«La marcita lombarda» di gigliola magrini


Proprio a due passi dalla periferia di Milano, attorno alla suggestiva abbazia di Chiaravalle - una delle più eleganti opere in stile gotico-lombardo - ebbe inizio, attorno alla fine del 1100, una poderosa opera di bonifica, intrapresa dai monaci cistercensi che nel 1135 si erano insediati in quei luoghi per desiderio di San Bernardo di Clairvaux. A quei tempi, in piena atmosfera medioevale, la zona compresa tra Chiaravalle, Viboldone (dove alla fine del XII secolo gli Umiliati avrebbero fondato un'altra celebre abbazia) e il convento di Morimondo in Lomellina, per una estensione di circa tremila ettari, era solo acquitrino, una palude malsana popolata da uccelli acquatici, sorvolata dal lento moto delle cicogne, nidificanti in tal numero fra gli argini e i boschetti da divenire addirittura il simbolo dei Cistercensi. Il problema più urgente che i monaci di Chiaravalle, gli Umiliati e i religiosi dell'abbazia di Morimondo si trovarono a dover affrontare fu quello idrico: occorreva convogliare e disciplinare lo scorrere delle acque sorgive, per tramutare una caratteristica negativa in una positiva opportunità di sfruttamento agricolo di quei terreni. Per raggiungere questo risultato i confratelli dei tre centri religiosi misero in atto una «riforma agraria» che si rifaceva a un antichissimo sistema di coltura, capace di sfruttare acque stagnanti, sorgive e di fiume mediante la formazione del pratum marcidum o «marcita» a carattere permanente; la marcita, equamente irrorata sia in estate sia in inverno, grazie anche alla temperatura dell'acqua, che in quella zona non è mai inferiore ai 10 gradi, consente sino a un massimo di dodici tagli l'anno e permette all'erba di vegetare anche in periodo di gelo. Dopo le prime esperienze dei tre nuclei monacensi la bonifica della palude padana si estese ai terreni limitrofi, sino ad occupare tutta l'area compresa fra le abbazie di Chiaravalle, Viboldone e Morimondo, per una superficie (rimasta tuttora quasi invariata) che si aggira sui 25.000 ettari, cui si aggiungono alcune analoghe realizzazioni di più modeste dimensioni presso Udine, Norcia e Roma. Abbiamo già detto che il maggior pregio della «marcita» è quello di consentire la vegetazione dell'erba anche in periodo di freddo intenso impendendo al terreno di gelare, ma ci sembra opportuno esaminare con maggiore attenzione quali sono i vantaggi apportati sul piano della produzione agricola dallo sfruttamento di questo particolare tipo di impianto. La «marcita», nota anche come «prato jemale», «prato marcio» o «prato sortumoso», è strettamente legata al sistema di irrigazione invernale, che esplica una duplice funzione: impedire - come già visto - il gelo del terreno, grazie al continuo e lieve scorrimento dell'acqua, e insieme fornire alla coltura prativa una lieve fonte di calore, indispensabile per lo sviluppo e la crescita dell'erba. Il discorso potrebbe esaurirsi qui, con un'ultima considerazione sull'eventuale vantaggio offerto da questo tipo di campo rispetto a quelli di normale impostazione, vantaggio che si basa sull'elevato numero di tagli (da un minimo di sei a un massimo di dodici), e sulla possibilità di fruire di foraggio fresco anche in una stagione in cui il fieno raggiunge quotazioni assai elevate (quando addirittura - in annate particolarmente sfavorevoli - non comincia a scarseggiare, costringendo ad alimentare il bestiame con sottoprodotti il cui uso determina una sensibile riduzione dalla mungitura). A questo punto ci si domanderà perché la «marcita» - se così redditizia - non si sia andata diffondendo in aree assai più vaste ma sia rimasta circoscritta nel triangolo che idealmente congiunge le medioevali abbazie cui abbiamo fatto cenno. La risposta a tale interrogativo dovremo andarla a scoprire nelle caratteristiche sorgenti lombarde dette «fontanili», che numerosissime si aprono lungo due fasce di circa otto chilometri di lunghezza che si snodano parallelamente, come grandi binari, ai lati del Naviglio Grande e della Martesana, l'importante canale irriguo voluto e realizzato da Francesco I Sforza alla metà del '400. Per ritrovare l'origine dei «fontanili», bisogna risalire nel tempo sino all'epoca quaternaria, quando la pianura padana era sommersa dal mare, che vi assumeva la forma di ampia ansa con il nome di Sinus Adriaticus. Quando lo specchio salmastro si ritirò, a livelli variabili dai tre ai cinque metri di profondità si formarono vaste falde da cui, appunto, i «fontanili» traggono costante alimento a carattere sorgivo. Le acque dei «fontanili», che con tanta facilità sgorgano dal suolo, possiedono una temperatura assai più elegata di quella dell'aria e del terreno. La differenza registrata attraverso ripetuti controlli si aggira sui 10 gradi, calcolati tra il livello termico raggiunto dall'acqua sorgiva (+10°) e quello dell'aria (-1°). La temperatura di un prato asciutto, nelle medesime condizioni di clima e di ambiente, tocca invece appena i 5° sopra lo zero. Per rendere ancora più evidente l'elevato tenore termico dei «fontanili» basta pensare che l'acqua del Naviglio Grande, ad almeno mezzo chilometro di distanza dalla bocca di presa - e quindi in stato di calma e di riposo - non supera di molto i 5° sopra lo zero. Ma non basta; i «fontanili» trasportano e lasciano depositare sui «prati jemali» una buona dose di calcare e di altre sostanze minerali, senza contare gli elementi fertilizzanti che filtrano attraverso il suolo e la relativa falda acquifera dagli scarichi e dalle fogne perdenti, raggiungendo così le sorgenti. La fertilità del suolo della marcita nasce dunque dalla simbiosi di molti coefficienti:
1) perfetta funzionalità del sistema irriguo e dei canali di scolo delle acque sorgive;
2) natura del suolo e razionale scelta delle colture adatte;
3) temperatura delle sorgenti e particolari qualità intrinseche dell'acqua dei «fontanili».
I canali Muzza e Martesana, oltre ai Navigli, concorrono alla razionale rete idrica che disciplina il livello delle «marcite», consentendone la coltivazione anche in pieno inverno. Per concludere, riassumiamo in una sintetica tabella, una specie di carta d'identità, le note caratteristiche e i dati essenziali relativi alla «marcita»:

