Cultura Letteratura I Toscani

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CULTURA - LETTERATURA - I TOSCANI














CULTURA - LETTERATURA - I TOSCANI

DONATE

CULTURA - LETTERATURA - I TOSCANI

INTRODUZIONE

Mentre la coltura siciliana si spiegava con tanto splendore e lusso d'immaginazione, e attirava a sé i più chiari ingegni d'Italia, ne' comuni dell'Italia centrale, oscuramente ma con assiduo lavoro, si formava e puliva il volgare. Centri principali erano Bologna e Firenze, intorno ai quali trovi Lucca, Pistoia, Pisa, Arezzo, Siena, Faenza, Ravenna Todi, Sarzana, Pavia, Reggio.Gittando uno sguardo su quelle antichissime rime, non ritrovi la vivacità e la tenerezza meridionale, ma uno stile sano e semplice, lontano da ogni gonfiezza e pretensione, e un volgare già assai più fino, per la proprietà de' vocaboli ed una grazia non scevra di eleganza.

LA TENZONE Dl CIACCO DELL'ANGUILLARA

Trovo una tenzone di CIACCO DELL'ANGUILLARA, fiorentino sullo stesso tema trattato da Ciullo. Nella cantilena di costui hai più varietà e più impeto, e concetti ingegnosi in forma rozza. Nella tenzone di Ciacco tutto è su uno stampo, di andamento piano, uguale e tranquillo, e in una lingua così propria e sicura, che non ne hai esempio ne' più tersi e puliti siciliani. Comincia così: Amante O gemma leziosa, Adorna villanella, Che sei più virtudiosa Che non se ne favella: Per la virtude c'hai, Per grazia del Signore, Ajutami, ché sai, Ch'io son tuo servo, Amore. (I) Donna Assai son gemme in terra Ed in fiume ed in mare, C'hanno virtude in guerra, E fanno altrui allegrare. Amico, io non son dessa Di quelle tre (2) nessuna: Altrove va per essa, E cerca altra persona. Con questa precisione e sicurezza di vocabolo e di frase che ti annunzia un volgare già formato e parlato, si accompagna una misura e una grazia ignota alla nudità molle e voluttuosa della vita meridionale. E vaglia per prova la fine di questa tenzone, di una decenza amabile, così lontana dal plebeo, «allo letto ne gimo», di Ciullo: Donna Tanto m'ha predicata, E sì saputo dire, Ch'io mi sono accordata: Dimmi: che t'è in piacere? Amante Madonna, a me non piace Castella, né monete: Fatemi far la pace Con l'amor che sapete. Questo dimando a vui, E facciovi finita. Donna siete di lui, Ed egli è la mia vita. Questi dialoghi sono una pretta imitazione della lingua parlata, e sono i più acconci a mostrare a qual grado di finezza e di grazia era giunto il volgare in Toscana, massime in Firenze. Ecco alcuni brani di un altro dialogo di Ciacco: Mentr'io mi cavalcava, Audivi una donzella; Forte si lamentava, E diceva: - Oi madre bella, Lungo tempo è passato, Che deggio aver marito, E tu non lo m'hai dato. La vita d'esto mondo Nulla cosa mi pare. - Figlia mia benedetta, Se l'amor ti confonde De la dolce saetta, Ben te ne puoi sofferere. - Per parole mi teni, Tuttor così dicendo; Questo patto non fina, (3) Ed io tutt'ardo e incendo: La voglia mi domanda Cosa che non suole, Una luce più chiara che 'l sole, Per ella vo languendo.

ALTRI ESEMPI DI POESIA TOSCANA

In queste rappresentazioni schiette dell'animo, e non astratte e pensate, ma in casi ben determinati e circoscritti, il poeta è sincero, vede con chiarezza istintiva quello s'ha a fare e dire, come fa il popolo, e non esprime i suoi sentimenti, perché non ne ha coscienza, tutto dietro alle cose che gli si presentano, dette però in modo che ti suscitano anche le impressioni provate dal poeta. A lui basta dire il fatto e la sua immediata impressione senza dimorarvi sopra, parendogli che la cosa in se stessa dica tutto: semplicità rara ne' meridionali, dov'è maggiore espansione, ma che è qualità principale del parlare fiorentino. Uno stupendo esempio trovi in questo sonetto della COMPIUTA DONZELLA fiorentina, la divina Sibilla, come la chiama MAESTRO TORRIGIANO. Alla stagion che il mondo foglia e fiora, Accresce gioja a tutti fini amanti: Vanno insieme alli giardini allora Che gli augelletti fanno nuovi canti. La franca gente tutta s'innamora, Ed in servir ciascun traggesi innanti, Ed ogni damigella in gioi' dimora. E a me ne abbondan smarrimenti e pianti. Ché lo mio padre m'ha messa in errore (4) E tienemi sovente in forte doglia: Donar mi vuole a mia forza signore. Ed io di ciò non ho disio, né voglia, E in gran tormento vivo a tutte l'ore: Però non mi rallegra fior né foglia. Un sonetto di BONDIE DIETAIUTI è similissimo a questo di concetto e di condotta, con minor movimento e grazia e freschezza, ma superiore d'assai per arte e perfezione di forma. Quando l'aria rischiara e rinserena, Il mondo torna in grande dilettanza, E l'acqua surge chiara dalla vena, E l'erba vien fiorita per sembianza E gli augelletti riprendon lor lena, E fanno dolci versi in loro usanza, Ciascuno amante gran gioi' ne mena Per lo soave tempo che s'avanza. Ed io languisco ed ho vita dogliosa: Come altro amante non posso gioire, Ché la mia donna m'è tanto orgogliosa. E non mi vale amar né ben servire: Però l'altrui allegrezza m'è nojosa, E dogliomi ch'io veggio rinverdire. In questi due sonetti è grande semplicità di pensiero e di andamento e una perfetta misura. Si ha l'aria di narrare quello che si vede e si sente senza riflessioni ed emozioni, ma con una vivacità ed un colorito, che suscita le più vive impressioni. Il secondo sonetto è una cosa perfetta, se guardi alla parte tecnica, ed accenna a maggior coltura; non solo la nuova lingua è pienamente formata, ma è già elegante, già la frase surroga i vocaboli proprii: a me piace più la perfetta semplicità del sonetto femminile, con movenza più vivace, più immediata e più naturale.

LA BELLA FORMA TOSCANA

La proprietà, la grazia e la semplicità sono le tre veneri che si mostrano nel volgare, come si era ito formando in Toscana; qualità che trovi ancora dove è più difficile a serbarle, quando per una impazienza interna si rompe il freno e si dicono i secreti più delicati dell'animo con tanta più audacia, quanto maggiore è stata la compressione, e con la sicurezza di chi sente che non ha torto ma ragione: è una violenza raddolcita da una grazia ineffabile. e che per una naturale misura rimane ipotetica nel seguente madrigale di ALESSO DI GUIDO DONATI: In pena vivo qui sola soletta Giovin rinchiusa dalla madre mia, La qual mi guarda con gran gelosia. Ma io le giuro, alla croce de Dio, S'ella mi terrà più sola serrata, Ch'i' dirò: - Fa con Dio, vecchia arrabbiata! - E gitterò la rocca, il fuso e l'ago, Amor, fuggendo a te, di cui m'appago. Questa bella forma, in tanto spirito e vivacità così castigata, propria e semplice e piena di grazia, si andò sviluppando non perché il suo contenuto voleva così, ma in opposizione ad esso contenuto, vuoto ed astratto. Anzi che qualità del contenuto, o di questo o quel poeta, sembra il progresso naturale dello spirito toscano, dotato di un certo senso artistico, che lo tirava alla forma, nella piena indifferenza del contenuto. Perciò queste qualità spiccano più dove il poeta non è impedito da un contenuto convenzionale, ma si abbandona a rappresentare i fatti e i moti dell'animo, come gli si affacciano in situazioni ben determinate, e come sono nella realtà della vita. Allora contenuto e forma sono una cosa stessa, ed hai ciò che di più perfetto ha prodotto a quel tempo lo spirito toscano, come è in parecchie poesie già citate. Potremmo desiderare che la lingua e la poesia italiana si fosse ita formando per un movimento ingenito, naturale e popolare, com'è stato presso altri popoli. Ma sono desideri sterili. Il fatto è che mentre la lingua si formava, il contenuto era già formato e meccanizzato e convenzionale: la lingua si moveva, il contenuto rimaneva stazionario, lo stesso ne' più puliti scrittori, tutti del pari dimenticati, perché quello solo sopravvive, che ha una forma prodotta da un contenuto attivo e reale, vivente della vita comune. Tale non è il contenuto in tanta moltitudine di rimatori a quei tempi. In Toscana, come in Sicilia, ci era già tutto un mondo poetico, non formato a poco a poco insieme col volgare, ma già fissato con lineamenti precisi e costanti. C'era già una poetica, e c'era anche un vocabolario comune. Concetti e parole sono in tutt'i trovatori gli stessi. Come più tardi avemmo le maschere, cioè caratteri comici con lineamenti tradizionali, che nessuno si attentava di alterare, così ci era allora Madonna e Messere.

