alfieri con tanta fede, e l'ideale morto di Foscolo con tanta disperazione. Siamo ancora nella gioventù: non ci è il limite. Illimitate le speranze, illimitate le disperazioni. Patria, libertà, Italia, virtù, giustizia, gloria, scienza, amore, tutto questo mondo interiore, dopo sì lunga e dolorosa gestazione, appena è fiorito, e già appassisce. La verità è illusione, il progresso è menzogna. Al primo riso della fortuna ci era la follia delle speranze; al primo disinganno ci è la follia delle disperazioni. Questo subitaneo trapasso di sentimenti illimitati al primo urto della realtà rivela quella agitazione d'idee astratte ch'era in Italia, venuta da' libri e rimasta nel cervello, scompagnata dall'esperienza e non giunta ancora a temprare i caratteri. Trovi in questo Iacopo un sentimento morboso, una espulsione giovanile e superficiale, più che l'espressione matura di un mondo lungamente covato e meditato, una tendenza più alla riflessione astratta che alla formazione artistica, una immaginazione povera e monotona in tanta esagerazione dei sentimenti.
Il grido di Iacopo rimase sperduto fra il rumore degli avvenimenti. Sorsero nuove speranze, si fabbricarono nuove illusioni. Il romanzo, uscito anonimo, mutilato e interpolato, pura speculazione libraria, destò curiosità, fu il libro delle donne e dei giovani, che vi pescavano un frasario amoroso. Ma non vi si diè importanza politica né letteraria, anzi molti, tratti da somiglianze superficiali, lo dissero imitazione del Werther. Il fatto è che non rispondeva allo stato della pubblica opinione, distratta da così rapida vicenda di cose e di uomini; e quelle disperazioni erano contraddette dalle nuove speranze.
Foscolo si mescolò alla vita italiana e si sentì fiero della sua nuova patria, della patria di Dante e di Alfieri. Le necessità della vita lo incalzavano. E ancora più, uno spirito guerriero che gli ruggia dentro e non trovava espansione, una forza inquieta in ozio. Giovane, pieno d'illusioni, appassionato, con tanto furore di gloria, con tanto orgoglio al di dentro, con un grande desiderio di fare, e di fare grandi cose, lui, educato da Plutarco, stimolato da Alfieri, quell'ozio forzato lo gitta violentemente in sé, gli rode l'anima. E' la malattia che egli chiama nel suo Ortis, con una energia piena di verità, consunzione dell'anima. Lo vedi a Milano, vagante, scontento, fremente, ora rinselvarsi, fantasticare, scrivere se stesso in verso, ora giocare, donneare, contendere, far baccano. Gli balena innanzi il suicidio, ed ha appena venti anni:

Non son chi fui; perì di noi gran parte:
Questo che avanza è sol languore e pianto.

In questa malattia di languore s'intenerisce, pensa alla madre, al fratello, alla sua lontananza Zacinto, non senza certi ribollimenti, che annunziano la vigoria di una forza ròsa, non doma. Alfieri a venti anni si sfogava verseggiando, le sue effusioni liriche sono la sua storia da' sedici a' venti anni. Ricomparisce in quei versi una intimità dolce e malinconica, di cui l'Italia aveva perduta la memoria. E gli veniva non solo dal Petrarca, ma dalla terra materna, dal suo sentire greco, delle corde eolie maritate alla grande itala cetra. Ecco versi, preludio di Giacomo Leopardi:

Tu non altro che il pianto avrai del figlio,
O materna mia terra: a noi prescrisse
Il fato illacrimata sepoltura.

L'esercizio della vita guarì Foscolo. Soldato della repubblica, combatté a Cento, alla Trebbia, a Novi, a Genova. La vita militare gli ritornò il sapore della vita. Nelle odi A Luigia Pallavicini e all'Amica risanata trovi un mondo musicale e voluttuoso, dove l'anima, guarita e gioiosa, si espande nella varietà della vita. La sua fama gli dà il gusto delle lettere e della poesia; traduce la Chioma di Berenice e vi oppone un commento, dove fa sfoggio di una erudizione peregrina; tenta una traduzione dell'Iliade, emulo di Monti: scrive un'orazione pe' comizi di Lione con pomposo artificio di stile e con gravità e arditezza d'idee.

I «SEPOLCRI»

I Sepolcri stabilirono la sua riputazione e lo alzarono accanto a' sommi. Fu chiamato per antonomasia l'autore dei Sepolcri. E, in verità, questo carme e la prima voce lirica della nuova letteratura, l'affermazione della coscienza rifatta, dell'uomo nuovo.
Una legge della repubblica prescriveva l'uguaglianza dei sepolcri, l'uguaglianza degli uomini innanzi alla morte. Quel fasto de' sepolcri sembrava privilegio, la distinzione delle classi anche in quella forma. - Parini dunque giacerà nella fossa comune accanto al ladro - pensava Foscolo. Questa logica rivoluzionaria, spinta fino agli ultimi corollarii gli offuscava la poesia della vita, lo riconduceva nel mondo naturale e ferino, non ancor abitato dall'uomo. Né gli entrava quel trattar l'uomo come un puro animale. Sentiva in sé offeso il poeta e l'uomo. Mancava l'idea religiosa, che abbellisce la morte e mostra il paradiso sotto le oscure volte dell'obblio. Ma vivo era il senso dell'umanità nel suo progresso e ne' suoi fini, collegata con la famiglia, con la patria, con la libertà, con la gloria. Di là cava Foscolo le sue armonie, una nuova religione de' sepolcri: il sublime di un mondo naturale e ferino della morte è trasformato da' sentimenti più delicati dell'umanità in un pantheon vivente, perché opera ancora su' vivi, desta ricordanza e illusioni, accende a nobili fatti. Sono illusioni, senza dubbio; ma sono le illusioni dell'umanità, eterne quanto essa, parte della sua storia. Il carme è una storia dell'umanità da un punto di vista nuovo, una storia de' vivi costruita da' morti. Senti un'ispirazione vichiana in questo mondo, che dagli oscuri formidabili inizi naturali e ferini la religione de' sepolcri alza a stato umano e civile, educatrice di Grecia e d'Italia; il doppio mondo caro a Foscolo, che unisce in una sola contemplazione Ilio e Santa Croce. La storia è antica, ma il prospetto è nuovo, e ne nasce originalità di forme e di colori. Ci è qui fuso inferno e paradiso, la vasta ombra gotica del nulla e dell'infinito, e i sentimenti teneri e delicati di un cuore d'uomo: il tutto in una forma solenne e quasi religiosa, come di un inno alla divinità.
La Rivoluzione sotto l'orrore de' suoi eccessi rifaceva già la sua vita. Sopravvenivano idee più temperate: si sentiva il bisogno di una restaurazione religiosa e morale. Il carme di Foscolo faceva vibrare queste nuove corde. La musa non è più Alfieri. Si accostavano i tempi di Vico.
Declamare contro i preti e contro la superstizione era il tono del secolo. Aggiungi i tiranni, i nobili, i privilegi, i monopoli. Si combatteva in nome della filosofia, della libertà, dell'economia pubblica. Qui il tono è altro.
Non può credere il poeta all'immortalità dell'anima; pure, vorrebbe crederci. Sarà una illusione, ma è crudeltà togliere illusioni che ci rendono felici, che ci abbelliscono la vita. Così la via è aperta ad un ritorno delle idee religiose, non in nome della verità, ma in nome dell'umanità e della poesia. Senti già Chateaubriand.
Ma, se purtroppo è vero che il tempo traveste ogni cosa, che la materia solo è immortale e le forme periscono, non è vero che la morte dell'uomo sia il nulla. Il poeta gli fabbrica una nuova immortalità. Restano di lui gli scritti, le idee, le geste, la memoria; la Musa anima il silenzio delle urne, e i viventi vi cercano ispirazioni e conforti. La pietà de' defunti è la religione dell'umanità, ove non si voglia che ricaschi nello stato ferino. Non vogliamo credere a un essere superiore, dispensatore del premio e della pena: sia pure, anzi purtroppo è così: vero è ben, Pindemonte! Ma, uomini, possiamo noi rifiutar fede all'umanità? e vogliamo proprio togliere alla vita tutte le sue illusioni, tutta la sua poesia? Foscolo protesta come uomo e come poeta. E' in lui sempre il secolo decimottavo, ma il secolo andato troppo innanzi nel suo lavoro di demolizione e che si arresta, cercando un punto di fermata nei sentimenti umani, via ai sentimenti religiosi.
Queste cose Foscolo non le pensa solo, le sente. Ci era già il patriota, il liber'uomo: qui apparisce l'uomo nella sua intimità, ne' delicati sentimenti della sua natura civile. L'uomo nuovo s'integra, il mondo interiore della coscienza si aggiunge nuovi elementi. Ed è da questa profondità di sentire che sono uscite le più belle ispirazioni della lirica italiana, il lamento di Cassandra, le impressioni di Maratona, l'apoteosi di Santa Croce. Il punto di vista è così elevato, che lo spettacolo d'Italia caduta così giù, materia di tanta rettorica, lo trova rassegnato e meditativo sulle alterne vicende delle umane sorti. Ci è vista di filosofo, cuore d'uomo e ispirazione di poeta.
Quando comparvero i Sepolcri, fu come si fosse toccata una corda, che vibrava in tutt'i cuori. E non fu minore l'impressione su' letterati.
La nuova letteratura si era annunziata con la soppressione della rima. Alla terzina e all'ottava succedeva il verso sciolto. Era una reazione contro la cadenza e la cantilena. La nuova parola, confidente nella serietà del suo contenuto, non pur sopprimeva la musica, ma la rima: bastava ella sola a se stessa. Foscolo qui sopprime anche la strofa; e non era già una tragedia o un poema, era una composizione lirica, alla quale egli osa togliere tutt'i mezzi cantabili e musicali della metrica. Qui è pensiero nudo, acceso nella immaginazione e prorompente caldo di se stesso, con le sue consonanze e le sue armonie interne. Il verso, domato da tenace lavoro, rotte le forme tradizionali e meccaniche, vien fuori spezzato in sé, con nuove tessiture e nuovi suoni; e non è artificio: è voce di dentro, è la musica delle cose, la grande maniera di Dante. Anche il genere parve nuovo. Al sonetto e alla canzone succedeva il carme, forma libera di ogni esterno meccanismo. Era il poema lirico del mondo morale e religioso, l'elevazione dell'anima nelle alte sfere dell'umanità e della storia, una ricostruzione della coscienza o dell'uomo interiore al di sopra delle passioni contemporanee, era l'uomo intero nella esteriorità della sua vita patriota e di cittadino e nella intimità dei suoi affetti privati, era l'aurora di un nuovo secolo. Il carme preludeva all'inno. Foscolo batteva alle porte del secolo decimonono.
Entrato in questa via, mette mano ad altri carmi: l'Alceo, la Sventura, l'Oceano. Ma non trova più la prima ispirazione: compone a freddo, letterariamente, gli escono frammenti, niente giunge a maturità. Comparvero ultime le Grazie. Lavoro finissimo di artista, ma il poeta quasi non ci è più.
Rimane un Foscolo in prosa. Ha innanzi la sua Prolusione, le sue lezioni, i suoi scritti critici. Non è prosa francese e non toscana, voglio dire che vi desideri la grazia e la vivezza toscana, e la logica e il brio francese. E' una prosa personale, ancora in formazione, piena di reminiscenze latine e oratorie, con una tendenza alla maestà e alla forza. Mostra più calore d'immaginazione che vigore d'intelletto.
Il concetto dominante di questa prosa è l'uomo soprapposto al letterato. Foscolo ti dà la formola della nuova letteratura. La sua forza non è al di fuori, ma al di dentro, nella coscienza dello scrittore, nel suo mondo interiore. Dante e Petrarca visti da questo aspetto, risplendono di nuova luce. Lo stile si scioglie dall'elocuzione e da ogni artificio, e s'interna nel pensiero e nel sentimento. Lo stesso Beccaria è oltrepassato. Ci avviciniamo all'estetica. Non ci è ancora la scienza, ma ce n'è il gusto e la tendenza.
E ci è ancora di più. Vi rinasce il gusto delle investigazioni filosofiche e storiche, tenute in tanto disprezzo da un secolo che faceva tavola di tutto il passato. L'Italia vi ripiglia le sue tradizioni e si ricongiunge a Vico e Muratori.
Foscolo apriva la via al nuovo secolo. E non è dubbio che, se il progresso umano avvenisse non in modo tumultuario, ma in modo logico e pacifico, l'ultimo scrittore del secolo decimottavo sarebbe stato anche il primo scrittore del secolo decimonono, il capo della nuova scuola. Ma quel progresso vestiva aspetto di reazione, e in quella sua forma negativa e violenta offendeva le idee e le forme di un secolo, del quale Foscolo si sentiva complice. Gli spiaceva soprattutto la guerra mossa alle forme mitologiche. Sentiva in quelle negazioni negato se stesso. E quando avea già moderate molte sue opinioni religiose e politiche, e s'era fatto della vita un concetto più reale, e s'era spogliata gran parte delle sue illusioni, quando stava già con l'un piè nel nuovo secolo; calunniato, disconosciuto, dimenticato, nel continuo flutto delle sue contraddizioni, finì tristo, lanciando al nuovo secolo, come una sfida, le sue Grazie, l'ultimo fiore del classicismo italiano.
Foscolo morì nel 1827. E già si erano levati sull'orizzonte PELLICO, MANZONI, GROSSI, BERCHET. Comparsa era la scuola romantica, l'audace scuola boreale.

IL MONDO EPICO E LIRICO DEL MANZONI

Il 1815 è una data memorabile come quella del concilio di Trento. Segna la manifestazione officiale di una reazione non solo politica, ma filosofica e letteraria, iniziata già negli spiriti, come se ne veggono le orme anche ne' Sepolcri, e consacrata nel 18 brumaio. La reazione fu così rapida e violenta come la Rivoluzione. Invano Bonaparte tentò di arrestarla, facendo delle concessioni e cercando nelle idee medie una conciliazione. Il movimento impresso giunse a tale, che tutti gli attori della Rivoluzione furono mescolati in una comune condanna, giacobini e girondini, Robespierre e Danton, Marat e Napoleone. Il Terrore bianco successe al rosso.
Venne di moda un nuovo vocabolario filosofico, letterario, politico. I due nemici erano il materialismo e lo scetticismo, e vi sorse contro lo spiritualismo, portato sino all'idealismo e al misticismo. Al diritto di natura si oppose il diritto divino, alla sovranità popolare la legittimità, ai diritti individuali lo Stato, alla libertà l'autorità o l'ordine. Il medio evo ritornò a galla glorificato come la culla dello spirito moderno, e fu corso e ricorso dal pensiero in tutt'i suoi indirizzi. Il cristianesimo, bersaglio fino a quel punto di tutti gli strali, divenne il centro di ogni investigazione filosofica e la bandiera di ogni progresso sociale e civile; i classici furono per istrazio chiamati pagani, e le dottrine liberali furono qualificate senz'altro pretto paganesimo; gli ordini monastici furono dichiarati benefattori della civiltà, e il papato potente fattore di libertà e di progresso. Mutarono i criteri dell'arte. Ci fu un'arte pagana e un'arte cristiana, di cui fu cercata la più alta espressione nel gotico, nelle ombre, ne' misteri, nel vago e nell'indefinito, in un di là che fu chiamato l'ideale, in un'aspirazione all'infinito, non capace di soddisfazione, perciò malinconica: la malinconia fu battezzata e detta qualità cristiana, il sensualismo, il materialismo, ii plastico divenne il carattere dell'arte pagana: sorse il genere cristiano romantico in opposizione al genere classico. Religione, fede, cristianesimo, l'ideale, lo spirito, il trono e l'altare, la pace e l'ordine furono le prime parole del nuovo secolo. La contraddizione era spiccata. A Voltaire e Rousseau succedeva Chateaubriand, Stael, Lamartine, Victor Hugo, Lamennais. E proprio nel 1815 uscivano in luce gl'Inni sacri del giovane Manzoni.
Alessandro Manzoni ritratto da Francesco Hayez

