«Ostetricia e medicina legale» di Tommaso Feola


L'interesse del legislatore per i vari problemi concernenti la tutela della maternità e dell'infanzia traspare già dal dettato di diverse norme della nostra Costituzione. All'art. 31, ad es., è espressamente sancito: "La Repubblica protegge la maternità, l'infanzia e la gioventù favorendo gli Istituti necessari a tale scopo." In diversi articoli si riconosce poi la famiglia come società naturale, si proclama l'eguaglianza tra i coniugi (art. 29); sono stabiliti quali sono i doveri e i diritti dei genitori nei confronti dei figli (art. 30); altrove, infine, si prevede una specifica tutela per la donna lavoratrice. Più precisamente, l'art. 37 così dispone al riguardo: "...Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare ed assicurare alla madre ed al bambino una speciale adeguata protezione." Ma nonostante l'evidenza di tale pluralità di richiami sono dovuti trascorrere quasi trent'anni prima di avere specifiche sulla materia come la L. 22 maggio 1978 n. 194, intitolata appunto "Sulla tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza"; la L. 31 dicembre 1971 n. 1204 sulla tutela delle lavoratrici madri; la L. 9 dicembre 1977 n. 903 sulla parità di trattamento fra uomini e donne in materia di lavoro; la L. 29 luglio 1975 n. 405 istitutiva dei Consultori familiari; la L. 19 maggio 1975 n. 151 sulla riforma del diritto di famiglia, ecc. Anche in campo medico, nel giuramento che precede il nuovo testo del codice deontologico (1989), è riaffermato fra i doveri principali del medico l'impegno categorico di difendere la vita umana, senza alcuna distinzione fra le diverse fasi che la costituiscono, senza alcuna particolare riserva per il momento in cui la vita si considera iniziare. Né può esservi dubbio che tale momento debba scorgersi già in quella inizialissima fase, in cui i pronuclei maschile e femminile, completata ciascuno la propria divisione meiotica, si fondono, dando origine al primitivo nucleo di segmentazione. Da quello stesso momento, e per ciò che riguarda l'attività clinica di prevenzione, ancor prima di esso, il medico dovrebbe sempre tener conto, nel prestare la propria assistenza, oltre che della donna, anche dell'esistenza del concepito e del nascituro. E' del resto solo questa presenza che può giustificare nel caso di richiesta da parte della gravida di interrompere la gravidanza, il ricorso dello stesso medico alla cosiddetta "obiezione di coscienza", la cui ammissibilità sul piano giuridico trova preciso riscontro nell'art. 9 della citata legge 194. In esso però si stabilisce anche che chi vi faccia ricorso, pur non essendo tenuto a prendere parte al compimento delle diverse procedure inerenti l'interruzione della gravidanza, mai potrà ritenersi esonerato dal prestare l'assistenza necessaria alla donna, sia nel periodo precedente che nel periodo successivo all'intervento medesimo. La stessa Corte Costituzionale ha ritenuto anzi "manifestazione infondata, in riferimento agli articoli 2, 3, 19, 21, 30, 31, 32 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 12 della legge 22 maggio 1978 n. 194, nella parte in cui non consente di sollevare obiezione di coscienza, con preventiva dichiarazione, in relazione alla partecipazione alle procedure previste dall'articolo 12 e, in particolare, in ordine al rilascio dell'autorizzazione a decidere l'interruzione volontaria della gravidanza". (Corte Costituzionale 3 dicembre 1987 n. 445 in Giur. Cost. 1987, fascicolo 12). Dunque in ogni fase della sua prestazione, ivi compresa quella a carattere meramente amministrativo-certificativo, il diritto del medico alla propria libertà professionale deve conciliarsi con il dovere di rispettare la consapevole volontà della donna, con il dovere di assistere e di curare, obbligo quest'ultimo inderogabile e preminente, specie ove ricorra un pericolo grave per la salute o per la vita della donna medesima, infine con il dovere di rispettare i vari disposti delle leggi vigenti. Ed è appunto in considerazione della sostenuta necessità di un puntuale ed autentico rispetto della ricordata legge 194 che, come non si può essere d'accordo con un troppo facile ricorso alla obiezione di coscienza, che priva nella sostanza la donna della tutela offertale dalla legge, allo stesso modo non si può essere d'accordo con una libera commercializzazione nel nostro Paese di pillole abortive, come la recente RU 486 (la cosiddetta "pillola del mese dopo"). Il principio attivo, com'è noto, è costituito da un ormone steroideo che agisce con meccanismo d'azione antiprogestinico, il quale se assunto poco tempo dopo il concepimento è capace di determinare il distacco dell'embrione dalla parete uterina. Per l'espulsione e la conseguente interruzione della gravidanza è necessaria una successiva somministrazione di prostaglandine (entro i due giorni dall'assunzione della pillola). E' poi anche noto che specificamente talune di queste sostanze sono di per sé già capaci di provocare l'aborto se somministrate per via intrauterina o per via vaginale (ad es. la prostaglandina 16-16 dimetil-P.G.E.2 o la 15 MeF2 a). Ma sia per esse che per la più recente RU 486 la sperimentazione clinica non si può ritenere ancora ultimata. Appare dunque opportuno ricordare il contenuto dell'art. 19 del nuovo codice deontologico che così fra l'altro recita: "Il medico è tenuto a conoscere la natura, le indicazioni, le controindicazioni, le interazioni dei farmaci e le caratteristiche di impiego dei comuni mezzi diagnostici e terapeutici che prescrive." Nonostante queste riserve, appare legittimo, per il futuro, consentire alla gestante, sempre che ricorrano le condizioni di cui alla L. 194 e sempre che sussistano le premesse cliniche, di interrompere la gravidanza farmacologicamente, ossia in modo meno traumatico, in taluni casi con minor rischio per la sua salute e, almeno sulla base dei dati sinora a disposizione, con discrete possibilità di successo. E'certo però che in nessun caso una qualsiasi ancorché facile e poco rischiosa pratica abortiva dovrà trasformarsi in un mezzo diffuso di contraccezione, pericolo