«Le stagioni del Verga» di Marcello Staglieno


«Mi dette appuntamento ad un albergo che stava di fronte a Montecitorio. Era d'estate e portava una "maggiostrina". I suoi capelli bianchi, la sua aria da hidalgo, la sua parola semplice e contenuta, un vestito inglese grigio-chiaro, il suo gestire misurato, mi confermarono nella stima personale che avevo di lui. Già me lo aveva descritto Soffici in uno dei suoi ricordi così pittoricamente precisi che sta dando al pubblico nel suo Autoritratto d'un artista quando Verga passò un mese d'estate in un albergo di Roncegno e voleva esser servito a parte e non esser disturbato dalla gente... Era pieno di riverenza per lui. Allora (1921-ndr) i suoi libri m'erano diventati più familiari che al tempo della Voce. Ma per me la sua lezione italiana consisteva sempre nella sua separazione dalla folla. Mi pareva un redivivo signore spagnolo, dignitoso e rassegnato alla vita. Non gli rivolsi nessuna domanda artistica o personale. Mi contentai di dirgli, a nome dei «miei», la stima in cui l'avevamo...». Questo ricordo di Verga, che risale al 1921, Giuseppe Prezzolini lo scrisse su una rivista il 1º aprile 1955. Scritto in modo piano, e con taglio all'apparenza giornalistico, contiene in realtà giudizi che coincidono con quelli, recenti, che la critica ha dato di Verga. Per prima cosa il suo pessimismo: che gli viene sì dall'essere siciliano (egli nacque infatti in Catania il 31 agosto 1840, e da famiglia con tradizioni di nobiltà, che risale ai de Verguas, cavalieri aragonesi venuti nell'isola al seguito di re Martino), ma anche da un'osservazione «cruda» della realtà (Gianfranco Contini). Secondo Moravia (Intervista allo scrittore scomodo, 1978, a cura di Nello Ajello) era un borghese, con una tendenza a monumentalizzare «la modesta realtà italiana. Di questo vizio c'é qualche leggera traccia perfino in V., anche se V. era troppo borghese per non essere realista»: questo essere «borghese» spiega, in parte, il suo distacco esteriore dalla gente, il suo voler porsi in disparte. Che nasce, soprattutto, dalla consapevolezza d'essere estraneo - come scrittore - alla tradizione aulica italiana («V. rimaneva, contro ogni sua intenzione, un artista solitario, senza il conforto e il sostegno d'un ambiente congeniale»: questo lo rilevò Natalino Sapegno, Compendio di storia di letteratura italiana, 1947). Non conobbe, nel tempo suo, larga popolarità: anche se oggi lo si considera ormai un classico, il più grande narratore, dopo Manzoni, dell'Ottocento italiano. Ma, naturalmente, nelle opere della maturità. I primi tre romanzi - Amore e patria (a tutt'oggi inedito, 1848); I Carbonari della montagna (1861); Sulle lagune - di carattere politico-patriottico, sono oggi illeggibili. La sua narrativa prende un indirizzo diverso dopo il suo arrivo a Firenze: con Una peccatrice (1866) e Storia d'una capinera (1871), si sente nelle pagine una costruzione volutamente romantica. Ma sono, anche questi, romanzi oggi quasi illeggibili nel loro artificioso sviluppo. Fu con il suo stabilirsi a Milano (dove conobbe Giacosa, Boito, De Roberto e soprattutto Capuana) che Verga mutò, lentamente, la propria concezione letteraria. Proseguì dapprima, anche se in modo più sorvegliato, sulla strada dell'autobiografismo romantico con Eva (1873), Tigre reale (1875), Eros (1875). Ma il comprendere che quel mondo ch'egli descriveva era per lui lontano, e intrinsecamente logoro e fittizio, lo accostò alla sua materia più autentica: alle vicende della sua terra, a quel suo «mondo popolato di vinti e di sconfitti» (Enzo Golino, Letteratura e classi sociali, 1976). Già il racconto Nedda (1874) mostra il nuovo, e maturo, orientamento verghiano. Sul quale sono modellate le opere successive, le sue artisticamente più alte: la silloge di racconti