Storia, letteratura, filosofia, critica, arte, giurisprudenza, medicina, tutto prese quel colore. Avevamo un neoguelfismo, il medio evo si drizzava minaccioso e vendicativo contro tutto il Rinascimento.
Il movimento non era già fittizio e artificiale, sostenuto da penne salariate, promosso dalle polizie, suscitato da passioni e interessi temporanei. Era un serio movimento dello spirito, secondo le eterne leggi della storia, al quale partecipavano gl'ingegni più eminenti e liberi del nuovo secolo. Movimento esagerato, senza dubbio, ne' suoi inizi, perché mirava non solo a spiegare, ma a glorificare il passato, a cancellare dalla storia i secoli, a proporre come modello il medio evo. Ma l'una esagerazione chiamava l'altra. La dea Ragione e la comunione de' beni avea per risposta l'apoteosi del carnefice e la legittimità dell'Inquisizione.
Ma l'esagerazione fu di corta durata, e la reazione fallì ne' suoi tentativi di ricomposizione radicale alla medio evo. Avea contro di sé infiniti nuovi interessi, venuti su con la Rivoluzione: interessi materiali, morali, intellettuali. D'altra parte il nuovo ordine di cose favoriva in gran parte la monarchia, che avea pure contribuito a promuoverlo. Non era interesse de' principi restaurare le maestranze, le libertà municipali, le classi privilegiate, tutte quelle forze collettive, sparite nella valanga rivoluzionaria, nelle quali essi vedevano un freno al loro potere assoluto. Rimase dunque in piedi quasi dappertutto e quasi intero l'assetto economico sociale consacrato da' nuovi codici, e la monarchia assoluta uscì più forte dalla burrasca. Perché il clero e la nobiltà, un giorno suoi rivali, divennero i suoi protetti e i suoi servitori sotto titoli pomposi; e scomparse le forze collettive naturali, poté con facilità riordinare la società sopra aggregazioni artificiali necessariamente sottomesse alla volontà sovrana, burocrazia, esercito e clero. La burocrazia interessava alla conservazione dello Stato la borghesia, che si dava alla caccia degl'impieghi, e, centralizzando gli affari, sopprimeva ogni libertà e movimento locale e teneva nella sua dipendenza provincie e comuni. Una moltitudine d'impiegati invasero lo Stato come cavallette, ciascuno esercitando per suo conto una parte del potere assoluto, di cui era istrumento. L'esercito, divenuto permanente, anzi una istituzione dello Stato, fu ordinato a modo di casta, contrapposto ai cittadini, evirato dall'ubbidienza passiva, e avvezzo a ufficio più di gendarme che di soldato. Il clero, stretta l'alleanza fra il trono e l'altare, si recò in mano l'educazione pubblica, vigilò scuole, libri, teatri, accademie, osteggiò tutte le idee nuove, mantenne l'ignoranza nelle moltitudini, trattò la coltura come sua nemica. Motrice della gran mole era la polizia, penetrata in tutte queste aggregazioni governative, divenuto spia l'impiegato, il soldato e il prete. Ne uscì una corruzione organizzata chiamata governo, o in forma assoluta, o in maschera costituzionale.
Una reazione così fatta era in una contraddizione violenta con tutte le idee moderne, e non potea durare. Sopravvennero i moti di Spagna, di Napoli, di Torino, di Parigi, delle Romagne; Grecia e Belgio conquistavano la loro autonomia. Il sentimento nazionale si svegliava insieme col sentimento liberale. E il secolo decimottavo ripigliava il suo cammino coi suoi diritti individuali, coi suoi principi d'eguaglianza, con la sua carta dell'Ottantanove. I principi legittimi caddero. La monarchia per vivere si trasformò, si ammodernò, prese abiti borghesi, divise il suo potere con le classi colte. E soddisfatta la borghesia, soddisfatti tutti. Il terzo stato era niente; il terzo stato fu tutto.
Su questo compromesso visse l'Europa lunghi anni. Le istituzioni costituzionali si allargarono. Il censo e la capacità apersero la via a' più alti uffici, rotte tutte le barriere artificiali. Continuò la guerra più aspra al feudalismo, alla mano morta, a' privilegi. La borghesia trovò largo pascolo alla sua attività e alla sua ambizione ne' parlamenti, ne' consigli comunali e provinciali, nella guardia nazionale, nel giurì, nelle accademie, nelle scuole sottratte al clero. Le industrie e i commerci si svilupparono, si apersero altre fonti alla ricchezza. Un nuovo nome segnava la nuova potenza venuta su. Non si diceva più aristocrazia, si diceva burocrazia, alimentata dalla libera concorrenza. Chi aveva più forza vinceva e dominava, forza di censo, d'ingegno e di lavoro. L'attività intellettuale, stimolata in tutti i versi, fra tanta pubblica prosperità faceva miracoli. All'ombra della pace e della libertà fiorivano le scienze e le lettere. Anche dove gli ordini costituzionali non poterono vincere, come in Italia, la reazione allentò i suoi freni, la borghesia ebbe una parte più larga alle pubbliche faccende, e vi s'introdusse un modo di vivere meno incivile. A poco a poco il vecchio si accostumava a vivere accanto al nuovo; il diritto divino e la volontà del popolo si associavano nelle leggi e negli scritti, formola del compromesso sul quale riposava il nuovo edificio; e venne tempo che una conciliazione parve possibile non solo fra il monarcato e il popolo, ma fra il papato e la libertà.
Adunque, sedati i primi bollori, quel movimento, che aveva aria di reazione, era in fondo la stessa Rivoluzione, che, ammaestrata dalla esperienza, moderava e disciplinava se stessa. I disinganni, le rovine, tanti eccessi, un ideale così puro, così lusinghiero, profanato al suo primo contatto col reale, tutto questo dovea fare una grande impressione sugli spiriti e renderli meditativi. La reazione era il passato ancora vivo nelle moltitudini, assalito con una violenza che tirava in suo favore anche gl'indifferenti, e che ora rialzava il capo con superbia di vincitore. L'esperienza ammaestrò che il passato non si distrugge con un decreto, e che si richiedono secoli per cancellare dalla storia l'opera de' secoli. E ammaestrò pure che la forza allora edifica solidamente quando sia preceduta dalla persuasione, secondo quel motto di Campanella che le lingue precedono le spade. Evidentemente la Rivoluzione aveva errato, esagerato le sue idee e le sue forze, ed ora si rimetteva in via con minor passione, ma con maggior senso del reale, confidando più nella scienza che nell'entusiasmo. Che cosa fu dunque il movimento del secolo decimonono, sbolliti i primi furori di reazione? Fu lo stesso spirito del secolo decimottavo, che dallo stato spontaneo e istintivo passava nello stadio della riflessione e rettificava le posizioni, riduceva le esagerazioni, acquistava il senso della misura e della realtà, creava la scienza della rivoluzione. Fu lo spirito nuovo che giungeva alla coscienza di sé e prendeva il suo posto nella storia. Chateaubriand, Lamartine, Victor Hugo, Lamennais, Manzoni, Grossi, Pellico erano liberali non meno di Voltaire e Rousseau, di Alfieri e Foscolo. Sono anch'essi figli del secolo decimosettimo e decimottavo, il loro programma è sempre la carta dell'Ottantanove, il credo è sempre libertà, patria, uguaglianza, diritti dell'uomo. Il sentimento religioso troppo offeso si vendica, offende a sua volta; pure non può sottrarsi alle strette della rivoluzione. Risorge, ma impressionato dello spirito nuovo, col programma del secolo decimottavo. Ciò a cui mirano i neocattolici non è di negare quel programma, come fanno i puri reazionari, co' gesuiti in testa; ma è di conciliarlo col sentimento religioso, di dimostrare anzi che quello è appunto il programma del cristianesimo nella purezza delle sue origini. E' la vecchia tesi di Paolo Sarpi, ripigliata e sostenuta con maggior splendore di parola e di scienza. La Rivoluzione è costretta a rispettare il sentimento religioso, a discutere il cristianesimo, a riconoscere la sua importanza e la sua missione nella storia; ma, d'altra parte, il cristianesimo ha bisogno per suo passaporto del secolo decimottavo, e prende quel linguaggio e quelle idee, e odi parlare di una democrazia cristiana, e di un Cristo democratico, a quel modo che i liberali trasferiscono a significato politico parole scritturali, come l'apostolato delle idee, il martirio patriottico, la missione sociale, la religione del dovere. La Rivoluzione, scettica e materialista, prende per sua bandiera: Dio e popolo, e la religione, dommatica e ascetica, si fa valere come poesia e come morale, e lascia le altezze del soprannaturale e s'impregna di umanismo e di naturalismo, si avvicina alla scienza, prende una forma filosofica. Lo spirito nuovo raccoglie in sé gli elementi vecchi, ma trasformandoli, assimilandoli a sé, e in quel lavoro trasforma anche se stessa, si realizza ancora più. Questo è il senso del gran movimento uscito dalla reazione del secolo decimonono, di una reazione mutata sino in conciliazione. E la sua forma politica è la monarchia per la grazia di Dio e per la volontà del popolo.
La base teorica di questa conciliazione è un nuovo concetto della verità, rappresentata non come un assoluto immobile a priori, ma come un divenire ideale, cioè a dire secondo le leggi dell'intelligenza e dello spirito. Onde nasceva l'identità dell'ideale e del reale, dello spirito e della natura, o come disse Vico, la conversione del vero col certo. Il qual concetto da una parte ridonava ai fatti una importanza che era contrastata da Cartesio in qua, li allogava, li legittimava, li spiritualizzava, dava a quelli un significato e uno scopo, creava la filosofia della storia, d'altra parte realizzava il divino, togliendolo alle strettezze mistiche e ascetiche del soprannaturale, e umanizzandolo. Il concetto adunque era in fondo radicalmente rivoluzionario in opposizione recisa col medio evo e con lo scolasticismo, quantunque apparisca una reazione a tutto ciò che di troppo esclusivo e assoluto era nel secolo decimottavo. Sicché quel movimento, in apparenza reazionario, dovea condurre a un nuovo sviluppo della Rivoluzione su di una base più solida e razionale.
Il primo periodo del movimento fu detto romantico, in opposizione al classicismo. Ebbe per contenuto il cristianesimo e il medio evo, come le vere fonti della vita moderna, il suo tempo eroico, mitico e poetico. Il Rinascimento fu chiamato paganesimo, e quell'età che il Rinascimento chiamava barbarie, risorse cinta di nuova aureola. Parve agli uomini rivedere dopo lunga assenza Dio e i Santi e la Vergine e quei cavalieri vestiti di ferro e i tempii e le torri e i crociati. Le forme bibliche oscurarono i colori classici: il gotico, il vaporoso, l'indefinito, il sentimentale, liquefecero le immagini, riempirono di ombre e di visioni le fantasie. Ne uscì nuovo contenuto e nuova forma. Il papato divenne centro di questo antico poema ringiovanito, il cui storico era TROYA e l'artista Luigi Tosti: Bonifacio VIII e Gregorio VII ebbero ragione contro Dante e Federico II. Cronisti e trovatori furono disseppelliti; l'Europa ricostruiva pietosamente le sue memorie, e vi s'internava, vi s'immedesimava, ricreava quelle immagini e quei sentimenti. Ciascun popolo si riannodava alle sue tradizioni, vi cercava i titoli della sua esistenza e del suo posto nel mondo, la legittimità delle sue aspirazioni. Alle antichità greche e romane successero le antichità nazionali, penetrate e collegate da uno spirito superiore e unificatore, dallo spirito cattolico. Si svegliava l'immaginazione, animata dall'orgoglio nazionale e da un entusiasmo religioso spinto sino al misticismo; e dal lungo torpore usciva più vivace il senso metafisico e il senso poetico. Risorge l'alta filosofia e l'alta poesia. Lirica e musica, poemi filosofici e storici sono le voci di questo ricorso.
Ma il romanticismo, come il classicismo, erano forme sotto alle quali si manifestava lo spirito moderno. Foscolo e Parini nel loro classicismo erano moderni, e moderni erano nel loro romanticismo Manzoni e Pellico. Invano cerchi il candore e la semplicità dello spirito religioso: è un passato rifatto e trasformato da immaginazione moderna, nella quale ha lasciato i suoi vestigi il secolo decimottavo. Non ci sono più le passioni ardenti e astiose di quel secolo, ma ci sono le sue idee: la tolleranza, la libertà, la fraternità umana, consacrata da una religione di pace e di amore, purificata e restituita nella sua verginità, nella purezza delle sue origini e de' suoi motivi. Una reazione così fatta già non è più reazione, è conciliazione, è la Rivoluzione stessa vinta, che non minaccia più, e lascia il sarcasmo, l'ironia, l'ingiuria, e, trasformatasi in apostolato evangelico, prende abito umile e supplichevole dirimpetto agli oppressori, e fa suo il pergamo, fa suo Dio e Cristo, e la Bibbia diviene l'ultima parola di un credente. Lo spirito non rimane nelle vette del soprannaturale e nelle generalità del dogma. Oramai, conscio di sé, plasma il divino a sua immagine, lo colloca e lo accompagna nella storia. La Divina commedia è capovolta: non è l'umano che s'india, è il divino che si umanizza. Il divino rinasce, ma senti che già innanzi è nato Bruno, Campanella e Vico.
La stella di Monti scintillava ancora cinta di astri minori; Foscolo solitario meditava le Grazie, ROMAGNOSI tramandava alla nuova generazione il pensiero del gran secolo vinto. E proprio nel 1815, tra il rumore de' grandi avvenimenti, usciva in luce un libricino intitolato Inni, al quale nessuno badò. Foscolo chiudeva il suo secolo coi Carmi; Manzoni apriva il suo con gl'Inni. Il Natale, la Passione, la Resurrezione, la Pentecoste erano le prime voci del secolo decimonono. Natali, Marie e Gesù ce n'erano infiniti nella vecchia letteratura, materia insipida di canzoni e sonetti, tutti dimenticati. Mancata era l'ispirazione, da cui uscirono gl'inni de' santi padri e i canti religiosi di Dante e del Petrarca e i quadri e le statue e i templi dei nostri antichi artisti. Su questa sacra materia era passato il Seicento e l'Arcadia, insino a che disparve sotto il riso motteggiatore del secolo decimottavo. Ora la poesia faceva anche lei il suo concordato. Ricompariva quella vecchia materia, ringiovanita da una nuova ispirazione(1).
Ciò che move il poeta non è la santità e il misterioso del dogma. Non riceve il soprannaturale con raccoglimento, con semplicità di credente. Mira a trasportarlo nell'immaginazione, e, se posso dir così, a naturalizzarlo. Non è più un credo, è un motivo artistico. Diresti che innanzi al giovine poeta ci sia il ghigno di Alfieri e di Foscolo, e che non si attenti di presentare a' contemporanei le disusate immagini se non pomposamente decorate. Non gli basta che sieno sante: vuole che sieno belle. L'idea cristiana ritorna innanzi tutto come arte, anzi come la sostanza dell'arte moderna, chiamata romantica. La critica entrava già per questa via, e fin d'allora sentivi parlare di classico e di romantico, di plastico e di sentimentale, di finito e d'infinito. L'inno era poesia essenzialmente religiosa, la poesia dell'infinito e del soprannaturale. Sorgea come sfida a' classici per la materia e per la forma. Pure, il poeta, volendo esser romantico, rimase classico. Invano si arrampica tra le nubi del Sinai: non ci regge, ha bisogno di toccar terra, il suo spirito non riceve se non ciò che è chiaro, plastico, determinato, armonioso; le sue forme sono descrittive, rettoriche e letterarie, pur vigorose e piene di effetto, perché animate da immaginazione fresca in materia nuova. Vi senti lo spirito nuovo, che in quel ritorno delle idee religiose non abdica, e penetra in quelle idee e se le assimila, e vi cerca e vi trova se stesso. Perché la base ideale di quegli Inni è sostanzialmente democratica: è l'idea del secolo battezzata e consacrata sotto il nome d'idea cristiana, l'eguaglianza degli uomini tutti fratelli in Cristo, la riprovazione degli oppressori e la glorificazione degli oppressi; è la famosa triade, libertà, uguaglianza, fratellanza, vangelizzata; è il cristianesimo ricondotto alla sua idealità e penetrato dallo spirito moderno. Onde nasce una rappresentazione pacata e soddisfatta, pittoresca nelle sue visioni, semplice e commovente ne' suoi sentimenti, come di un mondo ideale riconciliato e concorde, ove si armonizzano e si acquietano le dissonanze del reale e i dolori della terra. Ivi è il Signore, che nel suo dolore pensò a tutt'i figli d'Eva; ivi è Maria, nel cui seno regale la femminetta depone la sua spregiata lacrima; ivi è lo Spirito, che scende, aura consolatrice, ne' languidi pensieri dell'infelice; ivi è il regno della pace, che il mondo irride, ma che non può rapire: il povero, sollevando le ciglia al cielo che è suo, volge i lamenti in giubilo, pensando a cui somiglia (2).
In questa ricostruzione di mondo celeste accanto a una lirica di pace e di perdono, alta sulle collere e sulle cupidigie mondane, si sviluppa l'epica, quel veder le cose umane dal di sopra, con l'occhio dell'altro mondo. Questa novità di contenuto, di forma e di sentimento rende altamente originale il Cinque maggio, composizione epica in forme liriche. L'individuo, grande ch'ei sia, non è che una orma del Creatore, un istrumento fatale (3). La gloria terrena, posto pure che sia vera gloria, non è in cielo che silenzio e tenebre. Sul mondano rumore sta la pace di Dio. E' lui che atterra e suscita, che affanna e consola. La sua mano toglie l'uomo alla disperazione, e lo avvia pe' floridi sentieri della speranza. Risorge il Deus ex machina, il concetto biblico dell'uomo e dell'umanità. La storia è la volontà imperscrutabile di Dio. Così vuole. A noi non resta che adorare il mistero o il miracolo, chinar la fronte. Meno comprendiamo gli avvenimenti, e più siamo percossi di maraviglia, più sentiamo Dio, l'incomprensibile. La storia anche di ieri si muta in leggenda, diviene poesia epica. Napoleone è un gran miracolo, un'orma più vasta di Dio. A che fine? per quale missione? L'ignoriamo. E' il secreto di Dio. Così volle. Rimane della storia la parte popolare o leggendaria, quella che più colpisce le immaginazioni: le battaglie, le vicende assidue, gli avvenimenti straordinari, le grandi catastrofi, le miracolose conversioni. Il motivo epico nasce non dall'altezza e moralità de' fini, ma dalla grandezza e potenza del genio, dallo sviluppo di una forza che arieggia il soprannaturale (4). Sono nuove strofe, di cui ciascuna per la vastità della prospettiva è quasi un piccolo mondo, e te ne viene una impressione, come da una piramide. A ciascuna strofa la statua muta di prospetto, ed è sempre colossale. L'occhio profondo e rapido dell'ispirazione divora gli spazi, aggruppa gli inni, fonde gli avvenimenti, ti da l'illusione dell'infinito. Le proporzioni sono ingrandite da un lavoro tutto di prospettiva nella maggior chiarezza e semplicità dell'espressione. Le immagini, le impressioni, i sentimenti, le forme, tra quella vastità di orizzonti, ingrandiscono anche loro, acquistano audacia di colori e dimensioni. Trovi condensata la vita del grande uomo nelle sue geste, nella sua intimità, nella sua azione storica, ne' suoi effetti su' contemporanei, nella sua solitudine pensosa: immensa sintesi, dove precipitano gli avvenimenti e i secoli, come incalzati e attratti da una forza superiore in quegli sdruccioli accavallantisi, appena frenati dalle rime (5).

IL MACCHINISMO TEOLOGICO

Questo è il primo movimento, epico-lirico, del secolo decimonono. Al macchinismo classico succede il macchinismo teologico. Ma non è mero macchinismo, semplice colorito o abbellimento. E' un contenuto redivivo nell'immaginazione, che ricostruisce a sua immagine la storia dell'umanità e il cuore dell'uomo. E' Cristo smarrito e ritrovato al di dentro di noi. Ritorna la provvidenza nel mondo, ricomparisce il miracolo nella storia, rifioriscono la speranza e la preghiera, il cuore si addolcisce, si apre a sentimenti miti: su' disinganni e sulle discordie mondane spira un alito di perdono e di pace. Ciò che intravedeva Foscolo, disegnò Manzoni con un entusiasmo giovanile, riflesso di quell'entusiasmo religioso, che accompagnava a Roma il papa reduce, ispirava ad Alessandro la federazione cristiana, prometteva agli uomini stanchi un'era novella di pace e riposo. La nuova generazione sorgeva tra queste illusioni; e mentre il vecchio Foscolo fantasticava un paradiso delle Grazie, allegorizzando con colori antichi cose moderne, Manzoni ricostruiva l'ideale del paradiso cristiano e lo riconciliava con lo spirito moderno. La mitologia se ne va, e resta il classicismo: il secolo decimottavo è rinnegato e restano le sue idee. Mutata è la cornice: il quadro è lo stesso. Guardate il Cinque maggio. La cornice è una illuminazione artistica, una bell'opera d'immaginazione, da cui non esce alcuna seria impressione religiosa. Il quadro è la storia di un genio rifatta dal genio. L'interesse non è nella cornice, è nel quadro.
Ben presto il movimento teologico diviene prettamente filosofico. Dio è l'assoluto, l'idea; Cristo è l'idea in quanto è realizzata, l'idea naturalizzata; lo Spirito è l'idea riflessa e consapevole, il Verbo; la Trinità teologica diviene la base di una trinità filosofica. Il Dio teologico è l'essere nel suo immediato, il nulla, un Dio astratto e formale, vuoto di contenuto. Dio nella sua verità è lo spirito che riconosce se stesso nella natura. Logica, natura, spirito, sono i tre momenti della sua esistenza, la sua storia: una storia dove niente è incomprensibile e arbitrario, tutto è ragionevole e fatale. Ciò che è stato dovea essere. La schiavitù, la guerra, la conquista, le rivoluzioni, i colpi di Stato non sono fatti arbitrari: sono fenomeni necessari dello spirito nella sua esplicazione. Lo spirito ha le sue leggi, come la natura; la storia del mondo è la sua storia, è logica viva, e si può determinare a priori. Religione, arte, filosofia, diritto, sono manifestazioni dello spirito, momenti della sua esplicazione. Niente si ripete, niente muore: tutto si trasforma in un progresso assiduo, che è lo spiritualizzarsi dell'idea, una coscienza sempre più chiara di sé, una maggiore realtà.
In queste idee, codificate da Hegel, ricordi Machiavelli, Bruno, Campanella, soprattutto Vico. Ma è un Vico a priori. Quelle leggi, che egli traeva da' fatti sociali, ora si cercano a priori nella natura stessa dello spirito. Nasce un'appendice della Scienza nuova, la sua metafisica sotto nome di logica; compariscono vere teogonie e epopee filosofiche, con le loro ramificazioni. Hai la filosofia delle religioni, la storia della filosofia, la filosofia dell'arte, la filosofia del diritto, la filosofia della storia, illuminata dall'astro maggiore, la logica, o, come dice Vico, la metafisica. Tutto il contenuto scientifico è rinnovato. E non solo nell'ordine morale, ma nell'ordine fisico. Hai una filosofia della natura come una filosofia dello spirito. Anzi non sono che una sola e medesima filosofia, momenti dell'idea nella sua manifestazione.
Il misticismo, fondato sull'imperscrutabile arbitrio di Dio e alimentato dal sentimento, dà luogo a questo idealismo panteistico. Il sistema piace alla colta borghesia, perché da una parte, rigettando il misticismo, prende un aspetto laicale e scientifico, e dall'altra, rigettando il materialismo, condanna i moti rivoluzionari come esplosioni plebee di forze brute. Piace il concetto di un progresso inoppugnabile, fondato sullo sviluppo pacifico della coltura: alla parola rivoluzione succede la parola evoluzione. Non si dice più libertà, si dice civiltà, progresso, coltura. Sembra trovato ormai il punto, ove s'accordano autorità e libertà, Stato e individuo, religione e filosofia, passato e avvenire. Anche le idee fanno la loro pace, come le nazioni. E il sistema diviene ufficiale sotto nome di ecletismo. La Rivoluzione gitta via il suo abito rosso, e si fa cristiana e moderata sotto il vessillo tricolore, vagheggiando, come ultimo punto di fermata, le forme costituzionali, e tenendo a pari distanza i clericali col loro misticismo, e i rivoluzionari col loro materialismo. Queste idee facevano il giro di Europa e divennero il credo delle classi colte. La parte liberale si costituì come un centro tra una dritta clericale e una sinistra rivoluzionaria, che essa chiamava i partiti estremi. Luigi Filippo realizzò questo ideale della borghesia, e l'ecletismo lo consacrò. Sembrò dopo lunga gestazione creato il mondo. Il problema era sciolto, il bandolo era trovato. Dio si poteva riposare. Chiusa oramai era la porta alla reazione e alla rivoluzione. Regnava il progresso pacifico e legale, governava la borghesia sotto nome di partito liberale moderato. Teneva in iscacco la dritta, perché, se combatteva i gesuiti e gli oltramontani, onorava il cristianesimo, divenuto nel nuovo sistema l'idea riflessa e consapevole, lo spirito che riconosce se stesso. Non credeva al soprannaturale, ma lo spiegava e lo rispettava; non credeva a un Cristo divino, ma alzava alle stelle il Cristo umano; e della religione parlava con unzione, e con riverenza de' ministri di Dio. Così tirava dalla sua i cristiani liberali e patrioti e non urtava le plebi. E teneva a un tempo in iscacco la sinistra rivoluzionaria, perché, se respingeva i suoi metodi, se condannava le sue impazienze e le sue violenze, accettava in astratto le sue idee, confidando più nell'opera lenta, ma sicura, dell'istruzione e dell'educazione, che nella forza brutale. Per queste vie la Rivoluzione, sotto aspetto di conciliazione, si rendeva accettabile a' più e si rimetteva in cammino.
Tra queste idee si formò la nuova critica letteraria. Rimasta fra le vuote forme rettoriche empirica e tradizionale, anch'ella gridò libertà nel secolo scorso, e, perduto il rispetto alle regole e all'autorità, acquistò una certa indipendenza di giudizio, illuminata ne' migliori dal buon senso e dal buon gusto. L'attenzione dall'esterno meccanismo si volse alla forza produttiva, cercando i motivi e il significato della composizione nelle qualità dello scrittore: l'arte ebbe il suo cogito, e trovò la sua formola nel motto: Lo stile è l'uomo. Ma era una critica d'impressioni più che di giudizi, di osservazioni più che di principi. Con la nuova filosofia, il bello prese posto accanto al vero e al buono, acquistò una base scientifica nella logica, divenne una manifestazione dell'idea, come la religione, il diritto, la storia: avemmo una filosofia dell'arte, l'estetica. Stabilito un corso ideale della umanità, l'arte entrò nel sistema allo stesso modo che tutte le altre manifestazioni dello spirito, o prese dalla qualità dell'idea la sua essenza e il suo carattere. Materia principale della critica fu l'idea col suo contenuto: le qualità formali ebbero il secondo luogo. Avemmo l'idea orientale, l'idea pagana o classica, l'idea cristiana o romantica nella religione, nella filosofia, nello Stato, nell'arte, in tutte le forme dell'attività sociale: uno sviluppo a priori, secondo la logica o le leggi dello spirito. La filosofia dell'idea divenne un antecedente obbligato di ogni trattato di estetica, come di ogni ramo dello scibile; e il problema fondamentale dell'arte fu cercare l'idea in ogni lavoro dell'immaginazione e misurandolo secondo quella. Rivenne su il concetto cristiano-platonico dell'arte, espresso da Dante, ristaurato dal Tasso. La poesia fu il vero sotto il velo della favola ascoso, o il vero condito in molli versi. Divenuta la favola un velo dell'idea, ritornavano in onore le forme mitiche e allegoriche, e le concezioni artistiche si trasformavano in costruzioni ideali: la Divina commedia, materia d'infiniti comenti filosofici, aveva il suo riscontro nel Faust. Venne in moda un certo filosofismo nell'arte anche presso i migliori, anche presso Schiller. E non solo la filosofia, ma anche la storia divenne il frontespizio obbligato della critica, trattandosi di coglier l'idea non nella sua astrattezza, ma nel suo contenuto, nelle sue apparizioni storiche. Sorsero investigazioni accuratissime sulle idee, sulle istituzioni, sui costumi, sulle tendenze de' secoli, sulla formazione successiva della materia artistica: al motto antico: Lo stile è l'uomo, successe quest'altro: La letteratura è l'espressione della società. Ne uscì un doppio impulso sintetico e analitico. Posto che la storia non sia una successione empirica e arbitraria di fatti, ma la manifestazione progressiva e razionale dell'idea, una dialettica vivente, gli spiriti si affrettarono alla sintesi e costruirono vere epopee storiche secondo una logica preordinata. La storia del mondo fu rifatta, la via aperta da Vico fu corsa e ricorsa dal genio metafisico, e in tutte le direzioni: religioni, arti, filosofie, istituzioni politiche, leggi: la vita intellettuale, morale e materiale de' popoli. Questo fu il momento epico di tutte le scienze; nessuna poté sottrarsi al bagliore dell'idea; il mondo naturale fu costruito allo stesso modo che il mondo morale. Ma queste sintesi frettolose; queste soluzioni spesso arrischiate de' problemi più delicati urtavano alcuna volta co' dati positivi della storia e delle singole scienze, ed erano troppo visibili le lacune, i raccozzamenti disparati, le interpretazioni forzate, gli artifici involontari. Accanto a quelle vaste costruzioni ideali sorse la paziente analisi: il metodo di Vico parve più lungo e più arduo, ma più sicuro; e si ricominciò il lavoro a posteriori, ingolfandosi lo spirito nelle più minute ricerche in tutt'i rami dello scibile. Il movimento di erudizione e d'investigazione interrotto in Italia dalla invasione delle teorie cartesiane e da' sistemi assoluti del secolo decimottavo, tutti di un pezzo, tutti ragionamento, con superbo disdegno di citazioni, di esempli di ogni autorità dottrinale, quasi avanzo della scolastica, ora ripigliava con maggior forza in tutta la colta Europa, massime in Germania: ritornavano i Galilei, i Muratori e i Vico, si sviluppava lo spirito di osservazione e il senso storico, si aggrandiva il campo delle scienze, e del gran tronco del sapere uscivano nuovi rami, soprattutto nelle scienze naturali, nelle scienze sociali e nelle discipline filologiche. La materia della coltura, stata prima poco più che greco-romana, guadagnò di estensione e di profondità. Abbracciò l'Oriente, il medio evo, il Rinascimento. E con tale attività di ricerca e di scoperta, che lo scibile ne fu rinnovato.
Stavano dunque di fronte due tendenze: l'una ideale, l'altra storica. Gli uni procedevano per via di categorie e di costruzioni; gli altri per via di osservazioni e d'induzioni. E spesso s'incontravano. La scuola ontologica teneva molto conto de' fatti, e proclamava che il vero ideale è storia, è l'idea realizzata. Non rimaneva perciò al di sopra della storia nel regno de' principi assoluti e immobili; anzi la sua metafisica non è altro che un progressivo divenire, la storia. Parimente la scuola storica era tutt'altro che empirica, ed usciva dalla cerchia de' fatti, ed aveva anch'essa i suoi preconcetti e le sue conietture. La più audace speculazione si maritava con la più paziente investigazione. Le due forze unite, ora parallele, ora in urto, ora di conserva, posero in moto tutte le facoltà dello spirito, e produssero miracoli nelle teorie e nelle applicazioni. Al secolo de' lumi succedette il secolo del progresso. Il genio di Vico fu il genio del secolo. E accanto a lui risorsero con fama europea Bruno e Campanella. Il secolo riverì nei tre grandi italiani i suoi padri, il suo presentimento. E la Scienza nuova fu la sua Bibbia, la sua leva intellettuale e morale. Ivi trovavano condensate tutte le forze del secolo: la speculazione, l'immaginazione, l'erudizione. Di là partiva quell'alta imparzialità di filosofo e di storico, quella giustizia distributiva ne' giudizi, che fu la virtù del secolo. Passato e presente si riconciliarono, pigliando ciascuno il suo posto nel corso fatale della storia. E contro al fato non val collera, non giova dar di cozzo. Il dommatismo con la sua infallibilità e lo scetticismo con la sua ironia cessero il posto alla critica, quella vista superiore dello spirito consapevole, che riconosce se stesso nel mondo, e non si adira contro se stesso.