che sussisterà certamente ove si decidesse una libera commercializzazione dei farmaci indicati. Per ciò che riguarda, in merito, il comportamento del medico considerato soprattutto sotto il profilo etico, si segnala l'articolo 46 del nuovo codice deontologico che così testualmente dispone: Il medico fornirà alla paziente ogni utile informazione in materia di sessualità, di riproduzione e di contraccezione. Ogni atto medico diretto ad intervenire sui problemi della sessualità e della riproduzione è consentito ai soli fini della tutela della salute e della persona nel quadro delle previsioni legislative. L'interruzione volontaria della gravidanza è regolamentata con legge dello Stato. Ogni atto mirante all'interruzione della gravidanza all'infuori dei casi previsti dalla legge costituisce gravissima infrazione deontologica specialmente se compiuto a scopo di lucro. Salvo il pericolo di vita, il medico obiettore di coscienza può rifiutarsi di intervenire nell'interruzione volontaria di gravidanza, lasciando ad altro collega l'assistenza del caso. In definitiva, lo stesso codice deontologico riconosce oggi, contrariamente a quanto avveniva in passato, la correttezza sotto il profilo etico del comportamento del medico che nel rispetto delle leggi vigenti pratichi l'interruzione volontaria di gravidanza, né si dettano in materia norme di comportamento diverse da quelle contemplate nella L. 194. D'altra parte il ricorso del sanitario all'obiezione di coscienza potrà ritenersi valido solo quando non esista una condizione di urgenza (si dice: "salvo il pericolo di vita"), restando però sempre il medico obbligato ad intervenire ed a prestare l'assistenza necessaria ove quella condizione si realizzi e, negli altri casi, ad affidare la donna nelle mani di altro idoneo collega. Va anche rilevato che il nostro codice deontologico non detta norme particolari ove si crei contrasto fra il diritto alla vita ed alla salute della donna e quelli analoghi del concepito. Esso si limita ad affermare che "compito del medico è la difesa della vita e della salute psichica dell'uomo" (art. 5) e che "nell'esercizio della professione il medico deve costantemente ispirarsi alle conoscenze scientifiche ed alla propria coscienza assumendo come valore fondamentale il rispetto della vita e della persona umana" (art. 7). Netto però, in merito, l'orientamento giurisprudenziale. La stessa Corte Costituzionale, infatti, con sentenza del 18 febbraio 1975, n. 27 ha affermato fra l'altro: "non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita, ma anche alla salute della madre che è già persona e quello dell'embrione che persona deve ancora diventare." Non v'è dubbio pertanto che, ove si crei contrasto fra madre e nascituro in merito al diritto di ognuno dei due alla vita ed alla salute, debba prevalere quello della madre. Diverso sarà naturalmente il comportamento nel caso di donna già morta. Ove infatti la diagnosi di morte della donna sia certa, non vi dovrà essere alcun dubbio sull'obbligo morale e giuridico di adoperarsi per salvare la vita del nascituro. In sede extra ospedaliera difficilmente però lo stesso medico potrà essere in grado di stabilire immediatamente le condizioni effettive del feto, l'epoca della morte della donna, la dinamica e le cause degli eventi mortali; quasi mai egli disporrà dello strumentario adeguato per rianimare il neonato con una qualche speranza di successo, seppure riuscisse ad estrarlo vivo e vitale. E' dunque generalmente da evitare che si effettui in tale sede un taglio cesareo post-mortem specie con mezzi di fortuna, nonostante sussista sempre l'imperativo morale e giuridico di soccorrere il nascituro. Altro sarà invece il comportamento che potrà attendersi da un sanitario, soprattutto se specialista, che si trovi ad operare in ambiente ospedaliero. Se poi la gestante è morente ma è ancora capace di intendere e di volere, l'obbligo del medico è quello di informarla del suo stato e di ottenere da lei il consenso necessario per salvare il feto: "Anche se può sembrare disumano, ciò non di meno si tratta di un innegabile diritto della paziente ed al medico spetta solo di trovare le forme più adatte. Infatti la gestante può legettimamente rifiutare di sottoporsi al taglio cesareo in qualunque occasione e qualsivoglia ne sia l'indicazione". (D. Pecorari - Hans Dieter Hiersche). Si tratta fortunamente di casi limite, importanti però poiché consentono, pure nella loro drammaticità, di evidenziare come nella propria condotta professionale si dovrà costantemente tener conto non solo della vita e della salute della madre ma anche di quella del nascituro. Sebbene il feto ancora congiunto all'alvo materno non venga dai codici considerato persona, in quanto secondo l'antico detto: "mulieris portio est vel visserum" (è una parte del corpo della madre come se fosse uno dei suoi visceri), il diritto gli riconosce comunque un'adeguata protezione. Anzitutto la stessa legge 194 prevede pene detentive alquanto severe (art. 19) non solo per chiunque cagioni l'interruzione della gravidanza senza l'osservanza delle disposizioni di legge (sino a tre anni di reclusione), ma anche per chiunque cagioni l'interruzione della gravidanza o un parto prematuro per colpa (sino a due anni di reclusione, ex art. 17). Pene ancora più severe sono previste per chi abbia effettuato dolosamente l'aborto su donna non consenziente o senza l'osservanza delle altre modalità previste dall'articolo 7 della stessa legge 194 (reclusione sino a 4 anni). Nel 3º comma dell'articolo 7 appena citato si stabilisce più precisamente che ogni volta che sussista "la possibilità di vita del feto", indipendentemente da qualsiasi altra condizione o circostanza, il medico che esegue l'eventuale intervento "deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto". Se il medico non si attiene a tali fondamentali principi potrà essere chiamato a rispondere di omicidio colposo. Il tenore di alcune sentenze è estremamente chiaro sull'argomento: Ai fini della tutela penale il feto, durante il parto, va ricompreso nella nozione di uomo ed è pertanto