Vita dei campi (1880), i Malavoglia (1881), le Novelle rusticane (1883), Mastro don Gesualdo (1889), il dramma Cavalleria rusticana (1884). Per la scoperta del romanzo francese moderno, da Balzac a Maupassant, da Flaubert a Zola, e soprattutto per una naturale, spontanea adesione ai verismo, la pagina di Verga aderisce con asciutezza sempre più severa, e pessimistica alle cose: inventando, a suo modo, un nuovo «linguaggio». Scrive Cassola (sta in Golino, Letteratura e classi sociali): «Verga ha raccontato in lingua italiana una realtà dialettale, il mondo dei pescatori di Acitrezza e di Mastro don Gesualdo. E' riuscito a trasferire in lingua una mentalità dialettale perché ha capito con l'istinto del grande scrittore che la rapresentazione letteraria non è la realtà ma un equivalente della realtà, e quindi è anche un equivalente linguistico di quella realtà». Verga sa collocare i personaggi in un ambiente che è simile, nota Sapegno, a una «atmosfera di stilizzata liturgia, sullo sfondo di una natura ostile e tirannica come una divinità imperscrutabile». Il fatalismo siciliano, che poi ritroveremo nelle opere di Tomasi di Lampedusa (soprattutto nel Gattopardo) si esprime in lui con una forza lirica che nasce dall'essenzialità, dall'assenza di ogni tono «facile» e sentimentale, da un linguaggio finalmente svincolato, disse lo stesso Verga, dalla «solita nenia delle frasi cullate da cinquant'anni». Eppure proprio questa semplicità conferisce ai personaggi «un'aria di trasognata epopea» (Sapegno). Sembrano, pur nel loro verismo, essere immersi in un tempo senza tempo, come nelle favole antiche, e durano nella memoria. Il linguaggio verghiano, riportato alle sorgenti dialettali ma trasferito nella lingua italiana con grande freschezza e senza artifici, conserva un saporte arcaico e, insieme, modernissimo; è un linguaggio a volte sentenzioso, denso di formule e di proverbi, che ricorda a tratti Omero e la Bibbia; ma ha un ritmo da canzone di gesta, che affascina e cattura. Verga, dietro la semplicità, era letteratissimo: e tale semplicità è una conquista, frutto di una rastremazione della pagina, di una scarnificazione della parola. «Nessuno è più lontano di lui dalla spontaneità dei cosiddetti scrittori naturali e incolti» scriveva Dino Garrone (Giovanni Verga, 1941, a cura di Luigi Russo) uno dei più felici interpreti dello scrittore catanese. «Così che non meraviglia la intrusione di vocaboli dotti, di aggettivi troppo ben disposti e di particolari schiettamente letterari nel tessuto di corda grossa di una novella, o in una pagina dei Malavoglia. E talora nella traduzione dei linguaggio popolano par compiacersi di certe voci corpose con una golosità tutta sensuale di parlato e di tatto. Del resto che D'Annunzio in Terra Vergine muovesse direttamente dalle novelle di Verga non é senza significato». Eppure, fu un isolato. «Ed è bello e nobile», scrive Sapegno, «che egli non s'inducesse perciò a tradire la sua missione, che accettasse con dignità, serbandosi fedele al suo destino, di rimanere fra i contemporanei un incompreso. Ma soprattutto resta importante che il suo poetico gergo si sia formato, fin da principio, fuor d'ogni accademia e contro ogni tradizione, su una base tutta viva, umana e paesana, scavalcando anche l'esperienza manzoniana di una lingua comune borghese, per attingere direttamente alla sostanza antichissima e perenne, corposa e fantastica, di una parlata plebea». Verga morì nella sua Catania il 17 gennaio 1922. Ma la natura della sua pagina, che oggi leggiamo riconoscendone l'altezza, gli lascia un margine illimitato nel futuro. «L'arte di Verga», - cito ancora Sapegno - «appare più che mai tutta protesa all'avvenire e sembra ancora attendere i suoi lettori».

 

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