«Tradizioni, struttura e istituzione nel teatro di ieri e di oggi» di Ugo Ronfani


La perdita d'innocenza del linguaggio è una caratteristica del mondo contemporaneo. Le parole hanno significati diversi. Così il termine teatro. Qualsiasi dizionario è costretto a rinviare subito a due definizioni di base: teatro è tanto il complesso delle azioni drammatiche, variamente indicate per generi (dramma, tragedia, commedia, etc.), che attori rappresentano davanti a un pubblico, quanto il luogo destinato a tali spettacoli. Ma anche all'interno della prima definizione, l'etimo di teatro (dal greco theàomai: guardo, osservo) è portatore di significati complessi, per non dire ambigui. Se io guardo, mi colloco davanti all'azione drammatica (dramma: dai greco drào, agisco) in una posizione passiva, che implica indifferenza, contemplazione o abbandono. Se io invece osservo, instauro un rapporto di partecipazione: elaboro, accetto o respingo il contenuto della rappresentazione, che diventa per me spettatore un vissuto, metafora esistenziale che mi concerne. A questo punto già non siamo più alla superficie. La distinzione semantica finisce per esprimere una dislocazione della funzione del teatro in rapporto sia all'individuo che alla società: e questa dislocazione, verificatasi nel tempo, è la base stessa dell'evoluzione della storia del teatro. Anche se le origini storiche del fenomeno teatrale sono incerte, gii studiosi sono concordi nell'azzardare l'ipotesi che esso sia nato dal rito. E che soltanto in seguito, indebolitasi l'egemonia delle istituzioni religiose, il teatro sia diventato spettacolo profano, spogliato del carattere sacrale. Non più verità oggettiva, dunque, da contemplare, ma complicità fra attori e pubblico intorno ad una finzione scenica, nello svolgersi di un evento simulato, la trama, che non comporta identificazione fra attore e personaggio. La "laicizzazione" della rappresentazione teatrale ne fa una mimésis, non più la celebrazione di un evento sacro. In Asia Minore l'enigmatica, affascinante civiltà ittita espresse, fra il terzo ed il secondo millennio avanti Cristo, delle cerimonie religiose che erano "rappresentate". Il papiro detto dell'Apertura della Bocca, trovato in una tomba egizia del 2.000 a.C. all'incirca, fu composto ad uso dei sacerdoti che erano attori di un teatro rituale destinato ad ottenere che il morto potesse nutrirsi anche nell'aldilà. Un'altra azione drammatica dell'antico Egitto di cui si è conservata traccia, la Nascita e apoteosi di Horo, prevedeva che il recitante, identificatosi con Horo, divinità solare, insegnasse come trasformarsi in Falco (simbolo dei dio): era dunque spettacolo rituale, ma con un andamento - diremmo oggi - epico-narrativo, così come le altre rappresentazioni delle gesta di Horo fissate nelle pietre dei bassorilievi, dove si mescolavano formule incantatorie e racconto. Non diversa fu, per quanto possiamo sapere, la nascita del teatro nella Grecia arcaica: dalla rappresentazione dei miti di Dioniso e di Cerere, della religione introdotta dall'Asia Minore, e dei miti olimpici, quelli che s'incontrano in Omero ed Esiodo, alla loro graduale frammistione con l'evocazione di eventi o gesta memorabili. Il passaggio, insomma, dal culto al rito e dal rito allo spettacolo, con primogenitura della tragedia che - come si ricava dalla Poetica di Aristotele - "acquistò dignità" come strumento atto ad ammaestrare i cittadini. Già il tardo Platone, quello delle Leggi, registrava l'estendersi di una spettacolarità "di intrattenimento", destinata al puro divertimento del pubblico: dovessero confrontarsi le varie forme drammaturgiche in uso - egli annotava - "con ogni verosimiglianza accadrebbe che uno, come Omero, declamerebbe una rapsodia, e un altro un carme accompagnandosi con la cetra; uno si darebbe alla tragedia e l'altro alla commedia; e non sarebbe strano se qualcuno ambisse di vincere mostrando delle marionette". Ecco dunque, già adunate nella polis, tutte le forme di rappresentazione drammatica. Venuto - come testimonia Aristotele - dai villaggi, nella città il teatro si dà un proprio linguaggio, si segmenta in generi diversi. A Eschilo, Sofocle e Aristofane succedono Euripide e Menandro, che sulla scena romana avranno degni successori come Plauto e Seneca. Ormai il teatro è diventato uno dei momenti aggregativi più importanti della vita nella polis, riflette la società ed interviene su di essa, assume una propria autonomia. Come ha acutamente annotato Mario Apollonio nella sua Storia del Teatro Italiano, "l'opera teatrale diventa essa stessa mito nell'atto del suo presentarsi, senz'attendere di diventarlo nella memoria». Anche se, nel corso del tempo, la storia del Teatro tende a chiudersi nella cerchia di una tradizione ridotta a formalismo e tecnica; anche se la parola recitata si tramuta da poetica profezia in messaggio sociale, e la storia e la cultura vogliono la loro parte nel dialogo fra il drammaturgo e il pubblico, il fatto teatrale