PLANIMETRIA: studiata su particolare pendenza per favorire lo scorrere dell'acqua, e su terreno di forma rettangolare; il campo viene diviso in successivi rettangoli detti «ale», separati l'uno dall'altro da fossetti che hanno alternativamente funzione di roggia o di colatoio; le ale non sono perfettamente piane, ma presentano una pendenza a tetto per il fossetto con funzione di roggia per portare l'acqua, mentre nella parte più bassa si insinua il colatoio che raccoglie il liquido e lo riporta alle rogge con moto alterno e continuo;

COLTURE: le specie che più comunemente vengono coltivate nelle «marcite» sono il trifoglio pratense, il trifoglio bianco o ladino e la logliarella;

TERRENO: di tipo alluvionale, mezzano e anche sciolto ma sempre abbondantemente concimato;

CONCIMAZIONE: letame al momento dell'impianto e successivamente concime organico; anche i fertilizzanti chimici sono assai raccomandabili;

SEMINA: spaglio in primavera con circa 10 kg di seme sgusciato di trifoglio e 6 di logliarella per ettaro;

RACCOLTO: nel peggiore dei casi si fanno sei tagli a cominciare da marzo sino all'autunno, ma si arriva, nei luoghi più favoriti dal clima, dalla natura del terreno e dai «fontanili», anche a dodici tagli, utilizzando il raccolto come erba fresca o per fieno;

PRODUZIONE: la «marcita» fornisce annualmente circa 700 quintali di erba verde per ettaro, mentre nella zona della Vettabia, presso Milano, il raccolto si misura sino a punte massime di 1200 quintali per ettaro; ponendo una media di mille quintali per ettaro come produzione normale, e calcolando che in tutta la Penisola i prati permanenti forniscono poco più di 85.000.000 di quintali di foraggio, possiamo dedurre che dalla «marcita» lombarda si raccoglie oltre un quarto dell'erba della coltura prativa a carattere permanente; sui complessivi 362.947.760 quintali d'erba prodotti dai vari tipi di prati esistenti in Italia, la «marcita» incide per circa un quattordicesimo dell'intera massa produttiva.

 

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