Animali Mammiferi Perissodattili

 

 
    

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Animali Mammiferi Perissodattili

  

Animali Mammiferi Perissodattili

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 VITA DEGLI ANIMALI - MAMMIFERI - PERISSODATTILI

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INTRODUZIONE

Tutti i mammiferi che formano questa schiera appartengono sia alla terra che all'acqua; nessuno di essi si innalza sulle cime degli alti alberi e solo raramente ne troviamo ancora alcuni amanti della solitudine poetica delle alte montagne, sulle quali si muovono con leggerezza e con coraggio, così come i veri rampicanti.

Gli Ungulati sono animali terragnoli. La loro conformazione fisica impone loro questo genere di vita. Il loro tronco è generalmente grosso; il collo lungo, la testa di media grandezza, ma notevole per le armi naturali di cui è fornita e che sporgono in alcuni in forma di corna semplici o ramificate, in altri in formidabili denti. Le estremità sono di pari lunghezza e Le dita dei piedi sono rivestite da uno o più zoccoli fino a un massimo di cinque. La coda è corta e generalmente non tocca il suolo. Gli organi sensori sono sviluppatissimi; le orecchie sono grandi, mobilissime; gli occhi vivaci, belli; l'apparato olfattorio è molto sviluppato esternamente; nessuno dei loro sensi è allo stato rudimentale. L'integumento è fatto di peli morbidi e fitti, o scarsi e ruvidi, per lo più di colore bruno o nero. Ma il carattere che più li distingue è lo zoccolo dei piedi; le quattro zampe sporgono perfettamente dal corpo; sono atte a camminare, ma la presenza degli zoccoli da cui sono avvolti i piedi impedisce agli Ungulati di servirsi delle zampe per altri usi. «Col numero delle dita» dice Giebel «muta anche la forma dello zoccolo; e quanto più grande è il numero delle dita tanto più grande è ciascuno di essi. Mentre il cavallo cammina sulla estremità dell'ultima falange avvolta in un grande zoccolo, i quattro o cinque zoccoli al piede dell'elefante sono troppo deboli per sostenere il pesante corpo, e le falangi anteriori non toccano mai il suolo».

Anche la dentatura è un carattere distintivo della schiera, per quanto presenti grandi differenze. I molari sono sempre destinati soltanto a triturare; gli incisivi denunziano l'alimentazione vegetale. In alcuni esistono i canini, in altri mancano completamente, in altri ancora si sviluppano in modo assolutamente irregolare. Anche i molari presentano grandi irregolarità: le pieghe dello smalto sono, a volte, molto intrecciate, a volte, semplicemente ripiegate; il numero e la disposizione dei rilievi presentano notevoli differenze.

La mole degli Ungulati è anch'essa assai variata: si va dall'Elefante al piccolo Irace che non giunge alla mole di una lepre. Lo scheletro di tutti gli Ungulati è formato da ossa grosse e pesanti. Nel cranio, la scatola che contiene il cervello è posta all'indietro, le mandibole si allungano, la fronte e il cranio sono larghi e piani, l'angolo facciale è minimo. Le vertebre del collo hanno apofisi spinose inferiori e capi articolari convessi quasi a forma di palle, ciò che permette una grande mobilità. Le vertebre dorsali sono corte e grosse, le costole sono larghe e numerose. La clavicola manca sempre. Alle zampe, spesso il gomito si accorcia e ancora più spesso si accorcia il metatarso.

Gli Ungulati segnano la transizione fra gli unguiculati e i mammiferi marini. Alcuni di essi fanno vita anfibia; vivono sia sulla terra che nell'acqua; altri sono veri animali terragnoli. Si alimentano quasi esclusivamente di sostanze vegetali, mangiano erba, foglie, frutta e corteccia di albero. La maggior parte degli Ungulati partorisce un solo figlio.

Generalmente, si suole dividere la schiera degli Ungulati in tre ordini:

1) Cavalli o Solidunguli;

2) Ruminanti o Fissipedi;

3) Pachidermi o Moltunguli.

I pareri intorno alla classificazione di questi ordini sono molto contrastanti. Alcuni vogliono vedere nei Pachidermi gli animali superiori di questa schiera; altri vorrebbero assegnare questo posto ai Ruminanti; altri ancora vedono nei Cavalli le più nobili creature della schiera.

Noi ci uniamo a questi ultimi e pensiamo che difficilmente il Cavallo è superato per le qualità fisiche da qualsiasi altro ungulato, ed è perfettamente paragonabile per le sue qualità intellettive agli animali più intelligenti.

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CAVALLI

Tutti i Solidunguli dell'epoca attuale formano fra gli ungulati un gruppo ben delimitato: si assomigliano a tal punto che si possono raccogliere in una sola famiglia. Cavallo o Solidungolo hanno lo stesso significato.

Le poche specie di Cavalli si distinguono per media mole, forma elegante, membra proporzionate e robuste, testa magra allungata, con grandi occhi vivaci, orecchie di media grandezza, aguzze, mobilissime, e narici bene aperte. Il collo è forte, muscoloso, il corpo tondeggiante e carnoso, il pelame breve e morbido, molto aderente, allungato in criniera alla nuca ed alla coda. L'unghia non aperta ed elegante del piede basta per distinguere il Cavallo dagli altri ungulati.

Le tre specie di denti in numero uguale e invariabile formano la dentatura: questa consiste in sei incisivi, sei molari lunghi, quadrangolari, con ripiegature di smalto sulla parte piana della corona, e piccoli canini uncinati, ottusi, cuneiformi.

Nello scheletro è notevole la lunghezza del cranio, di cui soltanto un terzo serve da scatola al cervello mentre due terzi si prolungano nella parte facciale. Il petto ha sedici vertebre, la parte lombare otto; l'osso sacro è formato da cinque vertebre, mentre quelle della coda assommano a ventuno.

Tra gli organi digerenti merita speciale attenzione l'angusto tubo alimentare, di cui l'orifizio nello stomaco è munito di una valvola. Lo stesso stomaco è un piccolo sacco, semplice, indiviso, ovale, allungato.

I primi Cavalli apparvero sul nostro globo nel periodo terziario, e tanto nell'Antico come nel Nuovo Continente. Sinora sono state riconosciute otto specie preistoriche di questa famiglia. Il numero delle specie che vivono tuttora è uguale quando si considerino tutti i Cavalli e tutti gli asini solo come razze di due specie. Ma probabilmente tanto questi quanto quelli provengono da parecchie specie originarie. L'Europa centrale e settentrionale, l'Asia centrale e tutta l'Africa sono da considerare come l'originaria area di diffusione del Cavallo.

Tutti i Cavalli sono animali vivaci, allegri, mobili, intelligenti. I loro movimenti hanno in sé qualcosa di grazioso e altero. L'andatura abituale di quelli che sono liberi è un trotto piuttosto rapido; la loro corsa è un galoppo relativamente molto leggero.

Pacifici e buoni con gli altri animali che non fanno loro del male essi scansano, con angoscioso timore, gli uomini e i grossi carnivori; ma, in caso di bisogno, si difendono coraggiosamente contro i loro nemici con calci e morsi.

La loro moltiplicazione è scarsissima. La giumenta partorisce, dopo lunga gestazione, un unico figlio, cui tiene dietro un altro solo dopo un lungo intervallo. Due specie, o, se si vuole, due generi della famiglia sono stati soggiogati dall'uomo da tempo immemorabile.

Nessuna storia, nessuna leggenda ci racconta il momento in cui entrarono per la prima volta al servizio dell'uomo questi utilissimi animali; non si sa nemmeno in quale contrada, in quale parte della terra si sia domato il primo Cavallo: generalmente, si crede che furono i popoli dell'Asia centrale che primi fra tutti domarono i Cavalli.

La storia dell'Egitto è la prima a parlare di questo animale. I più antichi geroglifici lo rappresentano come il coraggioso compagno e servitore dell'uomo nel furore delle battaglie. In Cina e nelle Indie lo si conosce come animale domestico sin da quasi lo stesso tempo, e, così, sfugge ogni punto d'appoggio sicuro rispetto all'epoca ed al popolo cui dobbiamo l'acquisto di così preziosa creatura.

E' strano che quei popoli primitivi s'intendessero così bene nello scegliere appunto quelle specie della famiglia che posseggono l'attitudine più grande a rendersi utili all'uomo.

Nei tempi moderni si è tentato invano di addomesticare l'una o l'altra delle specie che vivono ancora allo stato selvaggio; tutti i tentativi sono stati vani, almeno sinora, per addomesticare la zebra e l'emione. Questi animali, così affini agli altri, si mostrano decisamente intrattabili, e, malgrado ogni sforzo, non perdono nulla della loro selvatichezza e della loro indomabilità; insomma non si lasciano ammaestrare.

Ancora oggi si aggirano nelle steppe dell'Asia centrale numerosi branchi di Cavalli, di cui non si è certi se debbano essere considerati come il capostipite selvatico del nostro cavallo domestico, oppure se derivino da questo e si siano rinselvatichiti. Questi Cavalli non differiscono essenzialmente dai nostri. Gli uni, che si chiamano Tarpani, hanno in sé tutte le qualità degli animali veramente selvatici, mentre gli altri, chiamati Muzini, possono con maggiore diritto venire considerati rampolli inselvatichiti di cavalli domestici, simili a quelli che abitano i Llanos dell'America meridionale. Ma ora presentiamoli.

Cavalli al pascolo

Modello tridimensionale di cavallo

Cavalli selvaggi in Camargue

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TARPANO (Equus caballus)

Il Tarpano viene considerato come un animale assolutamente selvatico dai tartari e dai cosacchi. E' un cavallo magro, di media statura, con gambe sottili, ma robuste, e con lunghi tarsi, collo lungo e sottile, testa piuttosto grossa con fronte arcuata, orecchie aguzze, rivolte in avanti, e piccoli occhi vivaci, pieni di fuoco e di malignità.

Gli zoccoli sono stretti con punta ottusa; il pelame, d'estate, è folto, breve, ondeggiato sopra tutta la parte posteriore, dove si può dire quasi crespo; d'inverno, invece, è lungo, folto, duro, specialmente al mento, dove forma quasi una barba.

La criniera è breve, folta, arruffata e increspata; la coda è di media lunghezza. In estate il colore dominante è un bruno uniforme o fulvo; in inverno, il pelame si fa più chiaro, sovente quasi bianco; i peli della criniera e della coda sono relativamente scuri.

Si deve considerare come vera patria del Tarpano il territorio tra il lago di Aral e le giogaie meridionali dell'Asia.

I tarpani s'incontrano sempre in branchi, composti di parecchie centinaia di individui. Abitualmente, si dividono in piccole società o famiglie, cui sopraintende uno stallone.

Tali branchi percorrono le ampie steppe scoperte degli altipiani e viaggiano pascolando da un luogo all'altro, per lo più contro vento. Nelle fitte nevicate essi si arrampicano su per i monti e raspano via la neve dai pendii per giungere al loro pascolo.

Lo stallone è l'unico signore della società: esso ha cura della sicurezza generale, ma non tollera irregolarità fra i suoi subordinati. I giovani stalloni sono scacciati da esso, e finché non hanno ottenuto per amore o per forza qualche cavalla, debbono starsene a distanza dal branco.

Allorquando qualcosa stuzzica lo stupore della truppa, lo stallone prende a fiutare e a muovere rapidamente le orecchie, poi trotta nella direzione sospetta con la testa alta, nitrisce acutamente se riconosce qualche pericolo, e allora l'intero esercito scappa in fretta, prime le cavalle e gli stalloni dietro come retroguardia protettrice.

Talvolta, i primi scompaiono come per effetto di magìa; è avvenuto che si sono precipitati in qualche profondo avvallamento, dove sono in attesa di quello che deve venire.

Gli stalloni, battaglieri e coraggiosi, non temono nessun carnivoro: si precipitano nitrendo sopra i lupi e li schiacciano al suolo con gli zoccoli anteriori, appunto come sogliono fare i cavalli che pascolano nelle steppe della Russia meridionale.

La fiaba che, formandosi in circolo con le teste rivolte al centro, non cessino di tirar calci con le zampe posteriori, è da lungo tempo contraddetta.

Ma gli stalloni formano benissimo un cerchio intorno alle cavalle ed ai puledri, se qualche vile predone cerca di avvicinarsi. All'orso, talvolta, può riuscire di abbrancare un tarpano; il lupo, invece, è sempre messo in fuga.

Tra di loro gli stalloni si battono con accanimento e, in verità, tanto con i denti quanto con i calci. I giovani stalloni debbono conquistarsi con accaniti duelli la loro parte d'autorità.

Gli abitanti delle steppe che allevano i cavalli temono i tarpani più dei lupi, perché, spesse volte, procurano loro gravi danni. Appena un branco di cavalli selvatici ne scorge di domestici, si affretta verso questi, li circonda e li porta via per amore o per forza.

Questi cavalli rapiti diventano poi muzini se non si mescolano con i tarpani. Ma ciò accade di frequente, e per questo i tarpani purosangue si trovano soltanto sopra un'area relativamente ristretta del Carakum, lungo il fiume Torn, nelle solitudini della Mongolia e del deserto di Gobi.

Il Tarpano è difficilissimo da domare: la sua vivacissima indole, la sua forza e la sua selvatichezza sfidano persino le arti dei mongoli tanto esperti di cavalli. Si direbbe che questi animali non possano sopportare la schiavitù tanto che i più periscono in meno di due anni.

Gli stessi puledri non si possono addomesticare se non limitatissimamente: rimangono selvatici e ostinati anche con il miglior trattamento. D'altronde, i tarpani non si possono assolutamente usare come cavalli da sella; tutt'al più si lasciano attaccare ad un carro in compagnia d'un cavallo domestico ed anche là dànno un bel da fare al compagno ed al cocchiere.

Si dà loro la caccia per il danno che i loro tentativi di seduzione arrecano ai mongoli allevatori di cavalli. Si cerca sempre di colpire anzitutto lo stallone, perché caduto questo, le giumente si sbaragliano e cadono più facilmente preda del cacciatore.

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MUSTANG (Equus caballus)

E' il tipico cavallo selvatico che vive nell'America meridionale. E' di media statura, ha una grossa testa, lunghe orecchie e grosse articolazioni; solo il collo ed il tronco sono abbastanza regolarmente conformati. In estate, il pelame è breve, lungo in inverno. La criniera e la coda sono sempre sottili e scarse di peli. Solo in alcuni poderi si vedono ancora cavalli che ricordano i loro nobili antenati.

Si può dire che i cavalli dell'America del sud non facevano cure di sorta. Per tutto l'anno se ne stanno a cielo aperto: ogni otto giorni si radunano perché non si disperdano, si visitano le loro ferite, si puliscono e si spalmano con letame di vacca. Di tanto in tanto, circa ogni tre anni, si tagliano agli stalloni la criniera e la coda. I pascoli sono cattivi: il suolo è coperto di una sola specie di erba. Nella primavera, quest'erba cresce rigogliosamente, ma cagiona allora ai cavalli una diarrea che li indebolisce. Nell'estate e nell'inverno essi si ristabiliscono e s'ingrassano, ma il loro buon essere cessa appena si fa uso di essi. L'inverno per essi è la peggiore stagione: l'erba è appassita e le povere bestie si debbono contentare degli steli disseccati e slavati dalle piogge. Questo esclusivo cibo sveglia in loro il bisogno del sale, e si vedono per ore aggirarsi fra le saline leccandone la salsa terra argillosa. Se nutriti nella scuderia, non hanno bisogno più del sale; inoltre, i cavalli meglio nutriti e mantenuti prendono dopo pochi mesi un pelo breve e lustro, una carne soda e un fiero contegno. Abitualmente i cavalli vivono in coppie in un determinato territorio, al quale si sono avvezzati dalla gioventù. Ad ogni stallone si dànno da 12 a 18 giumente, che esso tiene raccolte e difende contro stalloni estranei. Se gli si dànno troppe giumente, non le protegge più, né si dà pensiero di eventuali ficcanasi. I puledri vivono con la madre sino al terzo o al quarto anno e finché li allatta questa manifesta loro un grande affetto e li difende talvolta persino contro i giaguari. Ha da combattere, poi, anche contro le mule, cui, di quando in quando, salta il grillo dell'amor materno: ciò che le induce a rubare un puledro con astuzia e con forza. Gli presentano bene le mammelle vuote di latte per poppare, ma il povero puledro non tarda naturalmente a morire. Quando i cavalli hanno due o tre anni, si sceglie fra loro uno stallone, gli si affidano giovani cavalle e lo si avvezza a pascolare con esse in un luogo speciale. Gli altri stalloni vengono castrati e riuniti in branchi. I cavalli che appartengono ad un branco non si mischiano mai con quelli d'un altro e stanno così uniti insieme che riesce difficile separare dagli altri un cavallo che pascola. Se sono riuniti con altri, come ad esempio quando si radunano tutti i cavalli di un podere, sanno per bene ritrovarsi dopo. Gli stalloni chiamano nitrendo le cavalle, gli altri si cercano a vicenda, ed ogni drappello torna al suo pascolo abituale. A più di mille cavalli non occorre più d'un quarto d'ora per dividersi in branchi da 10 a 30 individui. I cavalli della medesima mole e dello stesso colore si abituano più facilmente gli uni agli altri che non a quelli che sono diversi.

Nei cavalli selvatici i sensi sembrano più acuti che non in quelli europei. Il loro udito è finissimo: di notte si rivela per il movimento delle orecchie che percepiscono il più lieve fruscìo, meno sensibile al cavaliere. La vista, come in tutti i cavalli, è piuttosto debole, ma la vita libera fa loro acquistare una grande pratica nel discernere gli oggetti a notevole distanza. Per mezzo del loro olfatto, poi, sono in rapporto con quanto li circonda: fiutano tutto ciò che loro sembra estraneo. Con l'olfatto sanno riconoscere il loro cavaliere, la bardatura e la rimessa ove vengono insellati; sanno scoprire nelle località paludose i luoghi dove il suolo regge; nella notte più buia o con la nebbia più fitta sanno con l'olfatto trovare la via al pascolo o alla casa. I buoni cavalli odorano il loro cavaliere nel momento in cui sale, mentre, e sono adombrati dalla vista di qualche oggetto, si calmano più facilmente se li si lascia fiutare l'oggetto del loro spavento.

Il gusto è molto diverso fra essi: alcuni si avvezzano al cibo della scuderia e mangiano ogni sorta di frutta, altri persino muoiono di fame anziché toccare un cibo che non sia l'erba comune. Il tatto è reso ottuso sin dalla gioventù per la loro vita a cielo aperto e per il tormento loro arrecato dalle zanzare e dai tafani.

Il cavallo del Paraguay è generalmente di buona indole, ma spesso viene guastato dal duro trattamento quando lo si doma. Se il cavallo ha raggiunto l'età di 4 o 5 anni, lo si prende, lo si lega a un palo e, a dispetto della sua resistenza, gli si mettono la sella e la briglia. Allora lo si stacca dal palo, ma, al tempo stesso, un domatore, fornito di lunghi ed affilati speroni e d'una rispettabile frusta, gli balza in groppa e tempesta la povera bestia di frustate e di speronate finché sia in tal modo malconcia e stanca da non opporre più alcuna resistenza e da ubbidire al suo cavaliere.

Tali esperimenti si rinnovano di tanto in tanto, e il cavallo si dice domato quando non spicca più salti da montone. E' chiaro che con simili trattamenti molti cavalli si fanno viziosi e cattivi, tirano calci, fanno salti di fianco, s'inalberano sino a precipitare, in una parola cercano di buttar giù il loro cavaliere; con un trattamento più mite, invece, l'animale, anche se prima malmenato, diviene docilissimo e mansueto, si lascia facilmente prendere al pascolo e si sottopone volenterosamente ai più grandi sforzi.

I cavalli ammalati o indeboliti, o che furono feriti da un giaguaro quando ancora erano puledri, sono quasi impossibili da adoperare; i primi non corrispondono alle esigenze degli uomini, gli altri rabbrividiscono dinanzi ad ogni essere vivo. La memoria di quei cavalli è degna d'ammirazione: alcuni che hanno già percorso una lunga via per spostarsi da una località ad un'altra sotto la guida dell'uomo sono capaci di tornare alla loro località primitiva dopo molti mesi e senza guida alcuna. Se nel tempo delle piogge autunnali tutte le strade sono ingombre d'acqua, di pozzanghere, se tutte le fiumane sono straripate, un buon cavallo che abbia già qualche volta percorso quel cammino guiderà sicuramente attraverso tanti pericoli il suo cavaliere, e non di giorno soltanto, ma anche di notte. Se non è eccitato, procede sempre con la maggiore cautela, e tanto più se la località gli è poco nota. Nei tratti paludosi esso fiuta ad ogni passo il suolo e lo scandaglia di continuo con le zampe anteriori. Tale prudenza non significa difetto di coraggio, perché il cavallo del Paraguay è molto animoso e, guidato da un robusto cavaliere, si precipita senza debolezza in mezzo al pericolo. Va incontro al giaguaro, balza nei fiumi dall'alto di una ripida sponda e attraversa in pieno galoppo la linea di fuoco delle steppe incendiate.

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In compenso, tali cavalli sono soggetti a poche malattie: ben nutriti e non oltremodo sforzati, raggiungono un'età inoltrata come i cavalli europei; ma poiché, generalmente, non vengono loro somministrati né buon cibo né buon trattamento, un cavallo di 12 anni passa qui per vecchio. Gli abitanti del Paraguay, d'altronde, non stimano i cavalli come facciamo noi: li tengono specialmente per la riproduzione e si servono unicamente di quelli castrati. Tuttavia non si trova in nessun paese maggiore abbondanza che nel Paraguay di gente cavalcante. Il cavallo serve ad appagare l'innata indolenza del suo padrone, mentre questi sbriga comodamente a cavallo cento piccole faccende che terminerebbe più sollecitamente a piedi. «Che sarebbe l'uomo senza cavallo?» è stata l'esclamazione abituale dei paraguanesi per molti secoli; naturalmente, oggi anche gli abitanti del Paraguay hanno preso l'abitudine di servirsi dei «cavalli a motore», sebbene il cavallo con quattro zampe, quello vero, sia sempre diffusissimo e tutt'altro che trascurato.

Quando, nell'estate, sotto gli ardenti raggi perpendicolari del sole, cui non mai una nube fa velo, il tappeto erboso di quelle sconfinate distese si carbonizza interamente e si fa polvere, il suolo si spacca, quasi lacerato da violento terremoto. Avvolti in dense nuvole di polvere, tormentati dalla fame e dalla sete ardente, i cavalli ed i buoi s'aggirano, i primi con il collo allungato, aspirando avidamente il vento nella speranza di riconoscere nelle emanazioni umide dell'aria la vicinanza di qualche pantano che non sia del tutto svaporato. I muli più sospettosi, più scaltri, cercano in altro modo di calmare la loro sete; una pianta a foggia di palla e con numerose costole, il melone cactus, racchiude un midollo acquoso sotto l'involucro spinoso: con le zampe anteriori il mulo schiaccia lateralmente gli aculei per bere il fresco sugo della pianta. Ma non è senza pericolo l'usare di quella vivente sorgente vegetale: spesso, si vedono animali resi zoppi per le spine del cactus. Giunta infine, dopo lunga siccità, la benefica stagione delle piogge, la scena cambia. Appena è inumidita la superficie della terra, la steppa si riveste del più magnifico verde: cavalli e buoi pascolano e godono allegramente la vita. Nell'erba già alta si nasconde pure il giaguaro e con balzo sicuro esso azzanna cavalli e puledri. Presto gonfiano i fiumi, e quegli animali che languiscono di sete una parte dell'anno debbono allora farla da anfibi.

Le cavalle traggono con sé i puledri sui luoghi più alti che sporgono come isole sulla superficie del mare: ogni giorno si restringe sempre più lo spazio asciutto.

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Le bestie, molestate dallo scemare del pascolo, nuotano per lunghe ore attorno e si nutrono scarsamente delle pannocchie fiorite nell'erba che s'innalzano al di sopra delle torbide acque in fermento. Molti puledri affogano, molti sono preda dei coccodrilli che li schiacciano a colpi di coda e li inghiottono. Non di rado s'incontrano cavalli che portano alla coscia grandi cicatrici: i segni dei denti dei coccodrilli. Anche fra i pesci essi hanno nemici pericolosi; le acque paludose sono piene d'innumerevoli anguille elettriche. Questi voluminosi pesci sono abbastanza forti per uccidere gli animali più grossi con un potente colpo, se scaricano le loro batterie in una direzione favorevole.

I cavalli portano fra loro un nemico assai pericoloso e ancora del tutto sconosciuto. I mustangs delle praterie sono, talvolta, colpiti da uno spavento molto più grande di quello che si impadronisce dei cavalli selvatici che s'aggirano nell'America del sud. A centinaia, a migliaia si precipitano avanti, non si lasciano trattenere da nessun ostacolo e, fuori di sé, vanno a cozzare contro le rupi o precipitano negli abissi. Un brivido scuote l'uomo, testimone causale di tale spaventevole rotta: persino il flemmatico indiano ha pieno di terrore il coraggioso suo cuore. Un rumore, sempre crescente e che supera quello del rombo del tuono, dello scatenarsi della bufera, dell'infuriare dell'incendio, annunzia ed accompagna il passaggio dell'esercito tempestoso dei cavalli spaventati. D'un tratto compaiono nell'accampamento, si precipitano sulle tende e sui carri, mettono un terrore mortale nelle bestie da soma, cui comunicano il loro furore e che trascinano nel loro vivo torrente; e per sempre.