IL ROMANTICISMO

La letteratura non potea sottrarsi a questo movimento. Filosofia e storia diventano l'antecedente della critica letteraria. L'opera d'arte non è considerata più come il prodotto arbitrario e subiettivo dell'ingegno nell'immutabilità delle regole e degli esempli, ma come un prodotto più o meno inconscio dello spirito del mondo in un dato momento della sua esistenza. L'ingegno è l'espressione condensata e sublimata delle forze collettive, il cui complesso costituisce l'individualità di una società o di un secolo. L'idea gli è data con esso il contenuto; la trova intorno è sé, nella società dove è nato, dove ha ricevuto la sua istruzione e la sua educazione. Vive della vita comune contemporanea, salvo che in quella è in lui più sviluppata la intelligenza e il sentimento. La sua forza è di unirvisi in spirito, e questa unione spirituale dello scrittore e della sua materia è lo stile. La materia o il contenuto non gli può dunque essere indifferente; anzi è ivi che dee cercare le sue ispirazioni e le sue regole. Mutato il punto di vista, mutati i criteri. La letteratura del Rinascimento fu condannata come classica e convenzionale, e l'uso della mitologia fu messo in ridicolo. Quegl'ideali tutti di un pezzo ch'erano decorati col nome di classici, furono giudicati una contraffazione dell'ideale, l'idea nella sua vuota astrazione, non nelle sue condizioni storiche, non nella varietà della sua esistenza. Cadde la rettorica con le sue vuote forme, cadde la poetica con le sue regole meccaniche e arbitrarie, rivenne sù il vecchio motto di Goldoni: ritrarre dal vero, non guastar la natura. Il più vivo sentimento dell'ideale si accompagnò con la più paziente sollecitudine della varietà storica. L'epopea cesse il luogo al romanzo, la tragedia al dramma. E nella lirica brillarono in nuovi metri le ballate, le romanze, le fantasie e gl'inni. La naturalezza, la semplicità, la forza, la profondità, l'affetto furono qualità stimate assai più che ogni dignità ed eleganza, come quelle che sono intimamente connesse col contenuto. Dante, Shakespeare, Calderon, Ariosto, reputati i più lontani dal classicismo, divennero gli astri maggiori. Omero e la Bibbia, i poemi primitivi e spontanei, teologici o nazionali, furono i prediletti. E spesso il rozzo cronista fu preferito all'elegante storico, e il canto popolare alla poesia solenne. Il contenuto nella sua nativa integrità valse più che ogni artificiosa trasformazione di tempi posteriori. Furono sbanditi dalla storia tutti gli elementi fantastici e poetici, tutte quelle pompe fattizie, che l'imitazione classica vi aveva introdotto. E la poesia si accostò alla prosa, imitò il linguaggio parlato e le forme popolari.
Tutto questo fu detto romanticismo, letteratura de' popoli moderni. La nuova parola fece fortuna. La reazione ci vedeva un ritorno del medio evo e delle idee religiose, una condanna dell'aborrito Rinascimento, soprattutto del più aborrito secolo decimottavo. I liberali, non potendo pigliarsela co' governi, se la pigliavano con Aristotele e coi classici e con la mitologia: piaceva essere almeno in letteratura rivoluzionario e ribelle alle regole. Il sistema era così vasto, e vi si mescolavano idee e tendenze così diverse, che ciascuno potea vederlo con la sua lente e pigliarvi ciò che gli era più comodo. I governi lasciavan fare, contenti che le guerricciuole letterarie distraessero le menti dalla cosa pubblica. In Italia ricomparivano i soliti fenomeni della servitù: battaglie in favore e contro la Crusca, quistioni di lingua, diverbi letterari, che finivano talora in denunzie politiche. La Proposta e il Sermone all'Antonietta Costa erano i grandi avvenimenti che succedevano alla battaglia di Waterloo. L'Italia risonò di puristi e lassisti, di classici e romantici. Il giornalismo, mancata la materia politica, vi cercò il suo alimento. Il centro più vivace di quei moti letterarii era sempre Milano, dove erano più vicini e più potenti gl'impulsi francesi e germanici. Là s'inaugurava nel Caffè il secolo decimottavo. E là s'inaugurava ora nel Conciliatore il secolo decimonono. Manzoni ricordava Beccaria, e i Verri e i Baretti del nuovo secolo si chiamavano Silvio Pellico, Giovanni Berchet, e gli ospiti di casa Manzoni, Tommaso Grossi e MASSIMO D'AZEGLIO, divenuto sposo di Giulia Manzoni e anello fra la Lombardia e il Piemonte dove sorgevano nello stesso giro d'idee CESARE BALBO e VINCENZO GIOBERTI. La vecchia generazione s'intrecciava con la nuova. Vivevano ancora, memorie del regno d'Italia, Foscolo, Monti, Giovanni e IPPOLITO PINDEMONTE, PIETRO GIORDANI. Dirimpetto a Melchiorre Gioia vedevi SISMONDI italiano di mente e di cuore, e mentre il vecchio Romagnosi scrivea la Scienza della costituzione, il giovane ANTONIO ROSMINI pubblicava il trattato Della origine delle idee. Spuntavano Camillo Ugoni, FELICE BELLOTTI, ANDREA MAFFEI, il traduttore di Klopstok e di Schiller. Dirimpetto ai poeti vedevi i critici, dilettanti pure di poesia, GIOVANNI TORTI, Ermes Visconti, Giovanni de Cristoforis, SAMUELE BIAVA. Nelle stesse file militavano CARLO PORTA, NICCOLO' TOMMASEO, i fratelli CESARE e IGNAZIO CANTU' e MARONCELLI, e CONFALONIERI, e altri minori.
Cosa volevano i romantici, che levavano così alto la voce nel Conciliatore? Parlavano con audacia giovanile della vecchia generazione, s'inchinavano appena al gran padre Alighieri, vantavano gli scrittori stranieri soprattutto inglesi e tedeschi, non volevano mitologia, si beffavano delle tre unità, e delle regole si curavano il capo innanzi alla ragione. Era il razionalismo o il libero pensiero applicato alla letteratura da uomini che in religione predicavano fede e autorità. I classici, al contrario, miscredenti e scettici nelle cose della religione, erano qualificati superstiziosi in fatto di letteratura. Né parea ragionevole che Aristotile, detronizzato in filosofia, dovesse in letteratura rimanere sul suo trono. La lotta fu viva tra il Conciliatore e la Biblioteca italiana, a cui tenea bordone la Gazzetta di Milano. Vi si mescolavano ingenui e furfanti, scrittori coscienziosi e mestieranti. E dopo molto contendere, fra tante esagerazioni di offese e di difese, si venne in tale confusione di giudizi, che oggi stesso non si sa cosa era il romanticismo e in che si distingueva sostanzialmente dal classicismo. Molti sostenevano che il Monti era un ingegno romantico sotto apparenze classiche, e altri che Manzoni, con pretenzioni romantiche, era in verità un classico. Si cominciò a vedere chiaro quando fu posta da parte la parola romanticismo, materia del litigio, e si badò alla qualità della merce e non al suo nome. Al romanticismo, importazione tedesca, si sostituì a poco a poco un altro nome, letteratura nazionale e moderna. E su questo convennero tutti, romantici e classici. Il romanticismo rimase in Italia legato con le idee della prima origine germanica, diffusa dagli Schlegel e da' Thieck, in quella forma esagerata che prese in Francia, capo Victor Hugo. Respingevano il paganesimo, e riabilitavano il medio evo. Rifiutavano la mitologia classica, e preconizzavano una mitologia nordica. Volevano la libertà dell'arte, e negavano la libertà di coscienza. Rigettavano il plastico e il semplice dell'ideale classico, e vi sostituivano il gotico, il fantastico, l'indefinito e il lugubre. Surrogava il fattizio e il convenzionale della imitazione classica con imitazioni fattizie e convenzionali di peggior gusto. E, per fastidio del bello classico, idolatravano il brutto. Una superstizione cacciava l'altra. Ciò ch'era legittimo e naturale in Shakespeare e in Calderon, diveniva strano, grossolano, artificiale in tanta distanza di tempi, in tanta differenza di concepire e di sentire. Il romanticismo, in questa sua esagerazione tedesca e francese, non attecchì in Italia e giunse appena a scalfire la superficie. I pochi tentativi non valsero che a meglio accentuare la ripugnanza del genio italiano. E i romantici furono lieti, quando poterono gettar via quel nome d'imprestito, fonte di tanti equivoci e litigi, e prendere un nome accettato da tutti. Anche in Germania il romanticismo fu presto attirato nelle alte regioni della filosofia, e, spogliatosi quelle forme fantastiche e quel contenuto reazionario, riuscì sotto nome di letteratura moderna nell'ecletismo, nella conciliazione di tutti gli elementi e di tutte le forme sotto i principi superiori dell'estetica o della filosofia dell'arte.
Pigliando il romanticismo in quel suo primo stadio, quando si affermava come distinto, anzi in contraddizione col secolo scorso, e movea guerra ad Alfieri e proclamava una nuova riforma letteraria, il suo torto fu di non accorgersi che esso era in sostanza non la contraddizione, ma la conseguenza di quel secolo appunto contro il quale armeggiava. In Germania l'idea romantica sorse in opposizione all'imitazione francese, così alla moda sotto il gran Federico. Era una esagerazione, ma in quell'esagerazione si costituivano le prime basi di una letteratura nazionale dalla quale uscivano Schiller e Goethe. E fu lavoro del secolo decimottavo. Schiller fu contemporaneo di Alfieri. Quando l'idea romantica s'affacciò in Italia, già in Germania era scaduta, trasformatasi in un concetto dell'arte filosofico e universale. Goethe era già alla sua terza maniera, a quel suo spiritualismo panteistico che produceva il Faust. Il romanticismo veniva dunque in Italia troppo tardi, come fu poi dell'eghelismo. Parte a noi un progresso ciò che in Germania la coltura aveva già oltrepassato e assorbito. La riforma letteraria in Italia, tanto strombazzata, non cominciava, ma continuava. Essa era cominciata nel secolo scorso. Era appunto la nuova letteratura, inaugurata da Goldoni e Parini, al tempo stesso che in Germania si gittavano le fondamenta della coltura tedesca. La differenza era questa: che la Germania reagiva contro l'imitazione francese e acquistava coscienza della sua autonomia intellettuale: dove l'Italia, associandosi alla coltura europea, reagiva contro la sua solitudine e la sua stagnazione intellettuale. L'Italia entrava nel grembo della coltura europea, e vi prendea il suo posto, cacciando via da sé una parte di sé, il seicentismo, l'Arcadia e l'accademia: la Germania al contrario iniziava la sua riforma intellettuale rimovendo da sé la coltura francese e riannodandosi alle sue tradizioni. L'influenza francese non fu che una breve deviazione nel movimento di continuità della vita tedesca: movimento fortificato nella lotta d'indipendenza, e che portò quel popolo nel secolo decimonono ad una chiara coscienza della sua autonomia nazionale e della sua superiorità intellettuale. Perciò la riforma tedesca procedette armonica e pacata con passaggi chiari, con progresso rapido, con intima consonanza in tutt'i rami dello scibile, non ricevendo ma dando l'impulso alla coltura europea. Esclusiva ed esagerata nel principio sotto nome di romanticismo, la sua coltura in breve tempo abbracciò tutti gli orizzonti e conciliò tutti gli elementi della storia in una vasta unità, della quale rimane monumento colossale la Divina commedia della coltura moderna, il Faust. Ivi tutte le religioni e tutte le colture, tutti gli elementi e tutte le forme si dànno la mano e si riconoscono partecipi del redivivo Pane, sottoposte alle stesse leggi, spirito o natura, espressioni di una sola idea, già inconsapevoli e nemiche, ora unificate dall'occhio ironico della coscienza. Indi quella suprema indifferenza verso le forme, che fu detto lo scetticismo di Goethe, ed era la serenità olimpica di una intelligenza superiore, la tolleranza di tutte le differenze, riconciliate e armonizzate nel mondo superiore della filosofia e dell'arte. Così il misticismo romantico si trasformava nell'idealismo panteistico, l'idea cristiana nell'idea filosofica, il Cristo del Vangelo nel Cristo di Strauss, la teologia s'inabissava nella filosofia, il domma e il dubbio si fondevano nella critica, e il famoso cogito trovava il suo punto di arrivo e di fermata nella coscienza di sé, come spirito del mondo morale e naturale: punto d'arrivo divenuto stagnante nel superficiale ecletismo francese.
Quando Manzoni, tutto ancora pieno di Alfieri, fu a Parigi, ebbe le sue prime impressioni da quei circoli letterari che facevano opposizione all'Impero, e dove abitava lo spirito di Chateaubriand e madama di Stael. Di là gli venne un riflesso della Germania, e si diede alla storia di quella letteratura. Strinse relazioni con uomini illustri delle due grandi nazioni: Cousin lo chiamava il suo amico, Fauriel e Goethe mettevano sù il giovine poeta. Il suo orizzonte si allargò, vide nuovi mondi, reagì contro la sua educazione letteraria, contro le sue adorazioni giovanili, contro Alfieri e Monti. A Milano, caduto il regno d'Italia, le nuove idee raccolsero intorno a sé i giovani, e Manzoni divenne il capo della scuola romantica. Così, mentre la Germania, percorso il ciclo filosofico e ideale della sua coltura, si travagliava intorno all'applicazione in tutte le scienze sociali o naturali, in Italia si disputava ancora de' principi. Naturalmente, né Manzoni né altri poteva assimilarsi tutto il movimento germanico, lavoro di un secolo, e non lo vedevano che nella sua parte iniziale e superficiale. Ammiravano Schiller, Goethe, Herder, Kant, Fichte, Schelling, ma conoscevano assai meglio i nostri filosofi e letterati, e di quelli veniva loro come un'eco, spesso per studi e giudizi di seconda mano, spesso per intramessa di scrittori francesi. Rimasero essi dunque nella loro spontaneità, ponendo le quistioni come le si ponevano in Italia, con argomenti e metodi propri; e ne uscì un romanticismo locale, puro di stravaganze ed esagerazioni forestiere, accomodato allo stato della coltura, timido nelle innovazioni, e tenuto in freno dalle tradizioni letterarie e dal carattere nazionale. Un romanticismo così fatto non era che lo sviluppo della nuova letteratura sorti col Parini, e rimaneva nelle sue forme e ne' suoi colori prettamente italiano.
In effetti, i punti sostanziali di questo romanticismo concordano col movimento iniziato nel secolo scorso, e non è maraviglia che la lotta, continuata con tanto furore e con tanta confusione, finì nella piena indifferenza del popolo italiano, che riconosceva se stesso nelle due schiere. Volevano i romantici che l'Italia lasciasse i temi classici? E già n'era venuto il fastidio, e avevi l'Ossian, il Saul, la Ricciarda, il Bardo della selva nera. Volevano che i personaggi fossero presi dal vero e che le forme fossero semplici e naturali? Ed ecco là Goldoni, che predicava il medesimo. Spregiavano la vuota forma? E sotto questa bandiera avevano militato Parini, Alfieri e Foscolo e appunto la risurrezione del contenuto, la ristorazione della coscienza era il carattere della nuova letteratura. Cosa erano le tre unità e la mitologia, pomo della discordia, se non quistioni accessorie nella stessa famiglia? Fino un concetto del mondo meno assoluto e rigido, umano e anco religioso, intravedevi ne' Sepolcri di Foscolo e d'Ippolito Pindemonte. Adunque la scuola romantica, se per il suo nome, per le sue relazioni, pe' suoi studi e per le sue impressioni si legava a tradizioni tedesche e a mode francesi, rimase nel fondo scuola italiana per il suo accento, le sue aspirazioni, le sue forme, i suoi motivi; anzi fu la stessa scuola del secolo andato, che, dopo le grandi illusioni e i grandi disinganni, ritornava a' suoi principi, alla naturalezza di Goldoni e alla temperanza di Parini. Erano di quella scuola i più romantici, i quali avevano aria di combatterla, che i classici, suoi eredi di nome, ma eredi degeneri, appo i quali la sua vitalità si mostrava esaurita nella pomposa vacuità di Monti e nel purismo rettorico di Pietro Giordani. La scuola andava visibilmente declinando sotto il regno d'Italia e, non avendo più novità di contenuto, si girava in se stessa, divenuta sotto nome di purismo un gioco di frasi, intenta alla purità del Trecento e all'eleganza del Cinquecento. Ritornavano in voga i grammatici, i linguisti e i retori, ripullulava sotto altro nome l'Arcadia e l'accademia. Così fu possibile la Storia americana di CARLO BOTTA, uscita a Parigi, quando appunto uscirono gl'Inni; e fu tal cosa, che gli stessi accademici della Crusca si sentirono oltrepassati, e domandavano che lingua era quella. Furono i romantici che, insorgendo contro la scuola, la rinsanguarono, e in aria di nemici furono i suoi veri eredi. Essi le apersero nuovo contenuto e nuovo ideale, le spogliarono la sua vernice classica e mitologica, l'accostarono a forme semplici, naturali, popolari, sincere, libere da ogni involucro artificiale e convenzionale, dalle esagerazioni rettoriche e accademiche, dalle vecchie abitudini letterarie non ancor dome, di cui vedi le orme anche tra gli sdegni di Alfieri e di Foscolo. Come, sotto forma di reazione, essi erano la stessa Rivoluzione, che moderandosi e disciplinandosi, ripigliava le sue forze, tirando anche Dio al progresso e alla democrazia; così, sotto forma di opposizione, essi erano la nuova letteratura di Goldoni e di Parini che si spogliava gli ultimi avanzi del vecchio, acquistava una coscienza più chiara delle sue tendenze, e, lasciando gl'ideali rigidi e assoluti, prendeva terra, si accostava al reale.

