L'Ottocento.

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Francesco  De Sanctis Vita e Letteratura in Italia dopo il 1860 Gli Ultimi Romantici: Prati, Aleardi, Nievo

Romanticismo e Naturalismo in Liguria e in Piemonte Tradizione e Rivoluzione L'Idealismo Veneto Il Realismo in Toscana

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CULTURA - LETTERATURA - L'OTTOCENTO

FRANCESCO DE SANCTIS

Francesco De Sanctis, con la sua Storia della letteratura italiana, pubblicata nel 1870-1, chiudeva un periodo della cultura italiana e ne apriva un altro. Quell'opera (che veniva a coronare, riassumendoli, gli studi e le ricerche di oltre vent'anni, dalle lezioni della prima scuola napoletana del 1848 ai Saggi critici del 1866 e ai nuovi Saggi critici, editi nel 1872) era, non solo la sintesi del pensiero desanctisiano, ma anche il capolavoro storico dello spirito italiano del Risorgimento. L'idea madre di quella interpretazione romantica della nostra letteratura era questa: che la poesia può nascere solamente dalla pienezza della vita interiore e che, laddove manchi una coscienza nazionale e morale, la poesia viene sostituita dalla retorica, dall'Arcadia, dalla letteratura. Il libro, rifacendo la storia intima d'Italia, mostra come al primo tentativo di cultura nazionale, con Federico II, corrispose la semplicità dei primissimi poeti siciliani, come l'intensità della fede religiosa e politica di Dante s'incarnò nella meravigliosa architettura della Commedia, come già s'avvertano nell'elegiaco Petrarca e nel sensuale Boccaccio i primi germi di quel distacco tra vita e letteratura che, aggravatosi nel Rinascimento, dovrà condurre alla decomposizione della vita morale e dell'anima letteraria, quale appare nel barocchismo e nell'Arcadia, come infine col Parini e coll'Alfieri, col Foscolo, col Manzoni e col Leopardi si effettui la rinascita dell'uomo e del poeta. E in esso il giudizio critico fa sempre tutt'uno con la valutazione morale e storica. Era questa una vera e propria rivoluzione nel campo della critica e della storiografia. Rivoluzione, non solo rispetto ai vecchi metodi critici del Quadrio, del Tiraboschi, del Ginguené, ecc., o alle indagini grammaticali e lessicografiche dei puristi, che il De Sanctis, educato alla scuola del Puoti, ben conosceva, ma rivoluzione anche nei confronti degli altri storici romantici, del Settembrini, del Tommaseo, del Cantù, dell'Emiliani Giudici, i quali, irretiti da pregiudizi morali e politici di varia natura, assai di rado seppero giungere alle altezze desanctisiane. Per la prima volta in Italia, e forse in Europa, la poesia veniva studiata, non come un'esercitazione di bello stile o come ornamento del vero o come documento biografico, ma come l'espressione superiore dell'anima individuale dello scrittore e dell'anima collettiva della nazione. Ancor oggi i grandi poeti nostri ci appaiono quali apparvero al De Sanctis: l'indagine diligente degli studiosi e dei critici ha potuto modificare di ben poco le linee granitiche delle sue interpretazioni. Abbiamo chiamata romantica la critica desanctisiana, ma dando all'aggettivo un senso assai vago e ideale. Poiché il De Sanctis, così come in giovinezza s'era liberato del purismo linguistico e grammaticale del Puoti, non tardò a sciogliersi dalle pastoie del romanticismo.