responsabile di omicidio colposo chi ne cagiona per colpa la morte. (Tribunale di Torino, 27 Ottobre 1978 in Giur. Merito 1981, 159). La qualità di persona non si acquista con la nascita vera e propria, la quale si ha con la fuoriuscita del prodotto del concepimento dell'alvo e con il taglio del cordone ombellicale, bensì in un momento anteriore, sia pure di poco: in cui ha inizio il distacco del feto dall'utero materno. Ne deriva che è ravvisabile il delitto di omicidio colposo quando sopraggiunge la morte del feto tra il distacco dall'utero materno e la espulsione definitiva. (Cass. Pen. Sez. IV, 10 aprile 1979 in Giust. Pen. 1980, 2, 36). Poiché la autonoma vita biologica umana ha inizio con la rottura del sacco delle acque amniotiche, è ravvisabile l'ipotesi di omicidio colposo quando, dopo tale rottura, il feto perda la vita per imprudenza, negligenza o imperizia di chi assista al parto, anche se la fase espulsiva non sia ancora terminata. (Cass. Pen. Sez. IV, 13 febbraio 1979 in Giur. It. 1979, 2, 433). Tali sentenze provano che non è affatto vero che in sede penale il concepito venga considerato persona solo con la nascita e con l'avvenuta respirazione. Se così fosse, ad es., il medico non dovrebbe rispondere di omicidio colposo quando a perdere la vita sia un feto che non abbia ancora respirato. Evidentemente l'attuale orientamento giurisprudenzale sulla materia è alquanto più severo che nel passato e le stesse sentenze prima ricordate testimoniano quanto sia accresciuto e non diminuito, proprio in epoca successiva alla legge di regolamentazione della interruzione volontaria della gravidanza, il rispetto portato per la vita del nascituro. Ma tale rispetto mal si concilia, per la verità, con la considerevole ampiezza delle ipotesi che rendono lecito il ricorso alla interruzione volontaria della gravidanza entro i primi 90 giorni. In essa, anzi, molti autorevoli giuristi e medici hanno scorto una riprova ulteriore della lesione del diritto alla vita ed alla salute del nascituro, diritto che la Costituzione ha inteso garantire invece per ogni essere umano. All'articolo 4 della legge 194 è detto espressamente che può essere autorizzata all'interruzione della gravidanza "entro i primi 90 giorni, la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità conporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute o alle sue condizioni economiche o sociali, o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito...". Praticamente dunque, se la donna vuole, entro i primi 90 giorni potrà essere autorizzata ad abortire sempre, cioè senza ulteriori problemi amministrativi o legali in aggiunta a quelli già gravi a livello psicologico individuale, ferme restando le difficoltà pratiche concernenti la disponibilità effettiva della sede ove sottoporsi all'intervento del personale medico e paramedico che vi operi. In pratica infatti è assai facile a configurarsi quel serio pericolo per la salute fisica o psichica della donna che costituisce requisito necessario e sufficiente per essere autorizzate ex legge all'intervento interruttivo. Il verificarsi del serio pericolo di cui parla la legge è subordinato non solo alle particolari condizioni cliniche in cui versi la gravida, ma anche al ricorrere delle più diverse sfavorevoli condizioni estrinseche, interessanti sia la sfera economica, che familiare e sociale in genere della donna, la cui valutazione è peraltro demandata sempre al solo giudizio della stessa. Diversi rilievi critici sono poi centrati sul fatto che la legge 194 prevede la possibilità da parte della minore gravida di abortire anche senza che i genitori siano informati. A tale riguardo all'art. 12 è così stabilito: la richiesta di interruzione della gravidanza è fatta personalmente dalla donna. Se la donna è di età inferiore ai diciotto anni, per l'interruzione della gravidanza è richiesto l'assenso di chi esercita sulla donna stessa la potestà o la tutela. Tuttavia, nei primi novanta giorni, quando vi siano seri motivi che impediscano o sconsiglino la consultazione delle persone esercenti la podestà o la tutela, oppure queste, interpellate, rifiutino il loro assenso o esprimano pareri tra loro difformi, il consultorio o la struttura socio-sanitaria, o il medico di fiducia, espleta i compiti e le procedure di cui all'art. 5 e rimette entro sette giorni dalla richiesta una relazione, corredata del proprio parere, al giudice tutelare del luogo in cui esso opera. Il giudice tutelare, entro cinque giorni, sentita la donna e tenuto conto della sua volontà, delle ragioni che adduce e della relazione trasmessagli, può autorizzare la donna, con atto non soggetto a reclamo, a decidere l'interruzione della gravidanza. Qualora il medico accerti l'urgenza dell'intervento a causa di un grave pericolo per la salute della minore di diciotto anni, indipendentemente dall'assenso di chi esercita la potestà o la tutela e senza adire il giudice tutelare, certifica l'esistenza delle condizioni che giustificano l'interruzione della gravidanza. Tale certificazione costituisce titolo per ottenere in via d'urgenza l'intervento e, se necessario, il ricovero. Su tale articolo sono state avanzate da più parti eccezioni di incostituzionalità, che però la Corte Costituzionale ha decisamente rigettato. Ciononostante non si può fare a meno di rilevare che ancor'oggi il settore dove l'intervento del magistrato è richiesto con maggior frequenza, per ciò che riguarda i vari problemi posti in essere dalla legge 194, è proprio quello delle minori che chiedono di interrompere la gravidanza senza che siano informati i genitori. Lo stesso Pretore di Roma ha fatto presente in merito che tutt'oggi "nella stragrande maggioranza dei casi esse apppaiono del tutto disinformate persino sull'esistenza di strutture pubbliche alle quali rivolgersi e dichiarano di aver preso contatto per la prima volta con il consultorio familiare in occasione della gravidanza non desiderata e di non aver ricevuto alcuna seria informazione sui problemi attinenti la sfera sessuale ed affettiva, né a scuola né in famiglia. " (Relazione Vassalli, 1989).Tali gravi lacune e la discussa permissività della legge per ciò che riguarda l'interruzione volontaria della gravidanza entro il primo trimestre lasciano chiaramente intendere quanto molto ancora ci sia da fare, soprattutto in materia di educazione sanitaria e di preparazione ad una paternità e maternità davvero responsabili. Più circoscritto il campo delle ipotesi che rendono lecito ed autorizzano il provvedimento di interruzione di gravidanza ove la richiesta sia presentata dalla donna dopo il 90º giorno di gestazione. Al riguardo l'articolo 6 L. 194 stabilisce: l'interruzione volontaria della gravidanza dopo i primi 90 giorni può essere praticata: a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna;