Più verso nord gli indiani aumentano il numero dei nemici che insidiano la vita dei cavalli selvatici. Essi li prendono per servirsene nelle loro cacce e, se non ammazzano e divorano le povere creature, le tormentano, in tal modo che in breve il cavallo più animoso deve soccombere. Come fra i beduini del Sahara, così pure fra gli indiani il cavallo è spesso causa delle lotte più sanguinose: chi non ha cavalli cerca di rubarne. Il furto d'un cavallo passa fra i pellirossa per un fatto onorevole: interi drappelli seguono spesso per settimane e mesi le piste di un'altra tribù o d'una carovana finché non trovino l'opportunità di rubare tutti i cavalli.

Anche i cavalli dell'America sono accanitamente inseguiti per la pelle e la carne tanto che durante le guerre di secessione si videro le truppe cibarsi, durante le loro lunghe e faticose marce, di branchi di cavalli.

I cavalli delle steppe asiatiche che sono sottomessi all'uomo non hanno una vita degna d'invidia. Abbiamo dato uno sguardo al cavallo veramente selvatico; ora vediamo quale sia la sorte dei cavalli dei tartari, dei kirghisi, degli jakuti e dei tonghesi, che press'a poco hanno lo stesso destino.
«Il cavallo» dice Schlatter «è l'animale prediletto dei tartari. Lo si usa più alla sella che non al tiro. La sua carne è per il tartaro la vivanda più squisita, il latte della cavalla è per lui la bevanda più gradevole; dalla pelle si taglia correggie per le briglie e le bardature, la pelle del puledro gli serve per fare calzoni e abiti per bambini; i peli della coda e della criniera servono per i lavori in maglia. Ma soltanto pochi cavalli, quelli che sono necessari per cavalcare, vengono tenuti a casa e nutriti di fieno e d'orzo; il maggior numero vive estate ed inverno in branchi nelle steppe e deve cercarsi il cibo sotto la neve.

Spesso si vedono insieme da 1000 a 2000 cavalli in contegno libero ed altero e che non furono mai umiliati o domati dall'uomo. Quando imperversa la tempesta, la neve o la bufera, quei branchi si sbaragliano e richiedono interi giorni per ricostituirsi. Ma i tartari sanno che i cavalli vanno sempre contro il vento e possono, quindi, determinare la direzione nella quale hanno da cercare il bestiame».

Solo raramente i cavalli sono governati da pastori: quando lo sono, vengono condotti una volta ogni 24 ore a bere al villaggio; e si approfitta di ciò per mungere in pari tempo le cavalle. Un ragazzetto basta per guidare un numeroso branco, perché i cavalli, quando riconoscono che si tratta di bere, si mettono insieme come pecore. Durante il più grande calore del giorno non mangiano, ma stanno in circolo con le teste volte tutte all'indietro e fitti fitti per procurarsi un po' d'ombra e di fresco, agitando tutti le lunghe code. Se comincia a soffiare un venticello, si sparpagliano subito e se ne vanno per la steppa, a ritroso del vento, alzando la testa per godere il più possibile il passaggio dell'aria. Ogni stallone ha ordinariamente il suo branco di giumente; spesso uno stallone tenta di rapire una giumenta ad un altro e ne seguono sanguinosi duelli. Combattono all'ultimo sangue ritti come orsi sulle gambe posteriori, si mordono furiosamente, poi si rimettono giù, si volgono e si assestano tali calci da far credere che tutte le ossa ne siano ammaccate.

Le cavalle che pascolano d'estate e d'inverno sulla steppa si lasciano facilmente mungere, se hanno con sé i figli. Quando il branco viene a bere nel villaggio, i puledri sono tratti fuori del branco mediante una lunga pertica alla quale è fissato un nodo scorsoio. I puledri legati stanno parecchie ore agitatissimi, mentre tutto il branco si accomoda tranquillamente intorno ad essi. Quando il latte è accumulato nelle cavalle, l'una dopo l'altra vengono levate dal branco, nel medesimo modo dei puledri e condotte ai figli, presso i quali si lasciano mungere dopo che questi hanno poppato la loro parte. Uomini e donne sbrigano questa faccenda con uguale abilità, dopo di che il branco viene ricondotto nella steppa. Il latte non è mai bevuto fresco, lo si lascia congelare e fermentare, ed allora diventa il kumis, bevanda forte ed inebriante, che per il tartaro è quello che per noi è il vino.

Se il tartaro vuole ammaestrare un cavallo adulto a portare un cavaliere, comincia a pigliarlo con il lungo laccio; poi vengono parecchi ausiliari che cercano di gettarlo a terra allacciandogli le gambe. Mentre giace ed è saldamente tenuto, gli si passa la briglia e si mette la catena. Così incatenato si permette all'animale di alzarsi, ma lo si tiene saldo per l'orecchio e gli si affibbiano allora nella groppa la sella e la cinghia. La parte di dietro della sella, divisa per mezzo della cinghia, viene ripiegata su quella anteriore; il tartaro siede sulla parte nuda del cavallo, dietro quell'arnese che lo difende contro un balzo in avanti nelle corse; si arma dello staffile o kantschuh, e quindi, tolte le corregge, il cavaliere abbandona a sé il cavallo selvaggio, rimettendogli tutta la briglia e accontentandosi di tenersi saldo. Un compagno, cavalcando a lato, impedisce con frustate le soste e i salti laterali dell'inesperto animale che parte di gran carriera, sempre avanti, dovunque si volga. Quando, infine, è spossato e disposto a cedere, il cavaliere cerca soltanto di guidarlo verso il villaggio dove gli si rimette senza fatica la correggia e si allaccia alla cinghia la briglia in modo che possa fare bene piccoli passi, ma non chinare la testa al suolo e quindi mangiare alcunché: tutt'al più gli si dànno due manciate di fieno. Così il cavallo rimane tutta la notte; al mattino seguente lo si abbevera e si rinnova l'esperimento del giorno precedente con la bardatura completa. Bastano due giorni per domarlo con la fame e con la stanchezza, dopo di che l'animale è mansueto come un agnellino.
Per i lunghi viaggi non vengono legati gli uni agli altri, ma spinti liberamente avanti. Se durante il percorso si presentano fiumi, i cavalli nuotano magistralmente e passano da una sponda all'altra senza fatica.

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Il tartaro adopera il suo cavallo in ogni modo possibile: gli fa portare sé e la casa nella sua vita nomade; gli fa trebbiare il suo grano, se ne serve per la caccia e perseguita la selvaggina finché non caschi spossato al suolo e venga ucciso a percosse. Il pelo e il cuoio sono adoperati per gli usi più diversi. Carne, grasso, intestini, servono per nutrimento, e la carne di cavallo è quella che il tartaro preferisce. Generalmente, si mangiano soltanto gli animali ammalati e sfiniti, che i tartari comprano persino nei mercati russi. Ma anche in Europa i cavalli non sono dappertutto animali domestici, secondo il nostro modo di vedere. In molte contrade ancora oggi si abbandonano a sé stessi per la maggior parte dell'anno. Così le mandrie pascolano nella Russia meridionale quasi senza nessuna sorveglianza da parte degli uomini.

Rispetto al nutrimento i cavalli non sono male avvezzi in tutto il nord. C'è da stupire quando si vedono i piccoli animali, vivaci e docili, mangiare di buon gusto gli intrecci che pendono in tutti i boschi dai rami delle conifere; ma stupisce ancora di più vedere che per quei cavalli è un oggetto sommamente gradito l'ordigno sul quale sono disseccati i pesci. Come tutti gli animali domestici del nord, i cavalli sono spesso alimentati durante l'inverno con un miscuglio di teste di pesci triturate e cotte e di alghe, oppure con sole teste di pesce e si avvezzano tanto bene ad un'alimentazione così poco naturale che, se non sono osservati, derubano i pescatori, staccando dagli ordigni, cui sono appesi, i merluzzi che mangiano con molta avidità.

Poche popolazioni onorano il cavallo come merita di essere onorato. Gli arabi, i turchi e i persiani sono i più progrediti a tal riguardo; dopo di essi vengono gli spagnoli, poi i francesi, gli italiani, i portoghesi, i danesi e i tedeschi. Agli occhi degli arabi il cavallo è l'animale più perfetto: non solo è pressoché uguale all'uomo, ma sovente gode una venerazione maggiore di questo. Presso un popolo che vive disperso sopra un'ampia estensione, che si affeziona assai meno di noi alla zolla, e del quale l'occupazione principale è l'allevamento del bestiame, il cavallo deve necessariamente godere la più alta stima, anzi venerazione.

Naturalmente, in questi ultimi decenni le cose sono molto cambiate per i cavalli, perché prima le guerre si sono incaricate di decimarli ed ora l'invadenza delle macchine industriali e di quelle agricole sta facendo il resto, dal momento che l'uomo trova più conveniente servirsi di un arnese, che va messo in moto con un po' di nafta e che tira o produce più che il cavallo, il quale ha bisogno di mangiare anche quando non lavora, e che, in ogni caso, non ha la potenza di una macchina a motore e rende, di conseguenza, assai meno di questa.

CAVALLO ARABO (Equus caballus)

Gli arabi sono così compresi dell'eccellenza del loro cavallo, del senso di piacere a cavalcare sopra quella nobile bestia che posseggono centinaia di canzoni e di proverbi che esprimono tale loro convinzione. Basta un solo esempio per illustrare il nostro asserto: «Il paradiso della terra si trova sulla groppa del cavallo, nei libri della sapienza, e nel cuore della donna». Il cavallo ha, come si vede, il primo posto. Il nobile Cavallo arabo è ben conformato, con orecchie brevi e mobili, ossa robuste eppure eleganti, faccia scarnita, narici larghe come le fauci del leone, begli occhi, scuri, sporgenti «simili in espressione a quelli della donna innamorata», collo lungo e ricurvo, petto largo e larga groppa, dorso stretto, cosce tondeggianti, costole vere lunghissime, brevissime quelle false, corpo raccolto, lunghi femori come quelli dello struzzo, con muscoli come li ha il cammello, unghia nera uniforme, criniera fina e scarsa, coda folta, grossa alla radice, assottigliantesi all'apice. Il Cavallo arabo deve possedere quattro cose larghe: la fronte, il petto, le anche e le membra; quattro lunghe: il collo, i femori, il ventre e i lombi; quattro brevi: la groppa, le orecchie, il piede e la coda. Tali qualità indicano, a parere degli arabi, che il cavallo è di buona razza e veloce; perché allora somiglia, nella sua struttura, al veltro, alla colomba e al cammello.

La cavalla deve avere il coraggio e la larghezza di testa del cinghiale; la grazia, l'occhio e la bocca della gazzella; l'allegria e la prudenza dell'antilope; la struttura compressa e la velocità dello struzzo; la coda breve della vipera. Ma da altri segni ancora si riconosce un cavallo di razza; mangia soltanto la solita dose di fieno; gli piacciono gli alberi, il verde, l'ombra, l'acqua corrente, ed è in così alto grado che irrompe in nitriti al solo scorgere tali oggetti. Non beve prima di aver agitato l'acqua, sia con il piede, sia con il muso; le sue labbra sono sempre chiuse, gli occhi e le orecchie sempre in moto; getta il suo collo a destra o a sinistra come se volesse pregare o parlare di qualche cosa. Inoltre, si afferma che non si accoppia mai con uno dei suoi parenti. I nomi dei cavalli di razza hanno spesso i più strani significati e un dicitore di leggende è sempre necessario per chiarire tali significati. Tutti gli arabi sono fermamente persuasi che i nobili cavalli sono da migliaia di anni mantenuti ad un grado uguale di perfezione nella loro razza e vegliano gelosamente al loro allevamento per conservare sempre la purezza del sangue. Gli stalloni di buona razza sono assai ricercati, e i padroni delle cavalle fanno centinaia di miglia per prendersene uno. Quale offerta, in contraccambio, il padrone dello stallone riceve una certa quantità di orzo, una pecora e un otre pieno di latte. Accettare denaro sarebbe vergognoso: chi facesse ciò, sarebbe esposto a sentirsi chiamato «trafficante dell'amore del cavallo». Un arabo degno di questo nome ha diritto di negare il suo stallone soltanto se suppone che si voglia adoperarlo per una giumenta comune. Ma gli arabi sono tanto conoscitori che tal caso si presenta raramente. Durante il tempo della gestazione la cavalla è trattata con molta cura, per quanto possa riposare soltanto le ultime settimane. Al parto sono presenti alcuni testimoni che attestino la autenticità del puledro, il quale viene allevato con particolare cura e considerato sin dall'infanzia come un membro della famiglia; per questo i cavalli arabi sono diventati animali familiari come i cani e possono venir tollerati senza nessun timore nella tenda del padrone e nella stanza dei fanciulli.

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Con il diciottesimo mese ha inizio l'educazione della nobile creatura, la quale viene portata avanti sino al suo compiuto sviluppo. Dapprima, un ragazzo si esercita a cavalcare: conduce il cavallo all'abbeveratoio, al pascolo, lo striglia e provvede a tutti i suoi bisogni.

Ambedue imparano, nello stesso tempo, l'uno a cavalcare, l'altro ad essere cavalcato; ma non mai il giovane arabo abusa del puledro affidatogli, non mai gli impone cose che non possa compiere.

L'ammaestramento comincia all'aperto e continua sotto la tenda: si veglia sopra ogni movimento dell'animale, lo si tratta con ogni amorevolezza, ogni possibile tenerezza, ma non si tollerano da esso né resistenza né capricci.

Quando ha oltrepassato il secondo anno di vita, gli si mette la sella con la massima cautela.

Il morso è, all'inizio, bene avvolto di lana, inzuppata d'acqua salsa per avvezzare più facilmente il cavallo a tollerarsi in bocca quello sgradevole ferro; la prima sella è leggera quanto più è possibile.

Dopo il corso del terzo anno gli si impone qualcosa di più: viene avvezzato a fare uso di tutte le sue forze, ma non lo si lascia mancar di nulla rispetto al cibo.

Quando ha raggiunto il settimo anno lo si guarda come allevato, d'onde il proverbio arabo: «Sette anni per il mio fratello, sette anni per me, sette anni per il mio nemico».

In nessun luogo come nell'immenso deserto è apprezzata la potenza dell'ammaestramento. «Il cavaliere forma il suo cavallo come il marito sua moglie», dicono gli arabi.

A seconda della sua bellezza il cavallo riceve vari nomi, e tutti hanno qualche significato. Spesso sono gli stessi che si dànno alla donna amata; così la cavalla viene chiamata: Aarufa (sposina), Luli (perla), Morgiana (corallo), Ghasahl (gazzella), Naama (struzza), Satima (benedetta), Saaba, Rabaa, Masanuda (felice), Mahmuda (lodata), e via dicendo. Lo stallone riceve il medesimo onore della cavalla, ma soltanto è molto nobile.

E' incredibile ciò che può fare un cavallo bene educato. Capita che il cavaliere gli faccia percorrere ogni giorno, per cinque o sei giorni di seguito, distanze di 70, 90, 100 chilometri.

Se all'animale viene concesso, dopo, un riposo di due giorni, è in grado di percorrere il medesimo cammino per la seconda volta nello stesso tempo. Generalmente, i viaggi che intraprendono gli arabi non sono tanto lunghi, ma si percorrono in un giorno distese anche maggiori con il cavallo piuttosto gravemente carico.

L'arabo stima che un buon cavallo deve portare, oltre a un uomo adulto, le sue armi, il tappeto per dormire e riposare, gli alimenti per l'uomo e la bestia, una bandiera, anche se il vento fosse contrario, ed in caso di bisogno deve correre per tutto il giorno senza mangiare o bere.

Gli arabi distinguono un gran numero di razze di cavalli ed ogni località celebra i propri.

E' cosa ben nota che il Cavallo arabo giunge al suo perfetto sviluppo nel solo luogo dove è nato; perciò i cavalli del Sahara occidentale, più distinti, rimangono sempre molto indietro a quelli che nacquero e furono allevati nella felice Arabia.

Gli è che soltanto colà si trovano i veri Kobbeeli o Kohelhani, i perfetti, quei cavalli che scendono in linea retta dalla giumenta che portava Maometto.

Seppure nutriamo qualche dubbio rispetto all'esattezza dell'albero genealogico, tuttavia è certo che il venerabile Profeta dovette avere durante la sua vita eccellenti cavalli, e si può da questo raffronto farsi un giusto criterio della bontà di quelle nobili bestie; ciò che è fuori d'ogni dubbio è la vigilanza con la quale gli arabi badano a conservare la purezza delle razze equine.

L'accoppiamento d'una cavalla ha sempre luogo in presenza di testimoni che sono egualmente convocati quando il puledro viene alla luce.

Gli arabi abusano, come abbiamo detto, delle forze del loro cavallo, ma lo trattano con infinito amore.

Dalla sua infanzia l'animale non riceve né una cattiva parola né una percossa. Viene allevato con somma pazienza, con grandissima tenerezza e divide con il padrone gioie e dolori, tenda e giaciglio.

Non è mai necessaria la frusta, basta una lieve spronata, una parola del padrone per spingerlo avanti. L'uomo e l'animale si affratellano nel modo più intimo, e tanto l'uno che l'altro si sentono oppressi, se manca il fedele compagno.

Più d'una volta è avvenuto che il cavallo riportasse nella tenda il cadavere di un cavaliere caduto in battaglia, quasi sentisse di non dover lasciare in preda allo scherno del nemico il guerriero caduto.

Grandi al pari delle amabili qualità d'indole sono la temperanza e la frugalità del Cavallo arabo rispetto al cibo. Contento di poco, è in grado di sopportare i maggiori strapazzi con scarso cibo.

Non c'è da meravigliare che un tale animale sia celebrato da cento poeti, che sia l'oggetto esclusivo dei discorsi degli uomini al bivacco, che venga stimato l'orgoglio, la gemma più cara degli arabi!

Si conoscono una quantità di storie che provano quanto riesca difficile al figlio del deserto il separarsi dal suo cavallo.

E' certo che l'abbagliante fascino dell'oro, così potente sempre sull'arabo, non è tanto forte da cancellare l'affetto per il suo cavallo.

Quanto più eletto è il destriero, tanto più caro è alla fortunata famiglia che lo possiede.

Persino il cavallo più semplice, quando deve essere venduto dal padrone, è contrattato per lunghe ore, perché il padrone invidia già anticipatamente il fortunato uomo che gli strappa un tanto tesoro.

E' veramente dilettevole udire le iperboliche lodi prodigate al nobile cavallo. «Non dirmi che quest'animale è il mio cavallo, di' che è il figlio mio! Corre più veloce della bufera, più veloce dello sguardo che spazia nella pianura. Supera la gazzella nella corsa. All'aquila dice: sono rapido come te! Se ode il grido allegro della fanciulla, nitrisce di gioia, e il suo cuore si gonfia al fischiare della bella. Mendica il boccone dalla mano della donna, al nemico sbatte lo zoccolo sul viso. Se può correre secondo il desiderio del suo cuore, le lacrime sgorgano dai suoi occhi. Poco gli importa che il cielo sia scuro o che la bufera oscuri la luce del sole con nubi di polvere; è un nobile destriero che disprezza il furore della tempesta. In questo mondo non esiste chi gli possa somigliare. Leggero come una rondine esso s'affretta; è così leggero che potrebbe danzare sul seno della tua amata senza darle molestia. Il suo passo è così dolce che, mentr'esso corre, puoi bere una tazza di caffè senza perderne una goccia. Tutto esso capisce, come un figlio d'Adamo: solo la parola gli manca».

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CAVALLO INGLESE (Equus caballus)

Il cavallo da corsa è tenuto, in generale, per il migliore dei cavalli inglesi. Esso si distingue per il corpo allungato e le sottili gambe. Il suo proavo, il cavallo arabo è l'unico che gli stia a pari. In Inghilterra, via via da oltre tre secoli, si è creata una vera e propria scienza dell'allevamento, del trattamento e della formazione di un cavallo da corsa, e questa scienza viene coltivata con sommo zelo dall'aristocrazia o grossa borghesia del Paese.

I tentativi per il miglioramento delle razze hanno dimostrato che la mole, la conformazione, l'indole e la disposizione che appartengono ad una razza sono ereditarie, e che l'educazione e le relazioni esterne hanno una minima azione. Inoltre, si è osservato che ogni puledro somiglia nella sua conformazione più alla madre che non al padre, ma che ha di questo la forma della testa e dei piedi, l'indole e la velocità. I difetti si trasmettono facilmente dai genitori ai figli, e la loro estirpazione esige una costante attenzione. Non si deve mai accoppiare una razza privilegiata con altre specie che non posseggano le qualità desiderate. Già da secoli gli arabi conoscevano tali particolari e gli inglesi furono da essi condotti a prendere le medesime misure per il buon allevamento dei bravi cavalli da corsa. Oggi gli inglesi sono più scrupolosi degli arabi, in fatto di allevamento, ed in Inghilterra si trovano addirittura alberi genealogici tenuti con la massima esattezza e degni della più cieca fede.

Sarebbe andare troppo per le lunghe, in questa sede, presentare le tante glorie raggiunte negli ippodromi dai cavalli da corsa inglesi, a partire dal mai abbastanza celebrato Eclipse, che furoreggiò verso il 1789, fino ai tanti altri dei giorni nostri, ma ci limitiamo a dire che l'allevamento dei buoni cavalli è, per gli inglesi, ciò che sono per gli italiani della Riviera Ligure la coltivazione e la creazione di sempre nuovi e bei fiori.

CAVALLO NUDO (Equus caballus)

E' quello che somiglia di più al cavallo arabo, almeno per la forma esterna. E' ben fatto, di media mole, ma ad eccezione di alcuni rari peli, appena visibili, che spuntano isolati qua e là, esso è perfettamente nudo. Gli fanno difetto persino la coda e la criniera, giacché non può chiamarsi coda di cavallo la riunione di dieci o dodici peli, duri e ruvidi e lunghi pochi centimetri, che si trovano all'estremità del moncone, il quale rappresenta la coda. La pelle liscia, sericea, molle, untuosa è bigio scura o bruniccio-nera.

Esatte osservazioni hanno dimostrato che né malattie né falsificazione da parte del proprietario sono la causa di tale nudità. Come animale domestico questo notevole essere non è assolutamente raccomandabile, perché la sua pelle è così sensibile che si piaga anche con la bardatura meglio scelta.

CAVALLO ROBUSTO (Equus caballus)

Questa specie e le razze comprese col nome di Cavallo Robusto si trovano nell'Europa centrale.

Oggi il cavallo domestico è diffuso, nonostante gli enormi progressi della tecnica industriale ed agricola, pressoché sopra tutto il globo. Manca soltanto nelle regioni polari e in molte isole, dove l'uomo non ha avuto ancora bisogno di esso. Come già abbiamo visto, il suo cibo è diverso a seconda delle località che abita. Il suo nutrimento naturale sono i vegetali di varie specie ed i chicchi di alcune sorte di cereali, come l'avena. Lo si alleva allo stato selvatico, semiselvatico e finalmente domestico. Nel primo stato i cavalli si aggirano tutto l'anno in balìa di sé stessi. Questi sono resistenti, robusti e sobri, ma non diventano mai tanto belli come quelli che sono nati, allevati e governati dall'uomo. Le razze semi-selvatiche sono quelle i cui cavalli pascolano dalla primavera all'autunno nei boschi e nei piani aperti, e d'inverno vengono ricoverati in stalle, come accade in Norvegia. Alla fine le razze domestiche sono sottomesse alla più severa sorveglianza dell'uomo.

