Animali Mammiferi Pinnipedi

 

 
    

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Animali Mammiferi Pinnipedi

  

Animali - Indice

Animali Mammiferi Pinnipedi

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VITA DEGLI ANIMALI - MAMMIFERI PINNIPEDI

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FOCHE

FOCA ELEFANTINA (Mirounga leonina)

TRICHECHI

TRICHECO (Odobaenus rosmarus)

 

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INTRODUZIONE

In netto contrasto con i pipistrelli e con le talpe sono le Foche, i Sirenidi e le Balene, i più massicci fra i mammiferi, per i quali l'acqua rappresenta l'unica dimora.

Quelli si distinguevano per la grossezza e la speciale robustezza delle loro estremità; in questi le estremità si riducono a monconi che non sporgono completamente fuori dal corpo, ma sono in parte avvolti nella pelle che serve da involucro generale. Nel primo ordine soltanto si vedono ancora quattro estremità natatorie, con dita piuttosto accennate al di fuori che non divise; i due ultimi ordini, invece, hanno pinne le cui dita sono perfettamente ricoperte dalla pelle del corpo ed immobili. Quanto più questi strumenti di locomozione s'avvicinano alle pinne, tanto più grosso e massiccio è il corpo. L'acqua agevola meravigliosamente il moto dei pesi più gravi, e quindi bastano anche membra brevi, o monconi a foggia di remi, per trasportare da un luogo all'altro una foca o una balena. Del resto, un denso strato di adipe sotto la pelle contribuisce parimenti a diminuire il peso del corpo e a tenerlo a galla mentre la pelle vischiosa, nuda, oppure coperta di brevi peli, duri e lisci, è in perfetto accordo con l'ambiente in cui l'animale vive. Tutto si arrotola e si allunga nel corpo: ogni angolosità scompare; soltanto fra i più elevati si osserva ancora un rudimento di orecchie od un moncone di coda, mentre negli altri scompaiono i padiglioni delle orecchie, e la coda si presenta in luogo dei piedi posteriori, spandendosi in una pinna a foggia di remo. Tra tutti i mammiferi marini, una grande concordanza sorprende chiunque ne faccia un esame comparativo. Anche qui la natura lascia scorgere la sua legge suprema: le modificazioni più varie nella forma fondamentale. Tuttavia, i mammiferi marini si possono distribuire in tre ordini, che sono quelli cui abbiamo accennato sopra. Il valore di questi gruppi viene diversamente apprezzato; ma non ci renderemo colpevoli di errore se in ognuno di essi riconosceremo un ordine della classe.

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FOCA ELEFANTINA (Mirounga leonina)

La Foca Elefantina, detta anche Elefante Marino, o Foca dalla proboscide, è il gigante della famiglia, ed abita l'emisfero meridionale. Il suo nome le si adatta bene, poiché il bizzarro prolungamento del suo naso, lungo 30 centimetri, ricorda decisamente la proboscide del gigante della terra.

La proboscide di questa foca, che è il suo segno distintivo, si trova soltanto ed esclusivamente nel maschio, dopo il terzo anno di vita, ed anche allora appare soltanto quando l'animale è in qualche modo commosso. Nel riposo pende floscia sul labbro superiore, e le narici, che si trovano all'estremità della borsa membranosa, sembrano allora compresse e situate sul muso, come nella femmina, che non ha proboscide.

Relativamente alla forma del corpo, la Foca Elefantina concorda quasi perfettamente con i suoi affini. La lunghezza totale è da metri 6 a 7,50 e persino di 9 metri; la circonferenza maggiore del mezzo del corpo varia da metri 4,50 a 5,40. La femmina è sempre notevolmente più piccola. Le estremità non sono molto lunghe, ma forti e robuste. Le dita dei piedi anteriori sono munite di cinque piccole unghie nere; i piedi posteriori consistono in due larghi e lunghi lobi laterali, con in mezzo tre più piccoli, sui quali non si vede traccia di unghie. La coda è breve, grossa e conica. Il corpo è rivestito d'un pelo setoloso non aderente, breve e poco liscio, ma piuttosto lucido, fitto e duro; manca totalmente la lanugine. Il colore è alquanto differente a seconda dell'età e del sesso. Nel maschio è bruno-nero, o bigio-azzurrognolo, o verdastro, più chiaro sempre inferiormente che non superiormente. Nella femmina la parte superiore è bruno-olivastra, sui fianchi bruno-giallo. Gli individui giovani sono superiormente d'uno scuro-bigio-argenteo, più chiaro sui fianchi, bianco-gialliccio inferiormente. I piedi e le membrane natatorie, i baffi e le unghie sono neri. Nel sistema dentale la Foca Elefantina presenta la maggiore somiglianza con la foca crestata settentrionale, con la sola eccezione che tutti i suoi denti sono più robusti.

Il primo scrittore dei viaggi che ci fece conoscere la Foca Elefantina fu Campier all'inizio del diciottesimo secolo; poi né parlarono Auson, Pernettv, Molina e specialmente Péron. Infine i narratori di questa foca non si possono più contare, tanto sono numerosi.

I primi che ne parlarono dettero a questo animale il nome di Leone Marino, gli altri di Lupo, di Elefante Marino, di Foca dalla proboscide; presso i cinesi viene chiamato ancora oggi Lame, presso gli isolani dei mari del Sud, Morunga.

L'area di diffusione della Foca Elefantina comprende la punta meridionale dell'Africa, le isole Sandwich, la terra di Diemen, la Nuova Zelanda ed altre isole del grande Oceano.

