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Storia Contemporanea - Lo Stato Unitario

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Storia Contemporanea - Lo Stato Unitario

 

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Storia Contemporanea - Lo Stato Unitario

PROBLEMI DELLO STATO UNITARIO

Il nuovo Regno d'Italia mostrò fin dal suo nascere segni evidenti di instabilità. L'unità era stata raggiunta in un periodo di tempo relativamente breve (1859-1861): in meno di un triennio si impose un sistema monarchico costituzionale che governava ben 22 milioni di Italiani. La popolazione, che non era pronta ad una trasformazione così immediata, non fu in grado di adeguarsi alla nuova realtà politica, restando ancorata ai sistemi di Governo che caratterizzarono l'Italia pre-unitaria. È indicativa, a questo proposito, la frase di M. D'Azeglio, ministro degli Interni ai tempi di Cavour: «Abbiamo fatto l'Italia; adesso occorre fare gli Italiani». Dal punto di vista politico, il Regno d'Italia non ebbe una propria configurazione: ci si limitò infatti ad estendere le istituzioni piemontesi ai territori annessi, senza preoccuparsi di considerare gli antichi organi politici regionali. Si parla per questo di «piemontesizzazione» dell'Italia, in quanto il nuovo Stato si modellò, dal punto di vista politico, economico e giuridico, sul Piemonte che aveva guidato il processo di unificazione italiana.

Fasi unificazione Italiana Le fasi dell'unificazione italiana

La «piemontesizzazione» generò non pochi problemi al nuovo Stato: il potere politico era detenuto da una larga maggioranza di ministri e prefetti piemontesi i quali, oltre ad imporre la loro linea politica all'Italia, ignoravano tutti i problemi che travagliavano la vita politica ed economica del nuovo Stato (brigantaggio, questione meridionale, protezionismo doganale). L'organismo rappresentativo della nuova Nazione era il Parlamento, che fin dall'età cavouriana fu il centro della direttiva politica nazionale. Nel periodo che stiamo considerando (1861-1870) le rappresentanze politiche parlamentari erano due: la Destra storica e la Sinistra storica. La Destra storica comprendeva i rappresentanti dell'agiata borghesia e dell'aristocrazia agraria insieme a quanti esercitavano le cosiddette professioni liberali (pubblicisti, giornalisti, magistrati): l'elevata estrazione sociale dei suoi membri giustifica la linea politica della Destra, tendenzialmente conservatrice. In politica estera la Destra storica si preoccupò soprattutto di offrire all'opinione pubblica internazionale un'immagine equilibrata dell'Italia, pur senza abbandonare la rivendicazione del Veneto e di Roma, che avrebbe dato allo Stato italiano un assetto più compatto. Il programma della conquista di Roma comportava inevitabilmente un atteggiamento ostile nei confronti del papato e della sua politica temporale. Roma era infatti nelle mani del Papa: già il Cavour aveva dimostrato la sua volontà di trasferire la capitale d'Italia da Torino a Roma. Occorreva pertanto continuare su questa linea e fare di Roma una città indipendente, fulcro della nuova politica italiana. In posizione antagonista alla Destra, si trovò la Sinistra storica. L'estrazione sociale della Sinistra non era meno elitaria di quella della Destra: la base elettorale era a quei tempi molto ristretta (coinvolgeva solo il 2% della popolazione), e pertanto solo le classi sociali privilegiate potevano prendere parte attiva alla vita politica. Il programma politico della Sinistra si caratterizzò per un impegno più rivoluzionario, volto alla conquista del Veneto e di Roma; per un atteggiamento maggiormente anticlericale; per la volontà di realizzare istituzioni democratiche (ampliamento della base elettorale; decentramento amministrativo; acculturazione delle masse).