ROMANTICISMO PATRIOTTICO

Questo sentimento più vivo del reale era anche penetrato nel popolo italiano. Non era più il popolo accademico, che batteva le mani in teatro alla Virginia e all'Aristodemo e applaudiva all'Italia ne' sonetti e nelle canzoni. Vide la libertà sotto tutte le sue forme, nelle sue illusioni nelle sue promesse, nei suoi disinganni, nelle sue esagerazioni. Il regno d'Italia, la spedizione di Murat, le promesse degli alleati, la lotta d'indipendenza della Spagna e della Germania, l'insorgere della Grecia e del Belgio aguzzavano il sentimento nazionale: l'unità d'Italia non era più un tema rettorico, era uno scopo serio" a cui si drizzavano le menti e le volontà. I più arditi e impazienti cospiravano nelle società segrete, contro le quali si ordinavano anche segretamente i sanfedisti. Fatto vecchio era questo. Ma il fatto nuovo era che nella grande maggioranza della gente istrutta si andava formando una coscienza politica, il senso del limite e del possibile: la rettorica e la declamazione non avea più presa sugli animi. La grandezza degli ostacoli rendea modesti i desideri, e tirava gli spiriti dalle astrazioni alla misura dello scopo e alla convenienza de' mezzi. La libertà trovava il suo limite nelle forme costituzionali, e il sentimento nazionale nel concetto di una maggiore indipendenza verso gli stranieri. Una nuova parola venne su: non si disse più rivoluzione, si disse progresso. E fu il maestoso cammino dell'idea nello spazio e nel tempo verso un miglioramento indefinito della specie, morale e naturale. Il progresso divenne la fede, la religione del secolo. Ed avea il suo lasciapassare, perché cacciava quella maledetta parola che era la rivoluzione, e significava la naturale evoluzione della storia, e condannava le violente mutazioni. Il progresso raccomandava pazienza a' popoli, dimostrava compatibile ogni miglioramento con ogni forma di governo, e si accordava con la filosofia cristiana, che predicava fiducia in Dio, preghiera e rassegnazione. Oltre a ciò, libertà, rivoluzione indicavano scopi immediati e non tollerabili ai governi; dove progresso, nel suo senso vago, abbracciava ogni miglioramento, e dava agio a' principi di acquistarsi lode a buon mercato, promovendo, non fosse altro, miglioramenti speciali che parevano innocui, com'erano le strade ferrate, l'illuminazione a gas, i telegrafi, la libertà del commercio, gli asili d'infanzia, i congressi scientifici, i comizi agrari. A poco a poco i liberali tornarono là ond'erano partiti, e non potendo vincere i governi, li lusingarono, sperarono riforme di principi, anche del papa: rifacevano i tempi di Tanucci, di Leopoldo, di Giuseppe, e rifacevano anche un po' quell'Arcadia. Certo, una teoria del progresso, che se ne rimetteva a Dio e all'Idea, dovea condurre a un fatalismo musulmano, e rendendo i popoli troppo facilmente appagabili, potea sfibrare i caratteri, trasformare il liberalismo in una nuova Arcadia, come temea GIUSEPPE MAZZINI, che vi contrapponeva la Giovine Italia. Pure i moti repressivi del 21 e del 31, i vari tentativi mazziniani mal riusciti, la politica del non intervento delle nazioni liberali, la potenza riputata insuperabile dell'Austria, la forza e la severità de' governi, le fila spesso riannodate e spesso rotte disponevano gli animi ad uno studio più attento de' mezzi, li piegavano a compromessi, fortificavano il senso politico, rendevano impopolare la dottrina del tutto o niente. Lo stesso Mazzini, che era all'avanguardia, avea nel suo linguaggio e nelle sue formole quell'accento di misticismo e di vaporoso idealismo che era penetrato nella filosofia e nelle lettere e che lo chiariva uomo del secolo e mostravasi anche lui disposto a tener conto delle condizioni reali della pubblica opinione, e a sacrificarvi una parte del suo ideale. Così, rammorbidite le passioni, confidenti nel progresso naturale delle cose, e persuasi che anche sotto i cattivi governi si può promuovere la coltura e la pubblica educazione, i più smessero l'azione politica diretta e si diedero agli studi: fiorirono le scienze, si sviluppò il senso artistico e il genio della musica e del canto; la Taglioni e la Malibran, la Rachel e la Ristori, Rossini e Bellini, le dispute scientifiche e letterarie, i romanzi francesi e italiani occupavano nella vita quel posto che la politica lasciava vuoto. In breve spazio uscivano in luce il Carmagnola, l'Adelchi e i Promessi sposi (6), la Pia del SESTINI, la Fuggitiva, l'Ildegonda, i Crociati, e il Marco Visconti del Grossi, la Francesca da Rimini del Pellico; la Margherita Pusterla del Cantù; l'Ettore Fieramosca, e più tardi il Niccolò de' Lapi di Massimo d'Azeglio. Ultime venivano, con più solenne impressione, le Mie prigioni. Ciclo letterario che fu detto romantico: un romanticismo italiano, che faceva vibrare le corde più soavi dell'uomo e del patriota, con quella misura, con quell'ideale internato nella storia, con quella storia fremente d'intenzioni patriottiche, con quella intimità malinconica di sentimento, con quella finezza di analisi nella maggiore semplicità de' motivi, che rivelava uno spirito venuto a maturità e ne' suoi ideali studioso del reale. Con tinte più crude e con intenzioni più ardite l'Arnaldo da Brescia e l'Assedio di Firenze. Ciascuno sentiva sotto la scorza del medio evo palpitare le nostre aspirazioni: le minime allusioni, le più lontane somiglianze erano colte a volo da un pubblico che si sentiva uno con gli scrittori. Il romanticismo perdette la serietà del suo contenuto: la parola stessa usciva di moda. Il medio evo non fu più materia trattata con intenzioni storiche e positive. Fu l'involucro de' nostri ideali, l'espressione abbastanza trasparente delle nostre speranze. Si sceglievano argomenti, che meglio rappresentassero il pensiero o il sentimento pubblico, come era la lega lombarda, trasformata in lotta italiana contro la Germania. Massimo d'Azeglio, che segna il passaggio della maniera principalmente artistica de' romantici ad una rappresentazione più svelatamente politica, volgeva in mente un terzo romanzo, che dovea avere per materia la lega lombarda. Il pittore arieggiava allo scrittore. Uscivano dal suo pennello la Sfida di Barletta, il Brindisi di Francesco Ferruccio, la Battaglia di Gavinana, la Difesa di Nizza, la Battaglia di Torino. Il medesimo era del misticismo. L'ispirazione artistica, da cui erano usciti gl'Inni e il Cinque Maggio e l'Ermengarda, non fu più il quadro; fu l'accessorio, un semplice colore attaccaticcio sopra un fondo estraneo, filosofico e politico. Vennero gl'inni alle scienze, alle arti, gl'inni di guerra. Rimasero Madonne, angioli, santi e paradiso, a quel medesimo modo che prima Pallade, Venere e Cupido, semplici ornamenti e macchine poetiche, estranee all'intimo spirito della composizione o puramente arcadiche. Dove la poesia gitta via ogni involucro romantico e classico, è ne' versi del Berchet. E non poco vi contribuì Lord Byron, vivuto lungo tempo in Venezia, di cui si sentono i fieri accenti nell'Esule di Praga. Se Giovanni Berchet fosse rimasto in Italia, probabilmente il suo genio sarebbe rimasto inviluppato nelle allusioni e nelle ombre del romanticismo. Ma, esule, portava a Londra i dolori e i furori della patria tradita e vinta. Fu l'accento della collera nazionale in una lirica, che, lasciate le generalità de' sonetti e delle canzoni, s'innestò al dramma, e colse la vita nelle più patetiche situazioni. La voce possente di questa lirica drammatica giunse solitaria in un'Italia, dove i secondi fini della prudenza politica avevano rintuzzata la verità e virilità dell'espressione. Si era trovato una specie di modus vivendi, come si direbbe oggi, una conciliazione provvisoria tra principi e popoli. I freni si allentavano, ci era una maggiore libertà di scrivere, di parlare, di riunirsi, sempre in nome del progresso, della coltura, della civiltà: gli avversari erano detti oscurantisti. I principi facevano bocca da ridere, promettevano riforme; e sino il più restio, Ferdinando II, chiamava alle cattedre, alla magistratura, a' ministeri uomini colti, e per bocca di monsignor Mazzetti annunziava un largo riordinamento degli studi. Che si voleva più? I liberali, con quel senso squisito dell'opportunità che ha ciascuno nell'interesse proprio, inneggiavano a' principi, stringevano la mano a' preti, fino ridevano a' gesuiti. Fu allora che apparve in Italia un'opera stranissima, il Primato di Vincenzo Gioberti. Ivi con molta facilità di eloquio, con grande apparato di erudizione, con superbia e ricercatezza di formole si proclamava il primato della civiltà italiana, riannodata attraverso le glorie romane alle tradizioni italo-pelasgiche, fondate sul papato, restitutore della religione nella sua purità, riconciliato con le idee moderne, e tendente all'autocrazia dell'ingegno e al riscatto delle plebi. La creazione, sostituita al divenire egheliano, rimetteva le gambe al soprannaturale e alla rivelazione: tutto il Risorgimento era dichiarato eterodosso o acattolico, e il presente si ricongiungeva immediatamente col medio evo. Era la conciliazione politica, sublimata a filosofia, era la filosofia costruita ad uso del popolo italiano. Frate Campanella pareva uscito dalla sua tomba. L'impressione fu immensa. Sembrò che ci fosse al fine una filosofia italiana. Vi si vedevano conciliate tutte le opposizioni: il papa a braccetto co' principi, i principi riamicati a' popoli, il misticismo internato nel socialismo, Dio e progresso, gerarchia e democrazia, un bilanciere universale. Il movimento era visibilmente politico, non religioso e non filosofico. E ciò che ne uscì, non fu già né una riforma religiosa né un movimento intellettuale, ma un moto politico tenuto in piedi dall'equivoco e crollato al primo urto de' fatti. Questa era la faccia della società italiana. Era un ambiente, nel quale anche i più fieri si accomodavano, non scontenti del presente, fiduciosi nell'avvenire: i liberali biascicavano paternostri, e i gesuiti biascicavano progresso e riforme. La situazione in fondo era comica, e il poeta che seppe coglierne tutt'i segreti fu GIUSEPPE GIUSTI. La Toscana, dopo una prodigiosa produzione di tre secoli, non aveva più in mano l'indirizzo letterario d'Italia. Si era addormentata col riso del Berni sul labbro. La Crusca l'avea inventariata e imbalsamata. Resistè più che poté nel suo sonno, respingendo da sé gl'impulsi del secolo decimottavo. Quando si sentì il bisogno d'una lingua meno accademica, prossima per naturalezza e brio al linguaggio parlato, molti si diedero al dialetto locale, altri si gittarono alle forme francesi, altri col padre Cesari a capo, l'andavano pescando nel Trecento. Non veniva innanzi la soluzione più naturale: cercarlo colà dove era parlato, cercarla in Toscana. La Rivoluzione avea ravvicinati gl'italiani, suscitati interessi, idee, speranze comuni. Firenze, la città prediletta di Alfieri e di Foscolo, dopo il 21 vide nelle sue mura accolti esuli illustri di altre parti d'Italia. Grazie al Vieusseux, vi sorgeva un centro letterario in gara con quello di Milano. Manzoni e d'Azeglio andavano pe' colli di Pistoia raccattando voci e proverbi della lingua viva. Gl'italiani si studiavano di comparire toscani; i toscani, come NICCOLINI e GUERRAZZI si studiavano di assimilarsi lo spirito italiano. Risorgeva in Firenze una vita letteraria, dove l'elemento locale, prima timido e come sopraffatto, ripigliava la sua forza con la coscienza della sua vitalità. Firenze riacquistava il suo posto nella coltura italiana per opera di Giuseppe Giusti. Sembrava un contemporaneo di Lorenzo de' Medici, che gittasse un'occhiata ironica sulla società quale l'aveva fatta il secolo decimonono. Quelle finezze politiche, quelle ipocrisie dottrinali, quella mascherata universale, sotto la quale ammiccavano le idee liberali, gli Arlecchini, i Girella, gli eroi da poltrona, furono materia di un riso non privo di tristezza. Era Parini tradotto dal popolino di Firenze, con una grazia e una vivezza che dava l'ultimo contorno alle immagini e le fissava nella memoria. Ciascun sistema d'idee medie, nel suo studio di contentare e conciliare gli estremi, va a finire irreparabilmente nel comico. Tutto quell'equilibrio dottrinale, così laboriosamente formato, del secolo decimonono, tutta quella vasta sistemazione e conciliazione dello scibile in costruzioni ideali, quel misticismo impregnato di metafisica, quella metafisica del divino e dell'assoluto declinante in teologia, quel volterianismo inverniciato d'acqua benedetta, tutto si dissolveva innanzi al ghigno di Giuseppe Giusti.

GIACOMO LEOPARDI

GIACOMO LEOPARDI (7) segna il termine di questo periodo. La metafisica, in lotta con la teologia, si era esaurita in questo tentativo di conciliazione. La molteplicità de' sistemi avea tolto credito alla stessa scienza. Sorgeva un nuovo scetticismo, che non colpiva più solo la religione e il soprannaturale: colpiva la sessa ragione. La metafisica era tenuta come una succursale della teologia. L'idea sembrava un sostituto della provvidenza. Quelle filosofie della storia, delle religioni, dell'umanità, del diritto avevano aria di costruzioni poetiche. La teoria del progresso o del fato storico nelle sue evoluzioni sembrava una fantasmagoria. L'abuso degli elementi provvidenziali e collettivi conduceva diritto all'onnipotenza dello Stato, al centralismo governativo. L'eccletismo pareva una stagnazione intellettuale, un mare morto. L'apoteosi del successo rintuzzava il senso morale, incoraggiava tutte le violenze. Quella conciliazione tra il vecchio ed il nuovo, tollerata pure come temporanea necessità politica, sembrava in fondo una profanazione della scienza, una fiacchezza morale. Il sistema non attecchiva più: cominciava la ribellione. Mancata era la fede nella rivelazione. Mancava ora la fede nella stessa filosofia. Ricompariva il mistero. Il filosofo sapeva quanto il pastore. Di questo mistero fu l'eco Giacomo Leopardi nella solitudine del suo pensiero e del suo dolore.
Ritratto di Giacomo Leopardi

Il suo scetticismo annunzia la dissoluzione di questo mondo teologico-metafisico, e inaugura il regno dell'arido vero, del reale. I suoi Canti sono le più profonde e occulte voci di quella transizione laboriosa che si chiamava secolo decimonono. Ci si vede la vita interiore sviluppatissima. Ciò che ha importanza non è la brillante esteriorità di quel secolo del progresso e non senza ironia vi si parla delle sorti progressive dell'umanità. Ciò che ha importanza è l'esplorazione del proprio petto, il mondo interno: virtù, libertà, amore, tutti gl'ideali della religione, della scienza e della poesia, ombre e illusioni innanzi alla sua ragione e che pur gli scaldano il cuore e non vogliono morire. Il mistero distrugge il suo mondo intellettuale, lascia inviolato il suo mondo morale. Questa vita tenace di un mondo interno, malgrado la caduta di ogni mondo teologico e metafisico, è l'originalità di Leopardi, e dà ai suo scetticismo una impronta religiosa. Anzi è lo scetticismo di un quarto d'ora quello in cui vibra un così energico sentimento del mondo morale. Ciascuno sente lì dentro una nuova formazione.
L'istrumento di questa rinnovazione è la critica, covata e cresciuta nel seno stesso dell'ecletismo. Il secolo sorto con tendenze ontologiche e ideali, avea posto esso medesimo il principio della sua dissoluzione: dea vivente, calata nel reale. Nel suo cammino il senso del reale si va sempre più sviluppando, e le scienze positive prendono il disopra, cacciando di nido tutte le costruzioni ideali e sistematiche. I nuovi dogmi perdono il credito. Rimane in tutta la critica. Ricomincia il lavoro paziente dell'analisi. Ritorna a splendere sull'orizzonte intellettuale Galileo accompagnato con Vico. La Rivoluzione, arrestata e sistemata in organismi provvisorii, ripiglia la sua libertà, si riannoda all'89, tira le conseguenze. Comparisce il socialismo nell'ordine politico, il positivismo nell'ordine intellettuale. Il verbo non è più solo libertà, ma giustizia, la parte fatta a tutti gli elementi reali della resistenza, la democrazia non solo giuridica, ma effettiva. La letteratura si va anche essa trasformando. Rigetta le classi, le distinzioni, i privilegi. Il brutto sta accanto al bello, o, per dir meglio, non c'è più né bello né brutto, non ideale e non reale, non infinito e non finito. L'idea non si stacca, non soprastà al contenuto. Il contenuto non si spicca dalla forma. Non ci è che una cosa, il vivente. Dal seno dell'idealismo comparisce il realismo nella scienza, nell'arte, nella storia. E' un'ultima eliminazione di elementi fantastici, mistici, metafisici e rettorici. La nuova letteratura, rifatta la coscienza, acquistata una vita interiore, emancipata da involucri classici e romantici, eco della vita contemporanea universale e nazionale, come filosofia, come storia, come arte, come critica, intenta a realizzare sempre più il suo contenuto, si chiama oggi ed è, la letteratura moderna.
L'Italia, costretta a lottare tutto un secolo per acquistare l'indipendenza e le istituzioni liberali, rimasta un cerchio d'idee e di sentimenti troppo uniforme e generali subordinato a' suoi fini politici, assiste ora al disfacimento di tutto quel sistema teologico-metafisico-politico, che ha dato quello che le potea dare. La ontologia con le sue brillanti sintesi avea soverchiate le tendenze positive del secolo. Ora è visibilmente esaurita, ripete se stessa, diviene accademica, perché accademia e Arcadia è la forma ultima delle dottrine stazionarie. Vedete Cousin col suo ecletismo dottrinario. Vedete il PRATI in Satana e le Grazie e nell'Armando. Vedete la Storia universale di Cesare Cantù. Erede dell'ontologia è la critica, nata con essa, non ancor libera di elementi fantastici e dommatici attinti nel suo seno, come si vede in Proudhon, in Rénan, in Ferrari, ma con visibile tendenza meno a porre e a dimostrare che a investigare. La paziente e modesta monografia prende il posto delle sintesi filosofiche letterarie. I sistemi sono sospetti, le leggi sono accolte con diffidenza, i principi più inconcussi sono messi nel crogiuolo, niente si ammette più che non esca da una serie di fatti accertati. Accertare un fatto desta più interesse che stabilire una legge. Le idee, i motti, le formole, che un giorno destavano tante lotte e tante passioni, sono un repertorio di convenzione, non rispondenti più allo stato reale dello spirito. C'è passato sopra Giacomo Leopardi. Diresti che proprio appunto, quando s'è formata l'Italia, si sia sformato il mondo intellettuale politico da cui è nata. Parrebbe una dissoluzione, se non si disegnasse in modo vago ancora, ma visibile, un nuovo orizzonte. Una forza instancabile ci sospinge, e, appena quietate certe aspirazioni, si affacciano le altre.
L'Italia è stata finora avviluppata come di una sfera brillante, la sfera della libertà e della nazionalità, e ne è nata una filosofia e una letteratura la quale ha la sua leva fuori di lei, ancorché intorno a lei. Ora si dee guardare in seno dee cercare se stessa; la sfera dee svilupparsi e concretarsi come sua vita interiore. La ipocrisia religiosa, la prevalenza delle necessità politiche, le abitudini accademiche, i lunghi ozi, le reminiscenze d'una servitù e abbiezione di parecchi secoli, gl'impulsi estranei soprapposti al suo libero sviluppo, hanno creata una coscienza artificiale e vacillante, le tolgono ogni raccoglimento, ogn'intimità. La sua vita è ancora esteriore e superficiale. Dee cercare se stessa, con vista chiara, sgombra da ogni velo e da ogni involucro, guardando alla cosa effettuale, con lo spirito di Galileo, di Machiavelli. In questa ricerca degli elementi reali della sua esistenza, lo spirito italiano rifarà la sua coltura, ristaurerà il suo mondo morale, rinfrescherà le sue impressioni, troverà nella sua intimità nuove fonti d'ispirazione, la donna, la famiglia, la natura, l'amore, la libertà, la patria, la scienza, la virtù, non come idee brillanti, viste nello spazio, che gli girino intorno, ma come oggetti concreti e familiari, divenuti il suo contenuto.
Una letteratura simile suppone una seria preparazione di studi originali e diretti in tutt'i rami dello scibile, guidati da una critica libera da preconcetti e paziente esploratrice, e suppone pure una vita nazionale, pubblica e privata, lungamente sviluppata. Guardate in noi, ne' nostri costumi, nelle nostre idee, nei nostri pregiudizi, nelle nostre qualità buone o cattive, convertire il mondo moderno in mondo nostro, studiandolo, assimilandocelo e trasformandolo: esplorare il proprio petto, secondo il motto testamentario di Giacomo Leopardi: questa è la propedeutica alla letteratura nazionale moderna, della quale compariscono presso di noi piccoli indizi con vaste ombre. Abbiamo il romanzo storico: ci manca la storia e il romanzo. E ci manca il dramma. Da Giuseppe Giusti non è uscita ancora la commedia. E da Leopardi non è uscita ancora la lirica. Ci incalza ancora l'accademia, l'Arcadia, il classicismo e il romanticismo. Continua l'enfasi e la rettorica, argomento di poca serietà di studi e di vita. Viviamo molto sul nostro passato e del lavoro altrui. Non ci è vita nostra e lavoro nostro. E da' nostri vanti s'intravede la coscienza della nostra inferiorità. Il grande lavoro del secolo decimonono è al suo termine. Assistiamo ad una nuova fermentazione d'idee, nunzia di una nuova formazione. Già vediamo in questo secolo disegnarsi il nuovo secolo. E questa volta non dobbiamo trovarci alla coda, non a' secondi posti.