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Nel suo modo di vivere la Foca Elefantina ricorda le foche orsine e le foche leonine. Annualmente intraprende migrazioni dal nord a sud e viceversa, secondo che il sole riscalda troppo forte questa o quell'altra regione. I deboli e gli infermi rimangono indietro, i sani viaggiano in società. Nella Patagonia giungono in settembre ed ottobre, sovente anche in giugno, in schiere, che tornano al sud verso la fine di dicembre. Durante l'estate diguazzano nel mare, nell'inverno si trasferiscono a terra: vanno in cerca di regioni paludose e fangose, oppure si accontentano di acque dolci. Dalle grandi masse si dividono le famiglie, composte da 2 a 5 membri. Si trovano sempre vicinissimi gli uni agli altri, sonnecchiando nel fango o nei canneti. Quando il caldo è cocente si rinfrescano con sabbia umida che si gettano sulla parte posteriore del corpo, e che sovente li fa somigliare piuttosto a mucchi di terra che ad animali vivi: per ogni riguardo ricordano i pachidermi. Come questi, difatti, amano straordinariamente l'acqua salsa, come questi si avvoltolano con voluttà nel fango, come questi si trattengono volentieri nel medesimo luogo. A terra i loro movimenti sono molto impacciati: il camminare è difficilissimo alla grossa creatura, che in ciò somiglia alla foca propriamente detta. Ad imitazione di questa, incurva ed allunga alternativamente il suo corpo, gettandolo ora indietro ora avanti. Quando è poi molto grossa questo movimento le fa ondeggiare il corpo come una vescica piena di gelatina. Dopo un tragitto di venti o trenta passi l'animale è spossato ed è costretto a riposare; tuttavia è in grado di salire monticelli di sabbia alti da 4 a 6 metri, supplendo, all'agilità che le manca, con la perseveranza e con la pazienza.

La faccenda del movimento cambia totalmente nell'acqua. La Foca Elefantina nuota e s'affonda magistralmente, compie rapidi movimenti, si addormenta pacatamente sulle onde, si lascia cullare, corre con destrezza e vivacità verso il suo pasto, che si compone per lo più di seppie e di pesci, e può persino raggiungere a nuoto uccelli acquatici, come è il caso dei pinguini. E' strano che la Foca Elefantina inghiotta anche una quantità di alghe, e sovente delle pietre. Così Foster trovò nello stomaco di una di queste foche dodici pietre rotonde, ognuna grossa come due pugni, che pesavano tanto che si può appena comprendere come le pareti dello stomaco avessero potuto sopportare un tal peso.

I sensi delle foche elefantine sono poco sviluppati. A terra non vedono che molto da vicino; l'udito è molto debole; il tatto è reso ottuso dall'enorme strato adiposo che riveste il corpo, e l'olfatto non è molto fino. In sommo grado sono animali poveri di spirito, che raramente si lasciano disturbare dal loro indolente riposo. Si dicono pacifici e tolleranti, perché mai si sono visti questi animali precipitarsi su qualcuno che non li abbia prima lungamente tormentati. Un uomo può comodamente bagnarsi tra di loro, ed anche piccole foche di altre specie possono nuotare tranquillamente in mezzo ad esse. Parnetty assicura che i suoi marinai cavalcavano sulle foche elefantine come sui cavalli, e spingevano i loro troppo lenti destrieri ad una più sollecita corsa mediante punture di coltello. Egli racconta anche che un pescatore inglese aveva preso a ben volere uno di questi animali, proteggendolo contro le insidie dei suoi compagni. Visse a lungo tranquillo e rispettato, mentre i suoi fratelli venivano uccisi a poco a poco. Il pescatore gli si appressava ogni giorno per accarezzarlo ed in pochi mesi era diventato tanto docile che lo si poteva chiamare, strofinare sul dorso, e mettergli il braccio in bocca. Per disgrazia il pescatore ebbe una lite con un suo commilitone, e questi, per vendetta, fu tanto vile da uccidere il beniamino del suo nemico.

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Il tempo degli amori ricorre tra i mesi di settembre e di gennaio, suscitando qualche animazione nella società. I maschi lottano rabbiosamente in onore delle femmine, sebbene queste siano assai più numerose. Gli avversari si precipitano l'uno sull'altro con grugniti e con suoni gutturali particolari, con la proboscide allungata e la bocca spalancata. Allora abbondano le morsicature, alle quali i combattenti si dimostrano poco sensibili e continuano a battagliare anche quando hanno perduto un occhio o sofferto qualche altra grave lesione. La smettono soltanto quando sono sfiniti o quando uno dei contendenti si ritira prima dell'altro. Naturalmente, nel frattempo può essere benissimo avvenuto che un terzo maschio, approfittando che gli altri due se le davano di santa ragione, abbia già posseduto la femmina, la quale, ormai appagata, non mostra di gradire le moine del combattente vittorioso, o, se pure gli si concede, non lo ricambia certamente con uguale calore.

I maschi che hanno combattuto rimangono con moltissime ferite, le quali, però, risanano con incredibile rapidità, per cui capita raramente che uno dei guerrieri soccomba nei suoi duelli. I vecchi maschi sono tutti ricoperti da cicatrici, e soltanto uno su mille, si può ritenere, ha la pelle che non sia stata lacerata dai denti nemici. Le femmine assistono indifferenti in apparenza, eppure soddisfatte, a queste battaglie, dopo le quali, se nel frattempo non v'è stato il terzo incomodo come abbiamo accennato, seguono senza resistenza il vincitore nel mare, dove questo, con le sue carezze, guadagna subito il favore delle belle.