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LA DESTRA AL POTERE: POLITICA INTERNA

Dopo la morte del Cavour, si succedettero, dal 1861 al 1876, Governi presieduti da ministri della Destra storica (Rattazzi; Farini; Minghetti; La Marmora; Menabrea; Lanza). Il loro programma fu fortemente accentratore e per nulla stabile. La completa indifferenza alla questione meridionale inasprì l'equilibrio politico; a questo si aggiunse il timore dimostrato verso quelle forze democratiche (ex mazziniani; garibaldini; contadini) che reclamavano un maggiore interventismo per risolvere le delicate questioni dello Stato. Uno dei problemi maggiori che la Destra si trovò ad affrontare fu quello della cosiddetta «questione meridionale»: il divario economico e culturale tra il nord e il sud-Italia era, infatti, enorme. Il sud si trovava in una condizione di perenne arretratezza: la quasi totalità della popolazione era analfabeta, l'economia era prevalentemente agraria e ancora legata al latifondismo baronale che sprofondava la popolazione contadina nella miseria più nera; le terre erano per giunta invase dai briganti che, approfittando della latitanza del potere centrale, razziavano e devastavano intere regioni. Il nord si configurava come un'altra Nazione: l'industria era ben avviata, i capitali della borghesia venivano impiegati anche per potenziare la vita culturale del Paese; le condizioni di vita, anche per la popolazione contadina, erano senza dubbio migliori rispetto a quelle del sud Italia. La Destra storica cercò di ovviare a questa penosa situazione reprimendo militarmente il brigantaggio dell'Italia meridionale: già nel 1865 i briganti erano scomparsi dalla circolazione. Ma non per questo i problemi del sud-Italia potevano dirsi risolti. Occorreva reinserire il sud nel processo di emancipazione economica avviato già da tempo nel nord-Italia: si abbatterono le barriere doganali; si potenziò la costruzione di strade e ferrovie che avrebbero reso meno isolato il meridione. Ma anche questa politica risultò fallimentare: il sud, scarsamente industrializzato, fu letteralmente schiacciato dalla concorrenza dell'Italia settentrionale, ben più organizzata ed evoluta industrialmente. Nord e sud si configuravano come due zone sempre più estranee a causa dell'incapacità della Destra storica di penetrare i problemi oggettivi della realtà meridionale. Indicativa a questo proposito è la frase che nel 1861 Farini scrisse a Cavour: «Altro che Italia: questa è Africa. I Beduini a confronto di questi cafoni sono fiore di virtù civile». Occorreva risolvere anche la «questione romana», cioè il problema dell'indipendenza di Roma. Il ministro Rattazzi (marzo-dicembre 1862) fu esponente della linea forte: affidò infatti la conquista di Roma alle truppe del Garibaldi, suscitando la reazione dei partiti moderati. L'impresa incontrò anche lo sfavore di Napoleone III che fece pressione su Rattazzi perché fermasse l'esercito di Garibaldi. La linea interventista si concluse così con lo scontro fra le truppe garibaldine e le vincenti truppe regie dell'Aspromonte (1862). Al Rattazzi, dimissionario per l'incidente di Aspromonte, successe per pochi mesi il Farini, seguito poi da Minghetti. Minghetti cercò di risolvere la questione romana ispirandosi alla linea moderata: stipulò con Napoleone III, imperatore di Francia, la Convenzione di Settembre (15 settembre 1864) con cui il Governo si impegnava a salvaguardare l'integrità dello Stato Pontificio, rinunciando per il momento alla conquista di Roma ma ottenendo la liberazione della città dalle guarnigioni francesi. Non per questo il Governo avrebbe rinunciato per sempre a Roma: una clausola della Convenzione sanciva il trasferimento della capitale d'Italia da Torino a Firenze. Questa operazione non solo avrebbe reso lo Stato meno «piemontese» ma avrebbe avvicinato sempre più la sede della capitale alla agognata meta romana.

Rattazzi Un ritratto di Urbano Rattazzi

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LA POLITICA ESTERA DELLA DESTRA