Egli era l'uomo nuovo del Risorgimento, che, dopo avere scosso la polvere dei vecchi libri ingialliti e aver fugato le nebbie del sentimentalismo di moda, cercava la vita e la verità nel mondo reale e osservava l'Italia, ancora malata di quei mali, che egli aveva uccisi in se stesso, con l'occhio del medico che fa una diagnosi e che suggerisce la terapia. Perciò non esitò a porre da canto i prediletti studi letterari, una prima volta nel 1848 per correre sulle barricate e, più tardi, per accettare tre volte il potere politico. Egli portò nella sua interpretazione politica lo stesso anelito di vita morale ed educativa che aveva espresso nei saggi letterari, Poiché i mali e gli avversari da combattere non erano mutati. E così come la sua critica letteraria era apparsa troppo nutrita di storia e di idee a puristi ed eruditi, il suo pensiero politico sembrò troppo poetico e letterario ai politicanti. L'uomo che saliva, trasognato e assorto, le scale del suo ministero e sdegnava le meschine consorterie e parlava delle cose d'Italia con la pacata lungimiranza dello storico, che cosa poteva avere in comune con il mondo politico che, allora come sempre, faceva consistere il non plus ultra dell'arte politica nell'accorto e furbesco gioco parlamentare e nel distinguersi in partiti e nel confondere le distinzioni? Il De Sanctis non fu soltanto un maestro nel campo critico, politico e pedagogico, fu anche il creatore della nuova prosa italiana, della prosa che dice cose e non parole, della sola prosa, dopo quella del Manzoni e del Leopardi e prima di quella del Verga, che abbia dato all'Ottocento un grande scrittore. E' già stato sufficientemente notato il valore dell'arte della «Storia» il libro che narra il romanzo della vita d'Italia, ne rappresenta a vivo il dramma e ne canta la lirica, la grande lirica di aspirazione al rinnovamento spirituale (1) ed è stato mostrato come la prosa critica desanctisiana, apparentemente compatta e disadorna, sia intimamente poetica e immaginosa. A noi piace porre l'accento sul De Sanctis narratore, sul descrittore di uomini e cose del proprio tempo. Il De Sanctis fu il primo a porre in atto le sue teorie sulla nuova arte realista: «L'artista cercherà e si approprierà tutto quel tesoro di immagini, di movenze, di proverbi, di Sentenze, tutta quella maniera accorciata, viva, spigliata, rapida ch'è nei dialetti».

Negli anni della vecchiaia egli riscoprì nella realtà e nella fantasia, il paese nativo, il paese della giovinezza e lo descrisse in due libri pittorescamente vivaci: Un viaggio elettorale e La Giovinezza. Più realistico e amaro il primo, che narra le vicende di una campagna elettorale sostenuta dallo stesso De Sanctis, più commosso e poetico il secondo. L'uomo, che aveva tracciato indimenticabili ritratti di Dante e di Petrarca, di Alfieri e di Leopardi, conserva intatte le proprie virtù d'interprete quando, sulla scorta dei propri ricordi, ritrae e scolpisce a vivo, con brio e colore di commozione, tipi e ambienti della Napoli della sua giovinezza. «La Giovinezza» s'inizia con questo ritratto della nonna: «Ho sessantaquattro anni, e mi ricordo mia nonna come morta pur ieri. Me la ricordo in cucina, vicino al foco, con le mani stese a scaldarsi, accostando un po' lo scanno, sul quale era seduta... Era il capo della casa, e teneva la bilancia eguale fra le due famiglie, e si faceva ubbidire». Ecco il vivace schizzo di un abate: «L'abate ci ricevette nella stanza da scuola, e ci fece molte carezze, e ci diede dei confetti. Era un bell'ometto, vestito di nero, con cravatta nera, tutto bene spolverato. Parlava spedito, e accompagnava le parole col sorriso e col gesto elegante. Non c'era ancora il laico, ma non c'era più il prete». Ecco, in tre righe, il contrasto tra il carattere del padre e quello, già svagato, del fanciullo: «Parlavo poco, avevo la faccia malinconica - Sempre con questo libro in mano! - gridava papà, che era uomo allegro e turbolento, e spesso si mescolava coi fanciulli a fare il chiasso». Con eguale felicità sono scolpiti sul vivo altri mille personaggi, i compagni di scuola, i maestri, i parenti, il Puoti, le prime giovinette che turbano i sogni e fanno scrivere versi leopardiani. Ma su tutti sovrasta il ritratto dello scrittore, sempre distratto e ingenuo, distratto fino al punto di dimenticare il mangiare leggendo, e ingenuo fino a parlare di studi e di arte alle sue amorose. L'indefinibile poesia di quella rievocazione nasce da questo: si sente che il vecchio De Sanctis è rimasto qual'era, costantemente giovane, se è vero che la fede nella poesia, l'amore, l'onestà, il disdegno dei compromessi pratici, sono il patrimonio ideale di tutte le giovinezze.