Dieci mesi dopo l'accoppiamento, per lo più in luglio od in agosto, e nella Patagonia all'inizio di novembre, nascono i piccoli: un mese circa dopo l'arrivo nelle isole. I neonati sono creature di considerevole peso (35 chilogrammi), e misurano in lunghezza da metri 1,20 a 1,50. Vengono allattati dalla madre per sole otto settimane, e sono da essa accuratamente protetti. Durante quelle otto settimane la famiglia intera rimane a terra, senza assolutamente mangiare. Dopo otto giorni, il lattante è cresciuto del doppio e del doppio è più pesante; dopo quattordici giorni spuntano i primi denti; dopo quattro mesi la dentatura è completa. Quanto più ingrossa il figlio, tanto più dimagra la madre, che si nutre solo del proprio grasso. Nella sesta o nella settima settimana il figlio viene condotto nell'acqua, e tutta la schiera si allontana lentamente dalla sponda e si inoltra sempre più nel mare aperto. Qui si sofferma sino al prossimo accoppiamento, ed allora comincia un nuovo viaggio. I giovani seguono la famiglia in tutte le sue migrazioni, ma dopo pochi mesi vengono respinti dalla madre. Nel terzo anno nel maschio spunta la proboscide: da quel momento cessa, o poco meno, di crescere in lungo, per allargarsi in circonferenza. All'età di 20-25 anni la Foca Elefantina entra nella vecchiaia, ed i cacciatori asseriscono che non se ne può trovare una che abbia più di trent'anni.

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L'uomo insidia la Foca Elefantina dovunque la trovi: dapprima questi animali erano al sicuro da ogni nemico nelle loro solitarie isole, ma dopo che fu istituita una caccia regolare, il loro numero è scemato rapidamente. I selvaggi possono uccidere soltanto quelle foche che sono gettate a terra dall'uragano: accorrono con fiaccole ardenti, ed appena il povero figlio dell'acqua schiude la bocca, gliele ficcano dentro finché soffochi. Allora ognuno taglia via un pezzo di carne, e finché rimanga qualche briciolo si mangia e si fa festa. Le tribù più nemiche si comportano pacificamente intorno a quel nauseante festino; ma appena esso è terminato iniziano di nuovo le zizzanie e le lotte.

I pescatori europei sogliono uccidere la Foca Elefantina con lance di circa 4 metri di lunghezza. Attendono l'istante in cui l'animale solleva il piede sinistro, e gli piantano la lancia nel cuore. Del resto questa caccia, per quanto pacifici siano questi animali, non è esente da pericoli: talvolta avviene che mettono in uso tutte le forze per disarmare l'assassino. Le femmine non si difendono, ma fuggono, e se è loro negato il ritorno, si guardano attorno piene di disperazione e versando abbondanti lacrime. «Io stesso», racconta Péron, «ho veduto una giovane femmina versare grosse lacrime, mentre uno spietato marinaio le rompeva per passatempo i denti col suo remo. Ebbi compassione della povera bestia: aveva la mascella tutta sanguinante e le lacrime le sgorgavano dagli occhi».

Nessuna Foca Elefantina difende la sua compagna nell'ora del pericolo; tutte manifestano una profonda indifferenza rispetto alla carneficina, e quasi si comportano come se non osservassero quel che loro succede attorno. Quelle che sono gravemente ferite non tornano al mare, ma strisciano sulla terra, accomodandosi dietro un albero od un masso di rocce per attendere stoicamente la morte. Alla stessa maniera si comportano i vecchi quando sono ammalati. Con una saggia prudenza si può ben provare sgomento nel vedere il minaccioso spalancarsi delle mandibole e lo schierarsi dei denti, ma si può essere certi che non si avrà alcun danno, sia perché gli animali sono molto pesanti, e sia, soprattutto, perché hanno ormai la morte, per così dire, in gola. Gli inglesi hanno la strana abitudine di pungerli soltanto, in modo da far sgocciolare il loro sangue, in quanto, dicono, che allora il loro grasso è migliore. Ciò probabilmente è vero, ma noi troviamo la cosa oltremodo barbara, soprattutto se pensiamo che gli inglesi sono maestri in fatto di società per la protezione degli animali.

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Le foche elefantine si possono uccidere con un unico ma ben assestato colpo sul naso; e vi sono rozzi marinai, avvezzi alle spaventevoli stragi, che corrono con indifferenza fra i branchi, abbattendo gli animali con un randello, l'uno dopo l'altro. Naturalmente, anche per queste foche, da alcuni decenni a questa parte, il fucile sta prendendo via via il posto dei rudimentali mezzi di caccia, e ciò, non perché essi non dessero buoni risultati, ma unicamente per risparmio di energia ed anche, bontà dell'uomo!, per non far soffrire molto a lungo le povere bestie. Merita molta considerazione l'utile che l'uomo trae da essa. La sua carne in verità, non vale molto, perché è oleosa, nera, e quindi non si mangia, almeno presso i popoli civili; il solo cuore, sebbene sia duro ed indigesto, è mangiato con gusto dai marinai. Anche il fegato è apprezzato da quella gente non molto delicata, e ciò benché esso produca sempre, in chi ne ha mangiato, una sonnolenza invincibile che dura parecchie ore. Forse ai giorni nostri, quando tutti o quasi sono con i nervi a pezzi, raccomanderemmo il fegato della Foca Elefantina per quelli che così spesso ricorrono ai sonniferi, e talvolta con effetto letale, perché non sanno calcolarne la dose.

Tornando alle parti del corpo della Foca si trova che, al contrario, la lingua è una vera ghiottoneria, specialmente quando è salata. Il grasso fresco passa, agli occhi dei pescatori, per una eccellente medicina, perché partendo dal concetto che le ferite che ricevono le foche si cicatrizzano con incredibile rapidità, se ne è dedotto che quel grasso sia efficace per le ferite da taglio. La dura pelle dal corto pelo non può, in verità, servire da pelliccia, ma serve ottimamente a ricoprire grandi bauli, o a confezionare finimenti di cavalli e di vetture. Naturalmente, se ne potrebbe fare un migliore uso se le pelli più grandi non fossero danneggiate dalle innumerevoli cicatrici. Tuttavia, la pelle e la carne sono le parti meno apprezzate di questa foca.