NOTE

PIETRO METASTASIO

(Vero nome PIETRO TRAPASSI) nacque a Roma il 3 gennaio 1698, morì a Vienna il 12 aprile 1782. Piccolo apprendista orefice, fu incontrato un giorno per via dall'abate G.V. Gravina, il quale, stupito nel sentirlo improvvisare versi con mirabile facilità, lo chiese ai genitori e ne fece il suo figlio adottivo. Grecizzandone il nome, il Gravina lo chiamò Metastasio, quindi lo istruì nel latino, nel greco e nella giurisprudenza e lo condusse in Calabria affinché apprendesse la filosofia dal Caloprese; morendo, lo lasciò erede della sua ricca biblioteca e delle sue sostanze. Metastasio, dissipate queste con amici buontemponi, si ritirò a Napoli, dove ebbe dal Viceré l'incarico di scrivere il dramma Gli orti delle Esperidi, che lo rese improvvisamente celebre. Fu quindi a Venezia, Roma, Vienna dove ricevette l'onorevole incarico di poeta cesareo e un ottimo stipendio, che gli permise, morendo, di lasciare centotrentamila fiorini alla famiglia che lo aveva ospitato negli ultimi anni.

PAOLO ROLLI

Poeta nato a Roma nel 1687, morto a Todi nel 1765; improvvisatore di versi fin da fanciullo, divenne celebre con le sue Rime, Canzonette e cantate. Tradusse autori francesi ed inglesi e curò a Londra, dove lungamente visse come insegnante delle principesse reali, edizioni di classici italiani. Scrisse anche alcuni melodrammi.

G.B. CASTI

Nato a Montefiascone nel 1721, morto a Parigi nel 1803; viaggiò in Francia, Germania, Russia, satireggiando le corti. Successe al Metastasio come poeta cesareo alla corte di Vienna. Diè sviluppò al melodramma buffo. Scrisse: Liriche, Sonetti, Cantate, alcuni melodrammi musicati da Paisiello e il poema eroicomico Animali parlanti, che è la migliore sua opera.

FERDINANDO GALIANI

Abate nato a Chieti nel 1728, morto a Napoli nel 1787; fu per dieci anni segretario dell'Ambasciata Napoletana a Parigi, dove si distinse per versatilità d'ingegno e facondia. Scrisse un Saggio sul dialetto napoletano, un melodramma burlesco dal titolo Socrate immaginario, musicato da Paisiello, e trattati di economia.

GIUSEPPE BARETTI

Nato a Torino nel 1716. Visse lungamente all'estero, soprattutto in Inghilterra; tradusse le tragedie del Corneille ed a Londra insegnò lingua italiana. Scrisse con facilità la lingua inglese e la francese. Quando, tornando in Italia, passò per il Portogallo e la Francia meridionale, scrisse da quei paesi Lettere ai fratelli. In Italia pubblicò la Frusta letteraria, iu opposizione alla scuola letteraria raccolta intorno a Caffè. Poi ritornò a Londra, ove compose grammatiche e vocabolari e morì nel 1789.

FRANCESCO ALGAROTTI

Letterato veneziano nato nel 1712, morto a Pisa nel 1764. Fu ciambellano di Federico II di Prussia, che lo nominò conte, e consigliere di Augusto III elettore di Sassonia. Scrisse Newtonianismo per le dame, Epistole, Dialoghi, Saggi, e molto anche sulla pittura, l'architettura e la musica, arti di cui era eccellente conoscitore.

VERRI

Di Verri ve ne furono due, fratelli fra loro: ALESSANDRO (1741-1816) il cui maggior lavoro è Le notti romane alla tomba degli Scipioni, e PIETRO, autore, fra l'altro, di una Storia di Milano. I Verri, che erano milanesi entrambi, fondarono insieme ad altri letterati Caffè, periodico che molto concorse a preparare il movimento liberale in Italia.

MELCHIORRE CESAROTTI

(1730-1808) Nacque a Padova, nella cui università poi insegnò lettere latine e greche. Fu segretario dell'Accademia veneta delle Scienze, Lettere ed Arti e fece pregevoli traduzioni dal greco.

GIOVANNI MARIA CRESCIMBENI

(1663-1728) Poeta maceratese, uno dei fondatori dell'Arcadia, autore dell'Istoria della volgar poesia, ricca di dati biografici, e della Arcadia, in cui narra la storia dell'Accademia fino al 1706.

GIOVANNI MARIA MAZZUCCHELLI

(1707-1765) Letterato bresciano.

FRANCESCO SAVERIO QUADRIO

(1695-1756) Gesuita valtellinese, autore di una Storia e ragione di ogni poesia.

GIROLAMO TIRABOSCHI

(1731-1794) Letterato bergamasco, gesuita, autore di una Storia della letteratura italiana dal tempo degli Etruschi al 1770.

SAVERIO BETTINELLI

(1718-1808) Letterato mantovano, autore di Lettere virgiliane, che sollevarono non poche polemiche.

GASPARE GOZZI

(1713-1786) Fu autore di opere morali, fra cui: I Sermoni, L'osseruatore, Il mondo morale, Lettere, La difesa di Dante. Ebbe vita assai travagliata causa le non liete sue condizioni economiche.

ANTONIO CESARI

(1760-1828) Sacerdote filologo veronese, tradizionalista e purista. Scrisse: Le bellezze della Divina Commedia, Le Grazie, ecc.

MELCHIORRE GIOIA

(1767-1829) Filosofo ed economista nato a Piacenza. Fu perseguitato e carcerato per le sue idee innovatrici. Fondò col Foscolo il Monitore Italiano, e soppresso questo, il Censore, La Gazzetta nazionale, Il Giornale filosofico e politico. Dai Francesi fu nominato storiografo della Repubblica Cisalpina. Scrisse: La scienza del povero diavolo, Nuovo prospetto delle scienze economiche, Del merito delle ricompense, Elementi di filosofia, L'Ideologia, La filosofia della statistica.

GIUSEPPE MARIA GALANTI

(1743-1806) Economista, storico e critico nato a Campobasso.

MARIO FRANCESCO PAGANO

(1748-1799) Filosofo, giurista, patriota nato a Brienza (Salerno). Avvocato a Napoli ed insegnante di diritto in quella Università, fu carcerato dal governo borbonico perchè liberale. Uscito dal carcere andò a Roma ed a Milano; ma fece ritorno a Napoli appena seppe proclamata la Repubblica Partenopea. Qual membro del Governo Provvisorio, compilò un progetto di costituzione. Restaurato il regno, fu giustiziato insieme ad altri repubblicani. Tra le eue opere citiamo: Considerazioni sulla procedura criminale, Saggi politici, Ragionamenti estetici, Saggi sui principi, progressi e decadenza della società. Lasciò anche alcune opere teatrali e un trattato dal titolo Del Gusto e delle Belle Arti.

ANTONIO GENOVESI

(1712-1769) Filosofo ed economista nato a Castiglione (Salerno), ineegnante nell'Università di Napoli, introdusse per primo in Italia lo studio e l'insegnamento dell'economia. Fu ammiratissimo per il suo sapere e la sua eloquenza. Scrisse: Istituzioni di metafisica e logica, Meditazioni filosofiche sulla religione e sulla morale ed altre opere minori.

PIETRO CHIARI

(1700-1788) Poeta e romanziere bresciano; scrisse molto per il teatro ed alcuni romanzi, ma in uno stile così ampolloso che ben presto le sue opere furono dimenticate.

CARLO GOLDONI

Nato a Venezia il 25 febbraio 1707, morto a Parigi il 6 febbraio 1793; sentì fin da bambino la sua attrazione per il teatro, per il quale più tardi abbandonava gli studi classici ai quali era stato avviato dal padre. Ripresi gli studi si laureava in legge e faceva l'avvocato, ma senza tralasciare di occuparsi di teatro e di scrivere per esso. Il successo della sua tragedia Belisario, che fu il suo «primo passo», come egli stesso dice nelle sue Memorie, lo invogliò ancor maggiormente a scrivere, e sebbene molto avversato dall'abate Chiari, riuscì a conquistare il pubblico con le sue garbate commedie. La rivalità di Carlo Gozzi, che con le sue «Fiabe» riuscì a distogliergli il pubblico, lo indusse a lasciare Venezia. Si recò a Parigi, dove visse gli ultimi anni facendo il precettore delle figlie del re, e morì nella più squallida miseria, avendolo la rivoluzione privato dell'assegno reale. Le più note delle sue commedie sono: La locandiera, La bottega del caffè, Un curioso accidente, Il ventaglio, La vedova scaltra, Le baruffe chiozzotte, I rusteghi, Il bugiardo, Il burbero benefico. I suoi componimenti teatrali assommano a 198.

CARLO GOZZI

Fratello di Gaspare, si oppose fieramente alla riforma goldoniana, sia con la satira, sia scrivendo egli stesso alcune fiabe drammatiche, tra cui: L'amore delle tre melarance, L'augellin, Belverde, La Zobeide, Il mostro turchino, Il corvo, Il Re Cervo, Turandot, I pitocchi fortunati (1720-1806).

G.B. FAGIUOLI

(1660-1742) Commediografo e poeta fiorentino, imitatore del Berni.

GIANCARLO PASSERONI

(1713-1803) Sacerdote e poeta nizzardo, autore del poema gioioso Cicerone, che in 101 canti narra la vita del grande oratore. Scrisse anche Favole esopiane, capitoli, rime, apologhi, ecc.

GIUSEPPE PARINI

Nacque a Bosisio, in Brianza, il 23 maggio 1729 da umili genitori, che all'età di nove anni lo affidarono ad una prozia abitante a Milano, la quale, morendo, gli lasciava una piccola rendita con l'obbligo di farsi prete. Studente di ginnasio, insegnava privatamente allo scopo di mandare qualcosa alla madre rimasta al paese povera e sola. Pubblicate alcune poesie, venne ammesso all'Accademia dei Trasformati e successivamente a quella reggiana degli Ipocondriaci, nonché nella colonia insubre dell'Arcadia. Ordinato sacerdote, divenne precettore di nobili famiglie. Trovavasi a Gorgonzola, presso la famiglia Serbelloni, quando gli capitò di assistere ad una scena disgustosa: la signora schiaffeggiò la figlia del maestro di cappella. Il poeta, sdegnato, prese le difese della fanciulla e fu messo alla porta. Nel 1763 pubblicò il Mattino e nel 1765 il Mezzogiorno. Tre anni dopo, dal ministro plenipotenziario austriaco ricevette l'incarico di redigere la Gazzetta di Milano e d'insegnare belle lettere nelle Scuole Palatine; qualche anno dopo assumeva la carica di soprintendente superiore delle scuole di Brera. Costituitasi la Repubblica Cisalpina fu chiamato a far parte della Municipalità, da cui dovette dimettersi tre mesi dopo, a causa della sua indole sdegnosa e alla sua troppa libertà di giudizio e di parola. Morì a Milano il 15 agosto 1799. Scrisse in poesia: le Odi, il poemetto Il giorno, ed in prosa: Della nobiltà, Principi delle belle lettere, Lettere polemiche.

VITTORIO ALFIERI

Nacque ad Asti da antica e nobile famiglia il 16 gennaio 1749; rimasto orfano in tenera età, fu dapprima educato privatamente, poi entrò nell'Accademia militare, dove come egli dice «passò otto anni d'ineducazione», ed infine intollerante della disciplina, lasciò le armi per dedicarsi ai viaggi. Visitando i più svariati paesi, per sei anni si abbandonò alle più varie e folli avventure; ma poi, insoddisfatto di sé, e pieno l'animo di un forte desiderio di diventare qualcuno, rimpatriò e s'immerse nella lettura. Compose in quel tempo la Cleopatra, tragedia che ebbe un notevole successo a Torino, e ne abbozzò in francese due altre: il Filippo e il Polinice. Deciso a primeggiare, rifece la sua coltura, leggendo gli autori latini ed i nostri del Trecento; si recò in Toscana e, cercando di dimenticare il francese, s'ingolfò nella lettura di grammatiche e vocabolari. Così s'impadronì della lingua e si formò uno stile, ed ispirato dalla contessa Luisa d'Albany, compose con animo d'italiano e per gli Italiani numerose tragedie. La sua irrequietezza lo condusse un po' in tutte le città d'Italia: visitò le tombe di Dante, Petrarca, Ariosto; conobbe il Cesarotti e il Parini, che gli furono prodighi di consigli. La sua passione per i cavalli lo spinse più volte in Inghilterra ed il suo amore per l'Albany in Francia, dove pubblicò le Tragedie. Si trovava appunto in Francia, quando nel 1792 scoppiò la rivoluzione, che lo costrinse ad abbandonare in tutta fretta il paese. Stabilitosi a Firenze, studiò con foga giovanile il greco e tradusse da quella lingua parecchie tragedie. Morì l'8 ottobre 1803 e fu sepolto in Santa Croce. Oltre le Tragedie, di lui abbiamo: Satire, Epigrammi, alcune Commedie, la Vita ed i trattati Della Tirannide e Il Principe.

VINCENZO MONTI

Nacque ad Alfonsine (Romagna) il 19 febbraio 1754, studiò a Fusignano e a Faenza, e frequentò l'Università di Ferrara, dove, anziché seguire il corso di diritto per il quale era iscritto, preferì dedicarsi allo studio dei poeti antichi. Nel 1778, quando aveva già pubblicato una cantina d'ispirazione biblica, si recò a Roma al eeguito del cardinale Scipione Borghese e lì rimase circa vent'anni, durante i quali fece da segretario al duca Luigi Braschi, nipote del papa allora regnante. Nel 1793 scrisse la Baswilliana, in occasione della morte di Nicola Giovanni Hugon detto Baswille ucciso dal furore popolare. Lasciò Roma nel 1797 e al seguito di Mormont, aiutante di campo di Napoleone, si recò a Firenze, Bologna e Milano. In quest'ultima città, superati gli ostacoli oppostigli dagli invidiosi, che mettevano in dubbio la sua fede repubblicana, scrisse alcune cantiche del tutto opposte allo spirito della Baswilliana, che i suoi avversari avevan data alle fiamme, ed ebbe la nomina d'insegnante nel Ginnasio di Brera. Caduta la Repubblica, si ritirò in Francia, dove visse poveramente, insegnando lingua italiana, ma col ritorno dei Francesi, rientrato in Italia, otteneva la cattedra di eloquenza dell'Università di Pavia, e, più tardi, esonerato dall'insegnamento, la nomina di poeta del governo e quella di assessore consulente del ministero dell'interno. Ciò non gl'impediva, dopo la caduta di Napoleone, di celebrare i dominatori antichi, che prendevano nuovamente possesso della Lombardia. Morì a Milano il 13 ottobre 1828. Scrisse oltre alla Baswilliana, alcune Tragedie, Mascheroniana e tradusse in magnifica forma l'Iliade.

UGO FOSCOLO

Nacque a Zante (Grecia) il 6 febbraio 1778 da madre greca e da padre veneziano; compì a Spalato i suoi primi studi, li seguitò a Venezia, dove si trasferì con la madre dopo la morte del genitore. Di idee democratiche, sperò in Buonaparte liberatore, si arruolò, combattè e rimase ferito. Deluse le sue speranze dopo il trattato di Campoformido, sfogò il suo dolore nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis. Fu professore di eloquenza a Pavia, e quando la cattedra venne soppressa, ottenne una modesta pensione, che destinò interamente alla madre. Ritornati gli austriaci a Milano, negò loro il giuramento di fedeltà ed esulò in Isvizzera e a Londra, dove trascorse gli ultimi anni miseramente. Nella metropoli inglese morì il 10 settembre 1827. Sue opere principali: I Sepolcri, le Tragedie, Ultime lettere di Jacopo Ortis, gli Inni, le Odi, Le Grazie.

VINCENZO CUOCO

(1770-1823) Filosofo, storico, uomo politico, giornalista, nato a Civitacampomarano (Molise); fautore delle idee di G.B. Vico, del Genovesi e del Filangieri, fu condannato a trent'anni di esilio dai Borboni. A Milano pubblicò Saggio storico della rivoluzione napoletana del 1799. Fu inoltre autore di un romanzo storico e filosofico dal titolo Platone in Italia.

SILVIO PELLICO

(1788-1854) Poeta e patriota nato a Saluzzo (Piemonte); a Milano fu tra i fondatori del Conciliatore e venne arrestato e condannato a morte con altri carbonari. Commutatagli la pena in 15 anni di carcere duro, venne rinchiuso nello Spielberg, dove scrisse parecchie liriche e tragedie. Tra le sue opere citiamo: Le mie prigioni, Epistolario, I doveri degli uomini, Tragedie, Cantiche, Novelle poetiche e Liriche.

ALESSANDRO MANZONI

Nacque a Milano da nobile famiglia il 7 marzo 1785; studiò a Merate e a Lugano coi Padri Somaschi, quindi a Milano coi Barnabiti. Frequentò anche le lezioni che Pietro Signorelli teneva a Brera e studiò per proprio conto gli scrittori antichi, nonché Parini e Alfieri. A 15 anni scrisse Il trionfo della libertà, a venti andò con la madre a Parigi, dove, frequentando filosofi e letterati, s'imbevve delle idee degli Enciclopedisti. Tornato in patria sposò Enrichetta Blondel, calvinista, e quando essa si convertì al cattolicesimo, egli, già scettico, si riaccostò alla Chiesa e divenne un fervente cattolico. Fu allora che scrisse gl'Inni sacri e la Morale cattolica nonché le Tragedie, il Cinque maggio ed i Promessi sposi, iniziato questo nel 1821 e pubblicato nel 1827. Risiedette per qualche tempo a Firenze, dove si recò, com'egli diceva celiando «per risciacquare i suoi cenci nell'Arno», dopo di che rimaneggiò il suo romanzo, che faceva uscire in edizione definitiva nel 1840. Nel 1859 fu nominato senatore, e come tale nel 1861 votava la proclamazione del Regno d'Italia. Fu amico del Grossi, del Rosmini e del D'Azeglio, cui diede in moglie la figlia Giulia. Morì a Milano il 22 maggio 1873.

TOMMASO GROSSI

Nato a Bellano (Como), morto a Milano nel 1853, fu notaio a Milano e nel 1848 rogò l'atto di fusione della Lombardia col Piemonte, per cui dovette poi riparare in Isvizzera. Fu amicissimo del Manzoni e del Porta. Scrisse molto in vernacolo milanese, in italiano compose due novelle: Ildegonda e Ulrico e Lida; il poema storico I Lombardi alla prima crociata ed il romanzo storico Marco Visconti, che è la sua opera maggiore.

GIOVANNI BERCHET

(1783-1851) Poeta e patriota milanese; collaborò col Peliico ed altri alla redazione del Conciliatore, ma poté sottrarsi all'arresto, fuggendo in Isvizzera, donde poi passò in altri paesi. Nel 1848 rimpatriò e fece parte del governo provvisorio, ma col ritorno degli Austriaci riprese la via dell'esilio. Le sue Odi contribuirono a tener desto negli Italiani l'amore alla Patria e sempre viva la speranza nella sua indipendenza.

(*) Nel primo dei quattro saggi manzoniani pubblicati nella Nuova Antologia dal De S., egli tratta dal «Mondo epico-lirico del Manzoni», svolgendo gli stessi concetti svolti in questo paragrafo.
Crediamo di fare cosa gradita al lettore, riportando in nota, ad integrazione di questo testo, alcuni brani del Saggio.

CARLO TROYA

(1784-1858) Patriota e storico napoletano; fu presidente del ministero rivoluzionario. Scrisse: Storia d'Italia nel Medio evo, Codice diplomatico lombardo, Del Veltro allegorico.

GIAN DOMENICO ROMAGNOSI

(1761-1835) Filosofo, giurista, scienziato e patriota nacque a Salsomaggiore (Parma), fu collaboratore dell'Antologia e del Conciliatore e subì il carcere sotto l'Austria. Scrisse: Genesi del diritto penale, Della costituzione di una monarchia nazionale rappresentativa, Dell'indole e dei fattori dell'incivilimento.