CONVENZIONALITA' DEL CONTENUTO

Madonna, l'amanza o la cosa amata, era un ideale di tutta perfezione; non la tale e tale donna, ma la donna in genere, amata con un sentimento che teneva di adorazione e di culto. Messere era l'amante, il meo sere, che avea qualche valore solo amando. Uomo senza amore è uomo senza valore: amare è indizio di cuor gentile. Chi ama è cavaliere, ubbidiente alle leggi dell'onore, difensore della giustizia, protettore de' deboli, umile servo o servente d'amore, e soffre volentieri ove a sua Madonna piaccia, e amato sta allegro, ma senza vanitate, senza menar vanto, e spregia le ricchezze, perché chi è amato è ricco. Amore è di due voleri una voglienza, ed è senza fallimento o villania, senza peccato, e sta contento al solo sguardo, nello stesso paradiso la gioja dell'amante è contemplare Madonna, e senza Madonna non vi vorria gire. Il codice d'amore descrive i concetti e i sentimenti degli amanti fini e cortesi. Il codice della cavalleria descrive le leggi dell'onore, i doveri di cavaliere leale e franco. Come si vede, amore era tutta la vita ne' suoi varii aspetti; era Dio, patria e legge; la donna era la divinità di quei rozzi petti. Chi cerca nelle memorie della prima età, troverà questo ideale della donna nella sua purezza e nella sua onnipotenza: l'universo è la Donna. E tale fu negl'inizi della società moderna in Germania, in Francia, in Provenza, in Spagna, in Italia. La storia fu fatta a quella immagine: troiani e romani sono concepiti come cavalieri erranti- e così arabi, saraceni, turchi, lo Soldano e Saladino. Paris e Elena, Piramo e Tisbe sono eroi da romanzo, come Lancillotto e Ginevra, Tristano e Isotta la bionda. In questa fraternità universale si trovano gli angioli, i santi, i miracoli, il paradiso in istrana mescolanza col fantastico e il voluttuoso del mondo orientale, tutto battezzato sotto nome di cavalleria. Le idee generali non sono ancora potenti di uscire nella loro forma, e sono ancora allegorie. Le idee morali sono motti e proverbi. La letteratura di questa età infantile sono romanzi e novelle, e favole e motti, poemi allegorici e sonetti nel loro primo significato, cioè rime con suoni, canti e balli, onde la canzone è la ballata. La cavalleria poco attecchì in Italia. Castella e castellane col loro corteggio di giullari, trovatori, novellatori e bei favellatori doveano aver poco prestigio presso un popolo che avea disfatte le castella, e s'era ordinato a comune. Vinto Federico Barbarossa e abbattuta poi Casa sveva, quella vita di popolo fu assicurata, e le tradizioni feudali e monarchiche perdettero ogni efficacia nella realtà. Rimasero nella memoria, non come regola della vita, ma come un puro gioco d'immaginazione. Nessuno credeva a quel mondo cavalleresco, nessuno gli dava serietà e valore pratico: era un passatempo dello spirito, non tutta la vita, ma un incidente, una distrazione. Ora, quando un contenuto non penetra nelle intime latebre della società e rimane nel campo dell'immaginazione, diviene subito frivolo e convenzionale come la moda, e perde ogni sincerità e ogni serietà. Ma la stessa immaginazione era inaridita innanzi a un contenuto dato e fissato, come si trovava in una letteratura non nata e formata con la vita nazionale, ma venuta dal di fuori per via di traduzioni. Perciò niente di nazionale e di originale, nessun moto di fantasia o di sentimento nessuna varietà di contenuto, una così noiosa uniformità che mal sai distinguere un poeta dall'altro.

IL NUOVO CONTENUTO SCIENTIFICO E GUIDO GUINICELLI

Questo contenuto non può aver vita, se non si move, trasformato e lavorato dal genio nazionale. Quello stesso senso artistico, che avea condotta già a tanta perfezione la lingua, dovea altresì risuscitare quel contenuto e dargli moto e spirito. L'Italia avea già una coltura propria e nazionale molto progredita: l'Europa andava già ad imparare nella dotta Bologna. Teologia, filosofia, giurisprudenza, scienze naturali, studii classici aveano già con vario indirizzo dato un vivo impulso allo spirito nazionale. Quel contenuto cavalleresco dovea parer frivolo e superficiale ad uomini educati con Virgilio ed Ovidio, che leggevano san Tommaso e Aristotile, nutriti di Pandette e di diritto canonico, ed aperti a tutte le meraviglie dell'astronomia e delle scienze naturali. Le tenzoni d'amore doveano parer cosa puerile a quegli atleti delle scuole, così pronti e così sottili nelle lotte universitarie. Quella forma di poetare dovea parer troppo rozza e povera a gente già iniziata in tutti gli artifici della rettorica. Nacque l'entusiasmo della scienza, una specie di nuova cavalleria che detronizzava l'antica. Lo stesso impeto, che portava l'Europa a Gerusalemme, la portava ora a Bologna. Gli storici descrivono co' più vivi colori questo grande movimento di curiosità scientifica, il cui principal centro era in Italia. E la scienza fu madre della poesia italiana, e la prima ispirazione venne dalla scuola. Il primo poeta è chiamato il Saggio (5), e fu il padre della nostra letteratura; fu il bolognese GUIDO GUINICELLI, il nobile, il massimo, dice Dante, il padre Mio e degli altri miei miglior che mai Rime d'amore usar dolci e leggiadre. Guido nel 1270 insegnava lettere nell'università di Bologna. Il volgare era già formato e si chiamava lingua materna- l'uso moderno, in opposizione al latino. Egli vi gittò dentro tutto l'entusiasmo di una mente educata dalla filosofia alle più alte speculazioni e commossa dai miracoli dell'astronomia e dalle scienze naturali. E il mondo nuovo della scienza, che si rivela con le sue fresche impressioni nella sua canzone sulla natura dell'amore. In generale le poesie de' trovatori sono una filza di concetti addossati gli uni agli altri senza sviluppo. Qui non ci è che un solo concetto, ed è il luogo comune de' trovatori, espresso nel celebre verso: Amore e cor gentil sono una cosa Ma questo concetto diviene tutto un mondo innanzi a Guido, e si mostra ne' più nuovi aspetti. Risorge l'immaginazione, e attinge le sue immagini non da' romanzi di cavalleria, ma dalla fisica, dall'astronomia, da' più bei fenomeni della natura, con la compiacenza, con la voluttà e l'abbondanza di chi addita e spiega le sue scoperte. I paragoni si accavallano, s'incalzano; ti par di essere in un mondo incantato, e passi di maraviglia in maraviglia. Citerò alcuni brani: Al cor gentil ripara sempre Amore, Siccome augello in selva alla verdura; Né fe' Amore anti che gentile core, Nè gentil core, anti che Amor, Natura. Che adesso com' fu il Sole Sì tosto fue lo splendor lucente, Né fu davanti al Sole. E prende Amore in gentilezza loco Così propiamente, Come il calore in chiarità di foco. Foco d'Amore in gentil cor s'apprende Come virtude in pietra preziosa; Ché dalla stella valor non discende, Anzi che 'l Sol la faccia gentil cosa... Amor per tal ragion sta in cor gentile, Per qual lo foco in cima del doppiero... Amore in gentil cor prende rivera, Comé diamante del ferro in la miniera. Fère lo Sol lo fango tutto 'l giorno: Vile riman, né il Sol perde calore. Dice uom altier: - Gentil per schiatta torno: Lui sembra il fango, ed il Sol gentil valore. Ché non dee dare uom fè Che gentilezza sia fuor di coraggio In dignità di re, Se da virtude non ha gentil core: Com'acqua ei porta raggio, E il ciel ritien la stella e lo splendor. C'è qui una certa oscurità alcuna volta e un certo stento, come di un pensiero in travaglio, e n'escono vivi guizzi di luce che rivelano le profondità di una mente sdegnosa di luoghi comuni e per lungo uso speculatrice. Il contenuto non è ancora trasformato interamente, non è ancora poesia, cioè vita e realtà; ma è già un fatto scientifico, scrutato, analizzato da una mente avida di sapere, con la serietà e la profondità di chi si addentra ne' problemi della scienza, e illuminato da una immaginazione eccitata non dall'ardore del sentimento, ma dalla stessa profondità del pensiero. Guido non sente amore, non riceve e non esprime impressioni amorose; ma contempla l'amore e la bellezza con uno sguardo filosofico: quello che gli si affaccia non è persona idealizzata, ma è pura idea, della quale è innamorato con quello stesso amore che il filosofo porta alla verità intuita e contemplata dalla sua mente, quasi fosse persona viva. Così Platone amava le sue idee, l'amore platonico non era altro che amore d'intuizione e di contemplazione, una specie di parentela tra il contemplante e il contemplato: io ti contemplo e ti fo mia. Guido ama la creatura della sua meditazione, e l'amore gli move l'immaginazione e gli fa trovare i più ricchi colori, sì ch'ella par fuori pomposamente abbigliata. L'artista è un filosofo, non è ancora un poeta. A quel contenuto cavalleresco, frivolo e convenzionale, così fecondo presso i popoli dove nacque, così sterile presso noi dove fu importato, succede Platone, la contemplazione filosofica. Non ci è ancora il poeta, ma ci è l'artista. Il pensiero si move, l'immaginazione lavora. La scienza genera l'arte. La coltura cavalleresca se giovò a formare il volgare, impedì la libertà e spontaneità del sentimento popolare, e creò un mondo artificiale e superficiale, fuori della vita, che rese insipidi gl'inizi della nostra letteratura, così interessanti presso altri popoli. Quel contenuto stazionario comincia a moversi presso Guido, di un moto impresso non da sentimento di amore, ma da contemplazione scientifica dell'amore e della bellezza, che se non riscalda il core, sveglia l'immaginazione. Questo dunque si ricordi bene: che la nostra letteratura fu prima inaridita nel suo germe da un mondo poetico cavalleresco, non potuto penetrare nella vita nazionale e rimasto frivolo e insignificante; e fu poi sviata dalla scienza, che l'allontanò sempre più dalla freschezza e ingenuità del sentimento popolare e creò una nuova poetica, che non fu senza grande influenza sul suo avvenire. L'arte italiana nasceva non in mezzo al popolo, ma nelle scuole, fra san Tommaso e Aristotile, tra san Bonaventura e Platone. La poesia di Guido ha il difetto della sua qualità: la profondità diviene sottigliezza, e l'immaginazione diviene rettorica, quando vuole esprimere sentimenti che non prova. Vuol esprimere il suo stato quando fu colpito dal dardo di Amore, e dice che quel dardo Per gli occhi passa, come fa lo trono,(6) Che fèr per la finestra della torre E ciò, che dentro trova, spezza e fende. Rimango come statua d'ottono, Ove spirto né vita non ricorre Se non che la figura d'uomo rende. Queste non sono certo le insipide sottigliezze di Jacopo da Lentino. Ci si vede l'uomo d'ingegno e la mente che pensa. Ma non è linguaggio d'innamorato questo sottilizzare e fantasticare sul suo amore e sul suo stato. Immensa fu l'impressione che produsse questa poesia di Guido, se vogliamo giudicarla da quella che n'ebbe Dante, che lo imitò tante volte, che lo chiamò padre suo, che la magnifica terza strofa scelse a materia della sua canzone sulla nobiltà che ebbe la stessa scuola poetica che nota la celebrità a cui venne l'uno e l'altro Guido (7) e aggiunge: E forse è nato Chi l'uno e l'altro caccerà di nido.(8) Guido oscurò tutt'i trovatori e salì a gran fama presso un pubblico avido di scienza e pieno d'immaginazione di cui Guido era il ritratto, un pubblico uscito dalle scuole, per il quale poesia era sapienza e filosofia, verità adorna, e che non pregiava i versi se non come velame della dottrina: Mirate la dottrina che s'asconde Sotto il velame delli versi strani. Tal poeta, tal pubblico. E si andò così formando una scuola poetica, il cui codice è il Convito di Dante.