La parte principale della Foca Elefantina è senza dubbio l'adipe, sia per la sua quantità, sia per la facile preparazione dell'eccellente olio. Un grosso animale provvede circa 750 chilogrammi d'olio, giacché lo strato adiposo sotto la pelle è spesso quasi 30 centimetri. Appena la Foca Elefantina viene uccisa, i marinai procedono allo scorticamento, tagliano con larghi coltellacci l'adipe in lunghe strisce, sminuzzano queste a foggia di dadi, e le fanno fondere in enormi caldaie, esposte ad un fuoco lento, finché l'olio chiaro inodore, per ogni riguardo eccellente, sia deposto nei fusti già preparati. Questo lavoro si compie con tanta rapidità che dieci uomini, senza contare quelli che sono impegnati nella caccia, possono passare dall'adipe ai fusti, attraverso il procedimento descritto, ben quindici quintali di olio in una sola giornata.

L'olio viene poi venduto in patria a caro prezzo, ed è questa fonte di guadagno che spinge gli uomini ad essere sempre più spietati contro le povere foche elefantine, che tendono a sparire interamente in qualsiasi parte del globo si trovino. Esse, difatti, non hanno, come le balene, un asilo nella parte inaccessibile del mare, dove possano sfuggire al loro barbaro nemico e quindi sino all'ultima dovranno soccombere al furore distruttore della belva più crudele chiamata uomo.

I carnefici si gettano in gran numero sulle inermi creature. «Verso mezzogiorno», racconta Coreal, «andai a terra con quaranta uomini. Circondammo i lupi marini, ed una mezz'ora dopo ne avevamo uccisi quattrocento». Gli uomini di Mortimer uccisero in otto giorni milleduecento foche, e ne avrebbero facilmente scannate altre migliaia se un violento uragano non li avesse costretti a correre ai ripari e ad abbandonare la strage. Questi dati si riferiscono a cacce effettuate nei primi del secolo scorso. Attualmente un vascello può considerarsi fortunato se in tutto il viaggio riporta cento foche, e non perché gli uomini siano divenuti nel frattempo più «umani», anzi, ma unicamente perché le foche elefantine tendono ad estinguersi completamente.

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TRICHECHI

TRICHECO (Odobaenus rosmarus)

In varie regioni del Mar Glaciale Artico e nei seni e golfi formati dal medesimo, esiste un animale marino veramente mostruoso, molto simile alle foche, ma che da esse è stato diviso per la sua singolare dentatura, e quindi viene considerato come rappresentante d'una famiglia distinta. Questo animale è il Tricheco, il quale, quando è perfettamente adulto, giunge ad una lunghezza che va da metri 5,40 a 6, con una circonferenza all'altezza delle spalle di metri 3-3,60, ed un peso che va da 800 a 1.500 chilogrammi. Tuttavia, i trichechi così grossi e pesanti sono attualmente molto rari, a causa della solita caccia dell'uomo, e per lo più si trovano animali con una lunghezza soltanto di circonferenza. Il corpo allungato giunge alla sua maggiore grossezza verso la metà, come nelle foche comuni, ma posteriormente non si aguzza tanto come nelle foche. Il collo è breve, di grossezza uguale a quella della testa; le estremità, simili ad enormi lobi, sporgono esteriormente dal corpo, e vi si riconoscono tanto il gomito quanto l'articolazione del ginocchio. I piedi hanno tutti cinque dita, terminanti ognuno in corte unghie ottuse. La coda somiglia ad un insignificante lobo membranoso.

Tuttavia non è il corpo, ma piuttosto la testa, lunga da metri 3 a metri 3,60 che caratterizza il Tricheco. Questa testa è relativamente piccola, tonda ed ingrossata alla mascella superiore da due alveoli dentali rigonfi in forma di palla. Il muso è breve e largo, il labbro superiore è carnoso, molto ad arco sui lati; il labbro inferiore è tumido. Sopra i due lati del muso si trovano undici o dodici serie trasversali di baffi setolosi, tondi, cornei, di cui i maggiori hanno la grossezza delle più grosse canne delle penne di corvo, con una lunghezza che va da 5 a 8 centimetri. Dal dietro in avanti crescono in lunghezza. Le narici sono semicircolari, gli occhi posti molto indietro sono piccoli, lucidi, con pupilla rotonda, protetti da palpebre sporgenti. Le orecchie, cui manca il padiglione esterno, si presentano molto indietro sul capo.

La cosa più notevole del Tricheco, però, rimane la dentatura. Nella parte superiore del muso spuntano due enormi zanne, lunghe da 60 a 80 centimetri, che sporgono molto fuori dalla bocca, con sei denti anteriori e due canini, che portano gli individui giovanissimi. Già sin dai primi giorni dopo la nascita al Tricheco cadono gli incisivi inferiori, poi seguono i superiori, mentre continuano a svilupparsi solo i canini, giacché anche nella mandibola inferiore il primo dente che rimane è chiamato canino, perché la sua forma lo distingue dai molari. Di questi il giovane Tricheco ne ha cinque; tuttavia, nella mandibola superiore cadono per tempo i più piccoli, quelli di dietro, mentre negli individui veramente vecchi esistono nella parte interna delle grosse zanne soltanto.due veri molari e gli incisivi esterni concordanti nella forma. Nella gioventù la mascella inferiore porta 4 molari, di cui l'ultimo, e più piccolo, cade egualmente presto. Le zanne dapprima sono cave, ma con l'andar del tempo si riempiono sino alla radice. Generalmente s'incurvano al di fuori e alquanto all'indietro.