(1) «Onde veniva all'Italia quella nuova ispirazione? Dissero d'oltremare. Narrarono che il giovane Manzoni, partito d'Italia tutto pieno d'Alfieri, fosse venuto di Parigi romantico e cattolico, capitato in quei circoli intedescati, che facevano opposizione all'impero, o piuttosto alla rivoluzione, e proclamavano la legittimità e il dritto divino. Parve al giovane vedere mondo nuovo, e gl'Inni uscirono da quel primo entusiasmo religioso, che accompagnava a Roma il Papa reduce, ispirava ad Alessandro la federazione cristiana, prometteva agli uomini stanchi un'era nuova di pace. La giovine generazione sorgeva fra queste illusioni; e mentre il vecchio Foscolo fantasticava un paradiso delle Grazie, allegorizzando con colori antichi cose moderne, Manzoni ricostruiva l'ideale di un paradiso cristiano, e lo riconciliava con lo spirito moderno.
Il medesimo fu di Cesare Beccaria. Anche lui era stato a Parigi, e n'era venuto volteriano ed enciclopedista. Da Parigi veniva la rivoluzione, da Parigi veniva la reazione. L'Italia era uscita dalla sua solitudine intellettuale, ed era al seguito, riceveva l'impulso. Il centro più vivace di quel moto europeo in Italia era sempre Milano, dove erano più vicini e più potenti gl'influssi francesi e germanici. Là s'inaugurava nel Caffè il secolo decimottavo. E là s'inaugurava nel Conciliatore il secolo decimonono. Manzoni succedeva a Beccaria; e i Verri e i Baretti del nuovo secolo erano i Pellico, i Berchet, i Grossi e i d'Azeglio.
Il fenomeno non era solo italiano, era europeo. Fin dal secolo scorso era cominciata una più stretta comunanza intellettuale nella colta Europa, aiutando a ciò anche le guerre napoleoniche. L'imperatore portava in Germania le idee francesi e riportava le idee tedesche a Parigi. Il nemico galoppava dietro al suo cavallo. Parigi diveniva un centro attivo di scambi intellettuali, di esportazione e d'importazione. Le idee locali, manifatturate a Parigi prendevano faccia europea. In quel centro vivace di formazione e di diffusione l'ammiratore di Alfieri, l'amico di Goethe, di Cousin e di Fauriel, s'iniziava alla vita europea, prendeva l'aria del nuovo secolo.
Ma l'uomo nuovo, che si andava in lui formando, non cancellava l'antico; anzi vi s'inquadrava. Rimaneva l'erede di Beccaria, il figlio del secolo decimottavo, l'ammiratore d'Alfieri. Il sentimento religioso non operò in lui come reazione, o negazione, cacciando violentemente dal suo seno le convinzioni e quei sentimenti, ponendoli sotto la protezione del cielo. Il nuovo cattolicesimo aveva i suoi furori, le sue vendette, le sue esagerazioni. Il romanticismo era una vera reazione, perciò esclusivo ed esagerato. Quanta passione in quei romantici! Respingevano il paganesimo, e riabilitavano il Medio evo. Rifiutavano la mitologia classica e preconizzavano una mitologia nordica. Volevano la libertà dell'arte, e negavano la libertà di coscienza. Rigettavano il plastico e il semplice delle forme classiche, e vi sostituivano il gotico, il fantastico, l'indefinito e il lugubre. Surrogavano il fattizio e il convenzionale dell'imitazione classica con imitazioni fattizie e convenzionali di peggior gusto. E per fastidio del bello classico idolatravano il brutto. A una superstizione tenea dietro l'altra. Ciò che era legittimo e naturale in Shakespeare e in Calderon, diveniva strano, grossolano, artificiale in tanta distanza di tempi, in tanta differenza di concepire e di sentire.
Manzoni in tutte queste violenze d'idee e di stile non vede altro se non un contenuto religioso redivivo sulla terra, Cristo smarrito e ritrovato al di dentro di noi. La sua anima giovanile già piena di un mondo morale, i cui nobili accenti odi suonare ne' versi In morte di Carlo imbonati, accoglie que' sentimenti religiosi come compimento e corona di quello. Ritorna la Provvidenza sulla terra, ricomparisce il miracolo nella storia, rifioriscono la speranza e la preghiera, il cuore si raddolcisce, si apre a sentimenti miti; su' disinganni e sulle discordie mondane spira un alito di perdono e di pace. Questo è il paradiso cristiano, vagheggiato negl'Inni».

(2) «Questo mondo ideale contiene in sé il mondo morale come l'aveva concepito il pensiero moderno. E' il mondo della libertà e dell'eguaglianza, tolto a' filosofi e rivendicato alla Bibbia, alla rivelazione cristiana. Certo, la realtà non era d'accordo con questo ideale, chi pensi cosa era allora la Santa Fede e la Santa Alleanza. Ma il poeta era la nuova generazione, pura di passioni giacobine e sanfediste, avida di pace dopo sì lunga lotta, aperta alle illusioni, facile a' rosei ideali. Dopo così violente espansioni nel mondo esterno, lo spirito si raccoglieva in sé, diveniva contemplativo e religioso, si creava nella sua solitudine un mondo ideale. Ivi si realizzava quella società che vagheggiavano Beccaria e Filangieri con una fede robusta, fiaccata dall'esperienza, ivi trovava Dio accanto al fanciulletto, alla femminetta, alla schiava, al povero, all'oppresso; ivi costruiva quel regno della libertà e dell'uguaglianza, di cui ogni vestigio, dopo tante illusioni e speranze, era scomparso sulla terra. Il mondo religioso, ridotto vacua esteriorità, riacquistava un contenuto, riconduceva nelle sue forme l'antico ideale oscurato nella coscienza, e, spogliatasi la sua rigidità dommatica e dottrinale, brillava come arte e come morale. Questa era la nuova ispirazione, alta sulle passioni contemporanee, che riceveva una poesia a' Natali a' Gesù e alle Marie.
Ciò che fa impressione sul poeta non è la santità e il misterioso del dogma. Non riceve il soprannaturale con raccoglimento, con semplicità di credente. Il miracolo non lo esalta, non l'ispira. Lo annunzia e passa. Una delle cose più mirabili della tradizione cristiana è l'adempimento delle profezie. Il poeta si contenta di dire:

Da cui promise è nato,
donde era atteso uscì.

L'ispirazione non esce dal suo cuore, non dalla sua fede: esce dalla sua immaginazione. Non è un credo, è un motivo artistico. La mira è a trasportare il soprannaturale nella immaginazione, e, se posso dir così, a naturalizzarlo. Diresti che innanzi al giovane poeta ci sia il ghigno d'Alfieri e di Foscolo, e che non si attenti di presentare a' contemporanei le disusate immagini se non pomposamente decorate. L'idea di un Redentore divino è una delle più commoventi per i cuori semplici. Il poeta si sforza di renderla concepibile e ragionevole, e ne cava il magnifico paragone del masso. Il sentimento rimane sperduto tra quelle onde di un'immaginazione concitata. Niente è più contrario del genere romantico. L'inno, poesia essenzialmente religiosa, è la materia propria dell'infinito e del soprannaturale, la congiunzione dell'anima con Dio, l'esaltazione spirituale in regioni accessibili più al sentimento che all'immaginazione. Il suo carattere è la schiettezza e l'ingenuità. Non essendo più possibile quella verginità della fede che rende incomparabili gli inni ecclesiastici, i moderni hanno cercato supplirvi con gli effetti musicali, gittando nelle loro contemplazioni quel non so che vago e intimo che fu detto sentimento romantico. Ma il nostro poeta rimane classico nelle sue forme: vi si sente ancora la scuola di Vincenzo Monti. Invano si arrampica fra le nubi del Sinai; non si regge, ha bisogno di toccar terra; il suo spirito non riceve se non ciò che è chiaro e plastico; le sue forme sono descrittive, oratorie e letterarie, pur vigorose e piene di effetto, perché animate da immaginazione fresca in materia nuova. Degli angeli e de' pastori così parla la Bibbia: «Ecce Angelus Domini stetit juxta illos, et claritas Dei circumfulsit illos... Et subito facta est cum angelo multitudo militiae caelestis laudantium Deum et dicentium: Gloria in altissimis Deo». Questo dee parer troppo semplice a una immaginazione moderna. Il poeta vi profonde i suoi più bei colori, ne cava tre strofe pittoresche; l'ultima strofa annunzia una immaginazione piacevolmente eccitata che fa intorno all'argomento gli ultimi ricami. Ti nasce l'impressione di una bella apparizione, che sorprende e sollecita la vista, com'è a veder certe fiammelle nei fuochi artificiali, e non t'invita a raccoglimento, come quella frase, nella sua santa semplicità così piena di energia: «claritas Dei circumfulsit illos». Questa emozione, che cerca il suo appagamento nelle combinazioni esteriori di quei fatti soprannaturali, e non ha radice nelle prime e dirette impressioni del sentimento religioso, rivela un calore tutto d'immaginazione, un sentimento puramente artistico, com'è negli scrittori neo-cattolici di quel tempo. Di qui nasce quell'apparato rettorico, che talora vi prende il sentimento, specialmente nell'inno della Passione o nell'altro della Risurrezione. E sarebbe insopportabile se a volta a volta quella corrente di esclamazioni e interrogazioni non fosse rotta dalla rappresentazione di quel mondo morale, espresso in immagini e pensieri nuovi e semplici, che è la vera base poetica degli Inni, il ponte che lega le antiche tradizioni co' sentimenti contemporanei. Questo ci rende così attraente il Natale e l'inno a Maria comunica alla Pentecoste eloquenza e grandezza morale.
In questa ricostruzione di un mondo celeste si sviluppa una lirica alta sulle collere e sulle cupidigie mondane, che ha la sua prospettiva nell'altra vita. Il momento drammatico di questa lirica è la morte, e la sua forma ordinaria è la preghiera, alzamento dell'anima a Dio. Questo vivo sentimento del soprannaturale che alita sul corso agitato degli avvenimenti, e ti somiglia il convento eminente sulle città e castella, dove cercava pace l'uomo travagliato e logoro da passioni terrestri, è appunto la lirica del Medio evo, è Beatrice e Laura, visioni e fantasmi nella vita terrena, divenute vere persone poetiche nell'altro mondo. Figlia di questo mondo mistico è l'Ermengarda, creatura appena abbozzata, più simile a fantasma che a persona, intorno alla quale rugge la tempesta, mossa per lei mentr'ella si leva su con gli occhi al cielo. Niente potea meglio ritrarre quel mondo feroce e sconvolto della barbarie, con le sue chiese e i suoi conventi, coi suoi angioli e i suoi santi. Nello sfondo del quadro vedi sempre su quelle agitazioni barbariche Ermengarda, la trasfigurazione della morte, quasi un risvegliarsi dell'anima alla vera vita. Questo sentimento della vanità delle cose terrestri «omnia vanitas», nel maggior eccitamento degli odi umani, questo paradiso di pace e di obblio che ti fluttua sul capo tra' ruggiti di età ferine, è la più bella concezione della poesia in questo misticismo. L'antagonismo è ancora più drammatico, perchè si agita nell'animo stesso della morente, dove le rimembranze del tempo felice nutrono l'ultimo avanzo degli ardori terrestri e generano uno strazio, quel cielo nella terra, quel paradiso nell'inferno, di cui si vede il preludio appena indicato e senza carattere ne' versi amabili del Pindemonte. Qui la malinconia ha il suo carattere, è il naturale effluvio di tutto un mondo poetico. Ed è di una chiarezza italiana, avendo la sua base non in quel vago de' sentimenti e dei desideri, che fu detto romanticismo, e di cui vedi le fluttuazini e le ombre nelle melodie di Lamartine, ma in un concetto ben determinato del nuovo mondo poetico, in quel lievito del terrestre anche tra le gioie celesti. Ermengarda morente, nella cui immaginazione si volve come un fantasma la regina cinta la chioma di gemme, amata e amante, è non meno interessante di Laura, che desidera in cielo l'amato e il suo «bel velo». E' un terrestre sparente, a quel modo che l'Ermengarda medesima è una creatura sparente, che ti vive innanzi nel momento appunto che muore. E' uno sparire come un bel tramonto di sole, nunzio al colono «di più sereno dì». E quel di più sereno visto in lontananza inviluppa la figura del suo amato di porpora senza poter cancellare dalla mesta faccia le memorie della terra. Anzi, la poesia è lì, in quelle memorie, in quel terrestre che si pone e si afferma nel momento del suo sparire. E sarebbe uno strazio, accompagnato con la disperazione e la bestemmia, se intorno alla morente non aleggiassero le immagini di una seconda vita. Questo antagonismo così drammatico i nostri antichi rendevano sensibile con quella loro battaglia dell'angiolo buono e del cattivo intorno al letto della morte. E' un grottesco che cercava allora di venir su, come elemento romantico. Ma il fantastico è stato sempre reietto da un poeta così misurato, e, sotto protezioni romantiche, plastico come un classico e preciso come un moderno. Qui è il coro, celesti voci di sacre suore, che prega per la morente e accenna alle sue ansie, a' suoi celesti ardori, con un riserbo e un pudore verginale; la frase contenuta liba appena gli oggetti, e pare un casto velo su quelle memorie. L'amore terrestre nelle labbra del coro riceve una prima trasfigurazione, la sua consacrazione; lo senti sparire a poco a poco secondo la preghiera va innanzi, insino a che nell'immagine del tramonto hai la compiuta fusione di tutti gli elementi, e la morente, e le sacre Vergini, e il Cielo sono una sola anima, una sola armonia».

(3) «Molti credono che l'ultima parte ci stia come appiccicata, quasi appendice, di cui si potrebbe far senza. Altri, facendone una quistione di quantità, la trovano troppo lunga. E non vedono che quella parte non è un prodotto arbitrario e sopravvenuto nell'immaginazione, ma l'apparenza ultima e quasi la corruscazione del concetto, di ciò che è vita intima di tutto il racconto».

(4) «... che pur non ti dà spiegazione adeguata di quei fatti mirabili e ti lascia intravedere una forza superiore, nelle cui mani è il destino dei regni e degli eroi, che tu senti come alito per entro a tutta la storia, insino a che da ultimo se ne sviluppa, e pare nella sua verità:

Il Dio che atterra e suscita,
che affanna e che consola,
sulla deserta coltrice
accanto a lui posò.

Quello dunque che sembra appendice, o cosa appiccicaticcia, è intimamente connesso con tutto l'insieme, anzi è lo stesso concetto o spirito della composizione. Un mio dotto amico mi dicea: «Quanto mi piace il Cinque maggio! Ma non ci vorrei la coda». E quella coda è dessa il Cinque maggio, la sua vita interiore».

(5) «Tale è questo mondo epico-lirico, sbucciato fra le maggiori violenze della reazione, purificato e sublimato dal Manzoni, riconciliato col mondo moderno, penetrato dalle impressioni e dalle tendenze contemporanee, contenuto romantico in forma classica, ispirato più alla Bibbia che al Medio evo, dove l'ideale più inaccessibile alla immaginazione par fuori con una precisione ed evidenza di contorni, con una misura di sentimenti, con un senso del terrestre così intimo e pregno di affetto, che rivelano nel giovane idealista la più viva e profonda coscienza del reale, uno spirito nel suo entusiasmo e nelle sue sintesi positivo, storico, finalmente analitico. Da questa temperanza di elementi dovea uscir fuori il suo capolavoro, i Promessi Sposi, cioè a dire questo suo mondo epico-lirico calato in tutta la varietà e ricchezza della vita».

MASSIMO TAPARELLI marchese d'AZEGLIO

Nacque a Torino il 24 ottobre, 1798. Compiuti gli studi universitari, seguì il padre, ch'era ambasciatore, a Roma, dove frequentò artisti e coltivò con successo la pittura. Più tardi sposava a Milano la figlia primogenita del Manzoni e scriveva l'Ettore Fieramosca e il Nicolò dei Lapi. Fervente patriota, combatté rimanendo ferito a Vicenza, e resse il governo piemontese dopo la battaglia di Novara. Morì a Torino il 19 gennaio 1866. Oltre ai due romanzi storici già citati, scrisse i Miei ricordi, rimasti incompiuti.

CESARE BALBO

Nacque a Torino il 27 novembre 1789. Come auditore del Consiglio di Stato sotto Napoleone, come segretario della Giunta Consultiva in Toscana e della Consulta Governativa per la riorganizzazione di Roma nel 1809-10, come segretario d'ambasciata a Madrid, come presidente del primo ministero costituzionale, servì sempre con devozione la Patria. Sebbene non abbia mai preso parte a congiure e a moti rivoluzionari, subì l'esilio per le sue idee liberali dopo i fatti del 1821. Scrisse: Studi sulle guerre d'indipendenza di Spagna e di Portogallo, Quattro novelle narrate da un maestro di scuola, Vita di Dante, Meditazioni storiche, Speranze d'Italia, Pensieri ed esempi, Storia d'ltalia sotto i barbari, Il regno di Carlo Magno, Saggio sul governo rappresentativo e Sommario della storia d'Italia, la più mirabile delle sue opere. Morì il 3 giugno 1853.

VINCENZO GIOBERTI

Nacque a Torino nel 1801, morì a Parigi nel 1852. Di umilissime origini, si addottorò in teologia a 22 anni ed a 24 fu ordinato sacerdote. Per le sue simpatie al movimento mazziniano fu tratto in arresto ed esiliato. Visse lungamente a Parigi e nel '48 ritornò in Italia e fu presidente della Camera, ministro presidente del Consiglio piemontese sotto Carlo Alberto e rappresentante del Piemonte a Parigi sotto Vittorio Emanuele. Morì il 26 ottobre 1852. Scrisse: Teoria del soprannaturale, Introduzione allo studio della filosofia, Del Buono e del Bello, Gli errori filosofici del Rosmini, Della riforma cattolica della Chiesa, Filosofia della rivelazione. La sua opera principale fu però Il primato degl'Italiani.

IPPOLITO PINDEMONTE

Nacque a Verona nel 1753, morì nel 1828; studiò le lingue classiche e gli autori antichi e viaggiò molto, facendo amicizia con scrittori italiani e stranieri. Foscolo gli dedicò «I Sepolcri», cui egli rispose col poemetto I cimiteri. Tradusse in versi sciolti l'Odissea e scrisse Elogi di letterati italiani, il romanzo Abaritte, Poesie, Prose campestri, ecc. Suo fratello Giovanni, cui pure accenna il De S. fu tragico e lirico e ricoprí varie cariche a Venezia, Vicenza e Milano.

PIETRO GIORDANI

(1797-1848) Nato a Piacenza, morto a Parma, fu letterato e stilista. Fece il monaco benedettino, poi uscì dall'ordine, insegnò in varie città e strinse amicizia con Monti, Niccolini, Colletta e Leopardi. Scrisse: Eiogi Orazioni, Panegirico dell'imperatore Napoleone, Panegirico di Antonio Canova, Discorso sulla scelta dei prosatori italiani.

GIOV. CARLO SISMONDI

(1773-1842) Storico ginevrino di origine toscana, scrisse: Storia delle Repubbliche italiane nel Medio evo, Storia del risorgimento della libertà in Italia, dei suoi progressi, della sua decadenza e della sua caduta.

ANTONIO ROSMINI SERBATI

Filosofo cattolico, nato a Rovereto nel 1797, morto nel 1855; scrisse: Il rinnovamento della filosofia in Italia, I principi di scienza morale, La società e il suo fine, Nuovo saggio sulle origini delle idee, Le cinque piaghe della Chiesa, La costituzione secondo giustizia. Fu molto avversato dai gesuiti, che fecero mettere all'indice i due ultimi libri da noi citati.

FELICE BELLOTTI

(1786-1856) Letterato milanese, traduttore dei tragici greci e dei Lusiadi di Camoens. Scrisse anche una tragedia originale e poesie.

ANDREA MAFFEI

(1789-1885) Poeta trentino famoso per aver tradotto Il paradiso perduto di Milton, Idilli di Gessner, Pellegrinaggio del giovane Aroldo di Byron, Teatro di Schiller. Scrisse anche pregevoli Liriche e un romanzo.

GIOVANNI TORTI

(1774-1852) Milanese discepolo del Parini, scrisse: Sermoni sulla poesia, Scetticismo e religione, Epistole e una novella in ottave dal titolo La Torre di Capua.

SAMUELE BIAVA

(1792-1870) Poeta bergamasco, autore di Melodie liriche, Melodie lombarde e Melodie italiche.

CARLO PORTA

(1775-1821) Poeta milanese. Quando i Francesi occuparono la Lombardia andò a Venezia e al suo ritorno a Milano si diè a scrivere in vernacolo. Bollò a sangue la dominazione austriaca e quella francese, satireggiò i nobili, il popolo e il clero. Tentò anche una traduzione in dialetto della «Divina Commedia». Fu amico del Manzoni e del Grossi.

NICCOLO' TOMMASEO

(1802-1874) Critico, letterario, filologo e patriota nato a Spalato, in Dalmazia; studiò a Padova e collaborò alla Nuova Antologia, che fu poi soppressa a cagione d'un suo scritto. Allora si recò in Francia, dove rimase fino al 1839 anno in cui si stabilì a Venezia, dove nel 1848 venne arrestato con Daniele Manin. Liberato dal popolo, fece parte del governo provvisorio come ministro dell'Istruzione. Caduta la Repubblica, trovò asilo a Corfù, poi a Torino ed infine a Firenze, dove trascorse gli ultimi anni nella più assoluta cecità. Scrisse due romanzi: Il duca d'Atene e Fede e Bellezza; un Dizionario dei sinonimi; un Dizionario della lingua italiana, un Commento della Divina Commedia, ecc.