I buoni stalloni sono la condizione indispensabile del miglioramento delle razze equine. Ancora oggi gli stalloni sono molto ricercati; essi migliorano tutte le razze. Il tempo dell'accoppiamento ricorre, per il cavallo, dalla fine di marzo all'inizio di giugno. Le cavalle di tre anni sono atte alla riproduzione lo stallone non è buono prima del quarto anno. Al suo settimo anno basta per un numero variabile da cinquanta a cento cavalle. Queste partoriscono, da dieci mesi e mezzo a dodici mesi dopo l'accoppiamento, un solo puledro che nasce con i peli e con gli occhi aperti, ed è in grado in pochi minuti di stare in piedi e di camminare. Lo si lascia poppare per circa cinque mesi, giuocare, scorrazzare; quindi, lo si allontana dalla madre dopo avergli insegnato un poco alla volta a mangiare da sé. Nel primo anno è rivestito di un pelame lanoso, ha la criniera e la coda brevi, ritte, increspate; nel secondo anno i peli si fanno più lisci, più lunghi e la coda e la criniera distese. Più tardi, si riconosce molto esattamente l'età dai denti incisivi. Dagli otto ai quattordici giorni dopo la nascita spuntano sotto e sopra i due denti di mezzo o picozzi: due o tre settimane dopo spunta di nuovo un dente da ogni lato degli stessi; questi sono i cosiddetti denti mezzani. Dopo cinque o sei mesi appaiono gli incisivi più esterni o cantani, e con questi è compiuta la dentizione del puledro con i denti caduchi o lattaiuoli, brevi, lisci, lucenti, di un bianco-latte. Caduti questi, l'animale mette i denti dell'adulto, detti permanenti. All'età di due anni e mezzo i picozzi cadono e lasciano il posto ad altri nuovi; un anno dopo si cambiano i denti mezzani, e nell'anno seguente i cantani. Dopo questo spuntano i canini, in segno che lo sviluppo dell'animale è compiuto. Dopo il quinto anno l'età del cavallo si riconosce dall'esame delle tavole trituranti, dette germi di fava, nei denti. Sono questi piccoli scavi grossi come una lenticchia, bruno-nerastri, che si trovano nel centro dei denti dei cavalli. Si appianano nei picozzi della mandibola inferiore all'età variabile da cinque a sei anni; nel settimo anno nei denti mezzani; nell'ottavo nei cantani; all'età di undici o dodici anni tutti gli incavi sono appianati. Con l'età crescente si modifica anche a poco a poco la forma dei denti; diventano più stretti, invecchiando. In alcuni cavalli i germi di fava non si cancellano mai, perché gli incisivi superiori non passano sugli altri.

I cavalli rinnovano solo il pelo fino e breve durante la primavera; mentre il pelo invernale, più lungo, cade così rapidamente a quel tempo che nello spazio di un mese la cosa è fatta.

Disgraziatamente il nobile animale è soggetto a molte infermità, e spesso morbi epidemici operano sopra lo stato dei cavalli, in date località, in modo terribile. Le malattie più gravi sono lo spavento, l'enfiagione e più tardi l'indurimento dell'articolazione dell'astragalo; il farcino, infiammazione delle ghiandole della mascella inferiore; la rogna, espulsione cutanea secca oppure umida, che fa cascare i peli; la morva, forte infiammazione del setto delle narici, la quale è molto contagiosa e si comunica all'uomo; il capostorno, infiammazione cerebrale; la cataratta o la amaurosi, incurabili l'una e l'altra, e parecchie altre ancora. Negli intestini e nel naso abitano le larve degli estri; nei reni gli strangili; negli occhi le filarie; sulla pelle ippobosche ed acari.

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Il cavallo può giungere all'età di quarant'anni, ma generalmente viene tanto strapazzato da essere spesso vecchio a vent'anni. Quanto alle qualità, agli abiti, ai costumi, alle particolarità del cavallo, insomma al suo essere intellettuale, lasciamo la parola a Scheitlin.

«Il cavallo», dice egli, «possiede facoltà di discernimento per il cibo, la dimora, il luogo, il tempo, la luce, il colore, la forma, la sua famiglia, i vicini, gli amici, i nemici, i compagni, gli uomini e le cose. Esso è dotato di perspicacia, di immaginazione, di memoria, di potenza di ricordare, di fantasia, di molta capacità sensitiva per un pari numero di cose materiali e immateriali. Esso si sente bene o male in tutte le circostanze; è capace di soddisfazione in quanto allo stato in cui si trova, o di desiderio rispetto ad un altro; può venir mosso da passione, da amore o da cordiale odio. La sua intelligenza è grande e capace di sviluppo, perché è sommamente educabile.

Molti sono gli animali che hanno vista e udito migliori del cavallo; esso non ha neppure grandemente fini l'olfatto e il gusto, e il suo tatto è solo sviluppato alle labbra. La sua perspicacia è somma rispetto agli oggetti che lo circondano, cosicché li riconosce tutti esattamente ed accoppia a questo un'eccellente memoria. Noi sappiamo quanto sia atto a riconoscere un luogo, una stalla, un sentiero, un cammino, e la certezza con la quale ritrova una strada che abbia percorso anche una volta sola. Assai meglio di chi lo guida riconosce la sua via. Certo di sé, resiste quasi cocciutamente al suo conduttore ad un crocicchio dove questi sbagli strada. Cocchiere e cavaliere possono dormire tranquilli e, nell'oscurità più fitta, lasciare al cavallo la scelta del cammino. Questa scelta è stata sovente un gran bene per i cocchieri ubriachi e ha salvato a migliaia di uomini la vita e gli averi. Come riconosce presto la locanda dove è stato una volta, e come si incoccia a volerci di bel nuovo far sosta! Pare che s'immagini che il suo conduttore o cavaliere non riconosca la locanda così bene come lui; pare che lo voglia avvertire che sta sbagliando! Ma, una volta oltrepassato l'albergo, seguita allegramente la sua corsa. Sembra che si renda conto e rifletta che il suo conduttore in fin dei conti non aveva torto nel non volersi fermare colà. Eppure non è dall'insegna che riconosce la locanda, perché passa con indifferenza davanti a quelle dove non è mai stato. Dopo lunghi anni riconosce subito il suo antico padrone, gli corre incontro, nitrisce, lo lambisce e gli dimostra una vera gioia che non sa come abbastanza esprimere. S'accorge subito se porta sulla groppa un uomo diverso da quello solito, e, talvolta, sbircia di dietro per accertarsene perfettamente. Trotta dalla stalla all'abbeveratoio, alla carrozza, si lascia porre e togliere la bardatura, segue il palafreniere come un cane e da sé solo torna alla stalla. Squadra con piglio pensoso un altro palafreniere, oppure un altro cavallo, e ciò facendo ha l'aspetto di una vacca che guardi la nuova stalla. Tutto quello che per esso è nuovo lo commuove assai, come una nuova carrozza, una nuova vettura, che entrambe sono per esso una cosa veramente importante. Il suo dono d'osservazione, la sua memoria, la sua docilità rendono possibile l'insegnargli tutto ciò che possono fare l'elefante, l'asino e il cane. Esso sa sciogliere gli enigmi, rispondere alle domande, dire sì e no con movimenti della testa, battere con il piede il numero delle ore, e via dicendo. Osserva i movimenti delle mani e dei piedi del maestro, capisce il significato dei movimenti della frusta ed il senso delle parole per modo che ha già in mente un piccolo dizionario. Al comando, si finge ammalato, rimane immobile con le gambe larghe e il capo penzoloni, lo dondola mestamente e debolmente, si accoscia lentamente, piomba a terra, giace come inanimato, lascia che gli si sieda sopra, che gli si butti le gambe una sull'altra che gli si tiri la coda e che si pianti il dito nelle sue tanto sensitive orecchie; ma a certa minacciosa parola, ecco che si drizza, e di nuovo si atteggia ad animale vispo ed allegro: ha perfettamente compreso il comando. Quanto tempo si deve spendere per insegnargli a balzare attraverso due grandi cerchi, assai distanti l'uno dall'altro, e che gli si affacciano con la loro intelaiatura di carta come un muro bianco? Chi non contempla con grande piacere gli esercizi equestri? Non è l'uomo, bensì il cavallo che si deve ammirare di più. Non c'è da meravigliarsi che l'uomo possa e voglia insegnare, ma che il cavallo possa imparare. Davvero non si deve chiedere: che cosa può esso imparare? ma: che cosa non impara? Chi vuole insegnare ad un cavallo qualche cosa di umano, deve, dapprima, almeno trattarlo umanamente, cioè non usare né bastonate, né minacce, né fame, bensì soltanto buone parole, e trattare la bestia come un uomo intelligente e buono tratta un uomo buono e intelligente. Quel che ha effetto sull'uomo, lo ha pure sul cavallo. Se, ad esempio, esso non vuole lasciarsi sollevare il piede, bisogna accarezzarlo, accarezzare il piede, dirgli qualche buona parola, rimproverare la sua impazienza, la sua disubbidienza e presentargli dell'avena per distrarlo; se mangia, si tenta di sollevare il piede, e ciò non riuscendo si ritira l'avena; se la segue con l'occhio, gliela si presenta di nuovo, si tenta ancora con il piede, e così di seguito. In questo modo si viene a capo di ogni cavallo che non sia stato dapprima né maltrattato né male educato. Di solito, i cavalli sono dei veri bambini nel bene come nel male.

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Oltre alla memoria delle località, il cavallo ha anche il senso del tempo. Esso impara a camminare, a trottare, a galoppare e a ballare a tempo di battuta. Grosso modo conosce anche le divisioni del tempo; sa quando è mattino, pomeriggio o sera. Possiede persino il senso dei suoni, e come il guerriero ama il suono della tromba. Allegramente scalpita con il piede anteriore quando questa risuona per invitarlo a correre nella lizza o nella battaglia; conosce anche e capisce il tamburo, e tutti quei suoni che sono in accordo con il suo coraggio e con il suo timore. Il rombo del cannone gli è noto, ma poco gradito quando vede in battaglia i suoi compagni uccisi. Anche il rombo del tuono gli dispiace, come pure il temporale.

Il cavallo è assai accessibile al timore e in ciò si avvicina all'uomo; rabbrividisce all'udire un insolito suono, al vedere una cosa che non gli sia abituale, come una bandiera che sventoli, una camicia, qualche cosa di appeso alla finestra. Osserva cautamente il suolo dove sono pietre, cautamente cammina nel ruscello e nel fiume. Caduto in una grande fossa, un cavallo che ne venne tirato su era tutto spaventato; un altro, precipitato in una fossa di calce, si lasciò volenterosamente legare e tirar fuori: avrebbe voluto aiutare e ringraziare i suoi salvatori! Esso trema quando cammina negli angusti sentieri di montagna: sa di non avere che piedi, e che a nulla si potrebbe abbrancare. Teme moltissimo i lampi; nell'infuriare di un temporale è tutto bagnato di sudore per la paura d'essere fulminato. Se un cavallo d'una pariglia s'impenna, l'altro può trattenerlo; ma, per lo più, un medesimo spavento s'impadronisce d'ambedue, ed essi scappano a rotta di collo come matti, con timore ed angoscia sempre crescenti, passando sopra tutto, nell'aia, presso al muro. Il cavallo si meraviglia, prende ombra, si spaventa per cose da nulla come un bambino; si può illudere, e la sua cognizione può, per mezzo dell'intelletto, diventare discernimento. Ciò chiarisce che la sua intelligenza può essere sviata o modificata.

Un trattamento sgarbato, le bestemmie ed il randello del carrettiere hanno pervertito più di un nobile destriero, togliendogli tutto il suo valore intellettuale e morale, o rendendolo stupido e pazzo. Al contrario, un generoso trattamento nobilita il cavallo, lo solleva e lo rende semi-umano. L'unico vero piacere del cavallo è la corsa. Per natura è viaggiatore: per solo diletto corrono i cavalli che pascolano nelle steppe russe, galoppando accanto alle vetture per molte ore, spesso per una intera giornata, certi di riconoscere il lungo cammino una volta compiuto. Allegri caracollano a gara, si gettano avanti e indietro, corrono, si morsicano e si baloccano a cuor contento. I giovani prendono a gabbo gli uomini: cosa degna d'esser osservata! L'animale che si cimenta con l'uomo deve sentirglisi affine, deve vedere in lui quasi il suo simile.

Il suo desiderio di correre unito al suo orgoglio, opera cose quasi incredibili negli allevamenti. Ad un dato segnale i cavalli sono pronti a dare inizio alla gara: nitriscono forte, scalpitano d'impazienza. Poi, si precipitano di gran carriera ed ognuno vuol sorpassare l'altro in velocità. Pure, nessuno li cavalca, nessuno dice loro di che si tratti, nessuno li eccita; se ne accorgono da sé. Ognuno si infiamma da sé e viene infiammato dagli altri. E quello che per primo tocca la meta si loda ed è lodato dall'uomo, e gusta la lode. dominato dal senso dell'onore, esso, talvolta, danneggia sé stesso, perché vuole sempre essere primo, e corre fino a morirne se non viene trattenuto. Alcuni debbono precedere; molti corrono soltanto perché altri li precedono, dietro cui non vogliono stare; ve ne sono che corrono soltanto con conoscenti, con compagni. Quale sentimento d'amor proprio si sviluppa nel Corridore inglese!

Lo stallone è un animale terribile. La sua forza è straordinaria, il suo coraggio oltrepassa ogni limite, il suo occhio sprizza fiamme. La cavalla è più docile, migliore, più obbediente, più mite: per questo è spesso preferita allo stallone. L'istinto dell'amore è più violento nei cavalli che in altri animali; da tale movente scaturiscono grandi, superbe forze. Con la castratura, in verità, il cavallo perde molto; come il toro, diventa più mite, più obbediente, e cessa di essere una fiamma divoratrice e lampeggiante.

Il cavallo è capace di ogni commozione: ama ed odia, è invidioso e geloso, capriccioso e via dicendo. Con molti cavalli va d'accordo benino, con altri non tanto, o non li tollera affatto, né prende mai in grazia questi o quelli. Conosce bene lo sguardo dell'uomo e lo sostiene; tuttavia si discerne che ha effetto su di esso lo sguardo umano, se è intenso. Dei cavalli si narrano prodigi d'intelligenza, di coraggio e di sentimenti intimi e profondi. Pensosi, i cavalli si arrestano presso il cadavere del loro padrone, si chinano sopra di esso, ne contemplano a lungo le sembianze, lo fiutano, non vogliono andar via, vogliono rimanergli fedeli anche dopo la morte. Altri, durante la mischia, mordono il cavallo dell'avversario e persino questo, come se anch'essi volessero combattere.

Nessun cavallo è simile ad un altro: l'uno sarà cattivo, mordace, falso o scaltro, l'altro fidente e mansueto. Sia la natura, sia l'educazione, o forse entrambi li hanno fatti così diversi.

Il cavallo non teme le ferite; si sottopone senza timore e con intelligenza alle operazioni; pieno di coraggio sostiene la battaglia, ed ha persino piacere a combattere, poiché nitrisce sonoramente. Il suo nitrito è particolare: deride il pericolo. Se è ferito, geme soltanto; muore da eroe, calmo e tranquillo; sente la morte.

Quanto diverso è il destino dei cavalli! La sorte dei più è di essere amati e nutriti d'avena finché sono giovani, mentre, quando sono vecchi, di essere attaccati ai carri, nutriti di carichi e di bastonate e disprezzati. A molti destrieri fu, con ragione, innalzato un monumento marmoreo: nell'infanzia essi furono liberi di seguire i capricci, nella gioventù pompeggiarono, adulti lavorarono e la loro vecchiaia fu debole e lenta; essi fioriscono, maturano ed appassiscono!».

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ASINO EMIONE O ZIGGETTAI DEI MONGOLI (Equus hemionus)

L'Asino Emione, come gli altri che seguiranno, appartiene al secondo genere della famiglia dei cavalli, ma esso e un po' meno importante del cavallo nell'economia domestica, sebbene le differenze fra questo e quello siano molto minime.

Lo Ziggettai dei Mongoli, o Emione, ci è stato da oltre due secoli così ben descritto dal distinto naturalista Pallas che sino alle più recenti osservazioni nessun naturalista ha saputo più aggiungere nulla di essenziale.

Per la mole e per l'aspetto lo Ziggettai ricorda un mulo ben proporzionato; ma lo supera in bellezza e specialmente per la corporatura più snella.

Dal capo all'ano misura m. 1,50; la testa ha la lunghezza di 50 centimetri, la coda senza il ciuffo ne ha 40; la lunghezza complessiva, pertanto, è di circa m. 2,50, con un'altezza di metri 1,20 alle spalle e 1,30 alle anche.

La testa è più grossa di quella del cavallo, più compressa ai lati, il collo più sottile e più tondeggiante anche più di quanto sia nei cavalli detti dal collo di cervo.

Il corpo è piuttosto allungato, il dorso è più arcuato che non declive; le membra sono alte, fine, forti di tendini; le spalle, le anche, le cosce alquanto scarne come nei muli finemente conformati.

La coda somiglia a quella della vacca: di lunghezza media, sottile, è perfettamente rotonda, nuda dalla radice fino alla metà, dopo provvista di setole scure che formano all'estremità un ciuffo di 23 centimetri di lunghezza.

Le orecchie sono molto più lunghe di quelle del cavallo, ma incomparabilmente più eleganti di quelle del nostro asino. Gli occhi sono di media grandezza, le narici si dilatano come nel cavallo.

Una criniera di peli morbidi, ritti, scuri, alti circa 10 centimetri, simile a quella dei giovani puledri, scorre dal cranio sino alle spalle.

Il rimanente del pelame si modifica a seconda delle stagioni.

Nell'inverno il pelo, lungo sino a 5 centimetri, è piuttosto arruffato, ondeggiato sul dorso, molle come la lana del cammello, al di fuori bigio-isabella, alla radice bigio-ferro-pallido; invece, in estate è di appena 9 millimetri.

Il colore del muso è bianchiccio, il rimanente della testa tende più al giallo; il collo è giallo-fulvo, il tronco dal dorso ai fianchi quasi giallo d'ocra; i fianchi sono più fulvi, le zampe più pallide.

Il margine posteriore delle cosce, la faccia interna delle zampe posteriori, e la parte posteriore di quelle anteriori sono color bianchiccio.

Dove cessa la criniera comincia una fascia bruna, nera, che continua lungo il dorso giù fino alla parte pelosa della coda.

Le pianure asciutte, aperte, ma coperte di buoni cespugli, e le falde delle giogaie dell'Asia centrale, e specialmente della Mongolia, sono la patria dello Ziggettai.

Vecchi stalloni guidano più di venti giumente e puledri; ma i branchi sono per lo più meno numerosi, e spesso uno stallone non ha che dieci o anche cinque giumente.

Gli stalloni che vengono respinti dal branco dagli altri lo seguono finché venga loro fatto d'involare dall'harem di quello vecchio una o più giumente, oppure di raccoglierne alcune errabonde, creandosi, così, una famiglia propria.

I vecchi stalloni, al tempo degli amori, allontanano dal loro branco le giovani giumente che non sono ancora in età abbastanza matura, e, così, i più giovani membri del branco se ne formano uno proprio.

Le più importanti migrazioni dello Ziggettai hanno luogo in autunno, perché il modo di vivere errabondo può cominciare soltanto quando i puledri dell'ultima estate sono abbastanza robusti per prendere parte alle marce lunghe e veloci. Verso la fine di settembre i giovani stalloni si separano dal branco di cui fanno parte fino al terzo o al quarto anno, e si ritirano isolati nelle steppe montuose per formarne uno nuovo proprio. Allora lo Ziggettai è più che mai indomabile. Talvolta, per ore intere, il giovane stallone sta sulle vette estreme di uno scosceso pendio montano, volto contro il vento, con l'occhio che spazia sulla campagna sottostante. Le sue narici sono spalancate, il suo occhio percorre il deserto. Avido di battaglia, aspetta un avversario, e appena ne scorge uno, gli muove incontro in precipitoso galoppo. Una lotta sanguinosa s'impegna per le giumente. L'aggressore, con la coda alzata, oltrepassa nella sua corsa furiosa il capo del branco, vibrandogli calci con i piedi posteriori; la sua arruffata criniera si solleva sempre più; dopo alcuni salti esso sosta di botto, piega bruscamente sul lato e incrocia frattanto in ampio arco il branco di cui affronta audacemente il capo. Ma il vecchio ed esperto stallone attende con pazienza che il suo audace avversario sia abbastanza vicino. Cogliendo il momento opportuno, gli si precipita addosso, lo morde e lo calpesta, e spesso i campioni lasciano per spoglia un pezzo della loro pelle o la metà della loro liscia coda. E' molto difficile osservare i costumi dello Ziggettai. Esso è un animale meravigliosamente veloce, che non può venire raggiunto neppure dal cavallo più corridore. Inoltre è pauroso, e i suoi sensi acuti lo avvisano da una grande distanza dell'avvicinarsi di un uomo: esso deve poterlo fiutare a qualche chilometro di lontananza. Quando cammina tranquillo, tiene orgogliosamente alzato il suo collo da cervo; se fugge, porta la testa alquanto in alto per poter vedere di dietro, ed alza anche la coda. Lo stallone è vigilantissimo, e mantiene accuratamente radunate le sue giumente. Se un membro della banda scorge da lontano qualche cosa, lo stallone gli balza davanti e cerca d'avvicinarsi all'oggetto quel tanto che basti per riconoscere il pericolo. Talvolta, si slancia due o tre volte contro i cacciatori in agguato, e spesso; allora, viene colpito: ma se si accorge del pericolo, batte in ritirata e si allontana con il suo branco con una meravigliosa velocità.

Uno stallone robusto sembra indispensabile all'esistenza del branco. Se questo viene ucciso, le giumente si sparpagliano, ed allora la caccia si fa buona, perché esse sono lungi dall'essere vigilanti come lo stallone. Il cacciatore che vuole raggiungere l'ombrosissima bestia, si reca di mattino in montagna, cavalcando un cavallo giallo-chiaro. Attraverso monti e valli egli cammina lentamente nella solitudine, dove le marmotte si soleggiano sopra i loro monticelli e le aquile descrivono grandi circoli nell'aria. Appena egli ha raggiunto il culmine di un monte, guarda nella distesa se qualche punto scuro non gli annunzi la selvaggina desiderata. Se la scorge, subito scende in quella direzione. Lungo è il cammino, poiché può andare soltanto nelle valli e a ritroso del vento. Il cacciatore esperto si arrampica con somma cautela sull'altura presso cui sta lo Ziggettai. L'animale sta come incantato guardando fisso verso il nord. Subito viene percorsa la valle che li divide, ed allora comincia la vera caccia.

Al rapido corsiero i peli sciolti della coda vengono legati affinché non sventolino qua e là; poi lo si conduce sulla falda del monte dove comincia a pascere. Il cacciatore si accovaccia sul terreno, ad una distanza di circa cento passi; la sua carabina sostenuta da una corta forchetta, è pronta allo sparo. Egli aspetta. Lo Ziggettai osserva il cavallo, lo scambia per una giumenta della sua famiglia, e si precipita al galoppo in quella direzione. Ma quando si avvicina, rimane sorpreso, si ferma. Allora è il momento buono per sparare: il cacciatore mira bene al petto, e non raramente uccide l'animale di colpo; talvolta lo Ziggettai riceve sino a cinque palle prima di cadere.

Il profitto di questa caccia è notevole: la carne è una vera leccornia per i tungusi: la pelle è molto apprezzata dai mongoli mentre quella che ricopre la coda e porta il lungo ciuffo è considerata come un farmaco potente dai creduli indigeni. Se ne abbrustolisce un pezzetto sui carboni accesi e se ne fa respirare il vapore ad una bestia ammalata: essa guarirebbe subito. Se l'addomesticamento riuscisse a perfezione, non soltanto si avrebbe nello Ziggettai il corridore più veloce ma si potrebbe migliorare essenzialmente la razza degli asini. Negli ultimi decenni si sono fatti buoni passi innanzi su questo terreno e, se non buoni corridori, si sono ottenuti ibridi, fra lo Ziggettai e gli asini propriamente detti, che sono dei buoni lavoratori.

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KIANG (Equus kiang)

Alcuni naturalisti ritengono che il Kiang non sia altro che il nostro ziggettai, mentre altri lo stimano specie distinta. Il modo di vivere dei due animali è decisamente diverso, e tale circostanza non è da trascurare. Inoltre, se lo ziggettai non ama i monti, e specialmente le alte e rocciose giogaie nevose, il Kiang s'aggira sulle più alte vette dell'Himalaya, mentre si incontra raramente in paesi frequentati da viaggiatori, vivendo sulle alture dove, all'infuori di esso, possono mantenersi solo il mosco e lo jak.

Nel complesso è un bell'animale, che rassomiglia all'antilope, di un aspetto robusto, sebbene elegante e grazioso, con occhi vivaci e lucenti, agilissimo nei movimenti, audace e ombroso, perseverante e sobrio.

ONAGRO (Equus onager)

Questo animale, detto anche kulan o gurkur, è ripetutamente menzionato nella Bibbia. A detta degli antichi esso era diffuso in tutta l'Asia Minore, la Siria, la Persia e l'Arabia. Senofonte lo trovò in gran numero presso l'Eufrate.

Il Kulan è alquanto più piccolo dello ziggettai, ma è più alto e più fino di membra dell'asino ordinario. La testa è più alta più grossa ancora di quella dello ziggettai; le labbra grosse sono coperte sino all'orlo da rigidi peli setolosi; le orecchie sono lunghe, sebbene più brevi di quelle dell'asino. Il suo colore dominante un bel bianco, con riflessi argentini; il disopra del capo, i lati del collo e della groppa, come pure le anche, un po' più scuri e d'un pallido colore isabella. Nell'incurvatura dei fianchi appare una striscia bianca, larga come la mano; una seconda striscia scorre lungo il dorso e giù nella parte posteriore delle cosce; nel mezzo di questa si trova una striscia colore bruno-caffè. Il pelame è più sericeo, più morbido e si può paragonare alla lana del cammello; quello d'estate è finissimo e soffice. La criniera è fatta di peli morbidi, lanosi, lunghi da 8 a 10 centimetri, la quale sta ritta, come nei giovanissimi puledri; il ciuffo della coda è lungo quasi una spanna. Nel suo modo di vivere l'Onagro ricorda tanto lo ziggettai quanto il cavallo selvatico. Uno stallone-capo guida la schiera, formata di giumente e di puledri dei due sessi; tuttavia, lo stallone è meno geloso che non nella specie affine; almeno al tempo delle migrazioni parecchi si radunano assieme. Naturalmente i litigi tra stalloni accadono sempre, ma non nel modo furioso come avviene per i cavalli. Rispetto alla velocità il Kulan non la cede allo ziggettai, e talvolta supera nelle corse i migliori cavalli.