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La colonna vertebrale di questo mostro marino ha 7 vertebre cervicali mobilissime, 14 dorsali, 6 lombari, 4 sacrali, ed 8 o 9 caudali. Il torace ha 9 costole vere e 5 false. La scapola è stretta, ma le ossa del braccio e della coscia sono brevi e fortissime. La femmina ha quattro capezzoli all'inguine. La pelle è spessa circa 26 millimetri; ancora più spessa sul collo, e dappertutto rivestita da peli negli animali più giovani. Il pelo è più breve, più ruvido, più arruffato e più folto sulla parte posteriore che non sull'inferiore; la lanugine manca del tutto, mentre gli animali vecchi perdono per giunta la maggior parte delle loro setole; la loro pelle è, in questo periodo, scarsamente disseminata di alcuni peli. Gli animali molto giovani appaiono neri, ma il loro colore si trasforma a poco a poco in bruno-nericcio o bruno-gialliccio, finché giunge infine alla tinta più chiara, quasi bianca, dei vecchi. Ancora oggi, sebbene in numero molto decimato, il Tricheco abita molte e ben diverse regioni dell'Oceano Artico. La sua area di diffusione, del resto, si divide in oriente ed occidente: in oriente lo si trova specialmente nel mare di Behring e lungo le coste dell'America sino al Banco dei Trichechi; mentre sulle coste asiatiche non esiste più al di sotto del 600 grado di latitudine settentrionale. Il limite orientale della sua area di diffusione coincide con la foce dello Jenissei. Da quel punto si trova dappertutto nei luoghi ad esso adatti, in particolare presso la Nuova Zembla, allo Spitzberg, nei vasti campi di ghiaccio tra l'isola e la Groenlandia, lungo la costa orientale dell'America più settentrionale, e nei grandi bacini che vi si addentrano, come la baia di Baffin e quella di Hudson, sino all'estremo limite del Labrador.

Il Tricheco preferisce le località in cui l'acqua ha poco calore, ed evita con cura tutti i luoghi scaldati dal tiepido gulfstream. Quando il ghiaccio comincia a sciogliersi, esso si ritira abitualmente verso il Nord, in regioni quindi più fredde. In passato veniva più verso il Sud e tal volta faceva le sue apparizioni anche sulle coste occidentali dell'Europa, principalmente della Finlandia e delle isole Orkney, ma sono ormai tre secoli che non si vede più un Tricheco da quelle parti. Due secoli orsono era molto più frequente che adesso ed i marinai di quel tempo raccontano di avere veduto sterminati branchi di trichechi. Verso la fine del diciassettesimo secolo l'equipaggio d'un vascello ne uccise ben novecento in sole sette ore sulle coste settentrionali dell'Europa.

Sul Tricheco abbiamo relazioni molto particolareggiate, perché già i più antichi scrittori di storia naturale fanno menzione di questa strana creatura. Alberto Magno ne dà una descrizione ricamata di molte leggende e favole, alla quale trent'anni dopo Olao Magno, il vescovo norvegese sovente citato, trova poco da aggiungere. Il primo dice che nel Mare del Nord la grande Balena Elefantina, che misura da 20 a 30 piedi (6-9 metri) di lunghezza, ha lunghe zanne rivolte all'ingiù, con le quali si appende alle rupi per aiutarsi a salire, e di cui fa uso anche per combattere. I pescatori si avvicinano all'animale che dorme, staccano dalla coda la pelle adiposa, vi passano dentro una fune che raccomandano ad una roccia o ad un masso, e quindi scagliano sassi sull'animale, che, volendo fuggire, deve lasciare la pelle indietro e precipitare nel mare, dove non tarda ad essere ritrovato indebolito e quasi morto. Col suo cuoio si fabbricano cinghie, che sono sempre in vendita sul mercato di Colonia. Olao Magno dà all'animale il nome, ancora oggi in uso, di Morso, e racconta che si arrampica coi denti sulle rupi come sopra una scala, o si butta giù dall'alto in mare, per timore di rimanere attaccato alle rupi, nel caso lo sorprendesse il sonno.

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Un vescovo di Drontheim fece salare la testa di un tricheco, e nel 1520 la mandò al papa Leone X in Roma. Al Pontefice piacque moltissimo il dono, e dette la testa ad un pittore di Strasburgo. che la disegnò, mentre il vecchio Gessner ne lasciò una descrizione molto esatta. Anche un russo e il signor di Karbestain, che all'inizio del XVI secolo era ambasciatore imperiale a Mosca, ne dettero discrete descrizioni. Essi scrissero, ad esempio, che i branchi di trichechi appostano sentinelle, che vengono insidiate per i loro denti, e che con questi denti i turchi, i tartari ed i russi fabbricano pregiate impugnature di daghe e di pugnali. Finalmente Martens d'Amburgo, che verso la fine del XVII secolo vide il Tricheco vivo nell'Oceano Glaciale, ne diede una eccellente e minuta relazione. Da quel tempo le descrizioni si completarono, e delle nostre nozioni rispetto a questo animale e al suo modo di vivere, nonché al modo di dargli la caccia, andiamo debitori ai celebri naturalisti Scoresby, Cook, Parry e Kane. Dal complesso delle varie relazioni, e dalle osservazioni più recenti, che peraltro confermano quelle relazioni, risulta quanto qui di seguito diciamo.