GUITTONE D'AREZZO

Se Bologna si gloriava del suo Guido, Arezzo aveva il suo Guittone, Todi il suo Jacopone e Firenze il suo Brunetto Latini. Dante mette GUITTONE tra quelli che vogliono sempre nei vocaboli e nelle locuzioni somigliare la plebe. Alla qual sentenza contraddicono alcuni sonetti attribuiti a lui, e che per l'andamento e la maniera sembrano di fattura molto posteriore. Se guardiamo alle sue canzoni e alle sue prose, non sarà alcuno che non stimerà giusta la sentenza di Dante. In Guittone è notabile questo: che nel poeta senti l'uomo; quella forma aspra e rozza ha pure una fisionomia originale e caratteristica, una elevatezza morale, una certa energia d'espressione. L'uomo ci è, non l'innamorato, ma l'uomo morale e credente, e dalla sincerità della coscienza gli viene quella forza. E c'è anche l'uomo colto, una mente esercitata alla meditazione e al ragionamento. I suoi versi sono non rappresentazione immediata della vita, ma sottili e ingegnosi discorsi, che dovevano parer maraviglia a quel pubblico scolastico. Venne perciò a tale celebrità che fu tenuto per qualche tempo il primo de' poeti; ma nella sua vecchia età si vide oscurato da nuovi astri, onde dice il Petrarca: Guitton d'Arezzo Che di non esser primo par ch'ira aggia. Nondimeno gli rimasero ammiratori e seguaci, con grande ira di Dante, che esclama:«Cessino i seguaci dell'ignoranza che estollono Guittone d'Arezzo». Guittone non è poeta, ma un sottile ragionatore in versi, senza quelle grazie e leggiadrie che con sì ricca vena d'immaginazione ornano i ragionamenti di Guinicelli. Non è poeta, e non è neppure artista: gli manca quella interna misura e melodia che condusse poeti inferiori a lui di coltura e d'ingegno a polire il volgare. E privo di gusto e di grazia.

