«Tradizioni popolari: la corsa dei ceri a Gubbio» di Carlo Laurenzi


Anche se non fosse per la Corsa dei Ceri la visita di Gubbio sarebbe consigliabile e doverosa: forse nessuna delle piccole, nobili città collinari conserva come Gubbio una compattezza medioevale con il fascino sereno e severo che siamo soliti connettere allo splendore dei Comuni in Italia. Ma la Corsa dei Ceri, per chi l'abbia vissuta, oscura il resto. Non esiste nulla di simile nel nostro Paese e forse neppure altrove; o magari sì, ma bisognerebbe rifarsi a certe arcane feste iniziatiche proprie di culti che ci sono lontani (l'induismo, il taoismo), il senso delle quali ci sfugge cosicché lo spettacolo ci comunica esaltazione e sgomento. Esaltazione, sgomento (con altre impressioni meno inafferrabili, più «nostre») ci derivano anche dalla Corsa dei Ceri; ma debbo premettere subito che questa insigne pagina di folklore tollera a fatica di venire descritta. E necessario leggerla nella realtà, cioè vederla, cioè - inevitabilmente - viverla. Il tumulto gioioso del 15 maggio, in apparenza esotico, si raggela nelle parole. Se proviamo per esempio a rappresentare i ceri, bisogna subito mettere in chiaro che non si tratta di ceri nel senso usuale del termine. Complicate, stereotipate delucidazioni tecniche si impongono e non basta dire che i tre ceri di Gubbio sono «alte pesanti macchine di legno»: ciascuna macchina è formata da «due prismi ottagonali terminanti con piramidi accostate vertice a vertice e attraversati da un'antenna di circa sette metri alla cui sommità si colloca la statua di un santo». Questi dati precisi e inerti non rendono l'atmosfera di tripudio, di timore e in un certo senso di miracolo che regna nella piazza della Signoria gremita oltre l'immaginabile, quando a mezzogiorno, nel rombo delle campane, i ceri che giacevano al suolo sono levati verso l'alto: è la cosiddetta «alzata» e tutti gridano soverchiando ii fragore stesso dei bronzi, e le piccole statue dei santi oscillano al di sopra della folla e sembra che conquistino il cielo. Qualche informazione, il ricalco di qualche emozione: niente di più è concesso al cronista; un cineamatore, un semplice fotografo dilettante batterebbe con facilità chi non senza presunzione si affidasse a un resoconto verbale. Le parole, semmai servono a sottolineare (non a spiegare) un mistero o alcuni misteri. Non si sa quando siano state costruite le macchine di legno chiamate ceri di Gubbio, simili ad ordigni di guerra o a giganteschi pistilli di fiore. La festa è ovviamente cristiana ma nessuno vieta di credere che preesistesse una consimile sagra connessa a una fede più antica e non del tutto sepolta; qualcuno parla del culto di Cerere dea delle messi, nessuno dimentica che le bronzee tavole eugubine codificano rituali non decifrati. Un dato da rilevare è anche questo: la devozione che gli eugubini votano al loro patrono, Sant'Ubaldo, sconfina in un fervore vagamente pagano. Leggo in uno studioso locale, Raffaele Nucci: «La religiosità è nell'animo di ogni cittadino di Gubbio, il quale può peccare fin che si vuole, ma è devoto al Protettore della sua città; può imprecare contro tutti i Santi del calendario ma non bestemmierà mai il nome di Ubaldo Baldassini». E ancora: «Attorno alla figura di questo grande Santo, guerriero e pacifico condottiero del suo popolo contro undici città e strenuo difensore contro Barbarossa, rinverdiscono i sentimenti di gratitudine, si accentuano l'affetto e la venerazione di generazioni di eugubini». Sant'Ubaldo accettò per obbedienza la dignità vescovile e il compito di condottiero; la sua tendenza era ascetica (come ci ricorda l'undicesimo canto del Paradiso); morì ottantenne nel 1160, nel 1192 fu canonizzato. In qualunque modo stiano le cose, la Corsa dei Ceri onora programmaticamente Sant'Ubaldo e non può definirsi una gara perché i «Ceraioli» che innalzano l'emblema di Ubaldo vincono per statuto; mai del resto il motto «importante è partecipare non vincere» fu così profondamente vero. La Corsa non è nemmeno una sfilata «storica» alla quale assista un pubblico compiaciuto e imparziale, è una festa che splende ansiosa ma ilare nel cuore di ognuno. L'attesa scatta la prima domenica di maggio quando i ceri custoditi nella basilica di Sant'Ubaldo sul pendio del monte Ingino vengono trasportati in città, e cresce nei giorni che si susseguono: l'alba del quindici maggio nasce con un colore diverso. Prima del sorgere del sole i tamburini danno la sveglia ai «capitani», i gonfalonieri dei quartieri della città aprono la sfida dei «ceraioli» con le statue dei santi. I santi, oltre Ubaldo Baldassini, sono Antonio abate e San Giorgio (colui che per aver trionfato dell'improbabile drago è stato cancellato dal calendario); il cero di San Giorgio è dei commercianti, il cero di Sant'Antonio appartiene ai contadini, mentre Sant'Ubaldo in questa città illustre per le opere di pietra si eleva sul cero dei muratori. Successivamente le statue vengono issate al culmine dei ceri; a mezzogiorno, come si diceva, l'alzata dei ceri accende il primo sbigottimento, le successive «binate» o giri a capriccio solcano la folla che si apre ai passaggi tumultuosi. Ingegnose, candide norme cerimoniali preludono al bailamme pomeridiano ricco di contrasti: una processione esce salmodiando dal duomo, i ceri deposti in fila nella via Savelli Della Porta sono benedetti, subito si sfrena la discesa dei ceraioli lungo la vertiginosa via Dante e non c'è spettatore (eugubino o forestiero) che non si mischi alla corsa e non tocchi le barelle di supporto e non desideri per un istante l'onore di condividere il carico sacro. I ceraioli di San Giorgio sono vestiti di azzurro, di nero quelli di Sant'Antonio, i portatori di Sant'Ubaldo indossano camicie gialle di lucentezza trionfale. Saranno poi i ceraioli pù robusti, districatisi dalla folla e avvalendosi di «mute» opportune, a salire di corsa l'erta che congiunge alla basilica: i «Santubaldari», partiti per primi, giungeranno primi come sempre. Così finisce la più straordinaria e appassionante festa d'Italia. Nel 1934, quando mancavano le braccia maschili, furono le donne di Gubbio, penosamente e memorabilmente, a varcare le porte del santuario sono il peso delle macchine; a Jessup in Pennsylvania gli eugubini emigrati in America replicano da qualche tempo come una rosa di serra, la solennità dei ceri.

 

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