Nella sua struttura il Tricheco somiglia per molti aspetti alle foche. Come queste è socievole e spesso forma considerevoli branchi. Vive esclusivamente nell'acqua durante il tempo in cui è desto; mentre per dormire e riposare sale sopra le coste piane ed i massi di ghiaccio, dove si trattiene parecchi giorni consecutivi al tempo degli amori e del parto. Sui ghiacci galleggianti si vedono, talvolta, giacere branchi discretamente numerosi, sia sdraiati sul fianco, sia seduti poggiando sulle zampe anteriori. In mare l'animale nuota con grandissima agilità e leggerezza, mentre a terra i suoi movimenti sono pesanti ed impacciati. Cammina ripiegando e stendendo alternativamente l'enorme corpo, e volgendolo ora da questo ora da quel lato. In tale movimento le zanne lo servono a meraviglia, ed è solo mediante il loro aiuto che l'animale riesce ad arrampicarsi sopra alti massi di ghiaccio o di rocce. Grazie ad esse si aggrappa alle fessure della roccia, scava con esse buche nel ghiaccio, vi si attacca saldamente, trae quanto più può il grosso corpo, pianta i denti più lunghi, allunga di nuovo il corpo, e finalmente giunge al luogo prefisso, dove ha deciso di riposare o dormire in santa pace. Talvolta con le zanne vuole aprirsi una strada fra i ghiacci; ma in quest'operazione le rovina in tal modo che perdono la maggior parte della loro bellezza. Dai posti scoscesi, quando lo stuzzica la fame, esso si lascia addirittura rotolare nel mare; dai pendii se ne va lentamente all'acqua. E' certo che talvolta rimane a terra per due settimane intere, immerso in un dolce riposo, e senza prendere cibo; tuttavia, alcuni naturalisti affermano che tale dichiarazione ha bisogno di maggiore conferma. Una cosa su cui non vi sono dubbi è che il sonno del Tricheco è sodo e profondo, e sovente si sono scambiati trichechi dormenti per trichechi morti, tanto stavano immobili e insensibili al mondo che pur continuava a circondarli con tutte le sue incognite e i suoi pericoli. Del resto non è difficile udire da una distanza di oltre cinquecento metri il sonoro russare di un branco di trichechi che dormono.

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Ciò nonostante, però, vi sono foche tanto ardite da rivolgersi contro il sottile battello e farvi un buco, per cui l'uomo viene a trovarsi in gran pericolo di annegare. Pertanto, questa caccia può definirsi per vari aspetti molto pericolosa, e molti groenlandesi vi si accingono non senza timore. Se la Foca ferita trascina con sé le vesciche, che raramente può trarre sott'acqua, si osserva la direzione di esse, si seguono, e si tenta di finire l'animale ferito a colpi di lancia. Le lance non hanno uncini, ma scivolano fuori della ferita e galleggiano sull'acqua tutte le volte che sono gettate sulla Foca, la quale è spossata da quelle reiterate ferite e dallo sforzo fatto per trascinare le enormi vesciche. Le si va allora il più vicino possibile le si dà col pugno sul naso l'ultimo colpo mortale, che la stordisce, mentre le si pianta nel corpo il coltello. E' il momento di prepararsi a portarla via: tutte le ferite vengono tamponate con caviglie di legno in modo che il sangue non vada perduto (giacché anch'esso ha il suo valore), poi le si soffia aria tra carne e pelle in modo da renderla più leggera. Se è piccola, si depone dietro il battello, dopo di averle dapprima legata all'ombelico una vescica che la mantiene a galla ma se è grande, la si attacca accanto al battello, sostenuta da una vescica tanto grossa che si potrebbe abbandonare a sé stessa se si trattasse di prenderne un'al tra. Chi ne ha parecchie, difatti, le attacca l'una dietro l'altra, e un fortunato cacciatore può talvolta tornarsene a casa con quattro o cinque foche per volta».

Oltre all'uomo, la Foca ha un mortale nemico nell'orcino (urcinus), che i groenlandesi e i normanni chiamano a signore delle foche». Si vedono sovente le foche fuggire con grande spavento davanti a questo cetaceo, cercando di giungere ai passaggi stretti e alle acque poco profonde, o, in caso di pericolo incalzante, cercando di raggiungere la terra. Il timore che provano di fronte alla balena supera persino quello che hanno di fronte all'uomo; e si sono vedute spesse volte foche dirigersi verso i cacciatori, perché dietro si sentivano il terribile nemico. I groenlandesi, del resto, odiano cordialmente le balene, perché queste, magari al momento più favorevole, con la loro comparsa, spaventano e fanno fuggire le foche. Anche l'orso polare perseguita accanitamente le foche, e sa abilmente impadronirsi di esse, come già abbiamo avuto occasione di dire. Alle giovani foche, infine, sono nocivi anche i grossi pesci voraci.

Le popolazioni nordiche traggono profitto dall'intero animale, e non, come noi, dal solo adipe e dalla pelle, oppure dalla carne, come sogliono gli svedesi e i norvegesi. Gli intestini vengono mangiati o trasformati in impannate, abiti, o cortine, dopo essere stati ripuliti e lisciati con gran fatica. Una sorta di soprabito, il kapisat dei groenlandesi, è particolarmente apprezzato, perché è impermeabile all'acqua. Il sangue, misto all'acqua marina, viene fatto bollire e si mangia per minestra, oppure, lasciato gelare, costituisce una leccornia. Quando ha bollito, se ne fanno inoltre pallottole che si lasciano seccare al sole, e che si pongono in serbo per i tempi di carestia. Le costole servono da caviglie per distendere le pelli, o sono trasformate in chiodi; le scapole sono adoperate come spatole; coi tendini si fa del filo, ecc. La carne, l'olio, la pelle formano, tuttavia, per i groenlandesi medesimi, il guadagno principale della caccia alle foche.

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Il Tricheco si nutre con ogni sorta di piccoli animali marini, come granchi, gamberi, molluschi. Servendosi delle sue zanne, stacca le conchiglie attaccate alle rocce, e principalmente le alghe, di cui ne ingoia molte assieme al cibo animale, che preferisce veramente. Nello stomaco di un tricheco, Scoresby trovò, oltre a gamberi e granchi, gli avanzi di giovani foche. Altri naturalisti vi hanno trovato pietre e sassolini. Lo sterco, simile a quello del cavallo, con sommo gusto viene mangiato dal gabbiano borgomastro.