I sensi del Kulan, principalmente l'udito, la vista, l'olfatto, sono così acuti che non è possibile insidiarlo in aperta campagna. Essendo poi sommamente sobrio, viene a bere tutt'al più una volta al giorno, di modo che, generalmente, torna vano lo stare in agguato. Le piante dal succo salato sono il suo cibo prediletto, meno gradite quelle che hanno un latte amarognolo, come il dente di leone, il grispignolo, e simili; non disprezza neanche il trifoglio, la cedrangola e varie piante leguminose. Le piante aromatiche, di piacevole odore, non gli sono gradite, come le piante acquatiche, i ranuncoli, le piante spinose e anche il cardo, così caro all'asino domestico. Preferisce all'acqua dolce quella salata, purché sia pura; non beve mai acqua torbida.

Il Kulan è un animale importante per gli abitanti delle steppe. I kirghisi ritengono la sua carne più saporita di tutte le altre, e i persiani, che lo chiamano Iochacki o «asino di montagna», sembrano essere del medesimo parere. Persino gli arabi, che sono assai schizzinosi in quanto ad alimenti e non mangerebbero mai un asino domestico, considerano il Kulan come una distinta selvaggina. Verosimilmente lo stesso avveniva fra gli ebrei, mentre sappiamo di certo che i romani erano ghiotti di giovani onagri. Plinio ci racconta che i migliori si trovano nella Frigia e nella Licaonia. «I puledri di questi animali», dice l'antico naturalista, «sono conosciuti come bocconi prelibati sotto il nome di lalisiones. Mecenate fu il primo che nei suoi festini imbandisse puledri di mulo, in luogo di ogni cacciagione estera». I persiani, oltre alla carne dell'asino selvatico, ne usano il fiele, quale farmaco per gli occhi; i bucharesi conciavano la pelle di questo animale per farne zigrino o stivali, che vendevano a caro prezzo. Tutti gli abitanti dell'Asia centrale, quindi, ancora oggi fanno caccia accanita al nobile animale, e nei modi più diversi.

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ASINO D'AFRICA (Equus asinus africanus)

Questo Asino somiglia per la mole e l'aspetto al suo addomesticato discendente d'Egitto, ma per l'indole si avvicina decisamente al suo affine asiatico che vive allo stato selvatico.

E' alto, snello, ben conformato, ora cinerino, ora di colore isabella, più chiaro di sotto, con la croce ben distinta sulle spalle ed alcune strisce trasversali più o meno visibili sulla parte esterna del piede; la criniera è breve e scarsa, il fiocco alla coda è lungo e grosso.

Questo animale vive in tutti i deserti ad est del Nilo; e comune presso l'Atbara, principale affluente del divino fiume, ed anche nelle pianure di Barka; la sua area di diffusione si estende sino alle coste del Mar Rosso.

L'Asino d'Africa, o Hamar come pure viene chiamato, è un animale eccessivamente pauroso e prudente, il che ne rende difficilissima la caccia.

Spesso questi asini selvatici corrono sino all'accampamento, sostano ad un centinaio di passi, ma al più piccolo movimento nel campo se la svignano in precipitosa corsa con la coda alta. A volte portano via asine domestiche, aggregandole al loro branco.

Pare che da questa specie provengano tutti gli asini domestici adoperati nel sud, e probabilmente anche in Abissinia, perché, a dire degli arabi, somigliano decisamente agli asini selvatici. L'indole dell'Asino d'Africa è gradevole.

E' buono, ubbidiente al custode ed alle persone che conosce, ma talvolta dimostra una certa petulanza che rende difficile il governarlo, o almeno una intima relazione con esso.

Sebbene gradisca le carezze, e, per quanto sembra, le riceva con gratitudine, pure non può impedirsi, talvolta, di abboccare la mano che lo accarezza, o, se gli viene fatto, di vibrare qualche bel calcio all'uomo che si sta occupando di lui.

Ciò nonostante è anche docile, non caparbio, e tutt'al più disposto a baloccarsi o ad azzuffarsi.

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ASINO DOMESTICO (Equus asinus)

Sebbene rimanga incerto quale sia l'asino selvatico cui dobbiamo l'utile nostro Asino domestico, tuttavia è certo che tanto il kulan, come l'hamar el wadi degli antichi, servirono al miglioramento della razza asinina. Gli antichi romani spesero grosse somme per questo miglioramento, e fra noi soltanto una continua noncuranza ha ridotto il nostro Asino domestico allo stato di vero aborto.

Se si paragona con il suo fratello del sud l'Asino che fra noi porta il grano al mulino o trascina le carrettelle dei venditori ambulanti, si sarebbe tentati di considerarli come appartenenti a due specie ben diverse, tanto minima è tra loro la rassomiglianza. L'asino del nord, come a tutti è noto, è un essere pigro, cocciuto, sovente ostinato, che in generale, seppure anche a torto, è tenuto come simbolo di scempiaggine e di ignoranza. L'asino del sud, invece, è un animale bello e vivace, operosissimo e resistente, che non è quasi inferiore al cavallo per i servigi che rende e lo supera per certi riguardi. Ma viene trattato con maggior cura che da noi.

In molte località dell'Oriente si bada a mantenere la purezza delle razze, come per i più bei cavalli; si nutre bene l'animale, non lo si tormenta in gioventù, e si possono perciò aspettare dall'adulto eccellenti servigi, quali non è in grado di prestare il nostro. Del resto, si ha ragione di porre tante cure nel suo allevamento, perché colà l'Asino è un animale domestico in tutta l'estensione della parola: lo si trova nel palazzo del più ricco, magari senza rinunziare alla bella fuoriserie americana, come nella capanna del più povero, dove esso è tutto. E' il più indispensabile servitore che conosca l'orientale.

Già nella Grecia e nella Spagna ancora oggi si possono trovare bellissimi asini, sebbene in numero ormai inferiore a quello che si trova in Oriente, e soprattutto in Persia ed in Arabia.

Gli asini dei greci e quelli degli spagnoli arrivano alla grossezza di un mulo, giacché l'altezza al garrese oltrepassa abitualmente metri 1,50. Il pelo è liscio e morbido, la criniera lunghetta, il fiocco della coda relativamente lungo. Le orecchie sono lunghe, ma ben conformate, gli occhi brillanti. La loro grande resistenza, un camminare leggero, e un dolce galoppo, fanno di quegli asini impareggiabili cavalcature. Oltre a questo, che può considerarsi il maggiore, in Grecia e in Spagna si trova una specie più piccola, che è pure molto meglio conformata e più elegante della nostra: è l'asino arabo specialmente quello che è allevato nello Yemen. Esistono due razze: una grossa, animosa, veloce, adattissima al viaggiare, ed una più piccola, più debole, che viene adoperata a portare i carichi. L'asino maggiore probabilmente è stato migliorato dall'incrocio fra il kulan e la sua progenie.

Un asino da sella che riunisca tutti i requisiti giunge ad un prezzo superiore a quello di un cavallo mediocre, e non di rado capita che si paghi per esso anche un prezzo uguale a quello che si pagherebbe per un buon cavallo. La migliore razza si trova soltanto in proprietà dei più ricchi del paese. E' della statura di un mulo ordinario, e simile a questo anche nelle lunghe orecchie. L'asino ordinario che si trova in possesso di tutti è di media mole e tuttavia di distinta bontà. E' laborioso, estremamente sobrio e molto resistente. Durante la notte riceve il suo essenziale cibo di fave dure, che mastica con molto rumore; di giorno gli si dà solo di quando in quando un fascetto di trifoglio fresco od una manciata di fave, e con ciò esso lavora indefessamente. «Non si può pensare», dice Bogumil Golta, «ad un essere più utile e più bravo di questo. L'uomo più membruto inforca un asino non più grosso d'un vitello di sei settimane e lo mette al galoppo. Questi animali che si direbbero deboli per la loro corporatura vanno di portante a meraviglia; ma dove possano attingere la forza di portare attorno per ore e ore al trotto o al galoppo un uomo adulto nel momento del massimo calore, è per me cosa soprannaturale nei misteri della natura asinina, che avrebbe bisogno di un difensore, se nel mondo fosse giustizia».

Nell'interno dell'Africa, dove l'utile animale viene mantenuto allo stato domestico come nelle terre settentrionali e nella parte orientale di quel continente si vedono pochi asini veramente belli, e quelli che si vedono sono stati presi dallo Yemen e dall'Egitto. L'Asino ordinario del Sudan orientale è inferiore sotto ogni aspetto a quello egiziano: è più piccolo, più indolente, più caparbio, ma è un caro oggetto per il sudanese, sebbene lo lasci quasi morire di fame o cercare il cibo da sé. Malgrado quella libertà, l'Asino non rinselvatichisce, come in molti altri luoghi. Nelle epoche anteriori si importavano asini semi-selvatici da alcune isole dell'arcipelago greco e dall'isola di Sardegna, ed ancora oggi se ne trovano nell'America meridionale. Gli asini sfuggiti all'allevamento dell'uomo adottano presto tutti i costumi dei loro selvaggi antenati: lo stallone si forma la mandria, combatte con gli altri sino alla morte; è pauroso, vigilante, cauto, e non si lascia facilmente sottoporre di nuovo al volere dell'uomo. Anche nell'America del sud erano un tempo più frequenti quelli rinselvatichiti; oggi sono quasi scomparsi.

Da quanto abbiamo detto risulta evidente l'area di diffusione dell'Asino: la parte orientale dell'Asia centrale, l'Africa del nord e quella orientale, l'Europa del sud e centrale, e finalmente l'America meridionale. Quanto più asciutto è il suolo, meglio si trova, sopportando meno del cavallo l'umidità ed il freddo. Per questo i più belli si trovano in Persia, in Siria, in Egitto e nell'Europa meridionale; i più cattivi sono quelli che abitano l'Africa centrale, dove le piogge sono ridotte, oppure i paesi che confinano con la sua area di diffusione. In verità, è più maltrattato anche nell'Europa centrale e nell'interno dell'Africa, o almeno trascurato, mentre nelle regioni nordiche d'Africa e d'Asia si cerca di migliorarlo con incroci. Del resto, un buon trattamento è anche in Oriente concesso solo agli asini di valore; gli altri hanno una vita poco meno inferiore e triste dei nostri. Lo spagnolo, ad esempio, adorna il suo asino con fiocchi e coccarde di ogni genere, con collari variegati, bellissime bardature e via dicendo, e così fanno pure i sardi e i siciliani, i quali ultimi estendono la cura della bardatura al carretto di modo che tutto l'insieme si presenti fantasticamente bello e gradevole all'occhio, ma sia questi che gli spagnoli trattano piuttosto male il povero Asino, spesso colpendolo con bastonate nei punti più vitali, o talvolta facendogli soffrire la fame. Anche in Egitto l'Asino comune non ha migliore sorte, perché è considerato lo schiavo e lo zimbello di tutti. In Oriente, infine, a nessuno viene mai in mente di andare a piedi: anche l'accattone possiede un asinello che cavalca sino al luogo dove intende mendicare; colà giunto, lascia la bestia pascolare sul «suolo di Dio», come si esprime egli stesso, e se ne torna la sera a cavallo a casa.

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In nessun altro luogo, come in Egitto, il desiderio di cavalcare gli asini si spinge tanto oltre. Questi pacifici animali sono in tutte le grandi città indispensabili ai comodi della vita, anche ai giorni nostri in cui la motorizzazione sta facendo il suo progresso in quelle zone. Si usano come da noi le vetture da nolo, e perciò non è ridicolo servirsene. Per le vie anguste di quelle città essi sono il solo mezzo di abbreviare, di agevolare il cammino. Per questo al Cairo, ancora oggi, in mezzo al torrente umano che precipita per le vie, si vedono gli asinari, o, come là si chiamano, borichieri, che formano una distinta tribù, una vera casta, che fa parte della città come i minareti e i palmizi. L'indigeno e lo straniero non possono fare a meno di essi: sono essi che bisogna ringraziare ogni giorno, e che ogni giorno vi mettono la bile in agitazione. E' un vero piacere ed una vera noia, dice in Egitto l'abitante delle piccole città, l'aver a che fare con quegli asinari. Di essi non si può avere un concetto chiaro, non si sa se sono più buoni che viziosi, più caparbi o più servizievoli, più pigri o più vivaci, più scaltri o più svergognati; sono un composto di tutte le qualità possibili. In essi s'imbatte il viaggiatore, appena ha posto piede in Alessandria, e solo negli ultimi anni i taxi hanno cominciato a fare loro la concorrenza. Gli asinari stanno con le loro bestie dal sorgere del sole fino al tramonto in tutti i luoghi frequentati. L'arrivo d'un battello a vapore è per essi un avvenimento, giacché si tratta di conquistare l'ignorante ai loro occhi, ossia lo stupido. Il forestiero è assalito in tre o quattro lingue diverse, e guai a lui se fa udire una parola inglese. Allora s'impegna intorno al dovizioso una mischia finché egli faccia quanto può fare di più saggio, cioè salga all'avventura sopra un ciuco, e si faccia condurre al migliore albergo. Così si presentano al primo momento; s'impara a conoscerli, però, soltanto quando si parla loro l'arabo, ed è allora assai piacevole udire le iperboliche doti che prodigano ai loro animali.

«Osserva, signore», dice l'uno, «questa carrozza a vapore di un asino che io ti offro, e paragonalo agli altri, a quelli che gli altri ragazzi ti vantano! Essi ti manderebbero sotto, giacché sono creature da compiangere, mentre tu sei un uomo forte! Ma il mio!... Per esso è un nonnulla, con te in groppa, correre come una gazzella».

«Ecco un asino carino», dice un altro, «suo nonno era un cavallo selvatico e la sua bisavola era una gazzella; via, carino, corri e conferma al signore le mie parole! Non far sfregio alla tua origine. Va, in nome di Dio, la mia gazzella, la mia rondinella!».

Il terzo cerca, se gli è possibile, di oltrepassare gli altri due, e così si tira avanti di questo passo, finché il viaggiatore abbia inforcato uno degli animali. Questo è spinto al galoppo a furia di urli, di percosse e sotto lo stimolo del pungolo; il ragazzo viene dietro, gridando, chiamando, aizzando, chiacchierando, maltrattando i propri polmoni, come l'asino che corre davanti a lui: «Bada, signore! La tua testa, il tuo piede, il tuo fianco destro sono in pericolo! Abbi cura! Il tuo fianco sinistro! la tua testa! Passa un cammello, un mulo, un asino, un cavallo! Bada al tuo viso, alla tua mano! Scostati amico!, lascia passare me e il mio signore! Non disprezzare il mio asino, mascalzone; esso vale più del tuo bisavolo! Perdona, signore, tu fosti urtato!». Tali e cento altri discorsi intronano di continuo l'orecchio del malcapitato viaggiatore. Così si procede fra bestie e cavalieri, fra carri, somari, vetture, pedoni, e l'Asino non perde la testa, né la docilità; non si lascia trattenere, ma si precipita in un gradevole galoppo fino alla meta. Le città dell'Egitto sono l'alta scuola dell'Asino: vi si impara a conoscere, ad apprezzare, a stimare, ad amare l'eccellente animale. Le parole d'Oken si adattano perfettamente al nostro asino: «L'Asino domestico è così avvilito da non rassomigliare più ai suoi progenitori. Non solo è molto più piccolo, ma anche di un color cinerino più pallido, con orecchie più lunghe e flosce. Il coraggio si è tramutato in ostinatezza, la sveltezza in lentezza, la vivacità in pigrizia, la saggezza in stupidaggine, l'amore per la libertà in pazienza, l'ordine in tolleranza delle busse».

Scheitlin dice di esso: «L'Asino domestico è piuttosto sagace che stupido; ma la sua sagacità non è così schietta come quella del cavallo; è piuttosto scaltrezza e furberia, e si esprime per lo più con l'ostinatezza o la cocciutaggine. Giovane, sebbene nato da una schiava, esso è molto allegro, spicca salti ridicoli come tutti i bambini, e come il figlio dell'uomo non sospetta il suo crudele e doloroso destino. Adulto, esso deve tirare e portare e si lascia bene ammaestrare, il che è indice d'intelligenza, poiché deve investirsi della volontà di un altro essere, della volontà dell'uomo. A questo il vitello non arriva mai ed anche il puledro, dapprincipio; non bada a quello che si vuole da esso. Sebbene porti pazientemente il suo grave carico, non lo porta con piacere, giacché, appena liberatosene, si rotola al suolo e manda il suo sgradevole raglio. Naturalmente il senso musicale gli fa difetto, nonostante le sue orecchie accennino veramente a qualche cosa di particolare.

Il suo passo è straordinariamente sicuro. Talvolta, non vuole a nessun costo muoversi dal punto dove si trova e, tal'altra, scappa a briglia sciolta. Si deve sempre badare alle sue orecchie, poiché continuamente le agita ed esprime con esse i suoi pensieri e i suoi proponimenti, appunto come il cavallo. Il suo non temer le busse e il non lasciarsi spingere da esse, provengono in parte dalla sua cocciutaggine e in parte dalla durezza della sua pelle. Conosce per bene il suo custode, ma è ben lungi dall'avere per lui affetto come il cavallo, sebbene gli corra incontro, dando qualche segno di gioia. Ha un istinto veramente sorprendente tanto da riconoscere da lontano l'avvicinarsi di un temporale; lascia penzolare il capo, o spicca grandi salti.

Possiamo rendere piena giustizia all'Asino, dicendo che esso può venir ammaestrato a molte cose che si vedono compiere dal cavallo. Alcuni fanciulli imparano difficilmente, ma quel che sanno non si cancella più: così è per l'Asino. Con esso si impegnano scommesse di corsa; gli si insegna a saltare in cerchi e a sparare cannoni; salta bene e senza esitare, e non si spaventa minimamente; sta attento all'occhio e alla parola del padrone, e questo e quella intende per bene. Gli si può insegnare a ballare, a muoversi a tempo, ad aprire le porte, per cui si vale della bocca come di una mano, a salire e scendere le scale, ad indicare la persona più bella, più vecchia, più innamorata, l'ora da un orologio che gli si presenti, il numero dei punti sopra un carta, o un dado per mezzo di colpi battuti col piede sul suolo, e a rispondere a tutte le domande del padrone scuotendo, o facendo segni col capo. L'espressione della sua faccia è molto distinta, e rarissimamente è stata riprodotta dal pennello. Quasi sempre nel ritratto si dimentica quel che ha di propriamente asinino. La forma della testa somiglia moltissimo a quella della testa del cavallo, ma lo sguardo è notevolmente diverso». I sensi dell'Asino domestico sono molto sviluppati; primeggia l'udito, poi viene la vista, e dopo l'olfatto ha invece poca sensibilità tattile ed il gusto è senza dubbio poco perfezionato, perché altrimenti sarebbe certamente più ingordo, più esigente del cavallo. Le facoltà intellettuali dell'animale non sono così scarse per quanto generalmente siano credute tali. L'Asino ha eccellente memoria e ritrova ogni sentiero dove sia passato una volta; stupido quale appare, è sagace e scaltro, e non tanto pacifico come si crede. Talvolta, esso manifesta una sottile malignità: ad un tratto, sosta per via, né si lascia spingere dalle busse, si getta col carico a terra, morde e tira calci.

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Nel complesso, quindi, le sue facoltà intellettuali ci dovrebbero raccomandare maggiore prudenza nei casi in cui, volendo dire male di un nostro simile, gli diamo dell'asino; senza saperlo, forse, gli facciamo un complimento, ed è per questo che talvolta ci può capitare di ricevere in cambio soltanto una smorfia di compatimento. L'Asino si comporta in un modo veramente straordinario nelle regioni dove si trovano le belve che gli possono nuocere. E' un vero piacere, o un vero tormento, come si vuole, il transitare sopra un Asino od un mulo per alcune di quelle anguste valli dell'Abissinia. L'animale fiuta dappertutto un pericolo: si gira e volta in ogni direzione; si china con piglio pensoso verso un masso di roccia che potrebbe offrirgli un buon ricovero; con un paio di rapide svolte, esplora d'un tratto tutta la zona circostante, si rizza di botto, origlia sospettosamente in una direzione, insomma ha centomila pensieri. Se poi all'udito viene in aiuto l'olfatto, si può dire del tutto sparita la pace dell'animo nel quadrupede. Non si sposta più dal luogo. Appunto là, dove si pianta, forse la notte precedente accadde la cosa più spaventosa di tutte: forse un leone, un leopardo, una iena, o qualche altra terribile fiera, di quelle che comandano maggior prudenza, è passata per quella via! L'asino fiuta, aguzza l'occhio, origlia; le orecchie fanno interamente il giro della testa, esso non si muove finché qualcuno non lo prenda per la briglia. Allora va avanti, perché è tanto scaltro da capire che esso sarebbe, probabilmente, il primo a cadere sotto gli artigli della belva crudele, e solo così procede oltre, completamente rassicurato.

L'asino che viaggia non può lasciare in riposo nessuno dei suoi sensi. Se gli coprono gli occhi, se ne sta immobile all'istante; se gli si otturano le orecchie fa lo stesso, né muove un passo prima di essere rientrato in pieno possesso dei suoi sensi. Solo l'amore può fargli superar tutto: un vecchio asino cieco che è destinato a servir da pranzo agli avvoltoi sulla vetta di qualche montagna, si decide a salire soltanto quando lo si fa precedere da un'asina! Lo guida il senso dell'olfatto, ed esso tiene dietro all'amica con molto zelo.

Si sa che l'Asino è sommamente sobrio; esso si accontenta del più parco cibo, del più cattivo nutrimento. Erba o fieno, che una vacca bene educata lascia stare con sbuffi che indicano la ripugnanza e che il cavallo disprezza, sono per esso ancora ghiottonerie; si compiace di ortiche e di spinosi vegetali. E' difficile solo nella scelta delle bevande, perché non tocca mai l'acqua impura; quella che beve deve essere purissima, meglio se un poco salata. Nel deserto si ha spesso molto da stentare con l'asino, che, malgrado la sete, non vuol bere la torbida acqua degli otri.

Il tempo degli amori per l'Asino ricorre fra noi agli ultimi mesi di primavera o d'estate; nel sud si può dire che dura dall'inizio alla fine dell'anno. Il maschio fa le sue dichiarazioni d'amore con gli strazianti e ben noti i-a, i-a, ed aggiunge alle note lungamente prolungate, da cinque a dieci volte ripetute, una dozzina di sospiri sbuffati. Tale amorosa istanza è irresistibile, ed ha il suo effetto su tutti i suoi rivali.

Basta aver vissuto in un paese dove esistano molti asini per riconoscere questo. Appena un'asina lascia udire la sua voce, quale trepidazione fra gli asini adunati! Lo stallone più vicino si sente assolutamente obbligato a rispondere in modo opportuno a quei teneri sospiri, e raglia con quanto fiato ha in gola. Un secondo, un terzo, un quarto, un decimo aggiunge la sua nota al concerto, e tutti prendono a ragliare insieme, assordando letteralmente tutto il vicinato. Non tutte le volte un simile gridio è generato da un tenero sentimento di fratellanza, ma è certo che un solo asino può indurre a ragliare tutti gli altri, o quelli che lo odono.

Circa 11 mesi dopo l'accoppiamento, l'asina partorisce un piccino (raramente due) perfettamente conformato, con gli occhi aperti; lo lecca con somma tenerezza, e una mezz'ora dopo la sua nascita gli offre la poppa. Il puledro può venir divezzato dopo 5 o 6 mesi; ma ancora per lungo tempo segue dappertutto la madre. Anche nel la più tenera infanzia esso non richiede nessuna cura particolare, ma si accontenta, come fanno i genitori, di ogni cibo che gli venga offerto. E' poco sensibile alle influenze della temperatura, e perciò non si ammala facilmente. E' un animale vivacissimo, allegro, che esprime la sua contentezza e l'intima allegria del cuore con le mosse e con i salti più stravaganti. Con grande gioia va incontro ad ogni altro asino, ma si abitua anche all'uomo. Se lo si vuol separare dalla madre, il dolore è grande dall'una e dall'altra parte: madre e figlio, resistono e se ciò non giova loro manifestano il proprio dolore, il proprio desiderio, per lunghi giorni, per mezzo di grida oppure con una grande irrequietezza. Nel pericolo la madre difende coraggiosamente il suo nato, non bada né al fuoco né all'acqua, e se occorre si sacrifica per salvare il suo diletto. Nel secondo anno l'asino è già adulto, ma non raggiunge la pienezza delle sue forze prima del terzo anno. Può, anche lavorando assiduamente, giungere ad un'età inoltrata: si conoscono esempi di asini che vissero sino a 40, 50, ed anche 55 anni.