La politica estera della Destra storica fu indirizzata al programma di liberazione del Veneto dalle truppe austriache. L'insediamento austriaco nel Veneto comprometteva fortemente l'assetto unitario dello Stato, rendendolo inoltre più debole agli occhi delle diplomazie internazionali. Il Governo La Marmora (settembre 1854 - giugno 1866) decise quindi di passare all'azione e di intervenire militarmente per cacciare lo straniero: si inaugurò così la terza guerra di indipendenza (giugno-ottobre 1866). L'esercito italiano, mal comandato dal generale Cialdini, capitolò a Custoza (24 giugno 1866), mentre solo l'esercito garibaldino riportò significative vittorie, nella liberazione del Trentino, a Bezzecca e a Trento. L'Austria, attaccata dalle truppe prussiane del Bismarck, fu costretta a ritirare le sue truppe dal campo Italiano. Pose fine al conflitto la pace di Vienna dell'ottobre 1866 in cui l'Austria, non riconoscendosi sconfitta, continuò a pretendere il dominio del Trentino, cedendo all'Italia solo il Veneto. L'insuccesso militare italiano generò una profonda crisi all'interno della Destra, anche perché sempre più forti si levavano le proteste delle forze democratiche che rivendicavano una politica più decisa e reazionaria. Ritornava attuale la «questione romana», soprattutto per il ritorno alla guida del Governo di Rattazzi (aprile-ottobre 1867) che nel suo precedente ministero aveva favorito le forme democratiche. Anche questa volta il Rattazzi si appoggiò a Garibaldi per la conquista di Roma, ma analoghi furono i risultati: le truppe garibaldine furono sconfitte da quelle francesi a Mentana (3 novembre 1867) e costrette alla ritirata. L'episodio di Mentana fu decisivo per la diffusione nell'opinione pubblica di un profondo sentimento antifrancese: la Francia era di ostacolo al raggiungimento della completa unità italiana. Si guardava ormai alla Prussia, tradizionale nemica della Francia, come all'unica garante della libertà nazionale. Questa linea si evidenziò allo scoppiare della guerra franco-prussiana del 1870 quando l'Italia, rifiutando qualsiasi aiuto alla Francia, approfittò dell'assenza francese per conquistare Roma. Il 20 settembre 1870 le truppe italiane, capitanate dal generale Cadorna, aprirono una breccia nelle mura romane, a Porta Pia, ed occuparono la città. Roma era ormai diventata capitale del Regno d'Italia. Pio IX, che fino a quel momento era stato incontrastato padrone di Roma, si sentì defraudato del suo potere. Per questo il Parlamento emanò la legge delle guarantigie: venivano riconosciuti i diritti inviolabili del pontefice, ma lo Stato non avrebbe rinunciato ad intervenire nelle nomine dei vescovi. Pio IX si oppose con forza a questa legge che riduceva fortemente la sua autonomia. La scissione fra i cattolici, sostenitori della politica papale, e i liberali al Governo si fece sempre più netta e culminò nel «non expedit», (1874) con cui il papa esortava esplicitamente i cattolici a non intervenire nella vita politica dello Stato. Al problema dell'opposizione cattolica, si aggiunse quello del dissesto finanziario che gravava sullo Stato. Il ministro delle Finanze, Quintino Sella, cercò di risolvere il problema attraverso pesanti provvedimenti quali l'istituzione della tassa sul macinato (che danneggiava le masse contadine) e la vendita dei beni ecclesiastici. Questa politica risultò fallimentare: il deficit dello Stato era sempre più ingente. Il Governo, lacerato da questi problemi, non poteva che indebolirsi e l'opinione pubblica, che già aveva espresso il suo malcontento nelle elezioni del 1874, si opponeva con sempre maggiore fermezza alla Destra. La caduta del Governo fu immediata: la Sinistra storica si preparava a salire al potere.

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VITA BORGHESE NEL XIX SECOLO