b) quando siano stati accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinano un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. La nascita di un neonato malato o con gravi anomalie o malformazioni congenite può configurare un'ipotesi di colpa professionale anche grave per il medico e per lo specialista ostetrico. Ciò può verificarsi quando il sanitario aveva, ad es., decisamente scartato l'esistenza di quella anomalia o della malformazione fetale, e ciò contrariamente ad ogni atteggiamento di prudenza, assicurando invece con sufficiente margine di certezza e tranquillizzando anzi la donna circa la nascita di un bambino sano. La colpa professionale sarebbe allora prevalentemente fondata, a nascita avvenuta e a un danno manifestatosi, sulla scorretta informazione fornita alla donna, a sua volta diretta conseguenza dell'errata diagnosi formulata dal medico. In tali casi è pregiudiziale al fine di provare la eventuale colpa professionale che si dimostri che appunto quell'errata informazione è stata alla base dell'errato convincimento e quindi della scelta non interruttiva decisa dalla donna. Un identico ragionamento, ove si discuta ancora in tema di colpa professionale, vale per l'ipotesi opposta in cui cioè l'errata diagnosi circa l'esistenza, dimostratasi poi infondata, di una malformazione fetale, si dimostri essere stata alla base della scelta interuttiva operata poi sulla donna. Per ciò che riguarda più propriamente la possibilità di formulare una corretta diagnosi, dobbiamo convenire che in reparti ostetrici ben attrezzati dovrebbe essere sempre possibile effettuare indagini quali l'ecotomografia, l'amniocentesi, la placentocentesi, la fetoscopia, il prelievo e lo studio dei villi coriali; indagini che generalmente consentono di formulare con sufficiente margine di certezza una precisa diagnosi sulle effettive condizioni di salute e di maturità del feto. L'analisi cromosomica, soprattutto se effettuata nei soggetti che abbiano familiarità positiva per l'incidenza di anomalie o malformazioni gravi e letali, potrà consentire una scelta maggiormente consapevole da parte della coppia e soprattutto da parte della donna della propria maternità. Nei casi che lo richiedano, l'ostetrico dovrebbe avere inoltre possibilità di effettuare un monitoraggio biochimico quale ad es. il dosaggio degli ormoni correlati alla funzione placentare, un monitoraggio biofisico (cardiotocografia, ecografia ecc.), o la possibilità di controllare la stessa crescita fetale o la quantità di liquido amniotico, l'effettiva maturità polmonare, ecc. Una delle più importanti finalità dell'esistenza ostetrica è quella di ridurre entro limiti accettabili non solo la mortalità materna ma anche la perinatimortalità e soprattutto la mortalità neonatale, causa purtroppo di postumi invalidanti anche gravi e dal costo economico e sociale spesso inaccettabile. Non vi può essere dubbio, pertanto, che qualsiasi reparto di ostetricia dovrebbe essere organizzato in modo da poter ricorrere tempestivamente, se necessario, al parto cesareo, instaurare tutte quelle misure diagnostiche e terapeutiche atte a scongiurare il determinarsi di una ipossia fetale, assicurare un'adeguata assistenza pediatrica al neonato prematuro o immaturo, ecc. Solo con una tale più efficiente organizzazione è pensabile possa essere efficacemente perseguita una reale prevenzione del danno materno-neonatale. Prevenzione vuol dire inoltre anche sorveglianza clinica accurata della gestante per tutto il decorso della gravidanza e non solo al momento del parto. Ben sappiamo ormai che fattori genetici diversi o ambientali, infettivi, tossicologici, farmacologici, alimentari, voluttuari, ecc. sono capaci di esercitare azioni gravemente dannose sulla validità del nascituro, specie se agiscono nelle primissime fasi della gravidanza. Se allora tali danni si istaureranno, chi ne sarà responsabile? E come provarne poi l'eventuale nesso causale o concausale con determinate condotte antigiuridiche? Sono dell'avviso che in molti casi la nascita di un bambino con handicap psichico o fisico rappresenta non un mera fatalità, ma un insuccesso grave sul piano della prevenzione, dell'assistenza clinica, diagnostica e terapeutica, dell'informazione e della educazione sanitaria della gestante e della coppia in genere. Dell'evento in questione dovrebbero sempre essere individuate le cause, anche ai fini dell'accertamento delle eventuali responsabilità e del miglioramento dell'organizzazione assistenziale. Ma assai spesso ci si trova di fronte a problemi di notevole difficoltà valutativa, come ad esempio nel caso in cui sia in discussione la teratogenecità di alcuni farmaci, la capacità lesiva di dosi eventualmente assorbite di radiazioni ionizzanti: in altri casi può essere in discussione la effettiva dannosità dell'esposizione della gravida a certi tossici o veleni ambientali, come ad esempio alcuni pesticidi o solventi organici diversi, sostanze impiegate a scopo industriale, voluttario ecc. Talora più che l'adeguatezza dell'organizzazione, più che la competenza e la correttezza della condotta professionale del medico o dello specialista, è in discussione la stessa carenza di informazione e di educazione sanitaria da parte della donna. Si consideri ad esempio quali risultati può avere ai fini preventivi l'esatta conoscenza da parte di ogni donna gravida del proprio gruppo sanguigno e del fattore