CESARE CANTU'

Nato a Brivio (Como) nel 1804, morto a Milano nel 1895; giovanissimo insegnò a Como ove scrisse la Storia della città e diocesi di Como, ed a Milano, dove scrisse la Storia della Lombardia del sec. XVII, per cui fu condannato a tredici mesi di carcere. Scrisse anche moltissime altre opere, fra le più note citiamo: Storia universale, Margherita Pusterla, Storia della letteratura greca, latina e italiana, Storia degli Italiani. Fu storico e romanziere anche suo fratello IGNAZIO (1810-1877), qui pure ricordato dal De S.

PIETRO MARONCELLI

Nato a Forlì nel 1795, studiò musica a Napoli, da dove dovette fuggire per aver fondato una associazione liberale. A Forlì venne arrestato sotto accusa di eresia. A Milano collaborò al Conciliatore e fu arrestato e condannato col Pellico allo Spielberg. Ivi subì l'amputazione d'una gamba. Nel 1830, uscito di prigione, si recò a New York e là morì cieco e pazzo. Scrisse Addizione alle «Mie prigioni» di Pellico.

FEDERICO CONFALONIERI

Patriota milanese fu condannato a morte dall'Austria, poi graziato e chiuso nello Spielberg. Uscitone, esulò in America, dove morì nel 1846.

CARLO BOTTA

Nato a San Giorgio Canavese nel 1766; si laureò in medicina a Torino e fu imprigionato perchè d'idee repubblicane. Uscito di prigione esulò a Corfù. Quando il Piemonte divenne provincia dell'Impero Francese, ebbe da Napoleone diverse cariche di governo. Morì a Parigi nel 1837. Scrisse: Storia dell'indipendenza degli Stati Uniti, Storia d'Italia dal 1789 al 1814, ecc.

GIUSEPPE MAZZINI

Nacque a Genova il 22 giugno 1805. Iscrittosi alla Carboneria, venne tradito ed arrestato. Durante i sei mesi di carcere nella fortezza di Savona, concepì la «Giovane Italia», che poi fondò a Marsiglia, dove si recò in esilio. Scacciato dalla Francia, trovò rifugio in Isvizzera e poi a Londra, dove rimase fino al 1847, scrivendo articoli su riviste inglesi. Nel 1841 aprì a Londra una scuola per i figli degli esuli italiani. Nel 1848, scoppiata la prima Guerra d'Indipendenza, venne a Milano e vi fondò il giornale L'ltalia del Popolo, nel 1849 fu triumviro della Repubblica Romana, e quando il papa, con l'aiuto della Francia, tornò da Gaeta, egli riprese la via di Londra, ove rimase fino al 1870. Morì a Pisa il 10 marzo 1872. Scrisse: Doveri dell'Uomo, L'amor patrio di Dante, Saggio sopra alcune tendenze della letteratura del secolo XIX, Del dramma storico, La filosofia della musica; Scritti d'un Italiano vivente, Del romanzo in generale ed anche dei «Promessi sposi». Del Mazzini abbiamo inoltre molti volumi di scritti politici.

BARTOLOMEO SESTINI

Poeta pistoiese nato nel 1742, morto nel 1825, fu autore del poemetto in ottave intitolato Pia dei Tolomei, di Idilli e di Amori campestri.

(6) Riportiamo qui un brano sui Promessi Sposi tratto da altro scritto del De S. «In tutti i secoli sonovi certe parti di uno Stato poste a mo' d'esempio tra i monti, presso i laghi, nel contado, dove la corruzione e la depravazione morale giungono all'ultimo. Perciò, quando uno Stato sociale è guasto in modo che non vi si può più trovare un ideale poetico, viene l'idillio, si va in mezzo ai campi, esce Titiro, l'Aminta, il Pastor Fido, ultimi ideali dell'Italia corrotta!
C'è lì il contadino, la contadina, rimasti fuori il lezzo delle grandi città, serbando la purezza tradizionale. E l'autore de' Promessi Sposi è andato là, nei campi, a trovare l'ispirazione, i tipi per rappresentare il suo ideale. Manzoni aveva una villa presso Lecco, abitava colà e studiava il secolo decimosettimo: stando in mezzo a quei contadini e a quelle «forosette», come dicono in Lombardia, ha potuto vedere quella natura incorrotta di cui si perde la memoria nelle città. Così le più belle ispirazioni a Raffaello Sanzio sono venute dal suo contado: di quelle facce pure delle sue contadine si trovano le orme anche delle più belle sue Vergini.
Là Manzoni trova un ideale puro. Già voi avete nominato i primi personaggi, il primo involucro di quella storia. Lucia, Renzo, Agnese, sono gente ignorante, ma buona: credono in Dio ed eseguono con ingenuità i suoi precetti, un po' modificati dal parroco del villaggio, ma con l'animo schietto. Sopra tutto prende Manzoni il suo ideale nella donna: Lucia è divenuta centro della sua storia.
E' una contadina che ha la fede senza che abbia mai domandato che c'è di vero e di falso nella religione; l'ha presa come l'è venuta dalla tradizione, per cui il suo ideale religioso è tutto morale e pratica, perché la sua educazione viene da quei precetti che ella sin dalla prima età è accostumata a seguire. Avete dunque una giovine ingenua, credente senza sapere che sia merito il credere, pudica, schietta, modesta, semplice ne' suoi modi. Né è un ideale esagerato: anche oggi si trovano fuori delle città contadine fatte a questo modo. Manzoni, volendo farne l'ideale d'una storia poetica, s'innamora un po' di Lucia, l'abbellisce un po' di soverchio, esagera alquanto il colorito: poco a poco quello diventa un essere innanzi al quale, egli dice, io e i miei lettori sentiamo riverenza.
Come fare accostare questo carattere, Lucia, al mondo positivo? Se fosse sola, apparirebbe in tutta la sua dissonanza col mondo infetto nel quale si trova. Manzoni le mette accanto due esseri educati allo stesso modo, ma più vicini al mondo positivo, perciò più reali, capaci di alcune imperfezioni. Tutto ciò che è esagerato in Lucia diviene naturale in Renzo ed Agnese.
Renzo ha gli stessi sentimenti di Lucia in quanto a morale, ma è un uomo: un uomo che ha fegato, bile, passione, impeto, e siccome la dura esperienza non gli ha ancora insegnato che volere non è sempre potere, egli crede con la forza vendicarsi, respingere gli ostacoli. Si vede in lui l'uomo inesperto della vita reale: e da ciò i suoi guai. Quando un personaggio si trova in mezzo alla realtà e non la comprende, e cerca oltrepassarla nasce il comico. Renzo ha una parte comica: appunto quella parte ideale che risplende in Lucia, è in lui negativa.
Agnese è una donna fatta, ha esperienza, ha gli stessi sentimenti di Lucia e di Renzo, anzi, ella li ha ispirati a Lucia. E' donna, non ha la forza dell'uomo, e nasce in lei un'altra specie di comico. Renzo cerca di superare con la forza, prendere d'assalto l'ostacolo; Agnese vuol girare la posizione, trovare mezzi indiretti per riuscire allo scopo. E' un po' comare, chiacchierona, pettegola, si consulta con la serva, crede, ignorante com'è, tutto ciò che le si dice. E' altra donna con l'essenza stessa di Lucia, e negli attriti con la vita reale manifesta una parte comica.
Notate, dunque, con che bel garbo ha Manzoni immaginato questi tre caratteri. Avete un ideale puro in Lucia; ai cui fianchi due ideali simili, ma modificati dalla vita reale e divenuti comici.
Ma, si potrebbe dire, tutto questo è arbitrario. Perché anche in Lucia non deve penetrare una parte comica, reale?... E' chiaro il perché. I personaggi che operano sono Renzo e Agnese, Lucia è una povera canna, senza iniziativa, troppo timida per avere l'idea di resistere agli ostacoli; premuta dai malvagi, ricorre a Dio; prega; con quella sua voce soave cerca intenerire. Que' due sono personaggi reali, si trovano nella vita pratica; ella rimane fuori della lotta, «elle se laisse faire», dicono i francesi; va dove la conducono, tranne qualche volta, quando ricalcitra in nome dei principi religiosi. Ella conserva la sua parte ideale; negli altri, al cozzo della vita reale, quell'ideale è modificato.
Ora, bisogna muovere questi personaggi; ci vuole la leva. Dov'è la leva? Se non ci fosse Lucia, Renzo ed Agnese non avrebbero avuto storia, sarebbero vivuti e morti a Lecco senza diventare protagonisti d'un racconto. Che li muove? Il mondo tristo in cui si trovano; gli elementi fracidi, contrari all'ideale morale e religioso di Manzoni, diventano la leva che fa muovere quei caratteri.
Siamo in un piccolo paese. Lo scrittore prende quel secolo come poteva essere in un paesello. Avete il barone, (don Rodrigo, il conte Attilio) co' suoi bravi: un barone che per un caso qualunque s'impuntiglia a voler Lucia; poi questo puntiglio lo rende ostinato. Lucia, che pareva un accessorio nella sua vita, diviene la principale sua occupazione, egli non ha più che il pensiero di Lucia. Avete da una parte il mondo ideale-reale Renzo, Lucia, Agnese, dirimpetto il mondo positivo, il barone, i bravi, con la borghesia, la parte istruita dipendente da lui e dai suoi scherani, che, in luogo di soccorrere due contadini, trema del signore e volge l'istruzione contro i deboli.
I rappresentanti di questa borghesia già voi li avete nominati: c'è tra gli altri un personaggio che pare messo lì a caso, ma è pieno di senso, l'Azzeccagarbugli, il dottore, l'avvocato che, credendo si trattase d'un altro offre la sua opera a Renzo, e, sentendo che si tratta di don Rodrigo, lo caccia.
Questo mondo baronale-borghese (permettetemi questa associazione), baronale come oppressione, borghese come istrumento dell'oppressione, non rimane a Lecco. Naturalmente i baroni avevano molte relazioni e aderenze; era una catena che da un paesetto, da Lecco per esempio, si estendeva fino alla capitale, a Milano; una catena che Renzo col suo linguaggio espressivo battezza «lega dei birboni», lega cioè dei dottori, notai, procuratori uniti coi baroni, cogli oppressori. Quelli non facevano valere le gride, cioè la legge, e le adoperavano contro i villani, in favore di questi. Manzoni ha trovato le due forze l'una dirimpetto all'altra, di cui l'una è la leva dell'altra: baroni e borghesia collegati contro tre contadini. Chi è il naturale mediatore? Qui si comincia a colorire il suo mondo cristiano. E' il prete, il ministro di Dio che, secondo il principio apostolico, deve mettersi contro gli oppressori, essere scudo ai poveri, agl'infelici, agli oppressi. Ferve nella mente dell'autore l'ideale del prete da servirgli pel suo scopo, e vuol trovarlo in quel mondo del secolo decimosettimo.
Ora, in quel tempo gli ordini monastici erano tutti corrotti, il clero era ignorante e timido. C'era però un ordine monastico rimasto ancora popolare, non vivente nel convento, ma ne' più umili paeselli, nelle campagne, in rapporto con tutti, colla sporta e i racconti: capite la popolarità di cui anche oggi gode il nome dei Cappuccini. Erano i frati del popolo quelli che avevano intima relazione con esso. Fare del cappuccino un tipo, un ideale del prete, sarebbe forte. Il poeta (perché tutto questo è poesia) sceglie tra i cappuccini un individuo, il tale individuo, che s'è trovato in condizioni eccezionali: lui pure è stato nel mondo, dotato di grande energia, di forte volontà. S'è trovato aver commesso un delitto senza volerlo, s'è pentito, e per espiarlo si è dedicato alla carità, al sacrificio di se stesso. Non è il tipo dei cappuccini di quel tempo; ma è l'individuo speciale che ritrovasi consacrato dalla sua missione. Il poeta rappresenta i cappuccini in vari compagni di padre Cristoforo. Ma la sua creazione capolavoro è il padre Cristoforo. Questo cappuccino, che, conoscendo Lucia, sente i malanni cui ella si trova esposta e, come i cavalieri erranti dei tempi antichi, diviene cavaliere errante di Cristo, consacra la sua volontà, le sue forze, la sua vita a difendere Lucia contro don Rodrigo, è un bello ideale.
Questo padre Cristoforo, un po' troppo accarezzato, come Lucia, esce anche un po' troppo dalla vita reale. E' la religione cristiana spinta alla più alta cima della sua poesia. Come temperare quell'ideale per farci sentire il mondo positivo del secolo decimosettimo? Dirimpetto al magnanimo frate comparisce l'ombra piccina e timida del curato che già conoscete, l'ombra di don Abbondio.
Don Abbondio ha gli stessi principi religiosi e morali di padre Cristoforo, è credente. Che cosa l'ha renduto una figura così comica? E' il contrasto col mondo positivo, la sua inettitudine a sostenere le lotte. Come Renzo ha un lato comico perché crede colla forza spezzare gli ostacoli, e non comprende la vita, don Abbondio è il suo contro-ideale comico, perché è un parroco che conosce la vita: per lui don Rodrigo è potente come un Iddio, egli è avvezzo a tremare dei bravi. Credendosi uomo di grande prudenza, un gran politico avvezzo a misurare fino a qual punto deve arrischiare la pelle, è disposto ad insegnare a Renzo e ad Agnese il modo di vivere. Ciò che di troppo elevato e sublime è nel cappuccino, viene modificato al contatto del positivo in don Abbondio: così vedete da una parte il clero nella sua idealità, dall'altra il clero qual era in quei tempi.
Guardate con quanta semplicità procede l'azione. Da una parte Renzo, Lucia, Agnese; dall'altra don Rodrigo, i bravi, la borghesia, mediatori fra essi don Abbondio e padre Cristoforo. Ma l'azione non rimane a Lecco. L'orizzonte s'ingrandisce, ritenendo però gli stessi elementi. A Monza, a Bergamo, a Milano, trovate lo stesso ambiente con più larghi lineamenti, in un mondo più elevato, come conviene a grandi città. Mediante quella catena di cui vi ho parlato, avete da una parte don Rodrigo, il conte Attilio, il conte zio, Egidio; dall'altra, padre Cristoforo, che combatte il barone, ricorre anch'egli alle sue aderenze, trova modo di ricoverare Lucia a Monza.
Questa bella creazione va in ultimo a metter capo nella sua opposizione in due grandi personaggi, grandi per istruzione, volontà, efficacia, uno rappresentante il prete, l'altro rappresentante il barone: Federico Borromeo e l'Innominato, l'oppressione e il difensore. La lotta finisce come deve finire nel senso cattolico. L'Innominato non è vinto materialmente, anzi è più forte materialmente: è vinto dall'amore del cardinale Federico, è vinto dalla voce soave di Lucia, vinto da quell'elevata posizione morale che innanzi a lui mostra Federico. Non è il peccatore ucciso, è il peccatore convertito. L'ultimo risultato di questa storia è dunque la conversione d'un mondo reo in uno migliore, per le parole del sacerdote; ed è desiderabile che avvenga così.
Questa è l'ossatura dei Promessi Sposi. Come vedete, è tutto l'ideale cattolico messo in azione in mezzo a un mondo positivo, in mezzo al secolo decimosettimo. Che cosa è questa concezione? Quando comparve il romanzo, i più veementi patrioti deploravano l'influenza che esso avrebbe avuta sugli italiani. Io invece me ne rallegro, poiché è come influenza sana. Infatti, se vogliamo uscire dalle passioni estreme dei partiti e metterci nella regione della verità, di quella verità che può veramente rigenerare il popolo, che cosa è questa concezione, che pare sia la glorificazione della morale cattolica? E' una concezione eminentemente patriottica, eminentemente democratica, eminentemente religiosa.
E' eminentemente patriottica non perché l'autore, come fece dopo il Guerrazzi, vi parlasse di Patria e di nazionalità: sentimenti che non esistevano nel secolo decimosettimo; ma perché, ora che il Manzoni non fa più il dramma dove deve nascondere se steso, ora che espone quella dominazione, quei costumi, quei mali, lo fa con sì profonda analisi e sentimento di ciò che è opprimente in quello stato, che la conclusione non può non esser chiara per gl'italiani. Egli dava il quadro senza parola; ma quando vennero il Guerrazzi e gli altri con la parola, il quadro era fatto.
E' eminentemente democratica, perché è il primo esempio d'un romanzo di cui sieno protagonisti dei contadini, in cui entri il piccolo popolo come elemento essenziale, che in noi desti interesse non per la regina, o per la nobile, o per le grandezze umane, ma per una donna, la quale altro non ha che un cuore schietto e puro. E' questo lo spiritualizzare le cose, spogliandole del manto bugiardo di cui le ricopre la società, è il vederle in se stesse, come sono. Anche oggi nelle strade, vedendo de' contadini, li consideriamo come se noi fossimo avanzi di semidei. Ma Manzoni vi costringe ad interessarvi delle avventure d'uno di essi, a farvi piangere su quanto accade a Renzo, a farvi tremare come l'Innominato quando sentite la voce di Lucia. Che cosa è questo? E' lo spirito democratico, è l'eguaglianza rappresentata non in modo generale, ma sentita. Dopo la lettura di quel libro si rafforza in voi quella dottrina dell'uguaglianza che un giorno sarà realtà.
E' una concezione eminentemente religiosa. Notate, non dico cattolica. Consultate le vostre impressioni non è il sentimento strettamente cattolico che opera su voi; perché, se si parla di abusi, voi trovate nel romanzo Geltrude, e il poeta s'incollerisce contro il cattolicismo depravato a quel modo. C'è qualche cosa al disopra del cattolicismo preso in quel senso, ed è lo spirito religioso, che non è di questa o di quella religione, ma qualche cosa che si confonde col sentimento della virtù, della moralità umana, e che noi non possiamo cacciar via senza sentire affievolito quel sentimento naturale.
C'è la confessione, sì, ma non è secondo le forme materiali a cui l'ha ridotta la religione cattolica: è elevata in una regione pura, quella dell'indefinito sentimento religioso. Il peccatore sente nascere nel suo cuore la conversione, afforzata e compiuta della efficace parola di un altro, che lo guarisce interamente. Questo sentimento fa dell'incontro di Francesco Borromeo e dell'Innominato un capolavoro. C'è la carità: ma il cappuccino che chiede e ripone nella sua sporta i due pani del perdono, che ha di comune colle indulgenze e colle dispense? Lucia ha fatto il voto di non sposare nessun uomo e darsi a Cristo. Ma quando si tratta di sciogliermela, credete che vi sarà bolla pagata a un tanto fisso? Tutta questa parte plebea e volgare è annullata; il padre Cristoforo, divenuto padre ideale de' due fidanzati, divenuto apostolo, scioglie Lucia dal voto. C'è la predica, perché tutto il mondo cattolico è nei Promessi Sposi; ma in modo che si collega colla poesia. E' qui il predicatore che ha citazioni, esordi e perorazioni, e che, non innalzando il popolo a sé, ma abbassandosi al livello del popolo, ne fomenta i pregiudizi e lo rende più superstizioso, lo materializza ancora di più? Ma guardate al lazzaretto! Là è il padre Felice, l'ideale del predicatore come lo concepisce Manzoni, che in luogo di compatire i pregiudizi della moltitudine ignorante che lo ascolta, si serve dello spettacolo della peste per sollevarla alla superstizione.
Ecco quello che ho chiamato spirito religioso del romanzo; e posso dire dunque che questa concezione è patriottica, democratica, religiosa. Né ciò solo, ma è la più semplice che si possa immaginare per un romanzo. E' una di quelle che, alla fine del libro, vi rimangono impresse, sì che potete abbracciarla tutta d'un solo sguardo».
(Da «La morale cattolica e i Promessi Sposi»)

GIUSEPPE GIUSTI

Nato a Monsummano, in Val di Nievole, il 12 maggio 1809, morto a Firenze il 31 marzo 1850. Studiò lettere con passione, ma per compiacere il padre si laureò in legge e fece l'avvocato a Firenze. Propugnò idee liberali e scrisse Le poesie, satireggianti le vecchie istituzioni e le ambizioni personali. Lasciò inoltre un Epistolario, una raccolta di Proverbi toscani e Memorie.

G.B. NICCOLINI

Nacque a Bagni San Giuliano (Lucca) il 29 ottobre 1782, laureato in legge a Pisa, insegnò a Firenze, dove fu anche segretario e bibliotecario dell'Accademia di Belle Arti. Rappresentò l'idea antitemporalista in opposizione al neoguelfismo giobertiano, e sebbene repubblicano fervente, salutò Vittorio Emanuele liberatore e ordinatore d'Italia. In letteratura, pur riconoscendo i meriti patriottici del romanticismo, fu classicista. Morì nel settembre del 1851. Niccolini lasciò numerose tragedie, tra cui: Arnaldo da Brescia, Polissena, Ino e Temisto, Edipo, Agamennone e Medea, Nabucco, Antonio Foscarini, Filippo Strozzi, Giovanni da Procida e Lodovico Sforza.

