«Lennie Tristano e la libertà creativa» di Franco Fayenz


Una breve riflessione sul significato e sulla collocazione di Tristano (1919-1978) dev'essere preceduta dallo sgombero di un punto pregiudiziale. Tristano è un musicista bianco, è una figura per molti aspetti emblematica, e sostiene con molta chiarezza e dovizia di prove che il jazz è musica americana, senz'altri aggettivi. Come si può, in sede critica, annoverarlo fra i pochi veri maestri del «genere», se voci autorevoli dichiarano che solo i neri d'America sanno e possono fare il jazz? Su questa via, a uno scrittore come Leroi Jones hanno fatto eco musicisti come Sam Rivers, Max Roach e Randy Weston, e di riflesso (ma con argomenti deboli e resi contradditori dal contemporaneo tentativo di salvare il jazz europeo politicamente impegnato) alcuni specialisti francesi e italiani. Ma il fatto è che si tratta di una posizione polemica giustificabile solamente in chi ha provato sulla propria pelle gli effetti del razzismo dei bianchi. Il jazz è nato in America da una reciproca presa di conoscenza fra gli elementi musicali d'importazione africana e quelli d'importazione europea, catalizzati dalla realtà del nuovo continente, e purtuttavia dalla loro resistenza a fondersi. E' una musica che mostra, dalle origini a oggi, il primato tecnico ed espressivo degli autori-esecutori neri e la sua essenza di mezzo di riscatto da una condizione umana non prolungabile. Ma a tutto questo, certi compositori bianchi hanno recato un notevole contributo, per cui si può dire che il jazz ha una connotazione classista, più che razziale, in grado di operare anche sotto latitudini diverse da quelle americane. E fra i bianchi che incidono o hanno inciso nella storia del jazz (citiamo rapidamente Bix Beiderbecke, Paul Bley, Steve Lacy) il più importante è senza dubbio Lennie Tristano. Le più aggiornate indagini discografiche hanno accertato che Tristano ha registrato le sue prime opere nel 1946. Fra la maturazione del linguaggio solistico moderno di un Charlie Parker e quella di Tristano intercorrono meno di due anni. Rispetto all'atteggiamento di rottura dello stile di Parker, il pianista di Chicago reca l'apporto di una cultura accademica più sviluppata che si traduce in una maggiore esigenza d'ordine, in una sdrammatizzazione (e qui soprattutto interviene il suo essere bianco) e in un sapiente gioco di contaminazioni coi procedimenti canonici e fugati della musica del Settecento europeo. A questo punto le storie convenzionali della musica afroamericana affermano che Lennie Tristano, precedendo nel tempo altri solisti come Stan Getz e Miles Davis e insegnando subito i segreti del mestiere ai suoi discepoli prediletti, Lee Konitz e Warne Marsh, ha posto i fondamenti della scuola del cool jazz in opposizione, o per lo meno in forte correzione a quella di Charlie Parker, denominata be-bop. A nulla è valso che il maestro, intervistato in base a queste premesse, sia montato più volte su tutte le furie replicando che mai egli ha inteso andare contro «i principi creativi del grande Parker» e che il sistematico etichettaggio di ogni minima virata del jazz ha un sapore commerciale oltre che stupidamente iniziatico. Tristano ha ragione. Le sue opere del 1946 per pianoforte solo e per trio rappresentano il punto d'avvio di una interpretazione bianca della grande svolta moderna del jazz impostata dai giovani esponenti dell'avanguardia nera - Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Thelonious Monk, Charlie Christian, Kenny Clarke - e ne accettano i presupposti: era evidentemente impossibile ritagliarsi ulteriori spazi creativi nella cornice ottimistica e lineare del jazz classico, occorreva un linguaggio più incisivo e complesso, lontano da qualsiasi concessione mercantile. Ma (ed è situata qui la linea di separazione fra il maestro bianco e i suoi colleghi di colore) Parker e Monk privilegiano il lato drammatico della svolta, i suoi contenuti ancora semicoscienti di lotta razziale e politica, mentre Tristano insiste maggiormente sul lato tecnico-formale fino a pervenire a soluzioni intellettualistiche ed estetizzanti. Sulle creazioni-esecuzioni del momemnto più alto della carriera di Tristano, situabile attorno al 1949, uno dei pochi pareri tuttora da sottoscrivere è stato dato qualche anno più tardi da Arrigo Polilio: «Senza minimamente inibire l'improvvisazione, senza costringere i suoi solisti nelle strettoie di rigidi arrangiamenti, Tristano è riuscito a ottenere la più fattiva collaborazione nella costruzione di opere di severo rigore formale e di eccezionale coerenza stilistica. Sotto la sua guida, il dialogo fra i solisti si svolge serrato, su toni smorzati, in un'atmosfera assorta e tesa che spesso si distende nella serena sintassi della fuga classica. Non c'è dramma e non c'è gioia nel jazz di Tristano: soltanto una cosciente e puntigliosa ricerca del bello perseguíta con austero disdegno per le soluzioni ovvie e facili. Linee melodiche complesse (e non gradevoli, almeno nel senso più facile del termine) si rincorrono e s'intersecano in un sottile contrappunto di astratta eleganza. Le sonorità degli strumenti a fiato hanno perso ogni peso per divenire diafane e terse: e il loro fraseggio, rapidissimo e balenante, si è fatto lieve e sommesso, intessuto di vocaboli preziosi». Un'analoga posizione ideologica si riscontra nell'altro fondamentale contributo di Tristano che consiste nell'anticipazione di oltre un decennio del cosiddetto jazz informale. Dieci anni nel jazz sono tanti, sono un'epoca: nella produzione del 1949 c'era ancora poco di ciò che sarebbe accaduto nel 1960 con l'avvento di Ornette Coleman, Cecil Taylor, Eric Dolphy e quindi le premonizioni contenute in due opere tristaniane per quintetto, Intuition e Digression, sono particolarmente geniali. «Sono due pezzi contrappuntistici a cinque voci - ha dichiarato Tristano nel 1965 - dove niente è preordinato e dove ciascun musicista deve seguire il suo istinto. Lo stesso Miles Davis ha detto che con ciò è stato superato di molto quello che gli altri autori d'avanguardia avevano fatto in precedenza. Non so se quelle che vengono chiamate free forms in jazz derivino in qualche modo da Intuition e da Digression, ma so con certezza che noi queste cose le facevamo nel 1949. Improvvisavamo senza alcun giro armonico fisso, senza una definita base ritmica. Eravamo liberi». Ma ancora una volta questa libertà viene concepita in senso tecnico-formale, come ricerca di suoni e di nuove intese individuali al di là del consueto tessuto melodico e armonico. I neri invece porteranno in primo piano la conquista di spazi illimitati per i solisti come simbolo dell'esigenza della libertà nel campo politico e sociale. L'attività concertistica di Lennie Tristano cessa ufficialmente subito dopo il 1965, all'indomani di una breve tournée europea che toccò Parigi, Milano e Padova. Di quei concerti rimane il ricordo di uno straordinario virtuoso del pianoforte, capace d'improvvisare in piena libertà su qualsiasi materiale tematico, di creare nuovi temi stupendi nel corso dell'improvvisazione, di arrestarsi soltanto di fronte al limite della stanchezza fisica, o della morte.

 

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