JACOPONE DA TODI

Degne di maggiore attenzione sono le poesie di JACOPONE, come quelle che segnano un nuovo indirizzo nella nostra letteratura. Sono le poesie di un santo, animato dal divino amore. Non sa di provenzali o di trovatori o di codici d'amore: questo mondo gli è ignoto. E non cura arte, e non cerca pregio di lingua e di stile, anzi affetta parlare di plebe con quello stesso piacere con che i Santi vestivano vesti di povero. Una cosa vuole: dare sfogo ad un'anima traboccante di affetto, esaltata dal sentimento religioso. Ignora anche teologia e filosofia, e non ha niente di scolastico. Si capisce che un poeta così fuori di moda dovea in breve esser dimenticato dal colto pubblico, sì che le sue poesie ci furono conservate come un libro di divozione, anzi che come lavoro letterario. E nondimeno c'e in Jacopone una vena di schietta e popolare e spontanea ispirazione, che non trovi ne' poeti colti finora discorsi. Se i mille trovatori italiani avessero sentito amore con la caldezza e l'efficacia che destano tanto incendio nell'anima religiosa di Jacopone, avremmo avuta una poesia meno dotta e meno artistica, ma più popolare e sincera. Jacopone riflette la vita italiana sotto uno de' suoi aspetti con assai più di sincerità e di verità che non trovi in nessun trovatore. E il sentimento religioso nella sua prima e natìa espressione, come si rivela nelle classi inculte, senza nube di teologia e di scolasticismo e portato sino al misticismo ed all'estasi. In comunione di spirito con Dio, la Vergine, i santi e gli angeli, parla loro con tutta dimestichezza, e li dipinge con perfetta libertà d'immaginazione, co' particolari più pietosi e più affettuosi che sa trovare una fantasia commossa dall'amore. Maria è soprattutto il suo idolo, e le parla con la familiarità e l'insistenza di chi è sicuro della sua fede e sa di amarla: Di', Maria dolce, con quanto disio Miravi 'l tuo figliuol Cristo mio Dio. Quando tu il partoristi senza pena, La prima cosa, credo, che facesti, Si l'adorasti, o di grazia piena Poi sopra il fien nel presepio il ponesti; Con pochi e pover' panni lo involgesti, Maravigliando e godendo, cred'io. Oh, quanto gaudio avevi e quanto bene Quando tu lo tenevi nelle braccia! Dillo, Maria, ché forse si conviene Che un poco per pietà mi satisfaccia. Baciavil tu allora nella faccia Se ben credo, e dicevi: - O figliuol mio! - Quando «figliuol», quando «padre e signore», Quando «Dio», e quando «Gesù» lo chiamavi, Oh quanto dolce Amor sentivi al core, Quando 'n grembo il tenevi ed allattavi! Quanti dolci atti e d'amore soavi Vedevi, essendo col tuo figliuol pio! Quando un poco talora il dì dormiva, E tu destar volendo il paradiso Pian piano andavi che non ti sentiva, E la tua bocca ponevi al suo viso, E poi dicevi con materno riso: - Non dormir più, ché ti sarebbe rio. Sotto l'impressione del sentimento religioso, Jacopone indovina tutte le gioie e le dolcezze dell'amor materno. Jacopone non concepisce il divino nella sua purezza, come un teologo o un filosofo, ma vestito di tutte le apparenze e gli affetti umani. Questa è una scena di famiglia, colta dal vero, con una franchezza di colorito e con una grazia di movenze, tutta intuitiva. Preghiere, sdegni, follie d'amore, fantasia, estasi, visioni, tutto trovi in Jacopone al naturale e come gli viene di dentro: ciò che ci è più semplice e commovente e ciò che ci è più strano e volgare. La forma è il sentimento esso medesimo: ed ora è soave, efficace, quasi elegante, ora stravagante e plebea. Ha una facilità che gli nuoce, ed un impeto di espressione che non dà luogo alla lima. Ma ne' suoi impeti gli escono forme di dire così fresche e felici, che non disdegnarono d'imitarle Dante e il Tasso. Né è meno terribile che soave: e vagliano a prova alcuni tratti: Andiam tutti a vedere Jesù quando dormia. La terra, l'aria, il cielo Fiorir, rider facia: Tanta dolcezza e grazia Dalla sua faccia uscia. La faccia di Gesù Bambino, il natale, la Vergine, il volo dell'anima al paradiso, gli angioli, sono visioni piene di grazia e di efficacia. Nascendo Gesù: Le gerarchie superne Eran dal ciel discese: Lucean come lucerne D'ardente foco accese Le loro ale distese. Gesù ha un corteggio di donne, che gli danzano intorno: Verginità, Umiltà, Carità, Speranza, Povertà. Assistenza, è qualche cosa di simile alle tre sorelle di Dante nella sua celebre canzone. Ecco in che modo Jacopone descrive l'Umiltà: E questa era gioconda, Onesta e mansueta E con la treccia bionda E a cantar la più lieta; D'ogni virtù repleta, A me 'l capo chinava: Tanto m'assecurava Ch'i' presi a favellare. Quella stessa immaginazione che dipinge con tanta grazia, rappresenta con evidenza terribile i terrori dell'anima peccatrice nel giudizio universale: Chi è questo gran Sire, Rege di grande altura? Sotterra i' vorrei gire Tal mi mette paura. Ove potria fuggire Dalla sua faccia dura? Terra, fa copritura, Ch'io nol veggia adirato. Non trovo loco dove mi nasconda, Monte, né piano, né grotta o foresta, Ché la veduta di Dio mi circonda, E in ogni loco paura mi desta... Tutti li monti saranno abbassati E l'aire stretto e i venti conturbati, E il mare muggirà da tutti i lati. Con l'acque lor staran fermi adunati I fiumi ad aspettare. Allor udrai dal ciel tromba sonare, E tutti i morti vedrai suscitare, Avanti al tribunal di Cristo andare E 'l foco ardente per l'aria volare Con gran velocitate. Jacopone non è un'apparizione isolata, ma si collega a tutta una letteratura latina popolare, animata dal sentimento religioso. Là trovi il Salve regina, e l'Aue maris stella, e il Dies irae, e drammi e vite di santi scritte da uomini eloquenti e appassionati. Anche in volgare comparivano già cantici e laudi: di Bonifazio papa c'è rimasto un breve e rozzo cantico alla Vergine. I fatti della Bibbia, la passione e morte di Cristo, le visioni e i miracoli de' santi, i lamenti e le preghiere delle anime purganti, le mistiche gioie del paradiso, i terrori dell'inferno, erano il tema comune de' predicatori e delle rappresentazioni nelle chiese e su per le piazze, sotto il nome di misteri, feste, moralità. E' rimasta memoria di una visione dell'inferno, con la quale Gregorio VII quando era predicatore atterriva l'immaginazione de' suoi uditori; ed è visione di un fantastico e di una crudezza di colori che mette il brivido. In Morra, mio paese nativo, ricordo che nella festa della Madonna, quando la processione è giunta sulla piazza, comparisce l'angiolo che fa l'annunzio. Ed è ancora la vecchia tradizione dell'angiolo, che allora apriva la rappresentazione, annunziando l'argomento. E nota la grande rappresentazione dell'altro mondo in Firenze, che, rottosi il ponte di legno sull'Arno, costò la vita a molte persone. Questa materia religiosa, che ispirò tanti capolavori di pittura e di scultura e di architettura, era efficacissima fonte di poesia, congiungendo in sé il fantastico e l'affetto, il divino e l'umano, e nelle sue gradazioni dall'inferno al paradiso facendo vibrar tutte le corde dello spirito. La sua tendenza troppo ascetica e spirituale era vinta dal grosso senso popolare, che paganizzava e umanizzava tutto. In questa storia religiosa, il cui proprio teatro è l'altra vita, a cui questa è preparazione, l'uomo mescolava le sue passioni terrene, le sue vendette, i suoi odii, le sue opinioni, i suoi amori. Maria era l'anello che giungeva la terra al cielo, e il devoto le parla con tutta familiarità e le ricorda che la è stata pur donna. Jacopone dice: Ricevi, donna, nel tuo grembo bello Le mie lagrime amare. Tu sai che ti son prossimo e fratello, E tu nol puoi negare. Lei implora il trovatore nel suo colpevole amore, a lei si raccomanda anche oggi il brigante nelle sue scellerate spedizioni. Maria, Gesù, i santi, gli angioli, Lucifero non bastano; l'immaginazione popolare personifica le virtù, e ne fa un corteggio di figure allegoriche alla Divinità, rappresentandole con ogni libertà, come fa Jacopone e come si vede ne' bassirilievi e in tante opere di scultura e di pittura. E come il paganesimo ne' suoi ultimi tempi era interpretato allegoricamente, anche le figure pagane entrano in questo mondo, torte dal senso letterale, e volte a significato generale, come Giove, Plutone, Amore, Apollo, le Muse, Caronte. Come il papa aspirava a far sua tutta la terra, la storia religiosa assorbiva in sé tutt'i tempi e tutte le storie. In questa mescolanza universale, opera di una immaginazione primitiva e ancor rozza, non hai luce uguale e non fusione di tinte: domina un fondo oscuro il sentimento di un di là della vita, di un infinito non rappresentabile, superiore alla forma, che riempie lo spazio di grandi ombre: e quelle mescolanze di divino e di terreno, di antico e di moderno, di serio e di comico non sono ben fuse, anzi stannosi accanto crudamente, e in luogo di armonizzare producono un'impressione irresistibile di contrasto, di cose che cozzano. Quel difetto di luce è il gotico, e quel difetto di armonia è il grottesco; e però il gotico e il grottesco sono le prime forme artistiche di quel mondo, com'è nella sua prima ingenuità, non ancora vinto e domato dall'arte. Il sublime del gotico si sente nel «Giudizio universale» di Jacopone, dove la veduta di Dio ti circonda, senza che tu lo veda, chiarissimo al sentimento, inaccessibile all'immaginazione. Il peccatore vede suonar le trombe turbati i venti, l'aria immobile, i fiumi fermarsi, e il mare muggire, e il fuoco volare per l'aria, dappertutto si sente inseguito dalla veduta di Dio, ma non lo guarda, non gli dà forma: non è una immagine, è un sentimento senza forma, che riempie della sua ombra tutto lo spettacolo. Di qui il grande effetto di due versi stupendi, che sono veri decasillabi sotto apparenza di endecasillabo, pieni di movimento e di armonia: Ché la veduta di Dio mi circonda E in ogni loco paura mi desta. è il sentimento da cui sei preso innanzi alle grandi ombre di una cattedrale. Ma ciò che prevale in Jacopone è il grottesco, una mescolanza delle cose più disparate, senza nessun senso di convenienza e di armonia: il che, se fatto con intenzione, è comico; fatto con rozza ingenuità, è grottesco. Trovi il plebeo, l'indecente, il disgustoso misto coi più gentili affetti; ciò che è pure il carattere del santo con le sue estasi e le sue stravaganze. E questo in Jacopone non è già un contrasto che celi alte intenzioni artistiche, ma rozza natura, così discorde e mescolata come si trova nella realtà. Ecco il principio del cantico 48: O Signor, per cortesia, Mandami la malsania; A me la febbre quartana, La continua e la terzana; A me venga mal de dente, Mal de capo e mal de ventre, Mal de occhi e doglia de fianco, La postema al lato manco. La poesia di Jacopone è proprio il contrario di quella de' trovatori. In questi è poesia astratta e convenzionale e uniforme, non penetrata di alcuna realtà. In Jacopone è realtà ancora naturale non ancora spiritualizzata dall'arte, è materia greggia, tutta discorde, che ti dà alcuni tratti bellissimi, niente di finito e di armonico. Accanto a questa vita religiosa ancora immediata e di prima impressione spunta la vita morale, un certo modo di condursi con regola e prudenza, e anch'essa è nella sua forma immediata e primitiva. Non è ragione o filosofia, è pura esperienza e tradizione, nella forma di motto o proverbio, che riassume la sapienza degli avi. Il motto rimato è la più antica forma di poesia nel nostro volgare. Ecco alcuni motti antichissimi: Ancella donnea Se donna follea. In terra di lite Non poner la vite. Uomo che ode, vede e tace Vuol viver in pace. Chi parla rado Tenuto è a grado. Di questa fatta sono una filza di motti ammassati da Jacopone in un suo carme, una specie di catechismo a uso della vita, illustrati brevemente da qualche immagine o paragone ora goffo, ora egregio di concetto e di forma. Sulla vanità della vita dice: Lo fior la mane è natoï La sera il véi seccato. Ciò che nella sua semplicità ha più efficacia che la elegante traduzione dello stesso concetto fatta dal Poliziano, la quale ti pare una Venere intonacata e lisciata: Fresca è la rosa di mattino: e a sera Ella ha perduta la sua bellezza altera. I motti di Jacopone sono pensieri morali espressi per esempio e per immagini, come fa l'immaginazione popolare, e nella loro brevità e succo è la principale attrattiva: Ove temi pericolo, Non fare spesso posa. Sappi di polver tollere La pietra preziosa, E da uom senza grazia Parola graziosa; Dal folle sapienzia, E dalla spina rosa. Prende esempio da bestia Chi ha mente ingegnosa. Vediamo bella immagine Fatta con vili deta Vasello bello ed utile Tratto di sozza creta. Pigliam dai laidi vermini La preziosa seta Vetro da laida cenere, E da rame moneta. Non dimandare agli uomini Che lor nega natura:... E non pregar la scimia Di bella portatura, Né il bue né l'asino Di dolce parladura... Quel che non si conviene, Ti guarda di non fare: Né messa ad uomo laico, Né al prete saltare; Non dece spada a femmina, Né ad uomo lo filare... Non piace se 'n suo loco Non ponesi la cosa. Innanzi che ti calzi, Guardi da qual pie' è l'uosa. Se leggi, non far punto Dove non è la posa; Dov'è piana la lettera, Non fare oscura glosa. In ogni cosa al prossimo Ti mostra mansueto... Da nimistate guardati, Se vuoi viver quïeto... A quel modo confórmati Che trovi nel paese: Al genovese, in Genova Ed in Siena, al senese... Uomo, che spesso volgesi, Da tuo consiglio caccia. Se vedi volpe correre, Non dimandar la traccia. Non ti sforzare a prendere Più che non puoi con braccia: Ché nulla porta a casa Chi la montagna abbraccia... Quando puoi esser umile, Non ti dimostrar forte: Il muro tu non rompere Se aperte son le porte... Con signore non prendere Se tu puoi, quistïone Ch'el ti ruba ed ingiuria Per piccola cagione, E tutti gli altri gridano: - Messere ha la ragione. - Uomo senz'amicizia, Castello è senza mura... Quella è buona amicizia Che d'ogni tempo dura: Povertà non la parte, Né nulla ria ventura. Quel che dici in camera, Non dire in ogni loco. A piaga metti unguento, Non vi mettere il foco... E così hai motto a motto, spesso senz'altro legame che il caso qual più, qual meno felice, in quella forma sentenziosa ed esemplata, che è propria dell'immaginazione popolare, prima ancora che nasca la favola e il racconto. E trovi certo più gusto in queste prime rozze formazioni così piene della vita e del sentire comune, che nei sonetti e canzoni morali in forma più artificiosa, ma contorta e scolastica, di ONESTO e SEMPREBENE e altri trovatori.