Quanto all'indole, diciamo subito che il Tricheco, finché non viene aizzato, è pigro e indifferente. Nelle regioni dove non ha ancora imparato a conoscere l'uomo, lascia, senza muoversi, venirgli incontro un battello molto vicino. Ma alcuni individui del branco sono sempre desti, ed allora con un formidabile ruggito sogliono richiamare l'attenzione degli altri sul pericolo che s'avvicina. La sua voce ricorda ora il muggito del bue, ora l'abbaiare del cane, ora un terribile ruggito, che s'ode da lontano e che ha qualche somiglianza col nitrito del cavallo. Lo si ode tanto da lontano che il capitano Cook ed il suo equipaggio furono sovente, in mezzo alla notte e alla nebbia, avvisati da esso dell'avvicinarsi dei ghiacci.

Se si spara sopra un Tricheco che ancora non sia stato inseguito, esso si guarda tutto meravigliato, come se volesse spiegarsi cosa mai può significare quello strano rumore provocato da un altrettanto strano arnese, e subito dopo torna ad adagiarsi. Neppure uno sparo di cannone riesce ad inquietarlo, perché, tutto sommato, par che dica il Tricheco, gli scoppi dei mari artici, dove i ghiacci sovente scoppiano per lunghe distese col rumore del tuono, sono pur tuttavia più forti. I vascelli distanti, fin quando qualcuno degli animali, che stanno in guardia, non è ferito, attraggono appena l'attenzione del branco.

Naturalmente, la faccenda cambia aspetto là dove i trichechi hanno già imparato a conoscere il loro capitale nemico, l'uomo. «Il Tricheco», dice Scoresby, «è un animale impavido, che guarda curiosamente ma senza timore un battello che gli si avvicini. Nell'acqua non si può sempre prendere senza pericolo: generalmente, l'aggressione fatta ad uno di essi chiama tutti gli altri alla sua difesa. In questi casi si dispongono a cerchio attorno al battello, dal quale è venuta l'aggressione, ne traforano le pareti con le loro zanne, e, se trovano resistenza, si sollevano sino al bordo dello stesso battello, minacciando di capovolgerlo. La migliore difesa in simile circostanza è quella di gettare sabbia sugli occhi degli animali furiosi, la qual cosa li costringe a ritirarsi, meglio di quanto possa fare il fucile, che in molti casi non serve a niente. Mio padre uccise una volta con la lancia un tricheco sul quale aveva già sparato prima: quando esaminò la testa, che era stata colpita dalla palla, trovò che questa era penetrata sino al cranio, ma vi si era appiattita sopra».

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Il vecchio Martens, anch'egli, ci descrive il furore dei trichechi, e dice che si difendono l'un l'altro sino alla morte. «Se uno viene catturato, tutti gli altri accorrono alla scialuppa per porlo in salvo, ed allora non v'è fine ai morsi, alle percosse, agli spaventevoli ruggiti. Finché uno è vivo non la vogliono cedere e non la cedono sul serio, perché seguono la scialuppa finché, più veloce di essi, non l'abbiano perduta di vista. Ciò accade soprattutto perché, a volte, il loro gran numero li impaccia, sicché prendono a mordersi a vicenda e rimangono indietro, senza pensare piuttosto a quei crudeli degli uomini, che vigliaccamente se la svignano con il loro battello».

A differenza delle foche, i cui maschi hanno solitamente un harem ben nutrito, i maschi dei trichechi si uniscono ad una sola femmina e l'accompagnano fedelmente. Non che il matrimonio, per così dire, avvenga senza spesso spiacevoli contrasti, perché, anzi, anche per questi animali i maschi, prima di unirsi alla loro bella, hanno da sostenere accanite zuffe con i rivali, che pure intendono sposare eventualmente la stessa femmina. E le zuffe sono tanto violente, con l'aggiunta che qui entrano in funzione le terribili zanne che abbiamo già descritto, tanto che tutti i maschi presentano delle cicatrici sulla pelle, come ricordo di gravi ferite avute dai rivali in amore. Quando il più forte e più abile ha messo alle corde il suo avversario, esso si rivolge alla femmina, che nel frattempo, seppure eccitata, è rimasta a guardare quasi indifferente, e, dopo i convenevoli d'uso, a base di carezze e moine d'ogni genere, avviene l'accoppiamento, il quale, per stare più comodi, si svolge a terra e mai in mare. L'eccitazione non scema con un solo accoppiamento, sicché se ne hanno parecchi, e per tutto il tempo degli amori gli animali non smettono di ruggire e smaniare. In maggio, sovente in aprile, dopo nove mesi di gestazione, la signora consorte partorisce un figlio, rarissimamente due. Particolare attenzione merita l'amore materno di questi animali. La madre difende il suo figliolo sino all'ultimo, e con pericolo della propria vita, tanto nell'acqua quanto sul ghiaccio. Appena ha sentore di qualche pericolo, fosse il più insignificante, la brava e prudente genitrice si getta nel mare aperto, stringendo il figlio con le zampe anteriori o portandoselo sul dorso. Se per disgrazia la madre viene uccisa, il piccolo, che ancora non ha la forza e soprattutto l'esperienza dei genitori, s'arrende senza resistenza al suo nemico; ma se, al contrario, il piccolo viene ucciso per primo, si ha ancora da sostenere una accanita lotta. Anche se tutto il branco fugge, il che è improbabile, vigendo fra i trichechi un patto di mutua assistenza «contro gli attacchi a sorpresa», la madre viene a galla con formidabili ruggiti, nuota verso il figlio ucciso e galleggiante, lo abbraccia e di nuovo s'affonda con esso. Se, nel frattempo, il cadavere è stato afferrato dai marinai essa cerca in ogni modo di strapparglielo, affacciandosi addirittura sul battello. Se l'operazione alla coraggiosa madre riesce, il giovane tricheco può dirsi perduto, a meno che non venga uccisa anch'essa, altrimenti, se le vien fatto di farla franca, se lo trascina a grandi distanze anche sopra il ghiaccio. Un'altra prova della solidarietà che regna fra questi animali è data quando alcuni di essi sono feriti. Questi vengono circondati dagli incolumi, che in ciò dimostrano una grande intelligenza, e da essi condotti di tanto in tanto sul livello dell'acqua, per far loro riprendere fiato, trascinandoli, poi, nel sicuro asilo del fondo del mare.