FRANCESCO DOMENICO GUERRAZZI

Uomo politico, patriota, scrittore, nacque a Livorno il 12 agosto 1804, morì a Cecina il 12 settembre 1873. Fuggito giovanissimo da casa perché in disaccordo coi genitori, fu costretto ai più umili e faticosi lavori per campare la vita. Successivamente studiò a Pisa e fece l'avvocato a Livorno, dove con Mazzini e Carlo Bini fondò l'indicatore Livornese, periodico letterario romantico, soppresso il quale, egli veniva confinato a Montepulciano. Tratto in arresto perché socio e propagandista della «Giovane Italia», scriveva in carcere l'Assedio di Firenze. Quando il granduca di Toscana accordò la costituzione, il Guerrazzi fu deputato e ministro dell'interno; dopo la fuga di quello, triumviro col Montanelli ed il Mazzoni. Restaurato l'antico governo, egli veniva condannato a quindici anni, commutati poi con l'esilio. Fu in Corsica e a Genova. Allorché le vicende politiche gli consentirono di tornare a Livorno fu eletto deputato al Parlamento. Oltre all'opera citata, il Guerrazzi scrisse: La battaglia di Beneuento, Isabella Orsini, Beatrice Cenci, Andrea Doria, Pasquale Paoli, La torre di Nonza, Storia d'un moscone, Il buco nel muro, ecc.

GIACOMO LEOPARDI

D'antica e nobile famiglia nacque a Recanati (Marche) il 23 giugno 1789, dal conte Monaldo, erudito cultore di studi classici e filosofici, ma uomo dispotico e intollerante di qualsiasi novità, e da Adelaide dei marchesi Antici, donna austera, dedita esclusivamente al patrimonio familiare gravemente dissestato per i numerosi debiti. Trascorse un'infanzia triste e senza affetto; solo suo conforto furono gli studi a cui fu avviato da certo don Sebastiano Sanchini. Giovinetto, si dedicò a studi più profondi e a intense ricerche nella fornitissima biblioteca paterna, la qual cosa giovò certamente al suo spirito inquieto e assetato di sapere, ma non al suo corpo che, costretto a severe abitudini proprio negli anni di sua formazione, si logorò e deformò. Estraneo ai suoi, sconosciuto e disprezzato dai concittadini, ebbe cara l'amicizia fraterna di Pietro Giordani, prodigo sempre di consiglio e di conforto, il quale lo indusse ad evadere dall'ambiente di cui era prigioniero. Dopo brevi e dolorose esperienze fuori di Recanati (Roma, Milano, Bologna, Firenze), tornò in famiglia, dove più che mai si sentì estraneo. Qui un'amara filosofia gli dettò parte delle liriche più belle. Di nuovo a Firenze, invitato da Pietro Colletta, che gli fece ottenere, per il concorso di comuni amici, un sussidio mensile in attesa della pubblicazione dei Canti, subì la sua più triste delusione d'amore. Concessogli finalmente dalla famiglia quel reddito fisso, che fino allora gli era stato negato, seguì Antonio Ranieri a Napoli, ove, suo ospite, morì il 14 giugno 1837. Sepolto dapprima sulla via di Pozzuoli a cura del fedele amico, i suoi resti sono ora nel Parco Virgiliano a Capo Posillipo. Oltre ai Canti, scrisse: Epitolario, Pensieri, Zibaldone, Operette Morali.

(7) Dalla raccolta degli scritti desanctisiani su Leopardi, stralciamo il seguente capitolo:

«INTRODUZIONE ALLO STUDIO SU LEOPARDI»

«Negli scorsi anni ho abbozzato l'immagine di due scuole, rivali e molto simili ad un tempo, in cui si divise l'Italia, rivoli di scuole europee, ma con fisionomia propria determinata specialmente dalla comune aspirazione all'unità nazionale: la scuola liberale, capo Manzoni, e la scuola democratica, capo Mazzini. Ho indicato i caratteri loro di simiglianza e di differenza, e tra gli altri questo importantissimo, che non furono più semplicemente letterarie, come era un tempo ,ma vi si mescolarono fini politici, morali reiigiosi. Sicché, mentre le scuole letterarie non hanno azione che su di un circolo ristretto di uomini colti, di letterati, queste due meritano aver azione su tutta la società italiana. Sopra quei fini e sopra quelle intenzioni sparse il suo umore il Guerrazzi, il suo comico il Giusti, la sua tristezza ed il suo disdegno Giacomo Leopardi: i tre fuori posto, i tre eccentrici, de' quali ciascuno può, più o meno, essere avvicinato a qualcuna di esse scuole, per esempio il Guerrazzi alla democratica, Giusti alla moderata-liberale ma che, nel fatto, hanno una personalità così propria che fanno parte da sé.
Volevo, seguitando un certo ordine, cominciare dal più piccolo dei tre, o usando parole più riverenti, dal meno grande de' tre dal Guerrazzi, poi sarei venuto al Giusti, e poi avrei chiuso il mio lavoro col massimo che ha valicato le Alpi, che non è più italiano, è divenuto europeo, con Giacomo Leopardi. Ma, come il presente è di oro e l'avvenire di rame, e del presente posso disporre ora e dell'avvenire non saprei, mi appiglio all'ultimo, e consacro questi studi a lui che col Manzoni, è ritenuto ciò che di più alto ha avuto l'Italia nel nostro secolo.
Per fare una critica del Leopardi bisogna uscire dal sistema ordinario e cercare, innanzi a tutto, e porre avanti ad essa una base di fatto. La critica che opera con la sola intelligenza e non tien conto di questa base, è una critica a priori; e in gran parte tal'è la critica fatta sinora intorno a Leopardi.
Cos'è questa critica? Pigliate una poesia e non dite chi è l'autore, e non il tempo in cui apparve: la poesia si presenta da sé. Senza pure sapere se sia di Leopardi, se sia del secolo XVIII o del XIX, voi potete applicarvi certi criteri artistici, che vi sono suggeriti dall'intelligenza. Quelli che credono in Aristotile ed in Orazio, la giudicano con Aristotile e con Orazio; quelli che hanno imparato l'estetica da Hegel, applicano l'estetica di Hegel. Questa chiamo critica a priori: il lavoro considerato indipendente dallo spazio e dal tempo.
Io, per esempio, ho scritto un saggio sulla canzone di Giacomo Leopardi Alla sua donna, e quel saggio, quantunque pubblicato durante la mia emigrazione, non era che una reminiscenza di lezioni fatte nella mia scuola antica, prima del 1848. In quella scuola sera dato bando alla rettorica, si era divenuti familiari con le critiche e con le estetiche allora in voga, col Villemain, col Cousin, con lo Hegel stesso, perché insegnai lo Hegel due anni. E' naturale che il maestro non abbia che applicato a quella canzone tutti quei criteri estetici.
Siffatta critica può anche stare, ed essere vera se, sopra a tutto, il lavoro dell'intelligenza è accompagnato da squisitezza di gusto e di sentimento. Se siete un uomo di gusto e anche di giusti criteri d'arte, potete farla, la critica a priori; ma è sempre critica insufficiente, che non tiene conto di certi elementi vivi anche dell'arte e che danno la fisionomia del lavoro. Quando con l'intelligenza si applicano dei caratteri poetici ad un lavoro essi li abbiamo nelle loro generalità, come li dà la scienza, ma non li vediamo emergere dal cervello dell'autore, dal suo stato psicologico, dalle condizioni del suo tempo, che pur danno a quei caratteri vita e realtà.
Se vogliamo spiegare una macchina a vapore possiamo farlo senza sapere l'inventore né il tempo in cui fu inventata. E' una produzione puramente meccanica su cui non rimangono stampati i segni del cervello che l'ha inventata. Ma la poesia! La poesia è una produzione organica, è la figlia del mio cervello, e lì sono stampati i segni visibili paterni, e non è che quei segni, come soldati si ordinino sotto un duce supremo, sotto quei caratteri; ma sono quei caratteri che vi si incarnano, e di generalità diventano individui e vi danno il lavoro animato, vi danno la vita.
Questo è tanto importante che una base di fatto si è voluta imporre anche all'arte. Una volta i poeti non avevano bisogno di studiare il fatto, creavano di fantasia: Alfieri faceva il Filippo senza studiare la Spagna, Voltaire Maometto senza conoscere l'Arabia. Che sono Filippo e Maometto? Personaggi fantastici, dove c'è una parte di verità: c'è il poeta e il tempo in cui uscivano. Ma non è la verità di quei personaggi, che sono qualcosa di distinto dal poeta e dal tempo. Manzoni, primo in Italia, cercò dare all'arte anche una base di fatto, e, prima di concepire Carlo Magno, faceva studi profondi sui tempi di Carlo Magno, e, prima di concepire i Promessi Sposi, faceva studi storici abbastanza importanti su quel tempo al quale il romanzo si riferisce.
Una base di fatto, per l'arte, è utile, non necessaria. E' utile, perché l'autore, immergendosi in quei fatti, si spersonalizza, diviene obbiettivo, attinge la sua ispirazione nel mondo estraneo a sé. Ma non è necessaria. Che importa se Carlo Magno, come l'ha concepito Manzoni, non è Carlo Magno del Medio evo? che importa se l'Ermengarda non è proprio quella principessa del Medio evo, su cui studiò tanto? E' arte, e a noi basta, e non domandiamo altro.
Ma se al poeta non è necessaria la base di fatto, del critico è indispensabile, è condizione sine qua non. Capisco che un critico possa creare un Leopardi di fantasia. Certo si può lodare il suo talento artistico, ma egli non adempie alla sua missione di critico. Poiché la critica non crea, ricrea; deve riprodurre; e, se la riproduzione è infedele, anche bellissima, lode a lui come artista, biasimo a lui come critico. La sua produzione è bella, ma non vera. E' una costruzione arbitraria, come avviene spesso quando si lavora con la sola intelligenza.
L'intelligenza, quando lavora, è tirata da due istinti fatali, che trascinano i più eminenti; anzi sono i più grandi quelli che vi sono più sottoposti. Chi lavora con la intelligenza pensa, anzitutto, a trovare l'unità, va in cerca d'un concetto unico che gli spieghi tutto quel mondo poetico, fa come i metafisici che non possono spiegarsi l'universo se non cercano un primo, che sia presente in tutte le parti. E poi, una volta che credono averlo trovato, non sono più liberi, sottostanno all'altra legge fatale, Poiché, essendo l'intelligenza solamente logica, trovato l'uno, non possono far altro che da quello derivare illogicamente il resto; e all'ordine cronologico naturale sostituiscono l'ordine logico, il modo secondo cui quell'uno si va svolgendo nel loro pensiero. Questa è la critica a priori: unità di concetto che non tiene conto delle differenze, un ordine logico che non tiene conto della realtà.
Ad esempio, citerò lo stesso Giacomo Leopardi, che, quando aveva trentasei anni e non creava più, ma esaminava quel che aveva creato; quando quel mondo, che gli si era successivamente formato con le vicissitudini della realtà, lo ebbe innanzi tutto intiero e poté esaminarlo, la sua intelligenza non poté sottrarsi alle due leggi fatali. Come Tasso, fatta la Gerusalemme, credè trovarvi allegria cui non aveva mai pensato, e spiegò quelle avventure con certi criteri morali; Leopardi, esaminando il suo mondo come un tutto dà formato, credè di trovarvi un concetto unico, che gli spiegasse tutto, e che, chi consideri la sua vita, non sempre gli era stato innanzi. E poi, altra fatalità, lo spiegò con l'ordine logico; e lui che meglio di tutti sapeva il tempo che compose le sue poesie, travolse l'ordine e ne scelse un altro, derivato da quel concetto.
Pensai questo, quando vidi l'edizione napoletana dei suoi Canti, pubblicata da Antonio Starita, che aveva ordine diverso dalle altre.
Questo nuovo ordine fu l'intendimento dell'autore, ed è rimasto inviolabile. E che vi trovate? Per esempio, il Primo amore è collocato al decimo posto: una poesia ch'egli aveva composta nel 1817, di diciannove anni, prima della canzone All'Italia, con cui s'apre il libro. Seguono quattro o cinque poesie, il Passero solitario, l'Infinito, Alla luna, che sappiamo composte prima della canzone Ad Angelo Mai.
Il motivo di quest'ordine logico, a cui lo stesso Leopardi ha voluto sottoporre le sue poesie, è che il concetto unico delle sue opere sarebbe (e quel che dice Ranieri, è quel che pensava Leopardi) il mistero del dolore. Tutto vien sottoposto a questo concetto. Voleva spiegare cosa è il dolore, e se studiò greci e latini fu per trovarne la spiegazione; e se compose la canzone All'Italia fu anche per trovare la spiegazione del dolore. Così questo diventa un concetto predeterminato nella mente di Leopardi.
E vedete come lavora fatalmente l'intelligenza! N'esce l'ordine logico. Il dolore si può manifestare nel mondo intellettuale intrinseco e nel mondo materiale; e Leopardi, sin da principio, ebbe quest'ordine in mente, e prima cantò il dolore nel mondo intellettuale estrinseco, poi nell'intellettuale intrinseco e poi nel materiale. Alla prima categoria quindi, appartengono i primi otto canti, che cantano il dolore nel mondo intellettuale estrinseco, la caduta dell'Italia e della libertà. Alla seconda gli altri venti canti, che rappresentano il dolore nel mondo intellettuale intrinseco, la caduta delle illusioni pubbliche e private. Gli altri appartengono alla terza categoria, a quella del mondo materiale, e cantano la necessità, il fato, la morte. Ma questa è costruzione artificiale, concetto generale distribuito in varie parti, e i Canti costretti a servire a quel concetto. E' un esempio abbastanza autorevole della conseguenza della critica a priori. Bisogna cominciare con una base di fatto. E intendo per base non la cognizione di alcuni fatti o d'una congerie di fatti, che non mancano a nessuno che si occupi di Leopardi, ma un risultato di fatto, lo stato reale psicologico dell'autore, come venne formato dai suoi tempi, dalla famiglia, dalle circostanze della sua vita, dal suo ingegno, dal suo carattere. E se il critico non comincia dal possedere quel risultato, corre rischio di fare un edifizio campato in aria, sì che un fatto nuovo che si scopra basta a farlo crollare tutto intero.
Ho citato me stesso quando parlavo della critica a priori. Permettete aggiunga che, quando fui in età più matura e, abbandonate le imitazioni estetiche o critiche, cominciai a lavorare col mio cervello, fui primo o tra' primi a dare esempio di questa critica nel saggio sulla Prima canzone di Leopardi. Lì credei dover rifare tutta la vita di Leopardi sino al tempo che la scrisse, non minutamente raccontando, ma ponendo i risultati; e quando interrogai quella canzone, mi trovai con la base messa al mio edifizio, e se quei fatti non rimasero indifferenti alla canzone, se ebbero influenza sul carattere e sulla forma di essa e la determinarono; se è uscita da quell'esame forse alquanto impicciolita rispetto all'alto concetto che se ne avea la colpa non è mia che andavo rintracciando Leopardi qual era, non quale l'hanno fantasticato.
Persevererò ora. Ed a cagion d'onore voglio nominare un valente giovane che s'è messo in questa via. Bonaventura Zumbini, che primo ebbi l'onore di presentare all'Italia come giovane di grande aspettazione, il quale ha consacrato tutti i suoi studi a Leopardi e non è venuto meno all'aspettazione nel lavoro sui Paralipomeni: giudizio severo, ma acuto e gusto.
I materiali abbondano. Abbiamo tre ponti di cui servirci a costruire la base di fatto. Innanzi tutto un articolo molto importante scritto nel 1840 dal celebre Sainte-Beuve e pubblicato nella Revue des deux mondes. Quell'articolo rimane, perché, se l'edifizio innalzato dal Sainte-Beuve è manchevole e mediocre, la base è incrollabile, avendo egli avuto la ventura di procurarsi le più esatte informazioni sulla vita e le opere di Leopardi. Seconda fonte sono gli scritti giovanili di Giacomo, pubblicati da P. Pellegrini con prefazione di P. Giordani, il quale, come si sa, fu il gran trombettiere di Leopardi. Terza fonte preziosissima di materiali, e bisogna ringraziarne Prospero Viani e Pietro Pellegrini, è l'Epistolario, dove lo scrittore è colto nei più intimi segreti della sua anima, dove talvolta è sorpreso anche in veste da camera, anche nelle debolezze e nelle negligenze proprie dell'uomo.
Sono questi i materiali di cui intendo servirmi, specialmente l'Epistolario. So che questo produsse cattiva impressione in molti: essi si eran formato, con quella tale critica a priori, ciò che Ranieri dice un «ideale di Leopardi». In un momento d'ira generosa, Ranieri disse: - Voi mi avete ucciso il mio ideale! - Sventuratamente, la storia è la grande omicida degli ideali. Quando in Germania, esaminando le poesie di Leopardi, s'era formato un concetto interessante per lo scrittore e per l'uomo, sopraggiunse l'Epistolario, e fu una spiacevole sorpresa. E finirono con dire che quel mirabile mondo leopardiano fosse non altro che il piccolo effetto della fame, della malattia, e della vanità dell'autore.
Prima di por fine a questa che chiamo introduzione al mio studio su Leopardi toccherò un altro punto d'investigazione.
Chi vuol fare una critica, non solo deve avere una base di fatto, ma conoscere anche quella che si dice la «letteratura di uno scrittore».
In Germania si dice «letteratura dantesca», «letteratura di Goethe», e intendono la raccolta di tutte le opinioni intorno a questi scrittori. Nessuno, in Germania, si mette a trattare una materia senza la piena cognizione di tutto quello che s'è scritto e pensato sulla materia; altrimenti i lavori sarebbero sempre un tornare da capo, il mondo starebbe sempre ad Adamo. Un lavoro è la elaborazione della materia, a pigliarla dal punto al quale era stata elaborata prima.
Intorno a questo c'è un lavoro molto esatto del nostro amico B. Zumbini, di cui ho parlato. Egli ha raccolto le opinioni de' tedeschi e de' francesi su Leopardi, e con un po' d'ironia soverchia, ma scusabile con la baldanza giovanile che ci compiace di trovare in fallo i più grandi, ha mostrato tutto ciò che di arbitrario ed insufficiente si è detto in Germania intorno al nostro autore. Io mi contenterò di notare i risultati di questa «letteratura leopardiana».
Comincio dal suo gran trombettiere, Pietro Giordani, che, grande e già provetto, conobbe Leopardi di diciannove anni, ed entrò con lui in corrispondenza. Rimase impressionato dalla grandezza di lui, e ne scrisse due volte: in una prefazione alle Operette morali, e, dopo la morte di lui, in una prefazione agli Scritti giovanili. Leopardi, per Pietro Giordani, è mirabile monstrum: sommo filologo, sommo filosofo e sommo poeta. Rispetto al filologo, il Giordani si contenta rimettersene ai giudizi degli stranieri, appo i quali era ritenuto grandissimo filologo. I suoi ammiratori molto si adoperarono a dimostrare la sua perizia nel greco e nel latino, e che commentava con acutezza e correggeva i testi, e correggeva anche le opinioni degli scrittori. Parlano di Creuzer, che in un lavoro importante, fece tesoro di molte osservazioni filologiche e critiche di Leopardi. Certo, dottissimi filologi tedeschi lo avevano caro, ammiravano quei miracolosi lavori per così giovane età: ma per essi che era Leopardi? Un giovane di grande aspettazione; e se Leopardi avesse potuto nella biblioteca paterna trovare tutti i libri di filologia usciti in Germania, non soltanto gli antichi scrittori, ma anche il mondo moderno, certo aveva abitudine, pazienza e acume a diventare sommo filologo. Quelle sono le promesse d'un giovane di grande ingegno. E mi spiego la condotta del De Sinner, che gli italiani biasimarono con troppa fretta. Egli ebbe in deposito dei manoscritti di Leopardi, ma ne pubblicò appena un sunto; e quando Pietro Giordani pubblicò gli Studi giovanili e gli chiese copia di quei manoscritti, il De Sinner non volle. Parecchi dissero: - E' per invidia, per appropriarsi i lavori di Leopardi - ,giudizio temerario, che dobbiamo biasimare. De Sinner non volle e disse: - Non capisco la vostra premura; avete un grande scrittore italiano in Leopardi, e volete farne uno scolaro di filologia.
Leopardi era uomo dottissimo, pochi hanno conosciuto tante cose antiche come lui. Era, come Dante, l'uomo più dotto dei suoi tempi. Peritissimo nel greco, nel latino, nell'Italiano, conosceva anche l'ebraico, l'inglese, il francese, il tedesco, lo spagnolo. E non solo conosceva il greco, il latino, l'italiano nella loro parte materiale, ma ne aveva il gusto e se li aveva assimilati. Potete considerarlo un gran dotto, un letterato eminente e pieno di gusto; ma fin qui e non oltre. Secondo che la filologia si va più svolgendo e piglia aspetto più scientifico, scema la sua fama di filologo.
Viene il sommo filosofo. Che è la filosofia di Leopardi? Nessuno indizio è in lui di scienza puramente speculativa, di quel che fa, per esempio, un metafisico. Tratta un campo assai ristretto della filosofia, la psicologia; ma la tratta non da filosofo, da artista. Non scrive trattati sulla scienza, è un acuto e fine osservatore de' più riposti misteri del cuore umano, un pittore psicologo più che un filosofo. Non fa trattati, fa ritratti; e tale lo vediamo nei Pensieri e nei Dialoghi, sì che diciamo che quel che è divino in lui, è l'arte.
Di Michelangelo fu detto che aveva tre anime: pittore, scultore, poeta; e in verità in lui il poeta serve ad illustrare lo scultore e il pittore. Così può dirsi che tre anime ha Leopardi; ma il filosofo ed il filologo serviranno solo ad illustrare, a meglio farci apprezzare quella che fu sola e vera grandezza di Leopardi: l'artista».

GIOVANNI PRATI

Nacque a Dasindo (Trento) nel 1815, studiò a Padova, subì carcere ed esilio. Fu membro del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione e Senatore. Le sue opere principali sono: Edmengarda, Canti lirici, I canti del popolo, Ballate, Memorie e lacrime, Nuovi canti, Canti politici, Passeggiate solitarie, Lettere a Maria, ecc. Morì a Roma il 9 maggio 1884.

 

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