LA POESIA POLITICA

Questi uomini con tanti proverbi in bocca e con tanta divozione alla Madonna e a' santi, con l'immaginazione piena di leggende e avventure cavalleresche, avevano nel piccolo spazio del comune una vita politica ancora più vivace e concentrata che non è oggi allargata com'è e diffusa in quegl'immensi spazi che si chiamano regni. Certo, i costumi si polivano come la lingua, ma religione e cavalleria, misteri e romanzi, se colpivano le immaginazioni poco bastavano a contenere e regolare le passioni suscitate con tanta veemenza dalle lotte municipali. Questa vita era troppo reale, troppo appassionata e troppo presente, perché potesse esser vista con la serenità e la misura dell'arte. Si manifesta con la forma grossolana dell'ingiuria appena talora rallegrata da qualche lampo di spirito. Un esempio è il verso: Quando l'asino raglia, un guelfo nasce. Questa forma primitiva dell'odio politico, amara anche nel motteggio e nell'epigramma, e così sventuratamente feconda tra noi anche ne' tempi più civili, non esce mai dalle quattro mura del comune, con particolari e allusioni così personali, che manca con la chiarezza ogni interesse: prova ne siano i sonetti di RUSTICO. Certo, in questo antico esempio di satira politica vedi il volgare condotto a tutta la sua perfezione, e ci senti uno spirito e una vivacità propria dell'acuto ingegno fiorentino. Ma che interesse volete voi che prendiamo per donna Gemma e messer Fastello e messer Messerino e ser Cerbiolino, con quel suo parlare sotto figura per allusioni che non ne comprendiamo un'acca? Ciò che è meramente personale muore con la persona. Il comune sembra un castello incantato, dove l'uomo entrando ignori tutto ciò che vive e si muove al di fuori. Nessun vestigio de' grandi avvenimenti di cui l'Italia era stata ed era il teatro, niente che accennasse ad alcuna partecipazione alle grandi discussioni tra papato e impero, tra guelfi e ghibellini, o rivelasse un sentimento politico elevato e nazionale, al di sopra della cerchia del comune. Tutto è piccolo, tutto va a finire là, nella piccola maldicenza sulla piazza del comune. Di ciò che si passava in Italia, appena un'ombra trovi in un sonetto di ORLANDINO ORAFO, eco delle preoccupazioni e ansietà pubbliche, quando Carlo d'Angiò andava ad investire re Manfredi in Benevento. Ma ciò che preoccupava Orlandino non è il risultato politico e nazionale della lotta, ma la grande strage che ne verrà: Ed avverrà tra lor fera battaglia, E fia sanfaglia - tal, che molta gente Sarà dolente, - chi che n'abbia gioia. E molti buon destrier coverti a maglia, In quella taglia - saran per niente; Qual fia perdente - allor convien che muoia A lui è uguale chi vinca e chi perda. Ciò che gli fa impressione è la lotta in se stessa co' suoi accidenti. Lo diresti uno spettatore posto fuori de' pericoli e delle passioni de' combattenti, che contempla avido di emozioni i vari casi della pugna.

LA POESIA SCIENTIFICA: BRUNETTO LATINI

Questa rozzezza della vita italiana sotto i suoi varii aspetti, religioso, morale, politico, spicca più, perché in evidente contrasto con la precoce coltura scientifica, divenuta il principale interesse di quel tempo. La scienza era come un mondo nuovo, nel quale tutti si precipitavano a guardare. Ma la scienza era come il Vangelo, che s'imparava e non si discuteva. A quel modo che troiani, romani, franchi e saraceni, santi e cavalieri erano nell'immaginazione un mondo solo; Aristotile e Platone, Tommaso e Bonaventura erano una - sola scienza. Il maggiore studio era sapere, e chi sapeva più era più ammirato nessuno domandava quanta concordia e profondità era in quel sapere. Perciò venne a grandissima fama Ser BRUNETTO LATINI. Il suo Tesoro e il Tesoretto furono per lungo tempo maraviglia delle genti, stupite che un uomo potesse saper tanto ed esporre in verso Aristotile e Tolomeo. Di che nessuno oggi saprebbe più nulla, se Dante non avesse eternato l'uomo e il suo libro in quei versi celebri: Sieti raccomandato il mio Tesoro, Nel qual i' vivo ancora. (9) La scienza in Brunetto è materia così rozza e greggia com'è la vita religiosa in Jacopone e la vita politica in Rustico. Il suo studio è di cacciar fuori tutto quello che sa, così crudamente come gli è venuto dalla scuola e senza farlo passare a traverso del suo pensiero. Ciò che dice gli pare così importante, e pareva così importante a' suoi contemporanei, ch'egli non chiede altro, e nessuno chiedeva altro a lui. Quella sua enciclopedia non è che prosa rimata. Brunetto fu maestro di Guido Cavalcanti e di Dante, che compirono i loro studi nell'Università di Bologna, dalla quale uscì pure Cino da Pistoja. Si sente in tutti e tre la scuola di Guido Guinicelli. Amore si scioglie dalle tradizioni cavalleresche e diviene materia di teologia e di filosofia. Si discute sulla sua origine, su' suoi fenomeni e sul suo significato. Nella sua apparenza volgare esso adombra quella forza che move il sole e le stelle; il poeta lascia al volgo il senso letterale e cerca un soprasenso, il senso teologico e filosofico, di cui quello sia il velo. Il lettore con le sue abitudini scientifiche disprezza il fenomeno amoroso e cerca dietro di quello la scienza. L'esistente non è per lui che un velo del pensiero, una forma dell'essere. Cino da Pistoja chiama Arrigo di Lussemburgo forma del bene. Il corpo è un velo dello spirito, la donna è la forma di ogni perfezione morale e intellettuale, spiritualismo religioso e idealismo platonico si fondono e fanno una sola dottrina. L'allegoria che era già prima la forma naturale di una coltura poco avanzata, diviene una forma fissa del pensiero teologico e filosofico, disposizione dello spirito aiutata dall'uso invalso di cercare il senso allegorico a spiegazione della mitologia e del senso letterale biblico. Ma il pensiero, esercitato nelle lotte scolastiche, era già tanto vigoroso, che poteva anco bastare a se stesso ed avere la sua espressione diretta. Perciò nella poesia entra non solo l'allegoria, ma il nudo concetto scientifico, sviluppato dal ragionamento e da tutt'i procedimenti scolastici. Cino, Cavalcanti e Dante erano tra' più dotti e sottili disputatori che fossero mai usciti dalla scuola di Bologna. La loro mente robusta era stata educata a guardare in tutte le cose il generale e l'astratto, e a svilupparlo col sussidio della logica e della rettorica. Prima di esser poeti sono scienziati. Anche verseggiando, ciò che ammirano i contemporanei è la loro scienza.