Asino domestico (Equus asinus domesticus)

Asino della Nubia (Equus asinus nubianus)

Asino maschio del Poitou, destinato alla riproduzione

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MULO (Equus asinus x E. Caballus)

Già dai tempi remoti si soleva accoppiare cavallo e asino e da tale incrocio ottenere ibridi che si chiamano muli se è padre l'asino, bardotti se è padre il cavallo; gli uni e gli altri rassomigliano nell'esterno più alla madre che al padre ma nell'indole si avvicinano più a questo che a quella. Il mulo propriamente detto rassomiglia al cavallo per la mole e per la conformazione, ma se ne distingue per la forma del capo, la lunghezza delle orecchie, la coda breve, pelosa alla radice, le cosce più sottili e gli zoccoli più stretti, che ricordano l'asino. Nel colore somiglia generalmente alla madre. Raglia invece come il signor padre.

Il Bardotto, il cui nome scientifico è Asinus vulgaris nimus, conserva la forma modesta e la mole piccola della madre; del cavallo ha soltanto il capo più allungato e più sottile, le orecchie più lunghe le cosce più piene, la coda pelosa per tutta la lunghezza, e la voce che nitrisce; della madre conserva, oltre alla forma, anche la pigrizia.

Il cavallo e l'asino non si accoppiano mai volontariamente, e per questo l'allevamento dei muli richiede sempre il concorso dell'uomo. Infatti fra i cavalli e gli asini che vivono nella più grande libertà si manifesta un odio che produce accanite lotte. L'incrocio richiede diversi preparativi e speciali artifizi. L'asino si accoppia volentieri con la cavalla, ma non questa con esso, e neppure lo stallone con l'asina. Si suole bendare gli occhi alla cavalla che si accoppia con un asino affinché non possa vedere l'innamorato che si impone ad essa; le si fa prima passar davanti un bel cavallo e si scambia poi questo con un asino. Lo stesso deve essere fatto con lo stallone, come con la cavalla. E' molto più facile fare accoppiare cavallo ed asina se siano stati avvezzati sin dalla giovane età a vivere insieme: in questo caso gli animali perdono una parte della loro naturale antipatia. Già gli antichi romani avevano cura di far vivere, senza interruzione, assieme gli asini ed i cavalli che erano destinati alla produzione di muli; gli spagnoli e gli americani del sud sogliono fare lo stesso ancora oggi.

Pochi giorni dopo la sua nascita si dà ad allattare il giovane asino ad una cavalla, il cui amore materno fa in breve tacere ogni ripugnanza per il figlio adottivo. Tra la nutrice e l'allievo non tarda a svilupparsi un grande affetto, che può giungere persino al punto che il giovane asino dimostri ai suoi simili una simpatia minore di quella dimostrata ai cavalli. Nell'America del sud esistono stalloni asini che non vogliono assolutamente accoppiarsi con asine.

Il contegno dei puledri asini allattati da cavalle è molto particolare. Gli americani del sud abbandonano le asine nelle ampie praterie alla sola guida dei loro stalloni, e questi disimpegnano con la maggior cura l'ufficio loro affidato. Non così fanno gli asini, i quali sono indolenti, e invece di guidare il loro branco se ne vanno sempre dietro le cavalle. Perciò è necessario far capitanare le cavalle destinate alla produzione di muli da stalloni cavalli imperfettamente castrati.

Una delle condizioni necessarie all'allevamento dei muli è una cura speciale delle cavalle pregne, giacché la natura si vendica della violenta infrazione alle sue leggi. Gli aborti sono frequentissimi, sia fra le cavalle fecondate da asini, sia fra le asine accoppiate ai cavalli. La cavalla porta il mulo un po' più a lungo del suo proprio puledro; ma il mulo neonato sta più presto in piedi del giovane cavallo. Il tempo del suo crescere è anche più lungo che non nel cavallo: prima di quattro anni nessun mulo può essere applicato al lavoro; dopo, la sua forza dura fino al trentesimo anno, e talvolta sino al quarantesimo.

Ancora ai nostri giorni si afferma insistentemente che i muli sono infecondi, ma ciò non è interamente vero, perché vi sono stati casi di riproduzione fra muli. Naturalmente si tratta di casi che si possono contare a sole decine, nel giro di molti secoli, ma ciò non toglie che qualche volta una mula, accoppiata ad un cavallo stallone, abbia partorito magnifici puledri.

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QUAGGIA (Equus quaggia)

Rappresenta la prima delle tre specie del terzo genere della famiglia dei cavalli, e precisamente del genere dei cavalli tigrini. Nella sua struttura il Quagga si accosta più al cavallo che non all'asino. Il corpo è molto ben conformato la testa elegante e di media grandezza; le orecchie sono corte, robuste le zampe. Lungo il collo si rizza una criniera breve e dritta, come la porta il cavallo corridore, la coda è pelosa sin dalla radice, più lunga che non negli altri cavalli tigrini, ma assai più breve che non nel cavallo. Nel rimanente del pelame il Quagga somiglia molto a questo: il pelo è breve e aderente al corpo. Il colore fondamentale è bruno, chiaro sul dorso, sul garrese e sui fianchi, più scuro sulla testa; il ventre, la faccia interna delle cosce e i peli della coda sono d'un bianco puro; sulla testa, sul dorso, sulle spalle scorrono strisce d'un bianco bigio che tende al rossiccio, le quali sulla fronte e sulla tempia sono dirette nel senso della lunghezza e ristrette, ma nelle guance si dispongono trasversalmente e sono alquanto discoste, formando un triangolo tra gli occhi e la bocca. Sul collo si contano dieci di quelle fasce, che si presentano anche nella criniera; sono quattro sulle spalle, e alcune sul corpo, le quali, però, si vanno accorciando e impallidendo a misura che s'allontanano. Lungo tutto il dorso scorre fino alla coda una fascia d'un nero bruno, marginata d'un bigio rossigno sui due lati. Le orecchie, munite di peli bianchi all'interno, esternamente sono d'un bianco-gialliccio listato d'un bruno-scuro. I due sessi si somigliano molto; soltanto che la femmina è alquanto più piccola e, a differenza del maschio, ha la coda di un colore leggermente diverso. Il maschio adulto misura metri 1,88 e con la coda metri 2 e 55 centimetri; l'altezza al garrese è di circa un metro e venti centimetri circa.

ZEBRA DI BURCHELL O DAUW (Equus burchelli)

Questo animale si deve considerare come il passaggio tra il quagga e la zebra, ma somiglia più a questa che non a quello. E' poco più piccolo del quagga; misura più di due metri e quaranta centimetri di lunghezza ed è alto al garrese circa metri 1,20; ha il corpo tondeggiante con nuca molto arcuata, piedi robusti e criniera diritta, a foggia di cresta, alta 13 centimetri, coda somigliante a quella del quagga o del cavallo, pelosa quasi sino alla radice, piuttosto lunga, ed orecchie strette, di media lunghezza. Il pelo fino, aderente, è color isabella, bianco di sotto. Dalle narici partono quattordici sottili strisce nere, di cui sette si volgono in su e si riuniscono ad un numero uguale risalente dalla parte opposta; le altre corrono obliquamente attraverso le guance e si collegano a quelle della mandibola inferiore; una circonda l'occhio. Lungo il mezzo del dorso scorre una fascia nera, listata di bianco; sul collo se ne contano dieci, larghe, nere, divise, tra cui se ne insinuano delle piccole brune; l'ultima fascia si fonde verso il basso e ne forma tre o quattro altre. Quelle fasce girano sopra tutto il corpo, ma non sulle zampe, che si differenziano per esser di un bianco uniforme.

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ZEBRA DI MONTAGNA (Equus zebra)

La Zebra o cavallo tigrino di montagna è finalmente listata per tutto il corpo, ed è perciò facilmente distinguibile dal Dauw. Un esame più diligente ci permette di riconoscere altri caratteri. Nella sua struttura ha meno rassomiglianza con il cavallo, ed assai più con l'asino, e principalmente con lo ziggettai. Il corpo è sodo e robusto, il collo arcuato, la testa breve, il muso rigonfio, i piedi snelli e ben conformati; la coda di media lunghezza è, per la sua maggior parte, rivestita di peli bruni, che si vanno allungando all'estremità appunto come nella coda dell'asino, la criniera è folta, ma brevissima. Dal muso sino agli zoccoli corrono sopra un fondo giallo-chiaro alcune fasce trasversali nero-lucide o bruno-rosse; la sola parte posteriore del ventre e la faccia interna delle zampe non hanno fasce.

Probabilmente la Zebra fu prima conosciuta dagli europei. Non si può decidere se l'hyppotigris, che Caracalla uccise, fosse appunto di questa specie, ed uno scrittore che venne dopo, Philostorgius, il quale scrisse verso l'anno 425, parla di un grosso asino selvatico, tutto rigato. Dai portoghesi abbiamo le prime notizie esatte, che raccolsero, dopo la loro colonizzazione, dall'Africa orientale, dove conobbero il quagga e poi la Zebra.

La patria e il luogo d'abitazione per quegli animali tanto affini sono differenti: il quagga si trova solo nel mezzogiorno dell'Africa e principalmente nelle pianure; il dauw, che abita località analoghe, s'inoltra più a nord sino alle steppe che arrivano all'Equatore; la Zebra, normalmente, vive esclusivamente nelle regioni montuose dell'Africa meridionale e di quella orientale dal Capo sino all'Abissinia.

Tutti i cavalli tigrini sono riuniti in branchi piuttosto numerosi, ma fra specie e specie vivono nettamente separati: forse si temono a vicenda, sebbene non temano affatto gli altri animali.

I compagni più costanti di questi cavalli sono gli struzzi, ma anche le antilopi.

Tali amicizie non sono strane, perché i più timidi hanno tutto da guadagnare stando in compagnia di quei giganteschi animali.

I membri più vigilanti di quelle società miste dànno sempre l'intonazione; finché sono tranquilli, gli altri non si dànno alcun pensiero se non quello di mangiare e di spassarsela; ma, appena uno di essi si mostra preoccupato, ciò desta l'attenzione di tutta la schiera, e se essi prendono la fuga, questa li segue.

Tutti i cavalli tigrini sono animali velocissimi e allegri: passano con la rapidità dell'uragano sulle pianure come sulle montagne, poiché la Zebra si arrampica magistralmente. Sono grandissime la sua vigilanza e la sua timidezza.

Quando si avvicina un pericolo, prendono la fuga in rapido trotto, e pochi minuti dopo sono fuori d'ogni persecuzione. Un buon cavallo da caccia li può raggiungere su un terreno pianeggiante, ma soltanto dopo lunghi sforzi.

Si racconta che il giovane quagga, se vien dato al cacciatore di balzare con il cavallo in mezzo al branco e di dividere il puledro dalla madre, si assoggetta volentieri alla schiavitù, seguendo il cavallo come prima seguiva la madre.

D'altronde una certa simpatia sembra regnare tra il cavallo tigrino e gli animali domestici solidunguli: almeno il quagga segue spesso il cavallo del viaggiatore e pascola tranquillamente con esso.

I cavalli tigrini non sono mai difficili nella scelta del loro cibo, pur non essendo tanto sobri come l'asino. La loro fertile patria offre quanto basta al mantenimento, e, se il cibo si fa scarso in un luogo, si va a cercarne uno più favorevole.

Così il dauw, come gli altri animali che vivono in società nell'Africa, intraprende periodiche migrazioni quando la siccità inaridisce tutto nelle distese deserte che formano il suo soggiorno prediletto. Quando ha inizio la stagione delle piogge, esso lascia volontariamente le regioni coltivate, nelle quali è esposto a persecuzioni o almeno a vessazioni, e torna ai suoi antichi pascoli.

La voce del cavallo tigrino ricorda in certo modo il nitrito del cavallo ed il raglio dell'asino, ma è pure diversa da questo e da quello. I sensi di questi animali sono acuti: al loro orecchio non sfugge il più lieve suono, mentre l'occhio si lascia ingannare rarissimamente. Nell'indole somigliano assai alle specie affini: un illimitato amore di libertà, una certa selvatichezza, anche malizia, ed un grande coraggio, sono comuni a tutti.

Essi combattono valorosamente con morsi e con calci contro gli attacchi delle belve, e le iene li lasciano prudentemente in pace. Solo al leone viene fatto di soggiogare uno di questi animali, ma prima di riuscirvi, anch'esso ha da combattere seriamente; l'audace leopardo non osa aggredire se non i più deboli; gli adulti lo rovesciano a terra e lo malmenano con morsi e calci. Il peggiore nemico degli ippotigri rimane l'uomo. La difficoltà della caccia, la bellezza del pelame, di cui si possono fare vari usi, sono gli incentivi che animano l'europeo alla caccia di un animale del tutto inoffensivo.

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Molti coloni delle montagne del Capo di Buona Speranza dànno con passione la caccia al quagga e al dauw; ma anche gli abissini insidiano accanitamente gli ippotigri che si trovano tra loro (Zebra e dauw) per la ragione che le persone agiate amano ornare il collo dei loro cavalli con frange fatte della variegata criniera di quel selvaggio affine ai loro destrieri.

Gli europei uccidono gli ippotigri con palle, gli indigeni con giavellotti, ma più generalmente quei leggiadri animali precipitano in trappole, dove vengono uccisi con poca fatica, oppure destinati alla schiavitù.

Volentieri si tengono ippotigri vivi nei poderi del Capo, in parte per rallegrare lo sguardo con la loro bellezza, in parte per il loro coraggio.

I quagga, presi giovani, sono presto ammaestrati e servono allora meravigliosamente da custodi ai solidunguli domestici; ne assumono volentieri la difesa al pascolo, e tengono almeno a distanza le sempre temute iene.

Nelle colonie del Capo se ne vedono sovente appaiati al tiro con i cavalli, e tal volta anche per altri lavori nei campi.

Quanto a volerli cavalcare è consigliabile non tentare, perché, quando un cavallo tigrino s'accorge che ha qualcuno sulla groppa, si volge di scatto, fa cadere il cavaliere, accosta il suo capo a quello del suo domatore, ed è probabile che gli porti via qualche orecchio con un bel morso.

Questi ed altri analoghi tentativi hanno disgustato i coloni del Capo e li hanno persuasi che è quasi impossibile ammaestrare ippotigri.

Tuttavia, ad opera di accaniti e capacissimi domatori, si sono spesso ottenuti lusinghieri risultati; ma quale animale, fosse il più feroce, non finisce per imparare sempre qualcosa sotto la sferza del primo animale, che è l'uomo?

Da quanto si è potuto osservare finora, gli ippotigri presso di noi sopportano senza difficoltà la schiavitù. Se hanno poi un buon nutrimento, si comportano egregiamente, e se sono trattati con cura non stentano a riprodursi.

Una zebra

Modello tridimensionale di zebra

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TAPIRI

La famiglia dei Tapiri, oltre a quella dei suini e degli iraci, è la rappresentanza vivente di alcune specie estinte di pachidermi.

Si tratta di animali relativamente piccoli, elefantiformi, che possono essere considerati un anello di congiunzione fra gli elefanti e i suini o fra i primi e i rinoceronti.

Io mi unisco al cospicuo gruppo di naturalisti che, in opposizione a quelli che vogliono vedere nei Tapiri un genere dei più grossi pachidermi, li considerano invece una famiglia distinta.

Questi animali si distinguono dagli altri pachidermi per la mole relativamente piccola, per il corpo ben conformato, la testa sottile e allungata, il collo snello, la corta coda, le zampe robuste e di media grandezza.

Le orecchie, sempre ritte sulla testa, sono corte e larghe, gli occhi, collocati obliquamente, sono invece piccoli.

Il labbro superiore si protende, in forma di proboscide, molto oltre il labbro inferiore.

I piedi anteriori hanno quattro dita; tre quelli posteriori, la coda è un moncone.

La pelle, anche in questi animali estremamente dura, non mostra le pieghe che si trovano negli altri pachidermi dovunque si presenta liscia; il pelame è corto ma fitto.

La dentatura è composta da sei incisivi, da un canino per parte in ogni mandibola, da sette molari nella mascella superiore e da sei nell'inferiore. Lo scheletro, che ha grandi analogie con quello degli altri pachidermi, si distingue per la forma relativamente svelta.

La colonna vertebrale è formata da 20 vertebre dorsali, 4 lombari, 7 sacrali e 12 caudali; la cavità toracica è composta da otto paia di costole, mentre le altre sono le cosiddette false costole.

Nel capo la lunga e stretta parte facciale supera di molto la scatola cranica, che appare molto compressa. Le ossa nasali, che si protendono liberamente, sono molto rialzate; l'arco zigomatico si incurva profondamente in avanti e le cavità oculari si aprono nelle profonde fosse temporali.

A questa famiglia appartengono tre specie ben distinte, due delle quali vivono in America, mentre la terza vive nell'India e nelle isole vicine.

Le specie che vivono nell'Antico Continente presentano animali di forme più nobili ed eleganti; di quelle tre specie, il primo posto spetta certamente a quella indiana perché serba in sé un maggior numero di caratteri che la accomunano al suo grande cugino, l'elefante.

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TAPIRO DALLA GUALDRAPPA (Tapirus indicus)

Si distingue dai suoi affini per la maggior mole, la corporatura relativamente più snella, la testa più affilata nella parte facciale e più convessa nella parte cranica, la proboscide più robusta e più lunga, i piedi più robusti, l'assenza della criniera e per il colore.

Soprattutto la struttura della proboscide riveste un'importanza speciale come carattere distintivo di questa specie.

Infatti mentre nei tapiri d'America quest'organo si distacca visibilmente dal muso e si presenta in forma di tubo tondeggiante, nel Tapiro dalla Gualdrappa la parte superiore del muso si trasforma sensibilmente in una proboscide che ha la stessa forma di quella dell'elefante, e cioè è tondeggiante nella parte superiore e piatta in quella inferiore.

Inoltre, questa proboscide accenna più chiaramente di quella dell'affine americano, all'appendice digitiforme, altro carattere in comune con la proboscide dell'elefante.

Un particolare notevole è dato inoltre dal colore del mantello: un nero-scuro forma il fondo, e sopra questo spicca la gualdrappa di un bianco-bigio. Il capo, il collo, la parte anteriore del corpo fino all'omero, comprese le zampe, una striscia di 23 centimetri di larghezza che scorre lungo il petto e in mezzo al ventre, le zampe posteriori e la coda sono tutti neri; il resto del corpo è bianco-bigio.

Le orecchie presentano al vertice un margine chiaro, come nel tapiro americano.

Il pelo è dello stesso colore dalla radice all'apice. Le unghie sono di colore scuro, l'iride è di un violetto cupo e la pupilla tonda è nera.

Un individuo adulto femmina misura dall'apice della proboscide alla coda metri 3 e 36 centimetri. La testa è lunga 62 centimetri, sempre dall'apice della proboscide fino dietro l'orecchio; la proboscide rattratta è lunga 30 centimetri.

La coda è ridotta ad un semplice mozzicone. Al garrese l'altezza è di 94 centimetri, mentre alla groppa misura un metro circa.

Le zampe anteriori, fino al ginocchio, sono lunghe 49 centimetri, quelle posteriori 54 e, fino all'articolazione della coscia, 98 centimetri.

La circonferenza del corpo nel massimo sviluppo è di metri 1,86.

Le particolareggiate descrizioni di questo animale si trovano nella storia naturale cinese Pen-thsao-Kanamon, nella quale è scritto: «Il Me (è questo il nome cinese del Tapiro dalla Gualdrappa) rassomiglia ad un orso.

Ha la testa piccola e le zampe basse.

Il pelo è corto, lucente e generalmente macchiettato di bianco e di nero. Ha una proboscide da elefante, occhi da rinoceronte, coda di vacca e piedi che somigliano a quelli di una tigre».

TAPIRO AMERICANO (Tapirus americanus)

Si distingue dal fratello indiano per la corta criniera e per il colore uniforme del suo pelame. E' la specie della famiglia che fu conosciuta per prima.

Subito dopo la scoperta dell'America, i viaggiatori che di là provenivano, parlarono di un grosso animale, che credevano un ippopotamo, tanto che gli fu dato il nome di Hippopotamus terrestris.

Ma già i primi naturalisti che si recarono sul posto per esaminare da vicino questo animale, esclusero quella prima definizione e pervennero a una rapida e perfetta classificazione dell'animale.

Il Tapiro Americano ha un mantello uniforme che si allunga a forma di criniera dal mezzo del cranio, lungo la nuca e fino alle spalle.

Il colore è bigio-bruno-nericcio, più chiaro ai lati della testa e particolarmente sul collo e sul petto.

I piedi, la coda, la linea centrale del dorso e della nuca sono più scuri; le orecchie sono orlate da un bordo bigio-bianchiccio. Il colore presenta numerose varietà.

Ve ne sono fulvi, bigi, giallicci e bruni.

Negli individui giovani, soltanto il dorso presenta il colore fondamentale dei genitori; la parte superiore della testa è macchiettata di bianco e lungo i due lati del corpo scorrono quattro file interrotte di punti di colore chiaro, che si estendono anche sulle membra.

Con l'aumentare dell'età quelle macchie si allungano, formando delle strisce che poi spariscono completamente alla fine del secondo anno.

Fra i tapiri americani si nota un fatto veramente strano, e cioè che i maschi sono generalmente più piccoli delle femmine; a queste ultime infatti spettano le misure massime della specie e cioè due metri di lunghezza e uno d'altezza.

Questo animale vive in gran parte dell'America centrale, dall'Oceano Atlantico al Pacifico: non manca in nessuna località della Guiana, del Brasile, del Paraguay e del Perù.

PINCHAGUE (Tapirus villosus)

L'appellativo latino denuncia chiaramente il folto pelame che ricopre il corpo di questo animale. Il suo colore è un nero-bruno; la metà del labbro superiore, il margine di quello inferiore e il mento sono bianchi; anche le orecchie hanno un bordo bianco; dalle due parti della groppa si nota una macchia fulva. Il dorso e il collo sono cilindrici e non presentano pieghe nella pelle. Il pelame è lungo e folto; i peli sono più chiari alla radice che all'estremità; e formano una criniera sulla nuca. Notevoli sono le differenze che si riscontrano nell'impalcatura ossea dei due tapiri americani: i crani soprattutto differiscono notevolmente. Per la mole, questo animale è inferiore al tapiro. La sua lunghezza è di metri 1,65; l'altezza al garrese è di metri 1,80.

L'area di diffusione di questa specie è molto vasta. Il Pinchague stabilisce la sua dimora sulle montagne ed è frequentissimo nelle Cordigliere, a un'altezza di oltre 2.500 metri. E' un fedele abitante delle boscaglie ed evita accuratamente i luoghi nudi e scoperti. Si tratta di animali crepuscolari, ma nei fitti boschi vagano tranquillamente anche di giorno, protetti dall'inaccessibilità del luogo e ritemprati nelle loro forze dalla frescura naturale.

Anche negli animali in schiavitù si nota questa tendenza alla vita notturna. Sembra abbiano in odio la luce del giorno. Verso sera se ne vanno in cerca di cibo e restano in attività per tutta la notte. Per il modo di vita i tapiri somigliano molto al nostro cinghiale, anche se, a differenza di questo, la loro vita si svolge piuttosto solitaria. Soprattutto i maschi sembrano desiderosi di una solitudine contemplativa alla quale rinunciano solo per il breve periodo degli amori. Raramente si vedono famiglie unite e per lo più non superano i tre individui. I branchi di tapiri si formano soltanto per avviarsi ai fiumi dove bevono e si bagnano.

I movimenti dei tapiri sono simili a quelli dei suini. La loro andatura è lenta e sospettosa, una zampa si posa lentamente davanti all'altra, il capo è chinato verso il suolo, mentre la proboscide, come le orecchie, è in continuo movimento, fiuta qua e là e dà movimento all'insieme tardo del corpo. Al minimo rumore, il Tapiro si ferma: proboscide ed orecchie si muovono e si volgono con febbrile vivacità, e improvvisamente l'animale fugge a capo basso sempre in linea retta, sia in un bosco che nell'acqua o nella palude. Il Tapiro è un eccellente nuotatore e un tuffatore straordinario, che affronta senza paura i fiumi più larghi ed impetuosi. Fra i suoi sensi primeggiano l'olfatto e l'udito; la vista è invece debole, come si può dedurre dai suoi piccolissimi occhi. L'organo del tatto, rappresentato dalla proboscide, è anch'esso ben sviluppato. La sua voce è un fischio stridulo e del tutto particolare e si ode prevalentemente nel tempo degli amori.

Si tratta di animali buoni, pacifici e timidi, che fanno uso delle loro armi solo in caso di assoluta necessità. Fuggono davanti a ogni nemico, sia pure un piccolo cagnolino, ma quando si mettono in posizione di difesa, sono avversari tutt'altro che disprezzabili; si precipitano con furore sul loro nemico, cercando di buttarlo a terra e sanno far anche buon uso dei loro denti. Con questi sistemi la madre difende il suo piccolo se lo vede minacciato, incurante del pericolo e perfino delle proprie ferite.