VITA E LETTERATURA IN ITALIA DOPO IL 1860

L'atteggiamento desanctisiano di fronte all'Italia sorta dal travaglio del Risorgimento e di fronte alla nuova letteratura che indicava la mutata disposizione degli animi era assai complesso. Non era il De Sanctis un lavdator temporis acti che tornando con la memoria agli anni dell'esilio, delle lotte, delle romantiche vicissitudini ne ricreava l'indefinibile poesia per contrapporla alla meschina «prosa» dei tempi nuovi (stato d'animo questo dominante in molti dei contemporanei), ma non era neppure un soddisfatto del presente. Al suo occhio acutissimo non poteva sfuggire quanta debolezza e quale superficialità fosse nella classe dirigente dell'Italia appena unita. E poi era veramente unita una Italia in cui le tradizioni storiche e le condizioni economiche e sociali delle varie regioni anziché fondersi in armonia nazionale contrastavano violentemente? Una Italia che per la sua stessa configurazione geografica, stretta, allungata e accidentata, pareva respingere qualsiasi fusione spirituale di correnti e di tradizioni e che pur tuttavia veniva sottoposta al meno operante degli accertamenti, quello burocratico? «Fatta l'Italia restavano da fare gli Italiani» aveva ammonito il D'Azeglio. Ma di ciò non parvero preoccuparsi gli uomini politici del tempo, i quali per effetto degli anni di esilio e di lotta, avevano acquistato nobiltà di sentimenti e grande potere oratorio ma scarsa e nulla preparazione pratica e andavano dietro a problemi contingenti, che pur avendo la loro importanza erano, specie per i criteri con i quali venivano risolti, avulsi dalla vita intima della nazione. La più grossa preoccupazione dei governi era quella di far la lesina per giungere al famoso pareggio del bilancio, ottenuto con un rigido ed ingiustamente ripartito sistema tributario. Ma né la questione meridionale né l'impreparazione politica delle masse (il popolo era estraneo se non ostile alla vita pubblica, essendo il suffragio ristretto - per censo - a poche centinaia di migliaia di elettori) s'imponevano durevolmente all'attenzione della classe dirigente. Quella vita intima che sfuggiva ai governi dell'epoca venne invece colta dalla letteratura, la quale, dopo vari ondeggiamenti, si diede a ricercare nella regione e nel popolo gli argomenti e le aspirazioni. Quell'arte nuova si chiamò genericamente realismo, verismo, ed ebbe forme e caratteristiche assai varie. In Piemonte e Lombardia fu un realismo poetico disordinato e antiborghese mentre nella prosa assunse la forma di un realismo manzoniano e borghese. Fu un realismo idealistico e sentimentale nel cattolicissimo Veneto. In Toscana e in Emilia il realismo ebbe un carattere letterario di reazione al romanticismo ed assunse in poesia i due caratteri opposti del carduccianesimo (vale a dire della ricerca della realtà nella storia) e dello stecchettismo. A Roma, con Cossa e Pascarella, il realismo cercò un terreno sodo nella natura e nella storia. Ma alcune di queste varie forme di realismo si rivelano, ad una più approfondita indagine, come degenerazioni esterne del romanticismo.