CINO DA PISTOIA

CINO maestro di Francesco Petrarca e del sommo Bartolo* fu dottissimo giureconsulto. Il suo commento sopra i primi nove libri del Codice fu la maraviglia di quella età. Ristoratore del diritto romano, aperse nuove vie alla scienza e non fu uomo, come dice Bartolo, che più di lui desse luce alla civil giurisprudenza. L'amore di Selvaggia lo fece poeta, ma non poté mutare la sua mente. In luogo di rappresentare i suoi sentimenti come poeta egli li sottopone ad analisi come critico, e ne ragiona sottilmente. Posto fuori della natura e nel campo della astrazione, ogni limite del reale si perde; e quella stessa sottigliezza che legava insieme i concetti più disparati e ne traeva argomentazioni e conclusioni fuori di ogni realtà e di ogni senso comune, creava ora una scolastica poetica, o per dirla col suo nome, una rettorica ad uso dell'amore, piena di figure e di esagerazioni dove vedi comparire gli spiritelli d'amore che vanno in giro e i sospiri che parlano. In luogo di persone vive, abbondano le personificazioni. In un suo sonetto, de' meglio condotti e di grande perfezione tecnica vuol dire che nella sua donna è posta la salute: mèta sì alta, che avanza ogni sforzo d'intelletto, e però non resta altro che morire. Questo è rettorica, non solo per la strana esagerazione del concetto, ma per il modo dell'esposizione scolastico e dottrinale. Questa donna, che andar mi fa pensoso, Porta nel viso la virtù d'Amore: La qual fa disvegliar altrui nel core Lo spirito gentil che vi è nascoso. Ella m'ha fatto tanto pauroso, Poscia ch'io vidi quel dolce signore Negli occhi suoi con tutto 'l suo valore, Ch'i lo vo presso e riguardar non l'oso. E s'avvien poi che quei begli occhi miri. Io veggio in quella parte la salute, Ove lo mio intelletto non può gire. Allor si strugge si la mia vertute, Che l'anima che move li sospiri, S'acconcia per voler del cor fuggire. Una così strana esagerazione non può essere scusata che dall'impeto e dalla veemenza della passione. Ma qui non ce n'è vestigio; ed hai invece una specie di tema astratto, che si fa sviluppare nelle scuole per esercizio di rettorica. La prima quartina è una maggiore di sillogismo; intelletto, animo, core, sospiri, virtù di onore e spirito gentile sono le sottili distinzioni e astrazioni delle scuole. Esule ghibellino, si levò a grande speranza, quando seppe della venuta di Arrigo di Lussemburgo; e quando seppe della sua morte, scrisse una canzone. Quale materia di poesia! dove dovrebbero comparire le speranze, i disinganni, le illusioni e i dolori dell'esule. Ma è invece una esposizione a modo di scienza sulla potenza della morte e l'immortalità della virtù. Ancora più astratta e arida è la canzone sulla natura d'amore di Guido Cavalcanti, dottissimo di filosofia e di rettorica; la qual canzone fu tenuta miracolo da contemporanei.

BOLOGNA CENTRO DI SCIENZA, FIRENZE CENTRO DI POESIA

Adunque, la vita religiosa, morale e politica era appena nella sua prima formazione, e la splendida vita che raggiava da Bologna era anch'essa materia greggia, pretta vita scientifica, messa in versi. Siamo alla seconda metà del Dugento. La Sicilia, malgrado la sua Nina, è già nell'ombra. I due centri della vita italiana sono Bologna e Firenze l'una centro del movimento scientifico, l'altra centro dell'arte. Nell'una prevaleva il latino, la lingua de' dotti, nell'altra prevaleva il volgare, la lingua dell'arte. L'impulso scientifico partito da Bologna, traendosi appresso anche la poesia, dava il bando alla superficiale galanteria de' trovatori: il pubblico domandava cose e non parole. E si formò una coscienza scientifica ed una scuola poetica conforme a quella. Il tempo de' poeti spontanei e popolari finisce per sempre. Il nuovo poeta scrive con intenzione. Più che poeta, egli è lume di scienza, si chiama Brunetto Latini, l'enciclopedico; Cino, il primo giureconsulto dell'età; Cavalcanti, filosofo prestantissimo; Dante, il primo dottore e disputatore de' tempi suoi. Scrivono versi per bandire la verità, spiegare popolarmente i fenomeni più astrusi dello spirito e della natura. La poesia è per loro un ornamento, la bella veste della verità o della filosofia, uso amoroso di sapienza, come dice Dante nel Convito. Ci è dunque in loro una doppia intenzione. Ci è una intenzione scientifica ma ci è pure una intenzione artistica di ornare e di abbellire. L'artista comparisce accanto allo scienziato. Questo doppio uomo è già visibile in Guido Guinicelli. E in Toscana, massime in Firenze, che si forma questa coscienza dell'arte. Il volgare, venuto già a grande perfezione, era parlato e scritto con una proprietà e una grazia di cui non era esempio in nessuna parte d'Italia. Se i poeti superficiali dispiacevano a Bologna, i poeti incolti e rozzi non piacevano a Firenze. A lungo andare non vi poterono essere tollerati Guittone e Brunetto, e sorgeva la nuova scuola, la quale, se a Bologna significava scienza, a Firenze significava arte.

CONCLUSIONI SU CINO DA PISTOIA

Questo primo svegliarsi di una coscienza artistica è già notato in Cino. Egli scrive con manifesta intenzione di far rime polite e leggiadre, e cerca non solo la proprietà, ma anche la venustà del dire. Aveva animo gentile e affettuoso e orecchio musicale. Se a lui manca l'evidenza e l'efficacia, virtù della forza, non gli fa difetto la melodia e l'eleganza, con una certa vena di tenerezza. Fu il precursore del grande suo discepolo, Francesco Petrarca. Ecco un esempio della sua maniera: Poiché saziar non posso gli occhi miei Di guardare a Madonna il suo bel viso, Mireròl tanto fiso Ch'io diverrò felice lei guardando. A guisa di angel che di sua natura, Stando su in altura Divien beato sol vedendo Iddio; Così, essendo umana criatura, Guardando la figura Di questa donna che tiene il cor mio, Potria beato divenir qui io. Raccomando agli studiosi la canzone sugli occhi della sua donna che ispirò le tre sorelle del Petrarca, il quale ne imitò anche la fine, che è piena di grazia: Or se prendete a noia Lo mio amore, occhi d'amor rubegli, Foste per comun ben stati men begli. Agli occhi della forte mia nemica Fa', canzon, che tu dica: - Poi che veder voi stessi non possete, Vedete in altri almen quel che voi séte. E ci ha pure parecchi sonetti, dove Cino in luogo di filosofare e sottilizzare si contenta di rappresentare con semplicità il suo stato e sono teneri e affettuosi. Meno apparisce dotto e più si rivela artista.

GUIDO CAVALCANTI

La coscienza artistica si mostra in Cino nelle qualità tecniche ed esteriori della forma. La sua principale industria è di sviluppare gli elementi musicali della lingua e del verso né fino a quel tempo la lingua sono, sì dolce in nessun poeta, rendendo imagine di un bel marmo polito, da cui sia rimossa ogni asprezza e ineguaglianza. Ma qualità più serie e più profonde si rivelano in GUIDO CAVALCANTI. Anche in lui la perfezione tecnica è somma, anzi in lui è scienza. Innamorato della lingua natia, pose ogni studio a dirozzarla e fissarla, e scrisse una grammatica e un'arte del dire*. Egli, nota Filippo Villani, dilettandosi degli studii rettorici, essa arte in composizioni di rime volgari elegantemente ed artificiosamente tradusse. Di che si vede quanta impressione dovè fare su' contemporanei di Guittone e Brunetto Latini tanto e sì nuovo artificio spiegato come scienza e applicato come arte. Così Guido divenne il capo della nuova scuola, il creatore del nuovo stile, e oscurò Guido Guinicelli: Così ha tolto l'uno all'altro Guido La gloria della lingua. Ma la gloria della lingua non bastava a Guido, a cui lingua e poesia erano cose accessorie, semplici ornamenti: sostanza era la filosofia. Perciò aveva a disdegno Virgilio, parendogli, dice il Boccaccio, la filosofia siccome ella è, da molto più che la poesia. Sottilissimo dialettico, come lo chiama Lorenzo de' Medici, introduce nella poesia tutte le finezze rettoriche e scolastiche, e mira a questo: non solo di dir bene, ma dir cose importanti. I contemporanei studiarono la sua Canzone dell'amore come si fa un trattato filosofico, e ne fecero comenti, come si soleva di Aristotile e di san Tommaso: anche più tardi il Ficino vi cercava le dottrine di Platone. Così Guido era tenuto eccellente non solo come artificioso ed elegante dicitore, ma come sommo filosofo. Questo voleva Guido e questo ottenne, questo gli bastò ad acquistare il primo posto fra' contemporanei. Salutavano in lui lo scienziato e l'artista. Ma Guido fu dotto più che scienziato. Fu benemerito della scienza perché la divulgò, non perché vi lasciasse alcuna sua orma propria. E fu artefice più che artista, inteso massimamente alla parte meccanica e tecnica della forma, vanto non piccolo, ma che tocca la sola superficie dell'arte. La gloria di Guido fu là, dov'egli non cercò altro che un sollievo e uno sfogo dell'animo. Fu là, ch'egli, senza volerlo e saperlo, si rivelò artista e poeta. Vi sono uomini che i contemporanei ed essi medesimi sono incapaci di apprezzare. Guido era più grande ch'egli stesso e i suoi contemporanei non sapevano. Guido è il primo poeta italiano degno di questo nome, perché è il primo che abbia il senso e l'affetto del reale. Le vuote generalità de' trovatori, divenute poi un contenuto scientifico e rettorico, sono in lui cosa viva, perché, quando scrive a diletto e a sfogo, rendono le impressioni e i sentimenti dell'anima. La poesia, che prima pensava e descriveva, ora narra e rappresenta, non al modo semplice e rozzo di antichi poeti, ma con quella grazia e finitezza a cui era già venuta la lingua, maneggiata da Guido con perfetta padronanza. Qui sono due forosette, egregiamente caratterizzate, che gli cavano di bocca il suo segreto d'amore. Là è una pastorella che incontra nel boschetto, e ti abbozza una scena d'amore colta dal vero. Sono gli stessi concetti de' trovatori, ma realizzati non solo ornati e illeggiadriti al di fuori, ma trasformati nella loro sostanza, divenuti caratteri, immagini, sentimenti, cioè a dire vita e azione. Senti là dentro l'anima dello scrittore, ora lieta e serena, che si esprime con una grazia ineffabile come nelle ballate delle forosette e della pastorella; ora penetrata di una malinconia che si effonde con dolcezza negli amabili sogni dell'immaginazione e nella tenerezza dell'affetto, come nella ballata che scrisse esule a Sarzana, il canto del cigno, il presentimento della morte. Qui lo scienziato sparisce e la rettorica è dimenticata. Tutto nasce dal di dentro, naturale, semplice, sobrio, con perfetta misura tra il sentimento e l'espressione. Il poeta non pensa a gradire, a cercare effetti, a fare impressione con le sottigliezze della dottrina e della rettorica: scrive se stesso, come si sente in un certo stato dell'animo, senz'altra pretensione che di sfogarsi, di espandersi, segnando la via nella quale Dante fece tanto cammino. I posteri poterono applicare a lui quello che Dante disse di sé: I' mi son un che, quando Amor mi spira, noto e a quel modo Ch'ei detta dentro, vo significando.