RH, specie ai fini della prevenzione della malattia emolitica del neonato. Al riguardo può essere di una certa efficacia l'opera di prevenzione e di informazione svolta dai Consultori familiari. In alcune leggi regionali concernenti l'istituzione e la sfera di attività dei Consultori medesimi, si fa specifico riferimento alla prevenzione della malattia emolitica del neonato, alla diagnosi precoce dell'enzimopatie, all'accertamento ed alla prevenzione delle malattie caratteristiche dell'età neonatale, alla prevenzione e cura dei fattori patologici connessi alla sessualità, alla consulenza genetica medica, alla vaccinazione della donna contro la rosolia in epoca pregravidica, ecc. (vedi in merito: legge Regionale Valle d'Aosta n. 65 del 1977; legge regionale Emilia Romagna n. 22 del 1976; legge regionale Liguria n. 26 del 1976; articolo 4 legge P. Trento n. 20 del 1977; ecc.). Il medico, sia che operi nel consultorio, sia nel reparto di ostetricia, sia nel proprio ambulatorio medico, con il suo sapere ed il suo saper fare deve in ogni caso "saper prevenire" quelle condizioni di danno cui si è accennato, sia per ciò che riguarda la madre che il nascituro, intervenendo tempestivamente prima ancora che esse si istaurino definitivamente. Il che significa che deve saper prontamente individuare le situazioni di rischio o di maggior rischio cui gli stessi siano eventualmente esposti. Ma ancora allo stato attuale, per ciò che riguarda ad esempio il controllo di una malattia genetica, ci si limita alla sola diagnosi prenatale, diagnosi che dovrebbe rappresentare invece l'ultimo livello di prevenzione. Questa sarebbe assai più utile se fosse preceduta da programmi adeguati di screening genetico delle coppie, quanto meno al fine di rendere le coppie stesse consapevoli dell'eventuale rischio inerente alla condizione di portatore sano. In realtà, nel nostro Paese a tutt'oggi la diagnosi prenatale di molte malattie genetiche con analisi del DNA fetale è praticata solo in pochi centri anche per ciò che riguarda importanti malattie come, ad es. le emoglobinopatie, le emofilie, la distrofia muscolare di Duchenne, la fenilchetonuria ecc.. A maggior ragione, pertanto, il medico e soprattutto lo specialista dovrebbero essere in grado se non di intervenire direttamente, quanto meno di orientare utilmente la donna e la coppia su tali gravi problemi. Il saper e il saper fare del medico potranno allora rivelarsi proprio nel saper correttamente informare la donna o la coppia e nel richiedere l'eventuale intervento di idonei esperti su un ben identificato problema. In merito alla competenza professionale del sanitario, va segnalato che, ove si verifichi un danno a carico della madre o del nascituro e si discuta in tema di responsabilità per colpa, l'atteggiamento del Magistrato sarà più severo nei confronti di chi è specialista della materia rispetto a chi specialista non è: Ai fini della valutazione della colpa professionale, nel caso di prestazioni mediche di natura specialistica, effettuate da chi sia in possesso del diploma di specializzazione, non può prescindersi dal considerare le cognizioni generali e fondamentali proprie di un medico specialista, non essendo sufficiente il riferimento alle cognizioni minime di cultura e di esperienza che si pretendono da un medico generico; infatti il corredo culturale ed esperienziale dallo Stato per il conseguimento del titolo di specialista, rappresenta una più consistente garanzia per il paziente e legittima un'aspettativa di maggior perizia. (Fattispecie relativa a ritenuta omissione colposa addebitabile a specialista ostetrico il quale, praticata un'iniezione per accelerare il parto, non aveva poi provveduto ad essere presente e ad adottare i più opportuni ed efficaci accorgimenti terapeutici e di intervento consistenti nella specie nella immediata isterectomia, nei confronti di una partoriente provata da pregresse e complesse gravidanze e deceduta poi per lacerazione spontanea dell'utero). (Cass. Pen. Sez. 4ª, 9 marzo 1983, in Dir. e prat. assicur. 1984, 405). Pertanto a parità di danno e di altre circostanze nelle quali il danno stesso si è verificato, l'eventuale imperizia del sanitario avrà diverso peso e diversa incidenza nei riguardi della definitiva valutazione della responsabilità professionale del medico, a seconda che si tratti di un generico o di uno specialista. Ma quando la colpa professionale viene contestata sotto l'aspetto della negligenza e della imprudenza, queste conferiranno generalmente carattere di assoluta censurabilità ed inescusabilità alla condotta causatrice del danno: l'insuccesso dell'intervento per l'interruzione della gravidanza, accompagnata dalla negligenza del medico nel prescrivere i controlli o nell'informare dell'esito la paziente che lascia così proseguire la gestazione, determina il diritto al risarcimento del danno derivante dai maggiori disagi affrontati per effetto della nascita, avvenuti in un momento di difficoltà, nonché dagli ostacoli che i nuovi doveri verso il figlio abbiano portato alla realizzazione anche economica della coppia. (Tribunale di Padova 9 agosto 1985 in Nuova Giur. Civ. comm. 1986, 1, 115). Non a caso sulla colpa professionale da negligenza v'è un'ampia giurisprudenza di merito in ambito ostetrico: la colpa professionale del medico sotto il profilo della negligenza, per aver omesso di disporre i necessari accertamenti di carattere preliminare, con conseguente esito morale (nella specie del prodotto del concepimento in caso di parto podalico), è rilevante ai fini della configurabilità del reato di omicidio colposo e si aggiunge alla responsabilità per perizia della successiva condotta (nella specie per aver posto in essere grossolane manovre estrattive sul corpo fetale con conseguente rottura del rachide). (Cassazione Penale sez. 4ª, 6 novembre 1984 in Riv. Pen. 1985, 796). Non si potrà però mai parlare di responsabilità profesionale se non si è provata preliminarmente non solo l'esistenza del danno stesso, il che presuppone una adeguata valutazione del nesso causale giuridico-materiale fra la specifica condotta professionale (attiva od omissiva) e il danno in discussione, ma anche la censurabilità e l'inescusabilità dell'errore, sotto il profilo della imperizia o imprudenza o negligenza. La valutazione del nesso causale giuridico-materiale richiederà a sua volta un'adeguata analisi dei vari criteri sui quali da tempo la Scuola medico-legale romana ha posto l'accento: definizione dello stato anteriore, analisi dei criteri (cronologico, qualitativo, quantitativo, modale e di esclusione). Il danno accertato sarà infine valutato alla luce delle norme specifiche del codice penale (omicidio colposo, lesione personale colposa grave o gravissima, ecc.) o del codice civile, a seconda che la valutazione stessa sia richiesta ai fini della erogazione della pena o di quelli inerenti il risarcimento del danno alla persona (ad es., più frequentemente nel caso di incidenti stradali). Nella pratica peritale è dato di osservare, fra i casi più spesso in discussione in tema di responsabilità professionale: morte del prodotto di concepimento, parto prematuro, lesioni feto-neonatali susseguenti ad ipossia fetale, lacerazioni del corpo uterino, gravi fenomeni emorragici, lesioni vulvari e vaginali, ricorso non necessario al taglio cesareo o viceversa mancata effettuazione o ritardo nell'esecuzione del taglio cesareo, insorgenza di gravi complicanze settiche, sterilità della donna, ecc. Diverse delle citate evenienze possono verificarsi anche a seguito di comune sinistrosità stradale. In tali casi, specie ai fini di una più precisa definizione del nesso causale e di una più equa valutazione del danno esitato, potrà assumere importanza decisiva una corretta stesura del referto iniziale. Per ciò che specificamente riguarda l'obbligo del referto (v. anche quanto dispone l'art. 334 del nuovo Codice di Procedura Penale e l'art. 365 del C.P.), va detto che, con riferimento alla materia trattata, esso va fatto nel caso in cui l'interruzione della gravidanza si verifichi non solo per dolo ma anche per colpa di terzi (art. 17 della L. 22 maggio 1978, n. 194) oppure a seguito di lesioni riportate in incidenti stradali, ecc.; va altresì stilato quando l'aborto o l'acceleramento del parto si verifichino come conseguenza di lesioni personali dolose (art. 18 L. 194). Ove sia in discussione l'eventuale delitto di omissione di referto (art. 365 C.P.), fermo restando che, perché il delitto si configuri, occorrerà dimostrare l'esistenza del dolo, il medico potrà, sebbene non sempre, invocare a propria giustificazione il fatto che talora è effettivamente impossibile formulare una corretta diagnosi iniziale, come ad es. quando allo stesso sanitario non poteva essere nota l'esistenza in un dato momento dello stato gravidico della donna. Sussisterà comunque obbligo di referto anche nei seguenti casi: - interruzione della gravidanza senza il consenso della donna (art. 18 L. 194);
- interruzione della gravidanza con il consenso della donna, quando però si abbia motivo di ritenere che il consenso è stato estorto con violenza o minaccia o carpito con inganno (art. 18 L. 194).
- interruzione della gravidanza con il consenso della donna e complicatasi poi con lesione personale grave o gravissima o morte della donna;
- interruzione volontaria della gravidanza effettuata su minore o su interdetta o incapace al di fuori delle ipotesi previste dagli artt. 12 e 13 della L. 194 o senza l'osservanza delle modalità indicate negli artt. 5, 8, 6 lett. a) e b, e della L. 194 (per le pene relative v. art. 19).
Il medico è invece esonerato dall'obbligo di referto quando con esso si esporrebbe la donna assistita a procedimento penale. Ciò si verifica ad esempio nel caso di interruzione volontaria della gravidanza di donna consenziente prodotta senza l'osservanza delle modalità indicate negli artt. 5, 8 ovvero senza l'accertamento medico preliminare previsto dalle lettere a) b) dell'art. 6 o senza il rispetto delle modalità previste dall'art. 7. Redigere il referto nei casi in cui non sussiste per esso uno specifico obbligo giuridico può configurare la fattispecie di Rivelazione di segreto professionale di cui all'art. 662 del C.P. e art. 13 del nuovo codice deontologico. In quest'ultimo, al 3º comma, è però così stabilito. La rivelazione del segreto è costituita:
a) se imposta dalla legge (referti, denunce e certificazioni obbligatorie)... c) se richiesta dai legali rappresentanti del minore o dell'incapace nell'interesse degli stessi. Evidente su quest'ultimo punto il contrasto con il già citato art. 12 della L. 194/1978. Accanto all'obbligo del referto dobbiamo ricordare i doveri legali concernenti le denunce ed i certificati obbligatori in campo ostetrico. Questi ultimi in particolare sono così definiti quando vengono imposti da specifici articoli legge. Negli altri casi si parla di certificati facoltativi, così detti perché ineriscono la sfera della facoltà di curare del medico, restando inteso anche per essi che ove ne sia richiesto, il medico non potrà mai esprimersi (contrariamente a quanto la dizione di facoltativi potrebbe far pensare) dal rilasciare il certificato della visita effettuata, contenente i dati anamnestici e clinici di obiettivo diretto riscontro. Per ciò che riguarda la gravida, l'obbligo di esibire una data certificazione può derivare da specifiche norme di diritto del lavoro. Si ritiene opportuno segnalare al riguardo l'art. 2 della L. 30 dicembre 1971 n. 1204 sulla tutela delle lavoratrici madri (G.U. 18-1-1972 n. 14) che stabilisce fra l'altro: [...] le lavoratrici non possono essere licenziate dall'inizio del periodo di gestazione sino al termine del periodo di interdizione del lavoro previsto dall'art. 4 della stessa legge, nonché sino al compimento di un anno d'età del bambino. Il certificato di gravidanza può essere altresì utilizzato dalla donna per ottenere l'esenzione da lavori pericolosi, faticosi o insalubri durante il periodo di gestazione sino al settimo mese dopo il parto (v. art. 3 L. citata). Nell'art. 4 della stessa legge è fatto esplicito divieto di adibire al lavoro le donne: a) durante i due mesi precedenti la data presunta del parto.