Al De Sanctis ciò non sfuggì. «E' una reazione. Perciò è presente nello spirito la cosa contro la quale si reagisce; è una reazione di dispetto, di elementi negativi. E perciò appunto voi, miei signori, non avete ancora cancellato dal vostro petto la forma antica, e siete come ribelli che fremono e si dibattono e si esasperano, e cercano e non trovano ancora la via. Perciò voi siete contorti e convulsi, e cercate forza all'assenzio e novità alle forme mancando la novità delle cose, e, per dirla con le frasi vostre, voi siete affetti da erotismo nervoso» A questo realismo malato di romanticismo, egli contrapponeva il suo realismo: «Il realismo in arte oggi ha il carattere di una creazione sfrenata. E' un fenomeno di poca durata, il buon senso verrà. Il mio realismo lo esprimo in poche parole. La sostanza è questa: che nell'arte bisogna dare una più larga parte alle forze naturali e animali dell'uomo, cacciare il rêve e sostituirvi l'azione, se vogliamo ritornare giovani, formare la volontà, ritemprare la fibra. Il realismo che somiglia ad un'orgia, è poesia di vecchi impotenti e viziosi, non è restaurazione di gioventù». E concludeva: «Per una razza fantastica, amica delle frasi e delle pompe, educata nell'arcadia e nella rettorica, come generalmente è la nostra, il realismo è un eccellente antidoto» Questo sano realismo auspicato dal De Sanctis trovò i suoi accenti più genuini ed artistici nel meridione d'Italia dove esso non fu fatto letterario e una reazione di dispetto ma un bagno nelle fonti dell'ispirazione popolare e nell'espressione nuda e immediata perché qui veramente gli scrittori espressero un grande ideale che sostituiva gli scomparsi ideali romantici: aiutare coloro che soffrono, penetrare nei tuguri ed illuminarli con la comprensione e la pietà. Cosi il meridione, travagliato dalla miseria delle plebi rurali, dalla camorra, dalla mafia, dal brigantaggio, privo di strade, di ferrovie, d'industrie, feudalisticamente diviso in «galantuomini» e «cafoni», ebbe in Verga e in altri i suoi commossi poeti. Con il fiorire di quella che potremmo chiamare «Arte provinciale» si sperava, almeno apparentemente, un capovolgimento della nostra storia letteraria. Quando l'Italia era divisa in decine di staterelli, la letteratura si era preoccupata di cementare idealmente le più varie tradizioni e di porre in non cale le differenze economiche, sociali e culturali tra Nord e Sud. Ora, ad unità avvenuta, gli scrittori ricercavano le memorie regionali e ne coglievano il respiro. V'era tuttavia una continuità ideale in quella contraddizione: il mutato atteggiamento degli animi poteva paragonarsi alla delusione che suol seguire a tutte le cueillaisons du rêve, quando nella cosa ardentemente bramata si cominciano a notare difetti e pecche e l'amore cieco si muta in tenero e compassionevole affetto. In realtà il romanticismo, come l'amore, non moriva ma si trasformava.

GLI ULTIMI ROMANTICI: PRATI, ALEARDI, NIEVO

Intorno al 1860 s'andò spegnendo nel pubblico l'interesse per i poeti che nel decennio 1848-1858 erano stati i cantori delle lotte nazionali e gli interpreti del languore romantico di moda: il trentino Giovanni Prati e il veronese Aleardo Aleardi. Era stato il Prati uno spirito poco complesso, facile alla commozione e all'entusiasmo, aperto ad ogni sentimento nobile e puro ma privo di una potente personalità interiore. Aveva fatto mirabilie nell'esprimere in ballate polimetriche, in poemi byroniani, in versi ora teneri ora sonanti il più vieto ciarpame romantico con fanciulle evanescenti, sognatori pallidi e foschi, convegni di spiriti ecc. non rifuggendo persino dal leopardianeggiare sulla mesta intelligenza della vita e sulla vanità della gloria umana. Venne, per queste fantasie romantiche e per le molte canzoni patriottiche divenute ben presto popolari, in gran favore presso il pubblico e presso parte della critica, sì che trascurò di porre i freni alla sua naturale fecondità e non prestò orecchio alla severa analisi che della sua poesia faceva, già nel 1855, il De Sanctis. «Prati ha una viva immaginazione e per questa qualità è forse il primo poeta di secondo ordine che sia oggi in Italia. Egli non sa accomodarsi alla povertà; e quando alcuna cosa gli esce un po' gretta, in luogo di rifarsi sul fondo e lavorarlo, si travaglia intorno alla frase, sì che ella riesca splendida e magnifica. Quella pienezza di epiteti, quel simbolo di suoni, quello splendore di elocuzione lo abbaglia e lo appaga e gli nasconde la sua aridità». Tale giudizio fu dal critico ribadito una decina d'anni dopo, nel 1868 a proposito del poema Armando nel quale il Prati narrava il caso di un triste sognator, con la poco fondata fiducia di osservare una malattia e di indicarne la terapia. «Ohimè! Prati, non ti adirare. Noi siamo tutti malati, in tutt'i cuori, anche nel tuo, ci è un po' d'Armando; e il medico che dee guarire la malattia non appartiene alla nostra generazione. No. In questo libro non trovo quel sentimento vivo e presente della bella natura e della storia, quella coscienza della gioventù, della forza, della fede operosa, quell'entusiasmo e quasi tripudio di una vita rigogliosa, quella fresca onda d'impressioni giovani e pure, che prenunzia le grandi cose... Il poeta è ancora più profondamente malato di Armando: perché Armando si sente malato e il poeta si crede sano». E tuttavia il De Sanctis concludeva rammaricandosi che non si fosse prestata al lavoro del vecchio poeta l'attenzione che esso meritava. Ma il pubblico aveva ormai mutato voglie e gusti, tendenze e abitudini. Si tratta di un fenomeno di tutti i tempi: i valori spirituali vengono capovolti, ciò che era pregiato un tempo è adesso negletto, ciò che piaceva non piace più ed il poeta che ebbe voce per tutti non ne ha più per nessuno. Il secol si rinnova e lo scrittore dovrebbe deformare la propria personalità e «aggiornarsi» come si dice in linguaggio corrente. Le generazioni nuove sono sempre diverse dalle vecchie e le correnti d'arte si sovrappongono e le produzioni dell'ingegno umano divergono.