POETI MINORI DEL «DOLCE STIL NOVO»

Il che non avvenne del notaio da Lentino, di Guittone, rimasti al di qua del dolce stil nuovo, perché esagerarono i sentimenti, andarono al di là della natura, per gradire, piacere a' lettori. E qual più a gradire oltre si mette, Non vede più dall'uno all'altro stilo. Di questo dolce stil nuovo il precursore fu Guinicelli, il fabbro fu Cino, il poeta fu Cavalcanti. La nuova scuola non era altro che una coscienza più chiara dell'arte. La filosofia per sé sola fu stimata insufficiente, e si richiese la forma. Guittone d'Arezzo non fu più apprezzato, quantunque di filosofia ornatissimo, grave e sentenzioso, come dice Lorenzo de' Medici, perché gli mancava lo stile, alquanto ruvido e severo, né di alcun dolce lume di eloquenza acceso. Anche Benvenuto da Imola chiama nude le sue parole e lo commenda per le gravi sentenze, ma non per lo stile. Nasceva in Firenze un nuovo senso, il senso della forma. A quel tempo fra tante feroci gare politiche la letteratura era nel suo fiore in tutta Toscana e sotto i più diversi aspetti. DANTE DA MAJANO era un'eco de' trovatori, con la sua Nina siciliana. Guittone, Brunetto, ORBICIANI DA LUCCA erano poeti dotti ma rozzi, come i bolognesi Onesto e Semprebene. Ma già il culto della forma, l'amore del bello stile si sente in parecchi poeti. DINO FRESCOBALDI, Rustico di Filippo, GUIDO NOVELLO, LAPO GIANNI, CECCO D'ASCOLI sono il corteggio*, nel quale emerge la figura di Guido Cavalcanti.

«LE NUOVE RIME DI DANTE»

Ma ben presto al nome di Guido Cavalcanti si accompagnò quello di Dante Alighieri, legati insieme da una amicizia che non si ruppe se non per morte. Parvero le nuove rime, e fu tale l'impressione, ch'ei salì subito accanto a Cavalcanti. Sembrò che avesse risolto il problema di esprimere le profondità della scienza in bella forma: ultimo segno a cui si mirava. Perciò ebbe molta voga la sua canzone: Donne, ch'avete intelletto d'amore; e ancora più l'altra: Voi, che intendendo il terzo ciel movete. Dante avea la stessa opinione. Il dotto discepolo di Bologna mira poetando a divulgare la scienza, usando modi piani ed aperti alla intelligenza comune. Nella canzone, dove esorta la donna a dispregiare uomo che da sé virtù fatta ha lontana, dice: Ma perocché 'l mio dire util vi sia, Discenderò del tutto In parte ed in costrutto Più lieve, perché men grave s'intenda; Ché rado sotto benda Parola oscura giunge allo 'ntelletto Per che parlar con voi si vuole aperto. E quando pure è costretto a celare sotto benda i suoi concetti, aggiunge un comento in prosa e dichiara egli medesimo la sua dottrina. Tale è il comento che fa alla canzone. Voi, che intendendo il terzo ciel movete; e parendogli che senza quel comento la canzone, presa in se stessa, rimanga fuori dell'intelligenza volgare, finisce così: Canzone, i' credo che saranno radi Color che tua ragione intendan bene, Tanto lor parli faticosa e forte; Onde, se per ventura egli addiviene Che tu dinanzi da persone vadi Che non ti pajan d'essa bene accorte, Allor ti priego che ti riconforte, Dicendo lor, diletta mia novella: Ponete mente almen com'io son bella. C'era dunque nell'intenzione di Dante di bandire i veri della scienza ora nella forma diretta dal ragionamento, ora sotto il velo dell'allegoria, ma in modo che la poesia, quando anche non fosse compresa da' più avesse un valore in se stessa, fosse bella e dilettasse. Era la teoria della nuova scuola nella sua più alta espressione, una coscienza artistica più chiara e più sviluppata. Il rispetto della verità scientifica è tale, che Dante si domanda come, essendo amore non sostanza ma accidente, possa egli farlo ridere e parlare come fosse persona. E adduce a sua difesa che i rimatori, che fanno versi in volgare hanno gli stessi privilegi de' poeti, nome che dà a' latini, i quali, come Virgilio, Ovidio, Lucano, Orazio, diedero moto e parole alle cose inanimate: il che egli chiama rimare sotto vesta di figura o di colore rettorico, qualificando rimatori stolti quelli che, domandati, non sapessero dinudare le loro parole da cotal vesta. Onde si vede che Dante e Cavalcanti ch'egli qui chiama il suo primo amico, spregiavano e questi rimatori stolti, che usavano rettorica vuota di contenuto (10), e quelli che ti davano un contenuto scientifico nudo senza rettorica. Qui è tutta la nuova scuola poetica, rimasta per molti secoli l'ultima parola della critica italiana: ciò che il Tasso chiamò condire il vero in molli versi. Con queste teorie, con queste abitudini della mente, parecchie canzoni e sonetti sono ragionamenti con lume di rettorica, concetti coloriti. Di tal natura è la canzone sulla gentilezza e nobiltà Le dolci rime d'amor ch'i' solìa e l'altra: Amor, tu vedi ben che questa donna. dove sotto colore rettorico di donna amata rappresenta gli effetti che sul suo animo produce lo studio della filosofia. I fenomeni dell'amore e della natura sono spiegati scientificamente, più che rappresentati, com'è l'inverno nella canzone: Io son venuto al punto della rota e come è l'amore nella canzone: Amor, che muovi tua virtù dal cielo, e come è la bellezza nella canzone: Amor che nella mente mi ragiona. Dalle canzoni allegoriche e scientifiche la più accessibile e popolare è quella delle tre donne, Drittura, Larghezza, Temperanza, germane d'amore, che cacciate dal mondo vanno mendicando: Ciascuna par dolente e sbigottita Come persona discacciata e stanca, Cui tutta gente manca E cui virtute e nobiltà non vale. Tempo fu già nel quale, Secondo il lor parlar, furon dilette; Or sono a tutti in ira ed in non cale. Qui il poeta non ragiona, ma narra e rappresenta. Il concetto scientifico è vinto dalla vivacità della rappresentazione e dalla elevatezza del sentimento. Il colore rettorico non è semplice colorito, ma è la sostanza. In queste canzoni scientifiche Dante mostra ben altra forza e vivacità e ricchezza di concetti e di colori che i due Guidi (11). Egli fu il suo proprio comentatore, avendo nella Vita nuova e nel Convito spiegata l'occasione, il concetto, la forma della sue poesie. E quanto alla parte tecnica all'uso della lingua, del verso e della rima, nel suo libro De Vulgari eloquio mostra che ne intendeva tutt'i più riposti artifici. I contemporanei trovavano in queste poesie il perfetto esempio della loro scuola poetica: la maggiore dottrina sotto la più leggiadra veste rettorica.

L'IDEALE DELLA DONNA

Il mondo lirico di Dante è la stessa materia che s'era ita finora elaborando, con maggior varietà e con più chiara coscienza. Il dio di questo mondo è Amore, prima con le ammirazioni, i tormenti e le immaginazioni della giovinezza, poi con un misticismo ed un entusiasmo filosofico. Amore non può operare che ne' cuori gentili, perciò gli amanti sono chiamati fini e cortesi. Gentilezza non nasce da nobiltà o da ricchezza, ma da virtù. E però le virtù sono scuole d'Amore e fanno star lucente il suo dardo finché sono onorate in terra. Ma la virtù è in pochi, e l'amore è perciò di pochi vivanda. L'obietto dell'amore è la bellezza, non il bello di fuori, le parti nude, ma il dolce pomo, concesso solo a chi è amico di virtù. La bellezza non si mostra se non a chi la intende: amore è chiamato dagli antichi intendenza, e Dante non dice sentire amore, ma avere intelletto d'amore. Ad appagare l'amore basta il vedere, la contemplazione. Vedere è amore amore è intendere. E chi la vede, e non se n'innamora, D'amor non averà mai intellètto. Le intelligenze celesti movono le stelle intendendo: Voi, che intendendo il terzo ciel movete. Dio move l'universo pensando: Costei pensò chi mosse l'universo. Né altro è amore nell'uomo che nova intelligenza, che lo tira su, lo avvicina alla prima intelligenza. La donna, esemplare della bellezza, e nobile intelletto: ...O nobile intelletto; Oggi fu l'anno che nel ciel partisti: La donna è perciò il viso della conoscenza, la bella faccia della scienza, che invaghisce l'uomo e sveglia in lui nova intelligenza, lo fa intendere. La donna dunque è la scienza essa medesima, è la filosofia nella sua bella apparenza; e questo è la bellezza, il dolce pomo consentito a pochi. Intendere è amore, e amore è operare come s'intende; perciò filosofia è uso amoroso di sapienza, scienza divenuta azione mediante l'amore. La virtù non è altro che sapienza, vivere secondo i dettati della scienza. Perciò l'amante è chiamato saggio; e la donna è saggia prima di esser bella: Dalle bellezze e loco dond'io fui. Che pace agli occhi... La beltà non è altro che l'apparenza della saggezza, sì che piaccia e innnamori di sé. Con questo misticismo filosofico si accordava il misticismo religioso, secondo il quale il corpo e velo dello spirito, e la bellezza è la luce della verità, la faccia di Dio, somma intelligenza, contemplazione degli angioli e dei santi. Dio, gli angioli, il paradiso rappresentano anche qui la loro parte. Teologia e filosofia si dànno la mano. E la prima volta che questo contenuto esce fuori nella sua integrità e con così perfetta coscienza. E' l'idealismo di quel tempo, con la sua forma naturale, l'allegoria. Aggiungi l'opera della immaginazione, che dà alle figure tanta vivacità di colorito, ed hai l'ultimo segno di perfezione che si poteva allora desiderare.