Le facoltà intellettive di questo animale sono molto limitate; la sua è un'attività completamente e soltanto istintiva. Tuttavia il livello intellettuale del Tapiro non è inferiore a quello del cinghiale. Citeremo a conferma quanto dice il Rengger sul Tapiro prigioniero: «Un giovane tapiro prigioniero si abitua dopo pochi giorni di schiavitù all'uomo e alla propria abitazione che non abbandona più. Impara presto a distinguere dagli altri il suo custode, lo cerca e lo segue a poca distanza. Se il cammino è molto lungo, preferisce andare avanti al custode e se ne torna a casa da solo. Manifesta irrequietezza se il suo padrone si assenta a lungo, e lo cerca dovunque».

Anche nei rapporti con gli altri animali, i tapiri si dimostrano tranquilli, tolleranti e perfino affettuosi. Se si avvicinano loro altri animali, essi si limitano dapprima a fiutarli, e poi, se li vedono innocui, prendono a leccarli con amore.

Sono animali lentissimi; dormono molto, soprattutto durante la calda estate. Si risvegliano al tramonto e raggiungono il massimo della vivacità durante la notte.

In quelle ore essi sono soliti fare il bagno nelle pozzanghere dove depongono anche i loro escrementi.

Si cibano solo di vegetali e soprattutto delle foglie degli alberi.

Non di rado visitano le piantagioni facendo strage di canne da zucchero, di poponi e altre cibarie.

Come i ruminanti, anche questi animali hanno l'assoluta necessità di ingerire notevoli quantitativi di sale: «In tutte le bassure del Paraguay», scrive infatti Rengger, «dove la terra contiene solfato e muriato di sodio, si trova una quantità di tapiri, che leccano il suolo compenetrato di sali». Anche i prigionieri manifestano la necessità del sale fra i cibi; per il resto mangiano tutto quello che si dà anche ai porci.

Il periodo degli amori per il Tapiro in libertà ricorre nei mesi che precedono le piogge.

I due sessi, allora, fischiano di comune accordo e vivono in coppie per alcune settimane.

La gestazione dura circa quattro mesi, al termine dei quali la femmina partorisce un solo piccolo che presenta un corpo rigato come quello di piccolo cinghiale.

Nel nato del Tapiro dalla Gualdrappa il colore fondamentale è nero fulvo di sopra, macchiettato e rigato di bianco al di sotto. Nell'altra specie americana, invece, il piccolo è di un colore bigio-chiaro, cosparso di macchie e di strisce.

Verso il quarto mese di vita il colore cambia, le macchie spariscono e nel sesto mese il figlio assume già l'abito paterno.

Tutte e tre le specie di tapiri trattate, sono perseguitate dall'uomo che trae notevole profitto dalla loro carne e dalla pelle.

Soprattutto quest'ultima è molto apprezzata a causa della sua robustezza.

Generalmente viene utilizzata per la fabbricazione di scarpe, borse, cinghie, briglie e fruste.

I coloni soprattutto e gli indigeni fanno la caccia al Tapiro, sia per mezzo di cani che lo fanno uscir fuori dal bosco spingendolo verso i cacciatori, oppure sparandogli a mitraglia mentre sta nell'acqua.

I selvaggi scovano il Tapiro seguendone le orme, lo circondano e lo spingono verso i tiratori.

La vitalità di questo animale è notevolissima: Azara dice che esso è capace di sopportare qualsiasi colpo, e che perfino con il cuore forato da una pallottola corre ancora per parecchie centinaia di passi prima di cadere.

Nel Paraguay, i cacciatori usano un metodo particolare e brutale per portarsi via un tapiro preso vivo: gli praticano in una delle narici un foro che attraversa la parte superiore della proboscide e passano in quella apertura una striscia di cuoio che a ogni movimento di resistenza dell'animale gli cagiona un dolore atroce.

Inorridiscano tutti i membri della Società protettrice degli animali, che avrebbero ben ragione; forse anche più di quelli che gridarono al «crucifige» contro coloro che avevano lanciato le scimmie nello spazio a scopo scientifico.

Oltre all'uomo, e più temibili di questo, i Tapiri hanno i loro nemici nei felini.

I viaggiatori americani affermano che le specie americane sono crudelmente decimate dal giaguaro; altrettanto fa la tigre nei confronti del Tapiro dalla Gualdrappa.

I felini si lanciano affamati sulla preda, e le balzano alla nuca, che stringono fra gli affilati denti.

La pelle del Tapiro, tuttavia, oppone una notevole resistenza e dà tempo all'animale di fuggire nel bosco in cerca di aiuto, sempre portandosi alla nuca aggrappato il nemico.

A volte, i rami intricati riescono a liberare e a salvare il malcapitato, che porterà poi per tutto il resto della vita le cicatrici a ricordo della triste avventura.

OBESI

In questa famiglia sono riuniti i Pachidermi propriamente detti od Obesi (Obesa). Questa famiglia non contiene che due generi: i Rinoceronti e gli Ippopotami. Gli Obesi si distinguono dai proboscidati per l'assenza del naso prolungato e per i piccoli canini in luogo delle poderose zanne, per la presenza di incisivi e per l'enorme corpo, coperto di una pelle spessissima, che posa su zampe corte. La pelle, di un bigio-rossiccio o di un bruno-cupo, è generalmente nuda, ma spuntano qua e là alcuni peli. Inoltre è molto rugosa alle articolazioni e ovunque deve piegarsi.

Le tre o quattro dita dei piedi sformati sono racchiuse in zoccoli imperfetti ed irregolari. Il naso e le orecchie sono molto sviluppati; gli occhi sono piccoli e inespressivi. Lo scheletro ha forme massicce. Le ossa sono grosse, forti, mal costruite. Nel cranio la parte facciale è assai allungata, e sono molto sviluppate le ossa del naso.

Nella colonna vertebrale le vertebre del collo hanno processi spinosi robusti, le vertebre dorsali li hanno lunghi, le lombari larghi, le sacrali e le caudali li hanno piccoli. Il numero delle vertebre dorsali è notevole e può variare. Nelle estremità sono notevoli le enormi zampe. Anche i muscoli sono saldi e ben sviluppati. Le labbra sono piccole: il labbro superiore, talvolta, si prolunga in proboscide. La lingua è grossa e liscia, lo stomaco semplice o diviso, l'intestino lungo almeno dieci volte quanto il corpo.

Gli Obesi abitano l'Asia meridionale ed alcune delle sue isole, oltre all'Africa centrale e meridionale. Nel loro modo di vivere hanno molta somiglianza con l'elefante: come questo amano la prossimità dell'acqua e le regioni paludose; come questo salgono egualmente dalle pianure alle colline.

Prediligono i boschi fitti, umidi, che racchiudono pantani, laghi, ruscelli e torrenti. Gli ippopotami, in modo particolare, hanno estrema necessità dell'acqua. Gli Obesi possono essere considerati anelli di transizione tra i mammiferi terrestri e quelli marini. Gli ippopotami nuotano anche lontano, nel mare, con grande abilità, il che sta a dimostrare che sono parenti dei cetacei. Gli Obesi sono socievoli, ma non come gli elefanti. Gli ippopotami fraternizzano con i loro simili, i rinoceronti invece vivono a coppie o in piccoli branchi. Gli uni sono notturni, gli altri attivi anche di giorno. La loro vita non consiste che nel mangiare e riposare. Superano tutti gli altri mammiferi in voracità ed indolenza. Giacciono per lunghe ore immobili e si scuotono soltanto se spinti dalla fame o da un vivo furore. Il loro incedere è tardo e pesante, la corsa goffa e impacciata. Una certa agilità essi la dimostrano solo nell'acqua; nuotano infatti indifferentemente sia sopra che sott'acqua, resistono per parecchi minuti senza respirare e poi riaffiorano con facilità.

La loro forza straordinaria fa sì che essi possano muoversi senza difficoltà anche nella foresta; neppure la macchia più fitta impedisce i loro movimenti, perché essi schiacciano e calpestano i rami che si oppongono al loro passaggio. Sanno tracciarsi un bel sentiero diritto perfino sui pendii dei monti. Il cibo degli Obesi consiste soprattutto nei vegetali: piante acquatiche, cereali, erbe, frasche, rami di cespugli o d'alberi, radici o frutta. I rinoceronti afferrano il cibo col loro labbro superiore a forma di proboscide, l'ippopotamo, invece, lo strappa coi denti. Le labbra di questo animale sono così massicce, che riescono a malapena ad abboccare il cibo. Nella scelta del cibo, non sono di gusti difficili: nel loro enorme esofago gettano con indifferenza canne, rami, foglie secche, ramoscelli spinosi, lo sterco di animali erbivori e perfino quello degli individui della stessa specie.

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RINOCERONTE INDIANO (Rhinoceros unicornis)

E' questa la specie più grossa del genere dei rinoceronti, di cui ben sette specie popolano il globo terrestre. Queste specie vengono riunite dai naturalisti in tre gruppi: quelli che hanno un solo corno e la pelle rugosa; quelli che hanno due corni e la pelle liscia. Diremo innanzi tutto che ben a ragione i rinoceronti vengono considerati i più genuini rappresentanti della famiglia degli obesi; si tratta infatti di pachidermi deformi, di notevolissima mole; essi hanno corpo pesante, il collo corto, la testa allungata, le zampe corte e tozze, i piedi muniti di tre dita coperte da piccoli zoccoli. La pelle delle specie viventi è nuda, mentre quella dei rinoceronti preistorici era coperta di fitti peli. Nel capo, la parte facciale si allunga e serve di base per uno o due corni, dei quali il primo è più grosso e il secondo molto più piccolo. Anche lo scheletro mostra una struttura massiccia e robusta. Il cranio è molto più lungo e più basso che negli altri pachidermi, le ossa frontali occupano la terza e la quarta parte della lunghezza del cranio e sono collegate alle forti ossa nasali che formano un arco al di sopra delle narici e sono sostenute da un tramezzo interno. Nel punto in cui sporge il corno, quell'osso è ineguale, ruvido, tubercoloso e questi difetti sono tanto più visibili quanto più aumenta il volume del corno.

L'osso intermascellare si trova solo nelle specie che conservano i denti, mentre è totalmente assente in quelle che perdono i denti, nella prima giovinezza. La colonna vertebrale è formata di vertebre robuste, munite di lunghe ipofisi spinose; 19 o 20 vertebre dorsali sostengono le costole grosse, larghe e molto incurvate; il diaframma si attacca fra la 14ª e la 17ª vertebra; l'osso sacro è formato da 5 vertebre ben saldate insieme; la coda consiste in 22 o 23 vertebre.

La dentatura del genere dei rinoceronti differisce da quella di tutti gli altri animali della famiglia; i canini mancano completamente e così i 4 incisivi superiori e inferiori; 7 molari da ogni lato completano questa strana dentatura.

Una pelle grossissima ricopre tutto il corpo; sulla parte interna delle membra essa raggiunge uno spessore di 6 millimetri, ma nelle parti esterne supera i 18 millimetri di grossezza. In alcune specie la pelle è liscia; in altre forma profonde pieghe, in un'altra si presenta a forma di scudi divisi l'uno dall'altro da profonde pieghe cutanee. Il corno è formato da filamenti cornei paralleli, finissimi; ogni filamento è di circa un decimo o un quindicesimo di millimetro, è tondo o angoloso e vuoto nel centro. Questi filamenti formano il corno che posa, con la sua larga superficie tondeggiante, sulla superficie rugosa dell'osso nasale e frontale. La sua lunghezza può raggiungere i 90 centimetri, poi si curva bruscamente all'indietro.

L'area di diffusione dei rinoceronti si limita attualmente all'Asia e alle isole circostanti e all'Africa. Il modo di vita delle varie specie si somiglia molto. Poste queste linee generali sui caratteri somatici del genere preso in esame, voglio adesso dare una breve descrizione dei caratteri particolari delle varie specie.

Il Rinoceronte Indiano, come ho detto all'inizio, è il rappresentante della specie più grossa di questo genere. E' un animale unicorne. La lunghezza del corpo, negli individui adulti, raggiunge generalmente i 3 metri; quella della coda i 60 centimetri e l'altezza al garrese è di un metro e mezzo. La circonferenza del corpo, nel suo punto massimo, è di 3 metri e 15 centimetri. Si sono trovati individui la cui lunghezza raggiungeva i 4 metri e 10 e la cui altezza al garrese era di metri 2,10. Il loro peso oscilla fra i 2.000 e i 3.000 chilogrammi. Il corpo del Rinoceronte Indiano è massiccio, grosso e allungato; anche il collo è grosso, ma corto; la testa è di una grossezza media e molto allungata; la fronte si solleva in protuberanze da ambedue i lati davanti alle orecchie, per poi scendere bruscamente verso gli occhi, sopra i quali appare nuovamente sollevata. Le orecchie di media grossezza, lunghe e strette, simili a quelle del maiale, sono mobilissime. Gli occhi, sproporzionatamente piccoli, sono profondamente infossati e poco aperti. Sui due lati del labbro superiore si trovano le narici. Il corno s'innalza sulla vasta superficie dell'estremità del muso, in mezzo e al di sopra delle due narici; è semplice, allungato, aguzzo a forma conica, molto ricurvo indietro. La sua lunghezza può raggiungere i 60 centimetri, la circonferenza alla base è di 30 centimetri. Il labbro superiore largo e pianeggiante, si allunga nel mezzo in un grifo aguzzo, simile a un dito; può spingersi in avanti per 15 o 18 centimetri e di nuovo ritrarsi indietro. Le zampe sono corte, tozze, informi, storte come quelle del cane bassotto e sono dotate di articolazioni poco visibili esternamente. I piedi terminano con 3 dita ben avvolte dalla pelle prima e dallo zoccolo più in giù. Gli zoccoli sono grossi, tagliati di sotto in linea retta e lasciano scoperta la maggior parte della pianta dei piedi che si presenta larga, dura, callosa. La coda è corta, penzola verticalmente e si va assottigliando dalla radice fino alla metà. Gli organi genitali sono molto grossi; quelli del maschio sono stranamente conformati. Le mammelle della femmina hanno due capezzoli. La pelle è fittissima, molto più dura di quella dell'elefante, e aderisce ad un grosso strato di tessuto connettivo floscio, in modo che può essere facilmente mossa qua e là. Copre il corpo formando una corazza, divisa in piccole zone, di natura cornea e interrotta da pieghe profonde. Queste pieghe, che si trovano già nei neonati, rendono possibili i movimenti dell'animale. Sugli orli la pelle sembra gonfia, ma nel centro è molto assottigliata e molle, mentre nelle altre parti sembra una grossa tavola. Negli individui vecchi è nuda dovunque, solo alla base del corno, al margine delle orecchie e alla estremità della coda appaiono poche setole. Dietro la testa comincia la prima piega profonda che scende verticalmente sul collo; dietro questa se ne trova un'altra diretta in su e indietro; dapprima è molto grossa, ma poi si appiattisce e sparisce verso il garrese; dalla metà di questa seconda piega ne parte una terza che si dirige obliquamente verso il collo. Dietro al garrese parte una quarta piega profonda che scorre lungo il dorso e si va abbassando dietro le spalle. Una quinta piega parte dalla groppa e scende obliquamente davanti alla coscia. Dall'ano parte un grosso rigonfiamento che scorre orizzontalmente sulla coscia. Dovunque la pelle è coperta da piccoli scudi cornei, irregolari, tondeggianti.

Negli individui giovani si possono trovare, qua e là, alcuni peli grossi, molto duri e setolosi. Il colore presenta molte variazioni. I rinoceronti più vecchi sono di colore bigio-scuro completamente uniforme, tendente al rossiccio o all'azzurrognolo; nel fondo della pelle troviamo un colore rossiccio pallido o carnicino-azzurrognolo; sono, infatti, la polvere, il sole e il fango a far sembrare l'animale più scuro di quello che sia in realtà.

RINOCERONTE CAMUSO (Certhotherium simum)

Oltre i due rinoceronti qui sopra citati, in Africa vive un'altra specie, rappresentata, appunto, dal Rinoceronte Camuso. Su questo, e indirettamente per gli altri, ci intratterremo parlandone distesamente. Il Rinoceronte Camuso pascola in grandi schiere nel paese dei Betschuani, e si distingue dal rinoceronte bicorne per la quantità delle costole, chiudendo tuttavia le specie dei rinoceronti che si conoscono. Con questo non vogliamo dire che altre specie non possano venire scoperte in Africa, perché anzi v'è già chi parla di numerose altre, ma è un fatto che, o i naturalisti che l'hanno viste non hanno trovato sufficienti elementi per caratterizzarle, oppure hanno parlato e parlano per sentito dire, il che senza dubbio non può essere portato come elemento costituente della Storia Naturale.

Precisiamo che in seguito a tali notizie anche noi ci recammo in Africa, e dobbiamo dire che sul Fiume Azzurro superiore trovammo le orme del rinoceronte lungo i sentieri che conducono al fiume, ed in gran quantità; tuttavia non ci capitò mai d'imbatterci nell'animale stesso.

Un viaggiatore tedesco, che nel medesimo tempo percorreva al pari di noi quella parte dell'Africa, aveva avuto anche lui dagli indigeni descrizioni dei rinoceronti, e non esitò a presentare tali descrizioni, dopo averle accomodate a suo modo, come relative al pauroso unicorno. Gli scienziati europei per qualche tempo dovettero essere molto creduloni per prestar fede ad una simile menzogna. Dalle descrizioni degli indigeni potemmo arguire che altre specie di rinoceronti senza dubbio esistono nelle province orientali del Sudan, e più ancora nelle terre situate a mezzogiorno del Dar el Fuhr e di Wadai; tuttavia, come abbiamo già detto, rimane ancora incerto di quali specie si tratti, sebbene certuni le diano per ben definite, surrogando con la fantasia i punti che scientificamente rimangono oscuri.

Ad ogni modo la scienza non ha fretta, e ha il diritto di attendersi ancora molto dall'esplorazione esatta dell'Africa, rispetto alla conoscenza precisa di questi animali. Non è assolutamente improbabile che il numero delle specie viventi possa crescere ancora, e tale può ben essere anche il caso per quelle dell'Asia, giacché il Rinoceronte di Sumatra è stato scoperto soltanto un secolo fa; tuttavia pare certissimo che il mondo preistorico fosse molto più ricco di specie di questa famiglia.

A questo proposito, diciamo anzi, prima di addentrarci nella presentazione dell'animale che ci interessa, che si è riconosciuto un discreto numero di specie preistoriche. Vogliamo soltanto menzionare qui il Rinoceronte Tricorino (Rhinoceros Trichorhinus), di cui giunsero a noi non solo le ossa, ma anche la pelle e i peli. In tutta l'Asia settentrionale, da Don allo stretto di Behring, non esiste fiume in pianura sulle cui sponde non siano state trovate ossa di animali preistorici, e principalmente di elefanti, di bufali, di rinoceronti. Si sa che ogni anno, allo sciogliersi dei ghiacci, si è ottenuta una grande quantità di avorio preistorico, che fino ad un secolo fa costituiva ed anche oggi costituisce un importante articolo di commercio.

«Quando nel marzo 1797», scrisse Pallas, «giunsi a Jacutzk, il Governatore della Siberia orientale mi mostrò il piede anteriore ed il posteriore di un rinoceronte che erano tuttora rivestiti di pelle. L'animale fu trovato sulla spiaggia arenosa d'un fiume, ma nello scavo si erano lasciati le gambe e il dorso». Lo stesso Pallas si affaccendò per saperne di più, e riuscì a portare a Pietroburgo la testa e il piede. Più tardi Brandt esaminò il resto, e così sappiamo che quel rinoceronte preistorico, che durante il periodo diluviale abitava l'Europa centrale e settentrionale, nonché il nord dell'Africa, era, col mammouth, uno dei pachidermi più noti del nostro continente. Si trovarono, oltre che in Siberia, le sue ossa in Russia, in Polonia, in Germania, in Inghilterra, in Francia, ed in quantità davvero straordinaria in molti luoghi. Il carattere essenziale della specie cui appartenevano quegli animali consiste in questo: che il setto nasale, cartilaginoso in tutti gli altri rinoceronti, è in essi ossificato, probabilmente per il sorprendente prolungamento delle ossa nasali. Anche nell'abito si distingue dai congeneri: la pelle disseccata ha un colore d'un giallo sudicio; non è callosa, neppure alla testa, ma grassa, granosa alle labbra, e presenta pori rotondi fittissimi, a mo' di rete da cui escono i peli raccolti in piccoli ciuffi. Alcuni di questi sono dure setole, altri morbida lanugine; del resto questo animale somiglia tanto straordinariamente al suo affine ora vivente che, tutt'al più, si potrebbe considerare come un altro sottogenere. Sembra che la sua alimentazione si sia limitata alle foglie ed alle gemme dei pini, che a quei tempi ed in quelle zone erano diffusissimi; ma nulla si sa di certo a questo proposito.

Altre specie di rinoceronti vivevano nel tempo preistorico nella Germania meridionale e in Francia. Una di esse aveva probabilmente quattro dita alle zampe anteriori e nessun corno, perché alcune scoperte starebbero a testimoniarlo. Fu la prima specie che comparve sulla terra, della quale poco o nulla si sa. Vi si aggiungono ancora alcuni animali preistorici, somiglianti lontanamente al Rinoceronte, e sono per noi degni di interesse soltanto perché costituiscono il passaggio alle specie attuali di pachidermi che si trovano assolutamente isolate.

Gli antichi conoscevano molto bene il Rinoceronte. Non si può dubitare che esso non sia l'Unicorno della Bibbia, del quale Giobbe dice: «Pensi tu che l'Unicorno ti servirà e rimarrà alla tua greppia? Puoi tu fidarti a chi è sì forte che lavorerà per te? Puoi tu confidare che esso raccoglierà i tuoi semi e li raccoglierà nel tuo granaio?». Il testo originale chiama quell'animale Rem, e gli ascrive ora uno ora due corni. I Romani, come ben si può credere, lo conoscevano molto bene, e sia quello a due che quello ad un solo corno. Si facevano comparire nei giochi del Circo, e fu Pompeo a portare a Roma il primo rinoceronte unicorno nell'anno 61 avanti Cristo, affinché figurasse nei combattimenti accanto alla lince delle Gallie e al cinocefalo d'Etiopia. «Il Rinoceronte» racconta Plinio a questo proposito «è nemico nato dell'elefante; affila il corno sopra una pietra e nel combattimento mira di preferenza al ventre, perché lo sa più tenero, e in tal modo uccide l'elefante». Aggiunge che già presso Meroe si trovavano rinoceronti, il che è esatto perché fino al secolo scorso se ne trovavano alcuni.

«Nella città d'Aduleton, la maggiore piazza commerciale dei Trogloditi e degli Etiopi» scrive ancora Plinio «a cinque giornate di viaggio per mare da Tolemaide, si vende molto avorio, corni di rinoceronte, cuoio di ippopotamo, ed altri simili oggetti di commercio». Il primo che parli di questi animali è Agatarchide; dopo viene Strabone, che vide un rinoceronte in Alessandria. Pausania lo presentò sotto il nome di «bue etiopico», e questo nome si ritrova molti secoli più tardi. Marziale canta ambedue le specie: e di quello con un solo corno scrive: «Il rinoceronte compie nell'arena per te, o Cesare, lotte quali non aveva promesse. Oh!, quanto terribile arde egli nell'ira cui si è abbandonato! Quanto poderoso era quel corno, cui un toro faceva da pallottola!». E lo stesso poeta dice del bicorne: «Mentre i pavidi custodi del rinoceronte lo vanno aizzando, si muove lentamente l'animale all'ira. Si disperava moltissimo di vedere la lotta promessa; ma alla fine ritornò il furore primiero. Imperocché col genuino corno sollevò cosiffattamente un pesante orso, come un toro getta alle stelle i fiocchi che ornano le sue corna». Pare che gli egiziani non conoscessero il rinoceronte, perché sinora non si è trovata sopra i loro templi nessuna immagine che si riferisca ad esso. Ma i sacerdoti di Meroe nella Nubia meridionale certamente lo hanno veduto. Gli scrittori arabi parlano da tempi molto remoti dei due animali, e distinguono l'indiano dall'africano. Nelle loro favole il rinoceronte appare sovente come un essere magico, e senza dubbio non si può ritenere frutto di fantasia tutto quello che essi dicono, poiché, se l'animale non ha mai avuto nulla di magico, tuttavia non poteva essere inventato del tutto. Dopo, trascorse molto tempo ancora, prima che si udisse qualche cosa di esso. Marco Polo, lo scrittore tanto noto e tanto autorevole per le faccende della Storia Naturale, è il primo a rompere il silenzio. Nei suoi viaggi in India, nel secolo tredicesimo, vide questo animale, e appunto quello di Sumatra.

«Vi sono» egli dice «molti elefanti e leoni cornuti che sono più piccoli di quelli, e rassomigliano al bufalo per il loro pelame; ma i piedi sono quelli dell'elefante. In mezzo alla fronte portano un corno, ma non ne fanno uso a danno della gente. Se vogliono aggredire qualcuno, lo buttano giù con le ginocchia e lo traforano con la lingua che è armata di alcuni lunghi pungiglioni. Portano sempre abbassato verso terra il loro capo che ricorda quello del cinghiale. Stanno volentieri nella melma e sono rozzi e orridi animali».