resta, attraverso i secoli, un genere a sé stante. Cogliamo chiaramente questa specificità nella stessa storia del teatro italiano. Dalla drammaturgia religiosa del Medioevo al teatro profano del Rinascimento nutrito di succhi umanistici, dal repertorio dell'epoca barocca al tramutarsi della commedia delle maschere in drammaturgia dei caratteri, fino al teatro borghese attento ad illustrare gli eventi del costume e della società, per finire con l'avventura (che continua) dei moderni e dei contemporanei, cui ha dato libero corso l'espressionismo, il percorso è accidentato; e tuttavia non è difficile allo storico trovare linee di fondo comuni, un insieme di costanti estetiche e tecniche che definiscono la pratica teatrale. In questo quadro storico, si è convenuto che il teatro fosse istituzione sociale; e così è stato nei secoli delle società e delle culture elitarie, che lo gestivano come strumento di potere. Era invece espressione di contropotere il teatro spontaneo, di villaggio o di piazza (teatro che soltanto adesso sta avendo i suoi storici), contrapposto al teatro di corte: luogo di trasgressione, di opposizione, di satira. Più difficile è invece definire il fatto teatrale oggi: e questo perché esso deve fare i conti sia con la forma artistica in continua elaborazione certo, ma inserita grosso modo nei canoni della tradizione, sia con una «spettacolarità quotidiana» che è il volto stesso - la maschera, altri dicono - della «democrazia massmediologica». Il teatro fu alle origini lo specchio del villaggio e della città, poi la voce delle classi dominanti; oggi tende ad essere rappresentativo della società nel suo insieme. La Società dello Spettacolo individuata da Debord è più propriamente una Società del Teatro, nel senso che strati sempre più vasti delle popolazioni si sentono coinvolti non soltanto come spettatori, ma anche come attori nella «commedia umana». Chi si ostina a parlare di crisi del Teatro confonde il logoramento, ormai, dei luoghi e delle strutture teatrali tradizionali con lo «spettacolo ininterrotto» che ogni individuo e i gruppi sociali «recitano» sul vasto palcoscenico della società nel suo insieme. Si vuol dire, con questo, che esiste un «teatro di situazioni» (l'espressione è di Jean Paul Sartre) che trabocca dal luogo teatrale tradizionale. Ogni epoca, evidentemente, coglie gli aspetti salienti e gli enigmi della condizione umana attraverso situazioni che le sono proprie. Ma la partecipazione democratica e la comunicazione massmediologica hanno espugnato, come altrettante Bastiglie, i luoghi del potere politico, economico e culturale: centri di governo, corporazioni, università etc. Compreso il teatro, il cui linguaggio è diventato «pubblico», viene usato per intrattenere i rapporti dell'individuo con la collettività, per «drammatizzare» il dibattito politico e così via. In tal modo - e senza che gli addetti ai lavori se ne rendano pienamente conto - il teatro va ritrovando la risonanza delle origini, che aveva perduto quand'era diventato modo di espressione elitaria, proprio al di fuori dei luoghi teatrali tradizionali, arriva ad unificare pubblici diversi nei nuovi luoghi deila polis dove, secondo gli etimi originari, si guarda, si osserva, si agisce. Il futuro del Teatro si presenta così, paradossalmente, come un ritorno alle antiche funzioni, di convito esistenziale, che s'erano impoverite, facendolo regredire a genere letterario o, peggio, a intrattenimento mondano. Le varie correnti della ricerca drammaturgica che si sono manifestate dagli anni Cinquanta in poi - il recupero della gestualità, la proposta di una drammaturgia epico-sociale, l'analisi del sottotesto, l'interdisciplinarietà fra teatro, poesia ed arti figurative, l'happening e la performance, la riscoperta del teatro di piazza, l'elaborazione di una scrittura scenica che nasca in laboratori e «botteghe» dall'incontro fra autore, regista ed attore - si presentano come frammenti di un discorso diretto a non disperdere e a dissolvere il fatto teatrale, come taluno ha potuto credere, ma a ripristinare la centralità del Teatro nei processi di comunicazione sociale. Si può dunque essere sostanzialmente ottimisti sulle sorti future del Teatro. Anche se la tradizione, le strutture, le istituzioni e lo stesso linguaggio del Teatro sono rimessi completamente in discussione. Ci sono forme di spettacolarità proprie del nostro tempo che stanno cercando il modo di esprimersi, attraverso l'intervento congiunto dei vari mass-media. Un Teatro nuovo, apparentemente introvabile, sta diventando modello generale per il comportamento dell'uomo del Duemila. Con il maturare dei tempi, la spettacolarità della vita sociale nel suo insieme cessa di essere un insieme di segni generici ed astratti per indicare l'essenziale di rapporti interpersonali e di gruppo estremamente concreti: e in questo «concreto» trova, con le sue radici, il suo futuro anche il Teatro.

 

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