Sono i corsi e ricorsi della storia che governano pure il mondo dell'arte e della cultura. Il Prati assai si amareggiò della sua sorte di poeta fuori moda finché stanco di ascoltare un tempo che più non lo ascoltava, ripiegò su se stesso e si compiacque di esprimere, spesso nel breve giro di un sonetto, un più personale romanticismo: la vanità dei sogni troppo vasti, la vita delle umili creature (il grillo, la rondine; la cinciallegra, i monelli, le fanciulline, ecc.) le prime memorie, la tristezza di una giornata d'inverno, ecc. Taluno ha parlato, a questo punto, di un mutamento di motivi e di forme ma non ha colto nel segno. Il mondo poetico del vecchio Prati, espresso nei volumi Iside e Psiche si ritrova per intero nella giovanile Passeggiate solitarie e in altre opere, mentre non mancano negli ultimi libri fantasie medioevali, canti patriottici e persino un nostalgico lamento per il nativo verde Tirolo rimasto soggetto all'Austria. E non v'era neppure un mutamento di forme. Le malinconie dell'età matura e la placida contemplazione della vita quotidiana venivano espresse a fior di pelle, senza dramma e senza strazio. Prati non era certo Leopardi. Ma ciò non significa che non debba esser letto, almeno nelle sue cose migliori, in quel piccolo «libro d'oro» che il Carducci non disperava di poter trarre dalla sovrabbondante opera del poeta trentino. Anche ALEARDO ALEARDI conobbe un periodo di esagerata fama seguito da un non meno ingiusto oblio. Aveva, come il Prati, cantato «l'amor, la morte, la natura, il dolor, gl'innumerati, i mondi e la patria miseranda» in versi modulati con languore e con accoramento. Ed era stato il maggior rappresentante del romanticismo veneto, di un romanticismo, vale a dire, che rifuggiva dalle intemperanze, dal chiasso, dagli impeti sregolati. I romantici veneti, tra i quali sono degni di menzione il Carrer e Cesare Betteloni, se accettarono il mondo nordico delle leggende e delle fantasia, ebbero a disdegno l'espressione ora stravagante ora sciamannata dei romantici lombardi e sempre si preoccuparono della pacatezza delle riflessioni e del garbo delle forme. Tale carattere moderato del romanticismo veneto si avverte soprattutto nell'Aleardi, il quale fu poeta accurato e corretto e non alieno dai particolari precisi e realistici. Questo nostro giudizio contrasta con l'opinione comune che fa dell'Aleardi un verseggiatore vaporoso e nebuloso, opinione che si fonda su una confessione dello stesso Aleardi il quale accusò il proprio stile di artifizio, di sconnessione e di imprecisione, e sulla nota stroncatura che della poesia aleardiana fece l'Imbriani.