Nel 1513 il re Emanuele di Portogallo ricevette infine dalle Indie orientali un rinoceronte vivo. La voce si diffuse per tutti i paesi e non pochi furono quelli che si avventurarono in lunghi viaggi per osservarlo da vicino; mentre Alberto Dürer si accontentò di fare un'incisione in legno dell'animale sulla base di un brutto disegno che gli era stato mandato da Lisbona. Quell'incisione rappresenta un animale che sembra coperto di una gualdrappa, coi piedi rivestiti di squame come di una corazza, e con un piccolo corno sulle spalle. Per circa duecento anni quel disegno del famoso maestro fu l'unica figura che si possedesse del rinoceronte. Infine Chiardin, che vide in Spagna un rinoceronte, ne fece un disegno migliore sul finire del secolo diciassettesimo. Bontius, verso la metà dello stesso secolo, aveva già pubblicato la descrizione del modo di vivere del rinoceronte.

Da quel tempo, tutti i viaggiatori che hanno passione per le scienze naturali, descrivono ora l'una ora l'altra specie, e principalmente quelle che abitano l'Africa meridionale, per cui ora è assai facile dare un concetto generale dell'animale.

Date pertanto alcune notizie generali, per così dire, di natura storica, passiamo ora a descrivere particolareggiatamente il rinoceronte, le cui caratteristiche, la sua indole e il suo modo di vivere, oltre che per il keitloa, valgono anche per gli altri affini.

In generale, i rinoceronti si somigliano tutti nel modo di vivere, nell'indole, nelle qualità, nei movimenti, e per il cibo preferito: tuttavia ogni specie sembra avere le sue particolarità. Tra le specie asiatiche, ad esempio, il Rinoceronte Indiano passa per una creatura estremamente malvagia, cattiva e assolutamente pericolosa, almeno in molte circostanze; il rinoceronte giapponese è rappresentato come animale molto pacifico, per nulla pericoloso e docile; e così quello che vive in Sumatra non sarebbe per niente cattivo. La stessa cosa avviene con quelli del l'Africa: il bicorne, sebbene inferiore di mole, è indicato come il più furioso; il keitloa passa per un cattivissimo animale; ma il Rinoceronte Bruno, al contrario, pare che sia una creatura veramente pacifica. Questa distinzione può sembrare sorprendentemente strana, eppure non è così, perché occorre tenere conto, oltre che della diversità di specie, anche dei luoghi dove essi vivono; tuttavia, e questo in generale, questi pachidermi sono molto più temuti dell'elefante.

Gli arabi del Sudan, che indicano il Rinoceronte con i nomi di anasa e di fertit, sono disposti a vedere in essi, come negli ippopotami, esseri soprannaturali. Credono che qualche cattivo stregone assuma talvolta la forma di questo animale, e tentano di sostenere la loro opinione con il fatto che i rinoceronti e gli ippopotami non conoscano limiti al loro cieco furore. «L'elefante» dicono «è un animale giusto, che onora la parola dell'inviato di Dio, Maometto (su di Lui la pace dell'Onnipotente!) e rispetta le lettere di protezione ed altri simili mezzi di difesa; ma i rinoceronti e gli ippopotami non si prendono pensiero degli amuleti scritti dai nostri preti per preservare i campi, è con ciò provano che è loro perfettamente indifferente la parola dell'Onnipotente e di quello che dice il vero. Sono condannati e reietti sin dall'origine. Non il Signore, che tutto creò, li ha creati, ma il diavolo, che tutto guasta, e quindi non è conveniente da parte dei credenti di mischiarsi con siffatti animali, come sogliono fare i pagani e i miscredenti cristiani. Il vero musulmano evita il loro passaggio al fine di non macchiare la sua anima, di non danneggiarsi, e farsi rigettare, nel giorno del Signore».

I lettori dinanzi a questa storiella possono anche atteggiarsi al riso, circa la veramente strana credenza od opinione dei Sudanesi attorno ai rinoceronti e agli ippopotami, ma non crediamo che la faccenda possa cambiare per quei popoli, mentre a noi conviene tenere conto del loro modo di pensare, non per il fatto in se stesso, ma perché investe la vita e il modo di vivere e la natura stessa di due specie di animali che hanno sempre occupato un posto notevole nella Storia Naturale. Nessuna meraviglia, dunque, e nessuno venga tentato di prendere in giro i sudanesi, giacché essi stessi, prima ancora che noi loro, deridono, o addirittura disprezzano, noi cristiani che intorno ai rinoceronti e agli ippopotami non abbiamo la stessa opinione.

Continuando nel nostro discorso, troviamo che il rinoceronte abita a preferenza le regioni quanto più possibile ricche d'acqua, le paludi, i fiumi che straripano ampiamente fuori del loro alveo, i laghi con sponde paludose e coperte di macchie, presso cui si trovano abbondanti e freschi pascoli. Tuttavia, in Africa avviene sovente che si allontanino parecchio dal mare, per pascolare l'erba delle steppe, come pure fanno quelli delle Indie, che talvolta salgono sui monti. Una volta al giorno, però, ogni rinoceronte si reca all'acqua, per bere ed avvoltolarsi nel fango. Un bagno di fango, difatti, è un'assoluta necessità per tutti i pachidermi che abitano la terra, perché; sebbene la loro pelle giustifichi il suo nome, è tuttavia molto sensibile. Specialmente nel l'estate, le mosche, i tafani e le zanzare tormentano i più grossi mammiferi in modo veramente incredibile, e per mettersi in qualche modo al riparo da simili tormentatori, essi si avvolgono in uno spesso strato di melma. Prima ancora di andare a mangiare - come noi appena levati dal sonno, andiamo a lavarci la faccia e possibilmente a fare un bel bagno alla colonia - essi corrono sulle rive dei laghi, delle pozzanghere, dei fiumi, scavano col corno una buca sufficientemente profonda, e poi vi si avvoltolano, fin quando abbiano dorso, spalle, fianchi e ventre interamente ricoperti di fango. D'altra parte questo rotolarsi nel fango torna loro così gradito che non cessano di emettere grida e brontolii di soddisfazione, e ciò sino al punto che dimenticano addirittura la propria naturale vigilanza. Lo strato di melma, però, li difende per poco tempo contro i pungiglioni delle mosche e delle zanzare, giacché si screpola e cade in breve dalle zampe, dalle spalle e dalle cosce, lasciando scoperti quei tratti che l'animale non può altrimenti difendere. Allora lo si vede, dimenticando la naturale sua indolenza, correre verso gli alberi per stropicciarvisi, diminuendo così la sua tortura per qualche istante. Nel frattempo mangia, se trova subito da mangiare; poi di nuovo nel fango, col medesimo procedimento e, disgraziatamente per esso, con l'identico infelice risultato.
Passando al loro modo di vivere, troviamo che i rinoceronti, come moltissimi altri mammiferi che abbiamo già conosciuto, sono più attivi di notte che di giorno. Il gran calore è loro contrario, e lo sfuggono quanto più è possibile; quindi dormono nelle ore più calde della giornata in qualche posto ombroso, sdraiati sul fianco e sul ventre, dove sono difesi dai cocenti raggi del sole dalle cime dei grandi alberi che vi crescono lussureggianti. Tutti concordemente affermano che il sonno del rinoceronte è molto duro al punto che diversi viaggiatori gli si sono potuti avvicinare quasi sino a toccarlo con le mani senza grandi precauzioni. Gordon Cumming racconta che persino i migliori amici di questo animale, piccoli uccelli che lo accompagnano sempre, tentarono invano di svegliare un rinoceronte che egli voleva uccidere.
Anche i più antichi cacciatori, difatti, affermano che le ore migliori per dare la caccia ai rinoceronti sono quelle del meriggio, quando gli animali sono immersi nel sonno. Del resto, russano così rumorosamente che quella specie di tuono in profondità viene udito a grande distanza, e così i cacciatori s'accorgono per tempo della presenza degli animali che vogliono uccidere. Tuttavia avviene anche che il respiro non sia rumoroso, ed in questo caso il cacciatore può ben trovarsi ad un tratto, e quando meno se l'aspetta, in presenza di un furioso gigante senza essersi accorto della sua presenza. Sparrmann racconta che due dei suoi ottentotti passarono molto vicino ad un rinoceronte che dormiva, e lo riconobbero soltanto quando lo ebbero sorpassato di alcuni passi. Tornarono subito indietro, dopo alcuni attimi di tremenda paura, presero di mira la testa e spararono a bruciapelo con i loro fucili caricati a palla. L'animale faceva ancora alcuni movimenti: caricarono tranquillamente di nuovo i fucili e lo uccisero definitivamente. Sul far della notte, ma in molte regioni anche nelle ore vespertine, la massiccia creatura si alza, prende il suo bravo bagno di fango, in cui si voltola e si stira le membra a proprio piacimento, e se ne va al pascolo (sono le migliori ore per farlo, perché sono le ore in cui mosche, zanzare e simili, solitamente dormono). L'animale se ne va tranquillamente presso le sorgenti e gli stagni, almeno in Africa, dove passa molte ore della notte nei suoi luoghi prediletti. Dopo che ha mangiato a sazietà, non si pone neppure il problema di dove andare a riposare: per esso vanno bene le fitte macchie poco meno che impenetrabili ad altri animali, ed anche le pianure scoperte, l'acqua come anche i canneti delle paludi, i monti come le valli. Persino nel mezzo della più intricata macchia riesce ad aprirsi una strada con la maggiore facilità. I rami, i fusti più sottili, debbono piegare davanti al masso movente, oppure sono schiacciati, mentre soltanto ai tronchi più grossi concede l'onore di una curva. Siccome è indolente, quando vive in società con gli elefanti, approfitta dei sentieri tracciati da questi, ma capita anche, soprattutto quando non può farne a meno, com'è il caso di quando v'è qualche pericolo in vista, che si apra esso stesso un buono e comodo sentiero per inoltrarsi sempre più nella fitta vegetazione.

In caso di necessità, per aprirsi un sentiero che lo conduca lontano dal pericolo, piega col suo corno anche robusti tronchi, e ciò pare che faccia senza eccessivo sforzo, sebbene, certamente, non molto volentieri. Nelle giungle dell'India di tanto in tanto si vedono lunghi sentieri diritti, che hanno dall'una all'altra parte tutte le piante rotte, mentre il suolo risulta battuto: si tratta di sentieri aperti, appunto, dai rinoceronti. Anche nel centro dell'Africa esistono simili passaggi che si riconoscono per quelli del rinoceronte se gli alberi risultano rotti a destra e a sinistra, mentre quelli fatti dall'elefante si distinguono per essere sradicati i bassi tronchi che sono d'impaccio e che, sfrondati, sono rigettati sui lati. Sovente, nelle regioni montuose dell'India si trovano sentieri perfettamente calcati, che vanno da un bosco all'altro sopra declivi rocciosi, e sono stati scavati profondamente nella pietra appunto dal reiterato passare nel medesimo posto di questi pachidermi, di modo che alla fine ne risultano strade incassate.

Rispetto al suo nutrimento, il Rinoceronte sta all'elefante come l'asino sta al cavallo. Preferisce i vegetali di ogni sorta: cardi, ginestre, virgulti, canne, carici e simili. In Africa il suo principale nutrimento sono le mimose spinose, specialmente quelle delle varietà basse e cespugliose e dalle spine incrociate che i cacciatori chiamano pittorescamente «aspetta un pochino» per dire che occorre fare buona attenzione prima di prenderle in mano o passarci sopra sia pure con le scarpe.

Il Rinoceronte abbandona volentieri i boschi e si dirige verso i campi coltivati a breve distanza dalla sua abituale dimora, durante la stagione delle piogge. E' il momento delle grandi devastazioni, che per molti indigeni si tratta di veri e propri flagelli, perché, prima che sia pieno uno stomaco di metri 1,20 di lunghezza e di 75 centimetri di diametro, una grande quantità di vegetali va distrutta, senza contare che non si tratta soltanto di quelli che vanno a finire nel capace stomaco dell'animale, ma anche di quelli che vengono malamente calpestati e che, una volta strappati a colpi di lingua, cadono stroncati al suolo. Pertanto si può calcolare che i vegetali che un rinoceronte distrugge per ogni pasto, rappresentano almeno il triplo di quelli che vengono realmente ingoiati dal vorace animale.

Ma pur attenendoci a quello che mangiano, troviamo che, pesato il cibo giornaliero dei rinoceronti in istato di schiavitù, mandano giù ben 25 chilogrammi di vegetali al giorno, e probabilmente avranno anche più appetito allo stato libero. Tuttavia non si possono dire schizzinosi: divorano non solo i rami più sottili e le gemme, non solo le parti spinose delle mimose e d'altri vegetali pungenti dei tropici, ma anche ramoscelli di 40 o 50 millimetri di diametro. Quel che abbiamo detto degli alimenti degli elefanti è valido anche per questi animali: il cibo viene raccolto dalla vasta bocca, e le specie nelle quali il labbro superiore si prolunga a mo' di proboscide, sanno servirsi per bene dell'appendice digitiforme. Osservammo un rinoceronte indiano prigioniero che sapeva molto abilmente acchiappare minuti pezzetti (ad esempio, pezzetti di zucchero) con l'estremità delle sue labbra e li deponeva sulla lingua lungamente protesa.

Il rinoceronte mastica immediatamente, sebbene nel modo più grossolano, tutto il cibo che raccoglie, perché ha un esofago così largo da permettere il passaggio anche a grossi pezzi. Il rinoceronte indiano può allungare sino a 15 centimetri la sporgenza proboscidiforme del labbro superiore, e così è in grado di stringere un bel mazzo d'erba, di staccarla e di mettersela in bocca. Se vi rimane attaccata un po' di terra, il fatto non gli è assolutamente indifferente: ha l'avvedutezza di battere contro il suolo il fascio strappato, onde liberarlo dalla maggior parte della materia terrosa, poi lo depone con la massima calma nelle vaste fauci, e lo manda giù senza sforzi per inghiottire. Mangia di buon grado anche le radici, di cui si impadronisce con facilità. Quando è in allegra disposizione, si concede anche il piacere di sbarbicare dal suolo qualche alberello o qualche cespuglio, e pertanto scava sotto la radice col robusto corno finché abbia potuto levar dalla terra ed abbrancare il vegetale. Quindi le radici vengono rotte con altri colpi e divorate saporitamente. A questo proposito è stato osservato che le varie specie hanno gusti diversi per i loro cibi. Si assicura pure che il borile, o rinoceronte bicorne d'Africa, è avvelenato da una euforbia che le specie bianche mangiano senza soffrirne. E siamo, così, giunti a parlare dell'indole del rinoceronte, la quale, in verità, è molto poco piacevole. Mangia o dorme, e al mondo circostante non ci pensa neppure. Contrariamente al costume dell'elefante, non vive in branchi, ma per lo più isolato o in piccole società che raccolgono da quattro a dieci individui al massimo. In queste società, del resto, non regna nessun legame: ognuno vive per sé e per i fatti propri, facendo tutto quello che gli piace. I movimenti dell'animale sono tardi e goffi, sebbene non al punto che si potrebbe credere dalle apparenze. In verità, non può compiere né curve né rapide svolte, e sui monti non balza certamente con la leggerezza del camoscio; ma sopra un solo piano, ed una volta messo in moto, esso procede abbastanza rapidamente. Non cammina, come gli altri pesanti pachidermi, muovendo contemporaneamente le zampe di un lato, ma levando insieme zampe anteriori e posteriori opposte. Nel correre, tiene abitualmente il capo basso e diritto davanti a sé, ma nel furore lo fa tentennare di qua e di là e produce col corno profonde e larghe sfrecciate. Se poi è davvero infuriato, come può avvenire quando è perseguitato da quel suo terribile nemico che è l'uomo, il tormentatore e distruttore di tutti gli animali, il Rinoceronte balza da un lato all'altro sollevando l'ottusa coda. Può trottare in un modo velocissimo e durevole, ed essere pericolosissimo persino ai cacciatori a cavallo, specialmente nelle regioni coperte di macchie, in cui cavallo e cavaliere non si possono così facilmente districare come fa l'enorme animale che rovescia tutti gli alberi che si oppongono al suo passaggio. Naturalmente, il Rinoceronte è maestro nel nuoto, come altri pachidermi di cui abbiamo già parlato; tuttavia preferisce la superficie dell'acqua, e non si tuffa senza necessità. Alcuni viaggiatori pretendono di avere osservato che nei pantani o nei ruscelli il Rinoceronte scende sino al fondo per staccare col suo corno le radici delle piante acquatiche, con le quali torna a galla, per mangiarle, poi, comodamente. Ma noi non crediamo a queste storie, e crediamo piuttosto che si tratti di atti di fantasia di uomini che, o perché scambiano lucciole per lanterne, o perché vogliono assolutamente raccontare qualcosa di strabiliante agli amici che sono rimasti a casa, non si peritano di falsare quello che concordemente, naturalisti ed osservatori scrupolosi e seri, escludono completamente.

Parlando dei sensi, troviamo che nel rinoceronte primeggia l'udito, seguìto dall'olfatto ed, infine, dal tatto. La vista è poco sviluppata. Generalmente si assicura che un rinoceronte non può vedere che davanti a sé, o, come si dice, oltre il proprio naso, e che pertanto non si accorga delle persone che gli si avvicinino lateralmente. Noi dubitiamo della veridicità di questo asserto, e ciò non per un nostro capriccio, ma perché abbiamo osservato esattamente il contrario nei rinoceronti prigionieri.

Nella collera il Rinoceronte segue l'olfatto e l'udito. Annusa le tracce del nemico e gli tiene dietro, senza perciò adoperare gli occhi. Il suo udito è sensibilissimo: l'animale percepisce il più lieve fruscio anche a grandi distanze. In esso esiste anche il gusto: osservammo nei nostri prigionieri che lo zucchero è per essi un oggetto altamente apprezzato, così come ogni altra cosa dolce, e che vien mangiato con una speciale soddisfazione. Quando si ha un rinoceronte prigioniero, se temiamo che ce ne combini qualcuna o che sia sul punto di incollerirsi, è consigliabile dargli un po' di zucchero; per lo meno rimanda a dopo la sua esplosione di collera, mentre noi, nel frattempo, possiamo ricorrere ai necessari ripari e alle sempre utili precauzioni.

La voce dell'animale consiste in un cupo grugnito che finisce, nel maggior furore, con un tonante sbuffo. Quando vive allo stato libero il rinoceronte fa udire sovente questo sbuffo, perché si trova nelle condizioni appunto di montare su tutte le furie. L'indifferenza che manifesta per tutto quel che non si mangia, si può facilmente tramutare in un sentimento del tutto opposto. Raffles osservò che il Rinoceronte di Sumatra prendeva la fuga davanti ad un solo cane, ed altri viaggiatori videro che in caso di temporale se ne andava in tutta fretta; ma questo contegno muta del tutto e decisamente se l'animale viene irritato da qualche importuno. Allora non bada né al cane né al temporale, né a tutti i suoi nemici messi assieme, e si precipita ciecamente e in linea retta sull'oggetto del suo furore. Sembra che non osservi assolutamente se gli si affaccia una schiera di gente armata, o se il suo avversario è perfettamente inerme o senza importanza: niente gli fa paura, perché sempre ciecamente, e senza prendersi pensiero di nulla, si slancia contro il nemico o l'ipotetico nemico.
Le sue opinioni politiche sono le stesse di quelle che ha il toro, e, dittatura o no regnante nel paese in cui vive, manifesta a tutte lettere e con i fatti che il rosso non gli va a genio: sovente lo si è visto aggredire uomini vestiti di rosso, anche se non gli avevano fatto nulla. Il suo furore, del resto, oltrepassa ogni limite: non solo si vendica di quello che lo ha realmente aggredito, ma sfoga la sua incontenibile ira contro tutto quello che gli si presenta: le pietre, gli alberi debbono avere la loro parte, e se altro non trova, scava nel suolo solchi di 2 o 3 metri di profondità, dove, magari dopo essersi sfogato, si adagia per fare un buon bagno di fango.

Per fortuna non è molto difficile sfuggire ad un rinoceronte infuriato. Il cacciatore esperto lo lascia avvicinare sino a dieci o quindici passi, poi spicca un salto da una parte. L'animale furioso gli passa davanti, perde la traccia che seguiva, e continua a precipitarsi oltre per sfogare la sua rabbia sopra un altro oggetto assolutamente innocente. Naturalmente, in questo gioca molto il fattore vista, poiché, vedendo già poco per natura, l'animale, quando è infuriato, forse vede ancora di meno; oltre al fatto, s'intende, che, avendo un corpo massiccio, non può permettersi il lusso di rapide deviazioni per raggiungere e colpire il suo nemico.

Lichtenstein racconta che si hanno esempi di rinoceronti che, avventatisi di notte sopra un carro e sul bue che lo tirava lo abbiano con irresistibile forza trascinato via, riducendo tutto in frantumi. Per il viaggiatore aggredito in carovana il rinoceronte è il più pericoloso di tutti gli animali, perché non di rado avviene che senza ragione piombi addosso alla gente, e nel suo cieco furore uccida chi assolutamente non ha colpa alcuna né è in condizioni di difendersi. Specialmente i rinoceronti neri d'Africa sono molto temuti per la loro estrema ferocia, mentre di quello che pensano di essi gli abitanti del Sudan, accomunandoli con l'ippopotamo, abbiamo già parlato. I rinoceronti neri d'Africa, dunque, si precipitano sopra tutti gli oggetti che destano la loro attenzione. Talvolta capita che uno di essi si affaccendi per lunghe ore col suo corno intorno ad un cespuglio, scavando il suolo finché lo abbia sollevato del tutto, dopo di che si sdraia tranquillamente, senza darsi altro pensiero di quello che ha rovinato. Il rinoceronte bianco d'Africa, invece, è molto più mansueto e meno pericoloso del suo nero affine, e gli è pure molto inferiore in velocità. Anche quando è stato ferito, quest'ultimo, è difficile che aggredisca l'uomo.

Ancora oggi ci mancano particolari esatti e comunque esaurienti intorno alla riproduzione del rinoceronte. Della specie indiana si sa che l'accoppiamento avviene nei mesi di novembre e dicembre ed il parto, dopo 17-18 mesi di gestazione, avviene in aprile o in maggio. Ma anche qui avvengono accanite lotte fra i maschi per la conquista della femmina, tanto che i vecchi risultano coperti di ferite spesso molto gravi. La femmina partorisce in mezzo ai cespugli del bosco, dove ritiene possa essere lontana da ogni pericolo. Il piccolo che nasce è un animale tozzo, dalla mole di un bel cane, e viene al mondo con gli occhi aperti. La sua pelle rossiccia è ancora senza pieghe; al contrario esiste già il germe del corno. Nei primi mesi il neonato cresce rapidamente; un rinoceronte che al terzo giorno aveva un metro di lunghezza e 60 centimetri d'altezza, in capo a un mese misurava 1,13 di lunghezza, 75 centimetri d'altezza ed altrettanto di circonferenza. Dopo tredici mesi aveva già un metro e venti centimetri d'altezza, una lunghezza di metri 1,80, ed una circonferenza di 2 metri. Nei primi mesi la pelle è di un color rossiccio-scuro, più tardi prende una sfumatura scura sopra un fondo più chiaro. Sino al quattordicesimo mese esiste appena qualche segno delle pieghe cutanee; ma da allora queste si formano tanto rapidamente che bastano pochi mesi per cancellare ogni differenza fra i giovani e gli adulti. Del resto ci vogliono almeno otto anni prima che l'animale sia giunto ad una media mole. Il corno piega sempre più all'indietro, per il continuo affilarlo che fa l'animale. Molti rinoceronti hanno la singolarità di arrotarlo finché sia ridotto ad un piccolo moncone, il che avviene soprattutto fra i prigionieri, i quali non hanno nulla di meglio da fare.

La madre mostra in ogni occasione molto amore per il figlio, e nel pericolo lo difende con un furore senza esempio contro ogni nemico od aggressore. Lo allatta per circa due anni, e per tutto questo tempo lo accudisce con la maggiore e ammirevole premura. Bontius racconta che un europeo, in una delle sue passeggiate, scoperse un rinoceronte indiano con il figlio. Il giovane non voleva andare, e la madre lo spingeva avanti col muso. Allora gli venne in mente l'infelice idea di cavalcare dietro l'animale e di regalargli di quando in quando qualche piattonata di sciabola sulla parte posteriore. La pelle era troppo dura per poterla attraversare, e le piattonate lasciavano semplicemente una striscia bianca. L'animale tollerò in santa pazienza ogni sfregio finché non vide il figlio al sicuro nella macchia; quindi, ormai evidentemente seccato, si volse verso l'impertinente, gli piombò addosso con un minaccioso grugnito, accompagnato dal digrignare dei denti, ed al primo colpo gli lacerò lo stivale. Fu un momento terribile per quello importuno di passeggero, il quale per alcuni istanti rimase inebetito e tremante di terrore, soprattutto perché non possedeva neppure un fucile, e sicuramente sarebbe stata la sua fine se il cavallo, certamente più deciso di lui, non avesse mostrato tutta la sua saggezza. Il bravo animale balzò indietro e fuggì a tutta briglia, con alle calcagna il rinoceronte che al suo passaggio atterrava gli alberi e tutto quello che gli era d'ostacolo, accrescendo a dismisura il terrore dello sprovveduto cavaliere. Quando il cavallo giunse presso i suoi compagni, il rinoceronte si precipitò senza pensarci due volte contro questi, ma per fortuna si trovavano due alberi, vicini l'uno all'altro, dietro cui si ripararono. L'infuriato mostro, accecato dal furore, malgrado tutto, volle passare tra gli alberi, e giunse all'estremo parossismo della rabbia quando vide che le piante resistevano al suo impeto. I grossi tronchi tremavano come giunchi sotto le furiose scosse dell'animale, tuttavia non cedettero, e gli uomini ebbero il tempo di mandare nel capo del rinoceronte alcune palle di piombo che lo fulminarono. Il cavaliere, che di tutto era stato la causa, però, giurò e spergiurò che mai più si sarebbe permesso di molestare un rinoceronte a colpi di sciabola sulle parti posteriori e che, se proprio avesse voluto affrontare l'animale, lo avrebbe fatto, d'ora in poi, con un buon fucile.