b) ove il parto avvenga oltre data per il periodo intercorrente fra la data presunta e la data effettiva del parto.
c) durante i tre mesi dopo il parto. L'astensione obbligatoria dal lavoro è anticipata di tre mesi dalla data presunta del parto quando le operatrici sono occupate in lavori che, in relazione all'avanzato stato di gravidanza siano da ritenere gravosi o pregiudizievoli. Ma la certificazione di gravidanza o dell'epoca della stessa può rilevare anche in sede penale. Così, ad esempio, ove la donna sia stata condannata, alla eventuale diagnosi di gravidanza seguirà il rinvio obbligatorio della esecuzione della pena (art. 146 C.P.). L'art. 147 C.P. prevede per la donna condannata il rinvio facoltativo della esecuzione della pena nel caso che ella abbia partorito da più di sei mesi ma da meno di un anno e non vi sia modo di affidare il figlio ad altri che alla madre. Infine nel ruolo codice di precedura penale (D.P.R. 22 settembre 1988 n. 447 in vigore dal 24 ottobre 1989), l'art. 275 stabilisce che non può essere disposta la custodia cautelare in carcere, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, quando l'imputata è una persona incinta o che allatta la propria prole. La certificazione dello stato di gravidanza può avere notevole rilievo ove si discuta, ad es., sulle sanzioni penali per aver interrotto la gravidanza senza il consenso della donna. In merito la 5ª sez. Penale della corte di Cassazione ha stabilito che, se è vero che nel delitto di procurato aborto lo stato di gravidanza dovrà essere provato in modo rigoroso, costituendo il necessario presupposto del fatto costitutivo del reato, dall'altro il Giudice può convincersi della sua esistenza anche attraverso una prova specifica, soprattutto quando per il tempo trascorso una perizia medico legale non sarebbe più in condizione di accertare il preesistente stato di gravidanza. In tal caso l'eventuale certificazione medica a suo tempo rilasciata dal generico e dallo specialista, o una diretta prova testimoniale da parte degli stessi sanitari potrà acquistare valore decisivo. Anche in sede civile il certificato medico con diagnosi di gravidanza o l'indicazione dell'epoca di gestazione può acquistare notevole importanza: ad es. per ammettere una minore al matrimonio, sebbene sulla materia non vi sia un orientamento giurisprudenziale. Si è affermato ad es.: non integra il presupposto del grave motivo ex art. 84 c.c. ai fini dell'autorizzazione al matrimonio la gravidanza della minore che non è accompagnata dalla accertata esistenza della maturità psico-fisica, intesa sia in senso generico che in senso specifico come idoneità al matrimonio ed all'assolvimento degli oneri coniugali e familiari (Trib. Min. Genova 8 aprile 1961, in Dir. Famiglia 1982, 1287). La certificazione di gravidanza e della sua epoca può interessare anche per altri riguardi. Talora, ad es., lo stato di gravidanza può configurare l'errore fondamentale sulle qualità personali del coniuge per il quale si configura la possibilità di annullamento del matrimonio ex art. 122 c.c.. In altri casi può essere in discussione la stessa riconoscibilità della condizione di gravidanza o l'inizio della medesima nei riguardi del momento in cui è stato contratto il matrimonio impugnato ecc. Talora l'accertamento dell'epoca della gravidanza e dell'epoca della gestione nella quale è avvenuto il parto può essere decisivo agli stessi fini di un eventuale disconoscimento di paternità. Più precisamente, secondo quanto stabilito dal nostro codice civile, il marito è reputato padre del figlio concepito durante il matrimonio (presunzione di paternità, art. 231 c.c.) e si presume concepito durante il matrimonio il figlio "nato quando sono trascorsi 180 giorni dalla celebrazione del matrimonio, ma non ancora trascorsi 300 giorni dalla data dell'annullamento, dello scioglimento e della cessazione degli effetti civili del matrimonio" (art. 232 codice civile). Tale presunzione legale è fondata quindi sull'ipotesi che le gravidanze concluse con la nascita non possano essere più brevi di 6 mesi né più lunghe di 10, dal che deriva che quella stessa presunzione di paternità viene a cessare quando il figlio è nato fuori dei termini cronologici prima indicati. Si consideri allora quale grande significato potrà acquistare sul piano medico legale il riconoscimento di una condizione di gravidanza protratta o di parto prematuro. Si segnala peraltro che secondo l'orientamento giurisprudenziale prevalente la presunzione assoluta di concepimento, a norma dell'art. 232 del c.c., del figlio che sia nato ad es. dopo 180 giorni dalla celebrazione del matrimonio, è rivolta soprattutto ad impedire nei confronti di chi sia nato invece entro tali limiti, cioè prima del 180º giorno o dopo il 300º giorno, ogni possibilità di contestazione circa lo status di figlio legittimo spettantegli, ma non esclude in nessun caso la possibilità di provare attraverso un'indagine medico-legale che il figlio stesso sia concepito prima della celebrazione delle nozze e che per tanto non sia figlio legittimo della madre e di chi è divenuto suo marito. La perizia medico-legale può dunque essere ammessa dal giudice in ogni caso e l'accertamento dell'epoca della gestione nella quale