Apologia del Sig. Travèt di Mario Soldati

 

 
    

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«Apologia del sig. Travèt» di Mario Soldati

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Era ieri l'altro il centenario della prima rappresentazione de Le Miserie 'd Monssù Travèt, avvenuta in Torino, al Teatro Alfieri, la sera del 5 aprile 1863. Chi ancora ricorda questo capolavoro per averlo visto a teatro da Mario Casaleggio, in piemontese, oppure, tradotto in italiano, quando apparteneva al repertorio di alcune nostre grandi compagnie di giro, stupirà che si tratti di un'opera così antica. Casaleggio, infatti, e Novelli e Armando Falconi, non si sarebbero neanche sognati di dare il Travèt nel costume dell'epoca in cui fu scritto. Per loro, era una commedia contemporanea. E le toilettes di Madama Travèt, che, per seguire il copione, doveva sempre mostrarsi elegantissima, erano, ogni volta, all'ultima moda: anche se si trattava, come ricordo io, della moda di settanta anni dopo! Certo, Travèt, il Cap-Sessioun, e gli impiegati Rusca e Moutoun avevano abiti leggermente antiquati; ma era un effetto speciale: una nota voluta, come del resto quella delle mezze maniche, e voluta ai fini di una caratterizzazione comica e non realistica né storica. Io stesso, infine, quando nella primavera del 1945 mi preparai a ricavare dal Travèt un film, che forse qualcuno non ha dimenticato, fui estremamente sorpreso nell'accorgermi che l'azione non accadeva verso il '90 o il '95 come credevo, o, piuttosto, secondo l'impressione che irrazionalmente mi era rimasta da letture e da recite: e che, quindi, non avrei potuto concedermi lo spasso e la squisitezza lungamente desiderati di una Madama Travèt in faux-derrière: ma che invece, ero costretto a fare del mio meglio, e a divertirmi, se ci riuscivo, con una Madama Travèt addirittura in crinoline. Tutto ciò è tanto più strano, quanto più il copione insiste, si può dire, ad ogni pagina, sul fatto che ci troviamo in un Ufficio del Ministero... La capitale con tutti i Ministeri, fu trasferita da Torino a Firenze nel '65, e siccome l'azione del Travèt accade a Torino, un'epoca posteriore non sarebbe stata, comunque, pensabile. Senonché: pensabile non significa immaginabile. L'immaginazione dei capocomici, che ho detto, e la mia, di regista cinematografico, concordava su un Travèt attuale o molto più recente.

 

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E se Casaleggio, per giustificarsi, aveva trovato che alcune sezioni di alcuni Ministeri erano rimaste a Torino per qualche tempo dopo il '65: Novelli e Falconi, che recitavano in italiano, propendevano per trasportare l'azione a Roma, forse tra impiegati piemontesi o di origine piemontese. Quanto a me, dovetti arrendermi. Il mio film presentò una Torino attorno al 1860; e fu, credo, la prima interpretazione rigorosamente storica del famoso testo. Feci bene? Feci male? E, in ogni modo, perché, lungo tanti e tanti lustri, il Travèt sembrava che non invecchiasse mai? La risposta è semplice: perché il Travèt à una grande opera d' arte: e, come tutte le grandi opere d'arte, è - rispetto all'epoca della sua creazione - non soltanto moderno, ma in anticipo. Nel 1863 Torino era una città all'avanguardia in tutti i campi. E Bersezio, nello stesso svolgimento della trama del Travèt, previde e quasi fissò, per naturale penetrazione psicologica e sociologica, il futuro e la fine della allora nascente borghesia italiana. Alludiamo al dénouement. Travèt, prototipo dell' Impiegato Regio, umile travicello dell'immane edificio burocratico dello Stato, è giunto alla maturità dopo aver dedicato l'intera vita, con devozione quasi fanatica, all'impiego. Travèt è ligio al dovere, rispettoso dell'autorità dei superiori, orgoglioso della propria posizione di impiegato, e non vorrebbe che sua figlia Marianin sposasse Paoulin, perché Paoulin lavora in una panetteria. Con tutta la sua istintiva bontà, Travèt considera gli artigiani e gli operai come appartenenti a una classe nettamente inferiore.

 

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Ora, Travèt, quando si accorge che il caposezione, suo superiore diretto, lo ha pefidamente calunniato e offeso nel suo onore di marito, non esita un istante, con sdegno furioso, ad aggredirlo: e a farsi destituire e a perdere tutto. «J'andreu a ciamé la limosna»: è la battuta del quarto atto. Non soltanto: ma quando, alla fine, tutto sembra tornare nella normalità: quando, ristabilito il suo onore, lui riceve finalmente la sospirata promozione, e il malvagio caposezione è punito con l'allontanamento da Torino, Travèt, con un colpo di scena indimenticabile, si ribella di nuovo: lascia l'impiego e il Ministero e decide di mettersi a lavorare, come contabile, nella spregiata panetteria. Il Bersezio stesso, nella prefazione alla traduzione italiana (Milano, Sanvito, 1871), e in un brano riportato da Ada Croce nella più recente edizione dell'originale piemontese (Bari, Laterza, 1945), sosteneva di aver dato alla commedia anche questo senso di polemica sociale: di avere denunciato un difetto, che accompagnava la evoluzione della borqhesia, e che, perciò, era «maggiore che altrove nella città di Torino», ossia nella città, in quegli anni, più evoluta di tutta Italia, il difetto era quello «di voler cercare un pane scarso, e pagato a prezzo dell'indipendenza, e certe volte della dignità personale, dagli impieghi governativi, invece di guadagnarselo più nobilmente e anche più facilmente maggiore dal libero uso dell'industria e del commercio». Ora, è chiaro che, in uno Stato socialista, si sarebbe tutti, in un modo o nell'altro, impiegati governativi. E che, quindi, dal punto di vista di una logica astratta, la morale finale del Travèt potrebbe essere rivendicata soltanto da... Malagodi. Ma non dobbiamo commettere l'errore di trasferire meccanicamente episodi di un'opera d'arte da un'epoca all'altra: e di non ammirarli e di non sentirli, invece, ogni volta, immersi nella società da cui quell'epoca sorse e che quell'opera riflette. Dobbiamo, soprattutto, ascoltare la voce dei poeti col cuore: cercare di cogliere il movimento più vivo delle loro parole, lo slancio irrazionale e profondo, che è sempre il segreto della loro poesia. E allora....Allora, oggi, un ammiratore liberale si fermerebbe alla prefazione del '71, alle opinioni del Bersezio, alla sua prosa. Un ammiratore socialista si rifarà, invece, a tutto lo stesso Travèt, alla poesia. E constaterà come l'ispirazione del Travèt sia fortemente progressista. Passiamo in rassegna i personaggi borghesi della commedia. Sono bollati per tutti i difetti della borghesia: i difetti anche di oggi. Madama Travèt, per la sua vanità e frivolezza.