Ma l'Aleardi non era né trascurato né incolto né privo di senso critico, come è dimostrato dalla stessa esiguità della sua opera letteraria, tutta raccolta in un solo volume (Canti), e dalle numerose letture classiche e scientifiche che costituivano il nutrimento primo della sua poesia. I difetti dell'Aleardi nascevano non da trascuratezza, ma dalla ineluttabilità della propria ispirazione sempre mesta e sfumata, un'ispirazione che sembrava sorgere dalla indefinibile tristezza delle pianure veronesi «Coi praticelli morbidi tagliati a mo' di panno da bigliardo, coll'Adige in mezzo che non si vede ma s'indovina coll'immenso orizzonte lontano, velato di vapori come l'idea dell'infinito».

L'Aleardi non fu mai un sonante bardo quarantottesco. Il suo inno per sbocciare dal cuore aveva necessità di pianto. Ma, a differenza di quello del Prati, il suo mondo romantico non era né convenzionale né di moda. La tristezza dei mietitori che scendevano dai monti d'Abruzzo nelle desolate campagne del Lazio; la tragica fine del biondo Corradino di Svezia; la sorte del prigioniero politico della «Comune» parigina, condannato a languire nella Guiana; «dove la vita è simile a un lento funerale; dove lo cinga un lutto perpetuo come il flutto; dove il pensiero libero con penosa virtù rivoli ad una patria ch'ei non vedrà mai più». la vanità delle feroci lotte umane; gli sguardi dei moribondi ed altri innumerevoli motivi di canto rivelano nell'Aleardi un sincero e sensibilissimo temperamento elegiaco. Mentre il Prati e l'Aleardi venivano scadendo nella considerazione del pubblico, scompariva misteriosamente, in seguito ad un naufragio, un altro tipico rappresentante della generazione romantica: il patavino IPPOLITO NIEVO. La morte, che lo aveva risparmiato sui campi di battaglia di Lombardia, del Veneto e della Sicilia, lo ghermì appena trentenne, quando aveva da poco compito di getto in otto mesi quel notevolissimo romanzo che è Le confessioni di un ottuagenario. Che cosa sarebbe divenuto il Nievo se fosse vissuto ancora? Sarebbe stato travolto, come gli altri romantici, dal disinteresse del pubblico o si sarebbe evoluto in senso verista e paesano? Più plausibile appare questa seconda ipotesi. Il Nievo, che assai semplicisticamente venne definito un manzoniano e per questo aspetto paragonato al ROVANI, autore di un romanzo storico alquanto farraginoso (I cento anni), sta in realtà a cavaliere tra il romanticismo e il realismo provinciale. Romantico era il Nievo per quel suo amore per un'esistenza eroicamente vissuta, per quella sua concezione filosofica che superando cattolicismo e pessimismo tendeva a una nuova fede e a una nuova morale, per quel suo incentrare il mondo poetico attorno alla figura di una donna, la Pisana delle Confessioni, per quel suo riandare alle memorie dell'infanzia e per il suo continuo meditare sulla decadenza veneta. Ma per altri aspetti il Nievo precorreva il verismo e la letteratura provinciale. Egli fu il primo scrittore di novelle campagnole e di studi rusticani. Il Friuli e il Veneto, dove il Nievo abitò più lungamente, sono quasi sempre presenti nelle Confessioni; e quando essi mancano, la narrazione si fa più scolorita e scialba. Dall'incrocio tra romanticismo e provincialismo nasce il tono particolare dell'umorismo del Nievo. Rievocare memorie giovanili, affetti, passioni e sottoporle, nello stesso tempo, ad una bonaria e consapevole ironia è una prova ardua che dà la misura di un ingegno. Il Nievo, pur lavorando di lena e ininterrottamente, non riuscì a mantenere l'unità di tono per tutta l'opera, che, nella sua seconda parte, è diseguale e debole. Le Confessioni non sono un capolavoro ma contengono tuttavia pagine gustose e non periture.

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