il parto si è verificato può rilevarsi talora efficace anche al fine di verificare la concordanza o la discordanza o l'effettivo peso di certe affermazioni istruttorie, risultando dunque utile ai fini della esclusione o della attribuzione della paternità. La certificazione medica può riguardare per il resto qualsiasi circostanza clinica concernente la gravidanza e il suo decorso o l'epoca della gestazione o il parto. Fra gli altri segnaliamo: il certificato denuncia di assistenza al parto, la segnalazione nominativa di interruzione volontaria di gravidanza (art. 11 L. 194) certificazioni che costituiscono per il medico veri e propri obblighi di denuncia (doveri legali), a preminenti finalità statistiche e preventive così come la denuncia di nascita di infante deforme (v. art. 103 T.U.LL.SS., R.D. 27-VII-1934 n. 1265 modificato poi in legge 1/V/1981 n. 422). Al medico infine il magistrato può chiedere di accertare se una avvenuta interruzione debba considerarsi come un aborto o come parto prematuro. Si tratterà allora di stabilire rispettivamente se l'evento interruttivo si sia verificato entro od oltre il 180º dall'inizio della gestazione, valutando ove è possibile le specifiche condizioni di maturità fetale. In tali casi: al fine di stabilire se la lavoratrice che abbia interrotto spontaneamente o per terapia la gravidanza, abbia diritto alla tutela assicurativa per le lavoratrici madri oppure alla tutela spettante in caso di aborto ai sensi dell'art. 21 della legge 26 agosto 1950 n. 860, occorrerà accertare il giorno d'inizio della gestazione, poiché ai sensi dell'art. 12 D.P.R. 21 maggio 1953 n. 568 s'intende per aborto l'interruzione della gravidanza anteriore al 180º giorno dall'inizio della gestazione e si considera a tutti gli effetti come parto l'interruzione successiva a detto 180º giorno; per il suddetto fine la presunzione posta dall'art. 31 della citata legge - secondo cui il certificato medico di gravidanza indica la data presunta del parto fa stato a tale riguardo, nonostante qualsiasi errore di previsione - non è assoluta, per cui qualsiasi successivo mezzo attendibile quale un certificato medico redatto sulla base dell'esame del feto può servire a meglio determinare il giorno di inizio della gravidanza. (Cass. Sez. Lavoro 3 marzo 1978 n. 1067, in Orient. Giur. lav., 1978, 1016). Ci pare opportuno segnalare che con sentenza n. 1 del 14 gennaio 1987 la Corte Costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'articolo 7 della L. 9 dicembre 1977, n. 903 nella parte in cui non attribuisce anche al padre lavoratore la tutela prevista in favore della madre lavoratrice, nel caso in cui l'assistenza al neonato non possa essere assicurata direttamente dalla madre a causa del suo eventuale decesso o di una sua grave infermità. Sono costretto per motivi di spazio a tralasciare di parlare dei vari obblighi peritali e dei vari quesiti d'interesse ostetrico che possono essere posti dal Magistrato nei diversi ambiti giuridici. Da sé soli essi potrebbero costituire oggetto di una trattazione monografica. Si pensi ad esempio alla vastità dei già accennati problemi medico-legali in tema di aborto dal punto di vista penale (accertamento del preesistente stato gravidico, la prova dell'avvenuta interruzione della gravidanza, dell'epoca in cui la stessa è avvenuta, i mezzi con la quale è stata provocata, la diagnosi differenziale fra aborto spontaneo, accidentale o criminoso, l'accertamento dell'eventuale consenso della donna, la vitalità del feto, ecc.). Egualmente meriterebbero ampia trattazione i problemi dell'interruzione volontaria della gravidanza nel caso di una donna tossicodipendente, o alcoolista e con sieropositività per l'AIDS, la valutazione d'urgenza e dello stato di necessità in ostetricia, il rapporto tra lavoro ed aborto, ecc. Ci limiteremo invece solo ad un ultimo breve cenno sulla funzione, per altro non più così importante come nel passato, dell'infermiera ostetrica. In base all'articolo 7 D.P.R. 7 marzo 1975 n. 163 la posizione professionale dell'ostetrica diplomata è equiparata a quella dell'infermiera professionale. L'esercizio di tale attività comporta l'obbligo di rilevare con diligenza l'andamento della gravidanza e del parto e di sollecitare l'intervento del medico ogni qualvolta si notino fatti che non siano ascrivibili ad un decorso normale degli stessi (v. art. 4 del D.P.R. 7 marzo 1975 n. 163). In diverse sentenze si è riconosciuta la penale autonoma responsabilità dell'ostetrica sia nel caso di malpratica professionale sia, ad es., nel caso in cui la stessa, in servizio presso un reparto ospedaliero, si sia rifiutata di partecipare alle procedure inerenti alla interruzione volontaria della gravidanza (omissione o rifiuto di atti d'ufficio). Infine a norma dell'art. 18 R.D.L. 15 ottobre 1936 n. 2128, l'ostetrica, così come il medico, nei casi in cui abbia prestato effettiva assistenza al parto è tenuta a rilasciare il relativo certificato (certificato di assistenza al parto) [da «Ostetricia e medicina legale: aspetti e problemi alla luce del nuovo codice deontologico, delle leggi vigenti e dei moderni orientamenti giurisprudenziali» di Tommaso Feola].
  

 

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