 

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ll Cap-Sessiòun, Moutoun e Pusca per la loro grettezza e malignità. Il Cap-Divisioun per la prosopopea e la segreta corruttibilità. Barbarotti per la sua natura intrigante e superficiale. I personaggi totalmente simpatici appartengono, invece, al popolo: Giachetta, Paoulin, Brigida. E Travèt è il borghese sano e giusto, illuminato e onesto, che finisce... per votare socialista. Prego! Prego! Mi si perdoni lo scherzoso anacronismo. Ma ho sempre tanto amato questo capolavoro della mia adorata patria, che non ho mai cessato di pensarlo, fino nei minimi particolari, vivo davanti a me. Non posso rileggerlo senza provare, ogni volta, un godimento profondo e continuo: senza ridere di gusto alla meravigliosamente sottile rappresentazione della malignità torinese: senza piangere di commozione e di entusiasmo alla grande scena della ribellione, quando Travèt si slancia sul Cap-Sessioun. Vorrei consigliare a qualche studente di filologia moderna una stupenda tesi di laurea: «Il personaggio di Travèt confrontato con i personaggi che gli sono fratelli nelle letterature straniere della stessa epoca». Capisco che, forse, si tratta di una tesi troppo contenutistica: e che professori e studenti, forse, la troveranno fuori moda. Tuttavia, oltre Courteline e oltre De Marchi (un episodio del Pianelli ricalca l'imbroglio centrale del Travèt), si incontrerebbero due veri colossi letterari, scrivani anche loro come Travèt: Akakij Akakievic, il protagonista de Il Cappotto di Gogol; e Bartleby nell'omonimo racconto di Melville. La tesi di laurea avrebbe, così, la forma di un trio: e uno strumento sarebbe americano, l'altro russo, e il terzo piemontese. Odo di qui gli «uh!» di molti miei amici, specialmente di quelli romani. E l' «uh!» più forte di tutti è quello di Moravia, che ciononostante è un grande ammiratore del Travèt. Mi ricordo una volta, tanti anni or sono, in un alberghetto sui colli senesi, quando non riuscii a impedire a Moravia di leggermi ad alta voce tutto un atto del Travèt: leggermelo in piemontese, si badi bene: e le storture della pronuncia erano appena compensate dagli sghignazzi di entusiasmo: perché ero felice, si capisce, che Moravia amasse un mio padre.

 

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E va bene. Ora Moravia mi direbbe di non essere ridicolo: che non è lecito mettere sullo stesso piano due sommi come Gogol e Melville, e due sommi, neanche a farlo apposta, proprio nei loro momenti più alti, e... e Bersezio, che in confronto non può aspirare se non alla denominazione di petit maître. Insomma, tra Akakij Akakjevic e Bartleby da una parte, e Travèt dall'altra, ci sarebbe lo stesso divario che tra la Russia o l'America, e il Piemonte. Ebbene, no. Altissima, certo, è la poesia del Cappotto e di Sartleby. Eppure non credo che il Travèt sia molto, molto più giù. Mi rendo conto, per il mio particolare affetto a questo personaggio, di non essere indicato a portare avanti un'analisi spassionata. Inoltre, non conosco il russo. Dirò più semplicemente quello che penso. La modernità del Travèt, per esempio, non mi sembra inferiore alla modernità degli altri due. Certo, il fondo di Akakij Akakjevic e di Bartleby è profondamente pessimista e disperato. Il fondo di Travèt, invece, è ottimista e fiducioso nell'avvenire. Ma anche per questo, pur tremando di ossequio verso i due colossi, tengo per lui. Il Croce, a un certo punto del suo saggio dedicato a Bersezio nella Letteratura della Nuova Italia, dice di Travèt: «Questo povero uomo timido ha, dunque, del ridicolo, ma non è ridicolo: è debole, ma non è un Don Abbondio, un vile. La sua debolezza è nelle cose piccole, non nelle grandi». Questa illuminazione geniale potrebbe, secondo me, essere estesa al valore poetico del personaggio di Travèt: che ha una sua fisionomia precisa e una sua grandezza, non inferiori a quelle dei due colleghi, che non sono più eterni di lui: ma soltanto schiacciati dal senso dell'eterno, e meno vitali di lui.

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