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Malgrado i pericoli che accompagnano la caccia del tricheco, l'uomo, il carnefice e il distruttore del regno animale, ne dirada di anno in anno i branchi, e ciò soprattutto perché è considerevole l'utile che ricava dall'animale morto. Dalle zanne, che sono dure, bianche e spesse come l'avorio, si fanno denti falsi, molto apprezzati per la loro bontà. La pelle è usata come fodera delle vele e delle gomene dei vascelli, o ritagliata in listelli ed intrecciata in funi. Nei tempi antichi quasi tutte le gomene delle navi del nord erano fatte con questa pelle, che la concia trasforma in un cuoio morbido e cedevole, il quale, sebbene, talvolta, sia spesso circa trenta centimetri, è assai meno utile e durevole della pelle grezza. Steller riferisce che i koraki fanno con la pelle del Tricheco reti per balene; i tschuktschi l'adoperano per ricoprire le loro abitazioni estive o per rivestire i loro canotti, che sono formati da semplici tavole. Anche la carne viene mangiata, ma soltanto da coloro che hanno superato il disgusto, causato dal suo colore nero; al contrario, il cuore e il fegato sono saporitissimi. Il lardo può essere adoperato per condire le vivande, ed è buono anche per alimentare le lampade da ardere. Con i tendini i groenlandesi si fanno il filo per cucire, ecc. La parte più preziosa, però, rimangono le zanne, tanto che dalla loro vendita si ricava un profitto pari a quello che si ricava dal grasso e dalla pelle messi insieme.

A terra il Tricheco si uccide con lance e mazze, mentre in mare, abitualmente, oltre al fucile, si usa la fiocina. In questa caccia si distinguono gli esquimesi, per il grande coraggio e per la somma destrezza di cui d'hanno prova. Si avvicinano al luogo dove il Tricheco si è tuffato, attendono che risalga per prendere aria, gli vibrano contro la fiocina e raccomandano l'estremità della corda ad un piolo piantato nel battello o sul ghiaccio, dopodiché uccidono l'animale attaccato a furia di colpi di lancia. In alcuni luoghi si ammaestrano alla caccia i cani, e col loro soccorso si cerca di dividere dal branco qualche individuo, sopra cui cadono tutti insieme. Non di rado capita che l'uncino scivoli sulla pelle liscia, e sovente anche l'arma da fuoco rifiuta il suo servizio. Gli aleuti annualmente si recano in gran numero sulle coste settentrionali della penisola di Aljaska, e, armati di spiedi e di grandi scuri, cercano di circondare gli animali in riposo, piombano loro addosso con alte grida, e si d'hanno da fare per spingerli all'interno del paese. Se ad un tricheco vien fatto di rompere l'accerchiamento e di scappare nell'acqua, tutti gli altri lo seguono con impeto e coraggio, e, almeno per quel giorno, la caccia è finita.

Ad ogni buon conto, la caccia ai trichechi è sempre pericolosa, giacché col pericolo vanno crescendo il coraggio e il furore di questi animali: del resto, non pochi sono stati e sono i cacciatori che ci rimettono la pelle o ne escono malconci. Il capitano Beezhy racconta che un branco di trichechi, messo in fuga ed inseguito nel mare dal suo equipaggio, ad un tratto si rivolse contro il battello, senza badare né ai colpi di scure né alle punte delle lance, e smise soltanto quando il suo capo venne fulminato da un colpo di fucile nella gola. L'aspetto del mostro marino quando è furioso è spaventevole; il suo rigido collo non gli permette di guardarsi attorno con facilità, ma a questo inconveniente supplisce con la mobilità dei suoi occhi, facendoli roteare in modo così tremendo da incutere terrore anche agli uomini più coraggiosi e spietati. Quando monta la guardia, il Tricheco si solleva, poggiando sui piedi anteriori, e ruggisce e batte furiosamente le zanne sul ghiaccio. Per prenderlo è per lo meno necessario che la fiocina sia molto più grossa e forte di quella che viene usata per la balena.

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Allorquando il Tricheco è bell'e morto, gli si taglia la testa e se ne tolgono le zanne, mentre il tronco si lascia abitualmente galleggiare. Molto raramente si libera pure della pelle, che non serve granché, ed eccezionalmente si fa fondere il grasso, per lo più mescolandolo con quello della foca, dando così luogo, anche in mare, alle sofisticazioni che tanto conosciamo sulla terraferma.

Magro utile, quindi, quello che si ricava da un tricheco morto, ed in ogni caso esso non compensa il grande pericolo che si è corso per ucciderlo. Per questo, quando vi è buona pesca della balena, il Tricheco viene lasciato in pace, e ad esso si guarda soltanto quando non c'è di meglio da mettere nelle stive del battello.

A solo titolo di curiosità diciamo che il Tricheco viene chiamato anche Morse, nome probabilmente di origine lappone; inoltre i groenlandesi chiamano quest'animale Aneh o Anah, i russi della foce dell'Ob lo chiamano Dind, i marinai inglesi Horsewhate o Seahorse. Per ultimo riferiremo che il Tricheco è molto raro nei giardini zoologici, perché generalmente non sopravvive allo stato di schiavitù.

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