Sulle amicizie e sulle inimicizie del rinoceronte, anticamente si sciorinarono molte frottole, tanto che se dovessimo prenderle in considerazione, non solo non basterebbero molte pagine, ma alla fine ci troveremmo a non capirci più nulla. Tuttavia ne riportiamo qualcuna che, a nostro modo di vedere, ha comunque qualche punto di verità o, per lo meno, qualche interesse, diciamo così, dal punto di vista degli antichi scrittori di Storia Naturale. Per essi l'elefante, soprattutto, doveva essere l'oggetto di un accanito odio da parte del rinoceronte, cui soccombeva nella maggior parte dei casi. Ma questa fiaba, proveniente da Plinio, fu a poco a poco smentita, perché il Rinoceronte può anche aver la peggio. Altri scrittori di viaggi non fanno menzione di queste inimicizie, e invece molto si racconta dell'amicizia fra il Rinoceronte ed altre creature.

Anderson, Gordon Cumming ed altri, trovarono regolarmente sul rinoceronte un uccello assolutamente servizievole, la bufaga, che lo accompagna fedelmente durante il giorno, facendo per esso una specie di servizio di guardia.

«Gli uccelli del Rinoceronte», racconta Cumming, «o bufaghe, sono fedeli compagni dell'ippopotamo e delle quattro specie degli stessi rinoceronti. Essi si nutrono dei parassiti di cui vanno carichi questi animali, e perciò si tengono sempre e costantemente nella loro immediata vicinanza, e persino sul loro dorso. Sovente questi vigili uccelli hanno deluso le mie speranze e rese vane le mie fatiche persino quando mi avvicinavo con molta prudenza e molta cautela. Questi uccelli sono i migliori amici e servitori del rinoceronte, e, in caso di pericolo, e tanto più quando questo è vicino e incalzante, non mancano mai di svegliare il loro enorme protetto dal suo profondo sonno. Il vecchio pachiderma capisce perfettamente i loro ammonimenti: esso balza in piedi, si guarda d'attorno, fiuta attentamente, tende bene l'orecchio, sosta ancora un istante, decide la direzione da prendere e scappa. Molte volte m'è capitato di dare, a cavallo, la caccia ad un rinoceronte che m'ha fatto correre per parecchie miglia e che m'è costato un buon numero di palle di fucile prima di farlo cadere. Durante quella corsa sfrenata gli uccelli rimanevano sempre col loro fornitore di cibo e al tempo stesso loro protetto. Erano posati sul dorso e sui fianchi di esso, e se una fucilata lo colpiva alla spalla, anziché fuggire lontano, si contentavano di svolazzare a circa due metri di altezza, mandando di quando in quando un grido acuto, come per avvertire il rinoceronte che il nemico era sempre alle costole, e quindi riprendevano la loro primitiva posizione. Talvolta capitava che i rami inferiori degli alberi, sotto cui passava il rinoceronte, spazzassero via gli uccelli; ma questi riprendevano subito il loro posto. Ho ucciso dei rinoceronti quando venivano verso la mezzanotte a bere alla sorgente; ma gli uccelli, credendoli soltanto addormentati, rimanevano sino al mattino presso i loro grossi amici e, quando mi avvicinavo, li vedevo fare ogni possibile sforzo per svegliare, prima di lasciarli, i supposti dormienti». Ora, attraverso le numerose volte che nel corso del nostro lavoro abbiamo citato il Cumming, ci siamo potuti convincere che si tratta di un naturalista molto serio; per questa ragione non abbiamo motivo di porre in dubbio la veridicità letterale di questa notizia, non solo, ma anche perché noi stessi, e a nessuno dei nostri lettori può non capitare, abbiamo spesse volte constatato siffatte amicizie tra gli uccelli e i mammiferi. Inoltre abbiamo avuto modo di osservare in Abissinia relazioni analoghe tra le bufaghe ed i cavalli ed i buoi. S'intende che gli uccelli si procurano la gratitudine, cui hanno diritto, persino da un mammifero più stupido, liberandolo dai tormentosi insetti. Ma se, appunto all'avvicinarsi dell'uomo, l'uccello becchi il suo protetto nell'orecchio, per avvertirlo del pericolo imminente, questo non lo vogliamo affermare; crediamo piuttosto che basti l'irrequietezza cui sono in preda gli uccelli quando scorgono qualcosa di sospetto, per svegliare l'attenzione del rinoceronte. Del resto, è ben noto che molti uccelli, che si distinguono per una speciale prudenza, sono in breve scelti dagli altri come scorte ed avvisatori.

Oltre l'uomo, il Rinoceronte non ha molti nemici. I leoni e le tigri già lo scansano con cautela, ben consci che le loro formidabili unghie sono troppo deboli per penetrare quella grossa corazza. Persino il furibondo colpo di zampa del leone, che precipita a terra un toro, non darebbe molto fastidio ad un rinoceronte. Del resto, i rinoceronti femmine, che hanno figli e che amano con somma tenerezza, non lasciano avvicinarsi ad essi né tigri né leoni, perché quelle grossissime belve possono essere molto pericolose per i loro piccoli.
«Una volta», racconta il Bontius, «che m'era venuto il desiderio di fare una passeggiata lungo il fiume fuori della città per osservare le belle piante, trovai sull'argine un rinoceronte giovane, ancora vivo ma che strillava miseramente, perché gli era stata mangiata una parte del sedere, senza dubbio da qualche tigre.
Quel che si racconta e si spaccia dell'amicizia tra il Rinoceronte e la tigre mi pare una frottola bell'e buona - aggiunge il Bontius, a perché se i due s'incontrano, si guardano biecamente, ruggiscono e digrignano i denti, il che certamente non può essere scambiato come un saluto e tanto meno come una manifestazione di amicizia».

Il Rinoceronte, e non sembri strano, ha da temere molto di più i piccoli animali, contro i quali non può difendersi, né vendicarsi, come potrebbe fare con le grosse fiere: si tratta specialmente di quei perfidissimi nemici che sono le mosche e i tafani. A causa loro, come abbiamo visto, l'animale si avvoltola con tanta compiacenza nella melma, ed in seguito alle loro punture, che sente al vivo, si stropiccia tanto energicamente ai tronchi degli alberi, da prodursi lacerazioni ed ulcere in cui s'annidano altri insetti. Anche col fango raccoglie altre legioni di animali acquatici, e specialmente mignatte, che gli sono assai fastidiosi e che trovano validi avversari nei piccoli animali alati dell'enorme animale e che abbiamo già conosciuto.

Dappertutto è l'uomo il nemico più pericoloso del rinoceronte. Tutte le popolazioni nel cui territorio esiste l'obesa creatura, l'insidiano col maggiore accanimento, mentre i cacciatori europei le dànno la caccia con vera passione. Si era assicurato che la sua corazza fosse impenetrabile alle palle; tuttavia, i più antichi viaggiatori hanno provato che può essere attraversata da una lancia o da una freccia scagliata con violenza.

La caccia al rinoceronte, ben s'intende, è molto pericolosa, perché l'enorme gigante deve essere colpito al punto esatto per soccombere alla prima palla, e se il colpo fallisce o il fucile fa cilecca, allora comincia un momento drammatico per il malcapitato cacciatore. L'animale, soltanto ferito, accetta immediatamente la lotta con l'uomo, e questi deve dare grande prova di coraggio e di destrezza per salvare la propria pelle.

I cacciatori indigeni cercano di strisciare controvento durante il sonno dell'animale, e gli piantano la loro lancia nel corpo, oppure gli sparano a bruciapelo puntando con l'arma sulla schiena, al fine di dare alla palla tutta la sua forza. Gli abissini usano giavellotti di cui lardellano il Rinoceronte fino a piantargliene cinquanta o sessanta nel corpo. Quando l'animale sembra esausto a causa del sangue perduto, uno dei più temerari si avvicina e tenta di recidergli il tendine di Achille, per farlo zoppicare e renderlo incapace di una prolungata resistenza. In India si va alla caccia dei rinoceronti con elefanti, ma questi, talvolta, vengono danneggiati dal furente avversario.

«Quando il rinoceronte venne scovato» racconta Borri «piombò senza paura sopra i suoi nemici, i quali si scostarono a destra e a sinistra, formando un circolo che esso percorse in linea retta, avviandosi contro il governatore che montava un elefante. Il rinoceronte corse dietro a questo e tentò di ferirlo col suo corno, mentre l'elefante, da parte sua, si affaccendava a tutta forza per abbrancare con la proboscide il rinoceronte aggressore. Il governatore colse il momento più favorevole, sebbene tremante di paura, e gli regalò una palla al punto giusto».

In Africa la caccia al rinoceronte si effettua in aperta campagna. Il cacciatore scivola anche qui fra i cespugli, possibilmente controvento, e spara all'animale a breve distanza. Se fallisce il colpo, l'animale furente piomba sul luogo da cui è partito il colpo, e odora e guarda per vedere dove mai s'è andato a cacciare quel tanto coraggioso suo nemico. Appena lo scopre, abbassa il capo, chiude gli occhi, e corre avanti solcando la terra per tutta la lunghezza del suo corno. Ma l'uomo è ancora più furbo di lui, ed è possibile sfuggire alla tremenda carica. I cacciatori esperti sanno tenere così testa per intere ore ad un rinoceronte che li incalza, saltando lestamente da un lato quando l'animale si precipita sopra di loro, e lasciandolo così passar loro dinanzi. Quando si acqueta lo uccidono, o anche prima, se vien fatto loro di mirare al punto giusto. Più d'una volta il celebre viaggiatore Anderson ebbe in pericolo la sua vita a causa di rinoceronti infuriati. Uno di questi gli si precipitò rabbiosamente contro, lo stramazzò a terra, ma fortunatamente non lo toccò con il corno, limitandosi a trascinarlo per un buon tratto con i suoi piedi posteriori. Appena gli era passato dinanzi si rivolse, e tentò un secondo attacco, col quale procurò al suo nemico una tremenda ferita alla coscia. Questo bastò per appagare la sua sete di vendetta: si ritirò quindi nella macchia, e Anderson ha potuto mettersi in salvo. Lo stesso naturalista ci descrive un secondo incontro col rinoceronte bianco:

«Una volta tornavo dalla caccia all'elefante e scorsi a breve distanza davanti a me un grande rinoceronte bianco.

Io cavalcavo allora un eccellente cavallo, il migliore, il più destro e lesto fra tutti quelli che avevo posseduto nelle battute di caccia.

Tuttavia non avevo mai voluto combattere contro il rinoceronte a cavallo, per la semplice ragione che è più facile avvicinarsi a piedi che a cavallo a quell'ottuso animale.

In quella occasione, però, sembrava che il destino ci fosse decisamente contrario.

Mi volsi a quelli che mi accompagnavano e gridai: "Perbacco! il figliolo ha un bel corno, voglio fargli l'onore di una ben meritata schioppettata!"; così dicendo spronai il cavallo; in pochi istanti fui vicinissimo all'enorme bestia e le cacciai in corpo una palla, la quale, però, non produsse l'effetto che desideravo.

Invece di darsi alla fuga, il rinoceronte sostò di botto; con sommo mio stupore, si volse lestamente, mi sbirciò in un istante con evidente curiosità, dovetti sembrargli certamente antipatico e noioso, e si avanzò lentamente verso di me.

Non pensai affatto alla fuga, soltanto volli far piegare alquanto da una parte il mio cavallo; ma quell'animale, di solito così intelligente e docile, cui bastava la più lieve pressione della briglia, rifiutò decisamente d'ubbidirmi, e quando infine vi si rassegnò, era troppo tardi.

Il rinoceronte era già così vicino a noi che dovetti riconoscere inevitabile l'incontro. Infatti, un istante dopo vidi il mostro abbassare il capo, e quando lo alzò bruscamente, il suo corno era penetrato con tale violenza nelle costole del mio cavallo, da attraversare tutto il corpo, la stessa sella, e giungere sino alla mia gamba, dove avvertii la punta aguzza.

La violenza del colpo fu tale che il cavallo fece un vero capitombolo in aria, ricadendo lentamente indietro. In quanto a me, venni sbattuto con violenza al suolo, ed appena mi trovai disteso, vidi accanto a me il corno dell'infuriato animale.

Lascio immaginare quanti e quali pensieri mi passassero in quel momento per la testa, tanto che a volte, o semplicemente per frazioni di secondo, non mi sembrava neppure di essere in quella posizione, là, in quel posto, ma chissà dove, forse in Paradiso o al l'Inferno, o non so in quale altra parte del creato.

Per fortuna il rinoceronte sembrò soddisfatto della sua vendetta, ed il suo furore si calmò, sicché si allontanò d'un tratto, e al galoppo, dal teatro delle sue prodezze.

Intanto i miei uomini si erano avvicinati.

Corsi da essi, ne strappai uno da cavallo, vi balzai sopra e corsi, grondante sangue e senza cappello, dietro al rinoceronte.

Dopo pochi minuti ebbi la grande soddisfazione di vedere quell'enorme bestia priva di vita ai miei piedi».

Pure Gordon Cumming racconta che un rinoceronte bianco, sebbene questo venga considerato come un animale decisamente pacifico, trovandosi alle strette, essendo stato per giunta ferito, si volse furioso all'attacco e lo mise in serio pericolo. Di un rinoceronte nero racconta che, prima ancora di avergli fatto qualche sgarbo, l'animale furioso gli fu sopra, dandogli la caccia per qualche tempo intorno ad un grosso albero.
«Se fosse stato tanto lesto quanto era brutto» scrisse poi, «le mie peregrinazioni avrebbero avuto una brutta fine. Ma la mia sveltezza e furbizia ebbero la meglio, ponendomi in assoluto vantaggio di fronte a quel bestione, il quale, dopo di avermi per qualche tempo fiutato attraverso il cespuglio, mandò ad un tratto un grido acuto, fece un mezzo giro su sé stesso e mi lasciò padrone del campo».
Levaillant descrive in un modo veramente vivace una caccia al rinoceronte bicorno, e crediamo di fare cosa gradita ai nostri lettori, riportando la parte centrale di tale descrizione.

«Si osservò una coppia di questi animali che se ne stavano tranquillamente beati, ritti l'uno accanto all'altro in un bosco di mimose, col naso al vento; di quando in quando davano un'occhiata all'indietro per rassicurarsi sulla situazione di sicurezza del circondario. Un indigeno si offerse all'istante di dar loro la caccia e, dopo una rapida consultazione, fu deciso di accettare la proposta. Gli altri cacciatori si sparpagliarono, chi da un lato e chi dall'altro, chi avanti e chi indietro, mentre un ottentotto prese sotto la sua guardia i cani. L'indigeno si spogliò allora completamente nudo, per avere più facili i movimenti, e strisciò sul suolo, col fucile sul dorso, e simile ad un serpente, con una lentezza ed una prudenza estreme e quasi snervanti. Appena i rinoceronti guardavano, egli sostava, ed allora somigliava veramente ad un masso di pietra bruciata. Quel suo strisciare durò per quasi un'ora, che agli altri sembrò un'eternità. Finalmente giunse ad un cespuglio a circa duecento passi dagli animali; sostò ancora, si assicurò che tutti i suoi compagni fossero al loro posto, fece bene i suoi calcoli di mira, lasciò partire il colpo, e il risultato fu che ferì un maschio, il quale emise un terribile grido, precipitandosi subito, con la femmina, contro l'uomo che tanto aveva osato, facendo fuoco a tradimento. L'indigeno si distese immobile al suolo, i rinoceronti passarono oltre e si diressero verso gli altri cacciatori. Allora si lasciarono andare i cani, mentre da tutte le parti si scatenò una scarica di fucileria. Le enormi bestie, infuriate contro i cani, scavavano nel suolo profondi solchi e facevano volare la terra da tutte le parti. I cacciatori si avvicinarono ancora, mentre si accresceva l'ira dei rinoceronti, i quali, in verità, presentavano un meraviglioso colpo d'occhio. Ad un tratto il maschio piombò sui cani e la femmina se la svignò, con la più grande gioia dei cacciatori, che non si vedevano con piacere davanti a due mostri di tal fatta. Anche il maschio si avviò alla ritirata, ma dalla parte di una macchia dove si trovavano appostati altri tre cacciatori, che lasciarono partire numerosi colpi mortali sopra di esso da una distanza ravvicinata. L'animale tuttavia si agitava con tanta violenza che le pietre gli volavano d'attorno, né osavano avvicinarglisi uomini e cani. Io volevo avvicinarmi, mosso da compassione, per dargli il colpo di grazia, ma ne venni impedito dagli indigeni, i quali attribuiscono grande efficacia al sangue e lo adoperano, disseccato, per guarire molte malattie, principalmente nelle occlusioni. Quando infine fu morto, tutti corsero in fretta verso di esso, gli tagliarono la vescica e la empirono di sangue».

Di un sistema di caccia decisamente spaventoso si lesse una volta nel Journal of Indian Archipel. Mentre il rinoceronte si avvoltola nel suo tanto gradito bagno di fango, gli abitanti di Sumatra si avvicinano cautamente e gettano ad un tratto sull'esterrefatta bestia una quantità di materia infiammabile, che dapprima la soffoca, poi la si fa arrostire, ed è subito pronta per essere servita a tavola. Ci vuole una buona dose di credulità per ritenere veritiera una simile storia; e ne facciamo menzione soltanto per mostrare quali fiabe si spaccino ancora oggi sul conto di questo singolare, strano e molto discusso animale.

Malgrado la sua irascibile indole, il Rinoceronte, se ben trattato, può venire facilmente addomesticato. In quelli che vennero trasportati per via mare si osservò una stupida indifferenza, che non dette mai luogo, dopo ripetuti tentativi, a metterli in collera e al furore, in altri casi tanto facili da destare. E' cosa nota che gli animali che si vedono in mezzo al mare, si dimostrano eccezionalmente docili, probabilmente perché hanno coscienza della propria temporanea debolezza. E così non ci deve fare meraviglia se anche il Rinoceronte si mostra sottomesso. Tuttavia abbiamo altri argomenti per ritenere che il rinoceronte prigioniero sia un animale docile.

Quello che vive in Sumatra viene vantato come una creatura assolutamente docile e pacifica. Un piccolo si comportò decisamente in modo garbato: si lasciò mettere in un gran carro e si dimostrò molto docile per tutto il tempo del viaggio. Nel cortile del castello di Surar Karta gli era stata allestita una dimora, circondata da un profondo fosso di circa novanta centimetri di larghezza, dove rimase parecchi anni senza pensare a valicare la sua frontiera. Pareva sentirsi perfettamente felice nel suo carcere, e mai andava in collera, anche se aizzato in ogni possibile maniera nei primi tempi dopo il suo arrivo, perché la numerosa popolazione della città cercava di spassarsela a spese del forestiero. Gli si gettavano in abbondanza ramoscelli d'alberi, piante rampicanti delle più diverse specie, arboscelli; a tutto preferiva il banano, ed i numerosi visitatori, che subito s'accorsero di quella preferenza, ebbero cura che avesse sempre in quantità il boccone preferito. Si lasciava toccare ed osservare da tutte le parti, mentre i più audaci tra gli spettatori osavano persino salirgli sulla groppa. L'acqua per esso rappresentava una assoluta necessita: se non era occupato a mangiare, o disturbato dalle visite, soleva sdraiarsi in profonde buche, scavate da esso stesso. Quando, dopo un tempo relativamente breve, fu cresciuto, il fosso largo novanta centimetri non bastò più per trattenerlo. Allora prese a far visite nelle case del vicinato, e nei giardini che per lo più circondavano le abitazioni. Quelli che non lo conoscevano, nel vedersi affacciare quel muso, erano presi, naturalmente, da un tremendo terrore, ma i più coraggiosi e quelli che già lo avevano ammirato, lo riconducevano senza difficoltà al suo domicilio. Poi le escursioni nei dintorni si fecero più frequenti e i danni che provocava e lo spavento che suscitava divennero maggiori, e pertanto si dovette internarlo in un villaggio vicino, dove trovò disgraziatamente la morte in un ruscello.

Altri rinoceronti, condotti in Europa, si dimostrarono ugualmente pacati e docili. Si lasciavano toccare, spingere qua e là senza manifestare sentimenti ostili.

Una volta sola un rinoceronte, dopo essere stato probabilmente aizzato, aggredì ed uccise due persone.

Ad Anversa vedemmo un rinoceronte adulto, originario dell'India.

Era ugualmente d'indole pacifica, ed era facile da governare.

Il signor Kretschmer, famoso disegnatore di animali, dovette entrare nel suo recinto per poterlo ritrarre da tutte le parti, ed il suo lavoro poté portarlo a termine senza difficoltà anche se, per precauzione, non lasciava mai di avere un occhio all'animale e l'altro alla porta di uscita. Quell'animale veniva lasciato di giorno in uno spazio libero, davanti alla sua stalla, ed il custode poteva permettersi il lusso di fare tutto quello che voleva.

Una semplice frusta bastava per infondergli un salutare spavento.

Molti visitatori dovevano averlo avvezzato alle leccornie, poiché appena qualche forestiero si faceva vedere, l'animale si avanzava, allungava verso la cancellata il suo tozzo e brutto muso, protendeva il labbro superiore quanto più poteva e faceva udire un cupo ma sommesso ruggito, con l'evidente intento di ottenere qualche leccornia.

Riuscito nello scopo, chiudeva gli occhi e masticava con una sola mossa delle mandibole il boccone mendicato.

Tutto l'utile ricavato dal rinoceronte morto non compensa minimamente i danni che procura da vivo. Nelle regioni dove l'agricoltura è regolarmente praticata non è possibile tollerarlo, tante e tali sono le devastazioni che vi cagiona, e alle quali abbiamo accennato all'inizio della sua presentazione.

Il Rinoceronte, pertanto, è creato unicamente per il deserto, ed è da ritenere una vera disgrazia quando, per un motivo o per l'altro, si affaccia sui campi coltivati o su quelli da cui comunque l'uomo trae un profitto, per le piante che vi crescono.

Dell'animale morto viene utilizzata press'a poco ogni parte: il sangue non è soltanto tenuto in sommo pregio per le sue segrete virtù, ma in alcune regioni anche come vivanda; il corno è molto stimato. Nelle case dei grandi dell'Oriente si vedono sempre diversi bicchieri ed arnesi per bere, torniti, di corno di rinoceronte.

A questo si attribuisce la proprietà di far bollire il liquido depostovi dentro, se vi si unisse qualche sostanza velenosa. In tal modo ognuno crede di avere un sicuro preservativo contro l'avvelenamento. I turchi delle classi più alte sogliono aver sempre con sé una chicchera di corno di rinoceronte che fanno empire di caffè nei casi dubbi.

Sovente avviene che un turco, in visita ad un altro con il quale se l'intenda poco bene, fa empire dal suo servo la tazza di corno col caffè che si suole offrire, quale segno di benevolenza ad ogni visitatore.

Sembra persino che il padrone non se la prenda a male di fronte ad una simile sgarbatezza. Naturalmente, ai giorni nostri questa strana usanza ha perso molto del suo credito, tuttavia è ancora presente.

Più spesso ancora il corno serve a fare l'elsa delle preziose sciabole, ed oggi è un vero vanto possedere una sciabola ornata da quell'elsa. Quando è ben lisciato e scelto, offre un colore indescrivibilmente bello, d'un dolce giallo-rosso, che viene a buon diritto considerato come uno speciale ornamento dell'arma.

Con la pelle del rinoceronte gli indigeni sogliono farsi scudi, corazze, scodelle ed altri utensili. La carne viene mangiata, il grasso altamente stimato, sebbene gli europei dichiarino cattivi questo e quella.

Di quando in quando, e certo senza eccesso, si adopera il grasso in unguenti delle più diverse nature, mentre il midollo delle ossa passa anch'esso per un buon farmaco, almeno in alcuni luoghi.

Concludendo su questo stranissimo, ma pur interessantissimo animale, riconosciamo che è un vero peccato che attualmente il rinoceronte s'incontri molto raramente in tutte le zone dove un tempo, e fino a poco più d'un secolo fa, era discretamente rappresentato.

L'uomo, l'immancabile uomo, e specialmente quello «civile» dell'Europa, ed ora anche quello dell'America, ci ha pensato a scemarlo spaventosamente.

Un rinoceronte

Modello tridimensionale di rinoceronte

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