La borghesia fu la classe emergente del XIX secolo. Dopo un tormentato travaglio storico durato fin dalla Rivoluzione Francese in cui aveva cercato di emanciparsi e di autoaffermarsi, essa riuscì, nel corso del XIX secolo, a tradurre la sua potenza economica in potere politico, in prestigio sociale e culturale. Né lo sviluppo industriale, tanto importante per l'ascesa economica dello Stato, sarebbe stato possibile senza il sostegno della classe imprenditoriale borghese. La borghesia deteneva ormai le maggiori imprese agricole e industriali, le banche più affermate, il commercio, le professioni più remunerative (giornalisti, impiegati, magistrati). La vecchia aristocrazia resasi conto del suo potere, incominciò a guardare di buon occhio a questa classe emergente, e i matrimoni fra nobili e borghesi divennero pertanto sempre più frequenti. La borghesia fu assunta subito a modello sociale, a «status symbol» da parte di quella media borghesia, che, pur meno potente, si differenziava dal ceto operaio e contadino. Così se i grandi borghesi disponevano di un gran numero di servi, i piccoli borghesi aspiravano ad avere almeno una persona di servizio; se i primi vivevano in dimore sontuose e in palazzi signorili, i secondi aspiravano ad avere una casa indipendente, e un piccolo giardino, ad imitazione dei grandi parchi delle ville borghesi. La vita borghese aveva le sue rigide regole: il linguaggio del borghese doveva essere sempre forbito e privo di quelle espressioni plebee che esprimevano la rabbia dei ceti più umili; il modo di vestire doveva essere elegante e raffinato, così pure l'arredamento delle case. Intensa era anche la vita mondana: rinasce ora il grande teatro musicale dell'Ottocento (Bellini, Donizetti, Verdi), espressione di quel mondo e di quella società; intense erano anche le relazioni sociali. La donna restava pur sempre relegata all'ambito domestico, mentre all'uomo era affidata la funzione produttiva ed economica. Le regole borghesi erano rigide anche per l'alimentazione: almeno tre pasti al giorno, varietà di cibi, con una certa frequenza della carne. Anche in questo la borghesia si differenziava dal proletariato costretto a consumare pasti frugali fra un turno di lavoro e l'altro e che considerava un lusso la carne, il cui consumo era limitato alle feste solenni.

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ISTRUZIONE E CULTURA NELL'ITALIA POST-UNITARIA

I Governi di Destra e di Sinistra si diedero molta cura per elevare il livello di istruzione della popolazione italiana. L'analfabetismo era una dura realtà che riguardava il 60% della popolazione (con punte ancora più elevate nel Mezzogiorno). D'altro lato il rapido processo di industrializzazione che aveva caratterizzato l'Italia del nord imponeva una maggiore acculturazione delle masse. Così il problema dell'istruzione elementare divenne primario e si accompagnò ad altre questioni, prima fra tutte la riduzione dello sfruttamento minorile nelle fabbriche (una prima legge inglese del 1876 proibì il lavoro al di sotto dei 13 anni). Lo Stato si assunse il compito di garantire l'istruzione elementare togliendone il monopolio alla Chiesa, che fino ad allora aveva sempre gestito la cultura. L'istruzione secondaria si diffuse molto più lentamente assumendo, in Italia, un indirizzo umanistico, al contrario di quanto accadde in altri Paesi, dove si svilupparono scuole tecniche che fornivano esperta manodopera all'industria (soprattutto siderurgica). L'accesso alle Università era invece ristrettissimo e riservato ai ceti più abbienti che si preparavano a divenire i futuri membri della classe dirigente. Culturalmente il XIX secolo fu caratterizzato da una notevole diffusione della mentalità scientifica, proprio perché saldi erano i rapporti tra industria e mondo della scienza. Progresso materiale e benessere economico sembravano strettamente collegati allo sviluppo scientifico. Questo atteggiamento di completa fiducia nella scienza e nei suoi metodi fu incarnato dal positivismo, una corrente filosofica che poneva le conquiste scientifiche al centro del progresso opponendosi alla metafisica, alla retorica e ai procedimenti mentali astratti caratteristici dell'età romantica. Anche la realtà umana, oltre al mondo fisico, era sottoposta, secondo i positivisti, a leggi naturali, e questa convinzione determinò la nascita di discipline come la sociologia e la psicologia (Charles Darwin elaborò proprio in questi anni la sua teoria evoluzionistica). Nel mondo dell'arte e della letteratura il positivismo si risolse nel trionfo del realismo, traducendosi talvolta (Flaubert, Dickens, Dostoevskij) in una critica serrata delle convenzioni borghesi e delle istituzioni.

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PICCOLO LESSICO

Latifondismo

È il sistema agrario fondato sul latifondo. Il latifondo è una proprietà fondiaria molto estesa che assicura al suo proprietario una elevata rendita; questo sistema ha favorito il sorgere di una classe imprenditoriale detentrice di un potere esteso spesso alla sfera politica.

Potere Temporale

È l'espressione per indicare l'autorità che la Chiesa esercita anche in un ambito non spirituale, cioè estraneo alla sfera di intervento che le è propria.