NOTE

CIACCO DALL'ANGUILLARA

Di lui sappiamo solo quanto ne sapeva il De S., che nacque, cioè, a Firenze. Taluno ha tentato senza successo, di identificarlo col Ciacco del canto VI dell'Inferno. Incerta è anche la grafia del cognome, che le moderne storie letterarie trasformano in ANGUILLAIA. (l) Il tuo amore, il tuo innamorato. (2) Gemme. (3) Non ha fine o effetto. (4) Errore, errare di mente, inquietudine.

COMPIUTA DONZELLA

Visse a Firenze nella seconda metà del sec. XIII. Le discussioni sul suo nome (o pseudonimo) e sulla sua esistenza non hanno dato frutto. Le si attribuiscono tre delicatissimi sonetti.

MAESTRO TORRIGIANO

Visse intorno al 1250. Il giudizio cui accenna il De S. è contenuto in un sonetto Per la Compiuta Donzella di Firenze: «Dirò che siete divina sibilla venuta per aver del mondo cura». BONDIE DIETAIUTI fiorì nel 1250 e non visse oltre al 1260. Fu anche scrittore di cose morali.

ALESSO DI GUIDO DONATI

Di lui è incerto il secolo in cui fiorì. Il Crescimbeni ritiene questo poeta del Dugento ed il De S. ne accetta le conclusioni. La critica moderna assegna Alesso al Trecento, accogliendo una tesi già sostenuta dallo Zanotto. (5) Come dice Dante: Amore e cor gentil sono una cosa, Siccome il Saggio in suo dittato pone.

GUIDO GUINICELLI (o GUINIZELLI)

Nacque a Bologna tra il 1230 e il 1240. Esercitò la professione di giudice e non insegnò lettere nell'Università di Bologna come erroneamente asserisce il De S., che fraintese un infelice periodo del Manuale del Nannucci. Di parte ghibellina, morì in esilio, a Monselice, nel 1276. (6) Tuono. (7) Guido Guinicelli e Guido Cavalcanti. (8) Dante, Purg. XI, 98.

GUITTONE D'AREZZO

Nacque intorno al 1225. Guelfo, partecipò appassionatamente alla vita politica aretina, finché, nel 1256 fu costretto ad abbandonare la città natale. Intorno al 1265 entrò nell'ordine dei Cavalieri di Santa Maria. Morì circa trent'anni dopo. Restano di lui 24 canzoni, 118 sonetti e alcune lettere.

JACOPONE DA TODI

Il cui vero nome era IACOPO DEI BENEDETTI, nacque nel 1236. Esercitò l'avvocatura fino al 1268, anno in cui la tragica morte della moglie e la conseguente scoperta di un cilizio sul corpo di lei, lo turbarono profondamente, inducendolo a darsi alla vita religiosa. Avversario di Bonifazio VIII, subì la scomunica e il carcere. Morì nel 1306. Si noti che la lauda «Di Maria dolce, con quanto desio...» che il De S., seguendo il Nannucci, attribuisce a Jacopone, viene dai moderni assegnata ad altro poeta.

MESSER ONESTO DA BOLOGNA

Poeta medico e filosofo neoplatonico, visse intorno al 1270. Fu amico di Guittone d'Arezzo. Può essere considerato il primo dei poeti del dolore della nostra letteratura per questi versi di sapore leopardiano: quanto più dura - la vita mia, più soverchia il dolore».

SEMPREBENE

Notaio, visse a Bologna intorno al 1250.

RUSTICO DI FILIPPO

Detto anche, in taluni codici, Rustico Barbuto, visse a Firenze nella seconda metà del 200. Fu di parte ghibellina ed amico di Brunetto Latini che gli dedicò il Tesoretto.

ORLANDINO ORAFO

Trovatore fiorentino del 200, scrisse sonetti di argomento politico e morale. (9) Inf. XV, 119.

BRUNETTO LATINI

Nacque, circa il 1220, a Firenze. Di parte guelfa, andò, dopo la battaglia di Montaperti, esule in Francia. Morì verso la fine del secolo. Pare sia stato maestro di Dante- maestro, se non altro, spirituale, giacché nel Tesoretto, l'opera principale del Latini non è difficile scorgere gli incerti germi della futura Divina Commedia.

CINO DA PISTOIA O MEGLIO GUITTONCINO DE' SIGHIBULDI

Nacque intorno al 1270. Fu giudice a Pistoia e insegnante di diritto nelle università di Siena, Perugia e Napoli. Mori alla fine del 1336. Come giurista ci ha lasciato varie opere, tra cui un cospicuo commento ai primi nove libri del codice di Giustiniano (Lectura in codicem), come poeta lega il suo nome a circa 150 componimenti amorosi.

Il «SOMMO BARTOLO»

E' Bartolo da Sassoferrato, uno dei maggiori giuristi italiani, n. nel 1314 e m. nel 1357. I suoi Commentarii alle singole parti del Corpus Juris fecero testo per molti secoli. Si noti qui che l'affermazione del De S. «Cino, maestro di Petrarca e di Bartolo...» non risponde al vero per quel che concerne il Petrarca.

GUIDO CAVALCANTI

Nacque a Firenze intorno al 1259. Ebbe fama di filosofo e di ateo. Guelfo, partecipò attivamente alla vita politica fiorentina fino a divenire uno dei capi delle fazioni in lotta. Fu amico di Dante che tuttavia, nel giugno del 1300, non esitò, con gli altri priori, a mandarlo in esilio a Sarzana, onde poter realizzare la pacificazione degli animi. Guido morì in quello stesso anno. Aveva sposato da ragazzo una Beatrice figlia di Farinata degli Uberti, ma negli ultimi anni della sua vita si era perdutamente innamorato di una Mandetta. * «e scrisse una grammatica e un'arte de dire». E' notizia inesatta, desunta da una non corretta interpretazione di un passo di Filippo Villani.

DANTE DA MAIANO

Contemporaneo dell'Alighieri, col quale fu in corrispondenza poetica, imitò i provenzali. Corrispose in sonetti con una Nina Siciliana, rimasta peraltro sconosciuta.

BONAGIUNTA ORBICIANI DA LUCCA

E' noto per un giudizio di Dante nel Purgatorio. In documenti tra il 1242 e il 1257 risulta giudice e notaro. In poesia fu seguace della maniera di Jacopo da Lentino e di Guitton d'Arezzo.

DINO FRESCOBALDI

Ricordato dal Boccaccio come «famosissimo dicitore per rima» visse dal 1270 circa, al 1316. Si hanno di lui 22 componimenti.

GUIDO NOVELLO

Conte e trovatore nacque nel 1250 e morì un anno dopo Dante nel 1322.

LAPO GIANNI O MEGLIO SER LAPO DI GIANNI RICEVUTI

Fu giudice e notaio a Firenze. Amico di Dante, è ricordato nel celebre sonetto dantesco: Guido, vorrei che tu e Lapo ed io. Morì intorno al 1328.

CECCO D'ASCOLI O MEGLIO FRANCESCO STABILI

Professò astrologia e scienze fisiche a Bologna. Accusato e condannato come eretico, perì sul rogo nel 1327. Oltre al poema didascalico in terzine l'«Acerba» scrisse varie opere scientifiche latine. * Ai poeti del Dugento toscano citati da De S. è necessario aggiungere, sia pure semplicemente citandoli, i fiorentini CHIARO DAVANZATI, la cui poesia è d'ispirazione provenzaleggiante, GIANNI ALFANI che fu in corrispondenza poetica con Guido Cavalcanti, e il senese CECCO ANGIOLIERI, l'insofferente «poeta maledetto» che scambiò con Dante rime vituperose, l'uomo che bestemmiò i genitori e che, in tempo stilnovista, osò cantare amori triviali e realistici; una figura, certo, non priva d'interesse. (10) Dice così: «Questo mio primo amico ed io ne sapemo bene di quelli che così rimano stoltamente». (11) Guido Guinicelli e Guido Cavalcanti.

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