Protezionismo

È la politica volta a sostenere le produzioni nazionali, adottate dai singoli Governi per contrastare la concorrenza straniera. Il protezionismo porta ad un rafforzamento delle esportazioni, che favoriscono la circolazione dei capitali nazionali all'estero, e a una drastica riduzione delle importazioni, che immettono sul mercato nazionale capitali stranieri.

PERSONAGGI CELEBRI

Giuseppe Garibaldi

Militare e uomo politico italiano (Nizza 1807 - Caprera 1882). Nato da una famiglia di marinai, dopo studi frammentari, a 15 anni incominciò a navigare sul Mediterraneo e sul Mar Nero, acquisendo una notevole esperienza nautica e maturando il gusto per l'avventura. Nel 1833 si affiliò alla Giovine Italia del Mazzini, partecipando, nel febbraio del 1834, a un tentativo insurrezionale a Genova, che gli valse la condanna a morte per alto tradimento. Rifugiatosi dapprima in Francia, scontò ben dodici anni di esilio nel sud-America, praticando i lavori più disparati e partecipando ai movimenti di indipendenza del Brasile e dell'Argentina. Scoppiati nel 1848 i moti italiani di indipendenza, fu autorizzato a ritornare negli Stati sardi con un gruppo di soldati. Messosi al servizio del Governo lombardo, comandò una legione di volontari in difesa di Brescia e riportò qualche vittoria sugli Austriaci. Nominato generale di brigata della Repubblica Romana, difese strenuamente Roma dagli attacchi austriaci. Al precipitare della situazione, uscì dalla città con circa 4.000 uomini per portare rinforzi alla Repubblica di Venezia, sotto la pressione austriaca, ma si vide costretto a sciogliere le truppe e a riparare nello Stato sardo. Bandito dal Governo di Vittorio Emanuele II (settembre 1849) iniziò l'esilio vagando per il mondo (Tangeri; New York; Cina; Australia). Nel 1854 fu autorizzato a rientrare in patria e si stabilì nell'isola di Caprera dedicandosi all'agricoltura e al commercio marittimo. Nel 1859, nominato da Cavour generale dell'esercito piemontese, riportò con il suo esercito importanti vittorie a Varese e a S. Fermo. Dopo l'armistizio di Villafranca, Garibaldi lasciò l'esercito sardo e cercò di invadere gli Stati della Chiesa: l'opposizione del Ricasoli e di Vittorio Emanuele II lo costrinse alla dimissioni (novembre 1859). Distaccandosi sempre di più dalla politica piemontese, compì la spedizione dei mille (aprile-ottobre 1860) volta alla liberazione della Sicilia dai Borboni, riportando continui successi. Incontratosi a Teano (26 ottobre) con Vittorio Emanuele, gli cedette il Mezzogiorno che aveva tanto valorosamente conquistato. Nel 1862 si scontrò apertamente con il Governo della Destra, quando decise di conquistare militarmente Roma. La spedizione, partita dalla Sicilia, si concluse con la sconfitta dell'Aspromonte. Durante la III guerra di indipendenza (1866) ottenne significativi successi a Trento, ma «obbedì» all'ordine impostogli dal generale La Marmora di riconsegnare la città all'Austria. Fallito a Mentana (1867) l'ennesimo tentativo di conquistare Roma, si impegnò a difendere la terza Repubblica Francese dalla offensiva bismarckiana, vincendo a Digione (gennaio 1871) le truppe prussiane. Ritiratosi a Caprera, continuò la sua attività parlamentare adoperandosi nella propaganda dell'ideologia democratica.

Garibaldi Ritratto di Giuseppe Garibaldi

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RIASSUNTO CRONOLOGICO

1861-1876: La Destra storica è al potere.

1862: Le truppe di Garibaldi si scontrano con le truppe regie sull'altopiano dell'Aspromonte.

1864 (15 settembre): Il ministro Minghetti stipula con Napoleone III la Convenzione di Settembre.

1865: Il Governo La Marmora sconfigge il brigantaggio nel sud-Italia.

1866 (giugno-ottobre): Si combatte la III guerra di Indipendenza.

1867 (novembre): Le truppe garibaldine sono sconfitte a Mentana.

1870 (20 settembre): Le truppe regie aprono una breccia a Porta Pia e conquistano Roma.

1874: Pio IX formula il «non expedit».

1876 (novembre): La Destra storica si dimette dal Governo.

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