«L'esplorazione del Tibet» di Luciano Petech


Il Tibet, altipiano enorme che lentamente digrada da ovest verso est, con un'altezza media che si aggira sui 3.500 metri, offre condizioni molto dure all'insediamento umano, il quale vi deve più che altrove adattarsi all'ambiente. La vita si basa su una magra agricoltura nel fondovalle, sulla pastorizia transumante lungo i fianchi delle vallate, e sul nomadismo puro nelle desolate pianure del Nord. Le stesse caratteristiche geografiche ne determinano il grado altissimo di isolamento verso l'esterno. L'unica eccezione è rappresentata dal periodo dell' antica monarchia (c. 600-842), sotto la quale il Paese delle Nevi fu una delle grandi potenze asiatiche e tenne testa vittoriosamente all'impero cinese da un lato e al califfato arabo dall'altro. Ma poi il Tibet rientrò nel suo isolamento, sviluppando una originale civiltà di parziale derivazione indiana, e più tardi creando quella particolare struttura teocratica che lo resse fino a pochi anni fa. Nel 1720 gli imperatori mancesi di Cina imposero la loro alta sovranità, rappresentata nella capitale Lhasa da due residenti «amban» e da una piccola guarnigione. Le prime notizie geografiche sul Tibet furono raccolte dai Cinesi, che prima d'ogni altro popolo entrarono in contatto con esso. Già nell'VIII secolo i testi cinesi ci descrivono con sufficiente esattezza la grande via carovaniera che in tutti i tempi ha condotto dal Nord-ovest della Cina fino alla regione di Lhasa. Ma per un millennio queste conoscenze fecero scarsi progressi. Un vero passo in avanti si ebbe appena nel quadro del grande rilevamento geografico dell'impero, effettuato sotto la direzione tecnica dei missionari gesuiti di Pechino. Nel Tibet i rilevamenti, molto sommari a dire il vero, furono eseguiti dapprima nel 1709-11 e ripetuti più accuratamente nel 1715-17, ad opera di funzionari cinesi coadiuvati da assistenti tibetani appositamente istruiti dai missionari. I risultati furono i fogli dedicati al Tibet nel grande Atlante gesuita stampato nel 1721 e ben presto fatto conoscere in Europa, tramite i missionari stessi, dal cartografo D'Anville. Dopo d'allora il tracciato orografico e idrografico del Tibet nella cartografia europea fino alla metà del XIV secolo si basò essenzialmente su questa monumentale opera cinese. In Europa il nome del Tibet (di origine ignota, adoperato per la prima volta dai Turchi nell'VIII secolo, ma sconosciuto nel paese stesso) era stato introdotto dai francescani Giovanni da Pian del Carpine e Guglielmo di Rubrouck; le scarse informazioni in loro possesso erano però di seconda mano, raccolte tra i Mongoli, che fin d'allora avevano frequenti rapporti col Tibet. Nessuno di loro entrò nel paese, sebbene fino a qualche tempo fa si credesse che un altro francescano, il B. Odorico da Pordenone lo avesse attraversato di ritorno dalla Cina (c. 1328). Per quanto ne sappiamo, questo vanto spetta invece ai Portoghesi. Il primo di essi fu un oscuro mercante, Diego de Almeida, che intorno al 1600 risiedette per due anni nel Ladakh, paese di lingua e civiltà tibetana oggi appartenente all'India. Nel 1624 il gesuita Antonio de Andrade si spingeva fino a Tsaparang, capitale del regno di Guge nel Tibet occidentale, e vi impiantava una missione, abbandonata già undici anni dopo; un tentativo di riaprirla, compiuto nel 1637 dal gesuita italiano Stanislao Malpichi, fallì miseramente. Anche il Tibet centrale, cuore politico e religioso del paese fu penetrato per la prima volta dagli ardimentosi gesuiti portoghesi. Estevao Cacella e Joao Cabral arrivarono ai primi del 1528 a Shigatse; ma il viaggio troppo arduo e la situazione locale sfavorevole sconsigliarono i superiori dell'ordine dall'aprirvi una missione. Le lettere di questi pionieri non hanno grande interesse geografico. Maggiore ne ha la relazione di due altri gesuiti, l'austriaco Johann Grüber e il belga Albert D'Orville, che nel 1661-2 compirono la traversata del Tibet da Pechino all'India, e furono quindi i primi europei a porre il piede a Lhasa. Ormai la via del Tibet pareva aperta. Nel 1707 i cappuccini delle Marche, provenienti dal Bengala, giungevano a Lhasa e vi stabilivano un ospizio del loro ordine, abbandonato però quattro anni dopo. Punto scoraggiati, vi ritornarono nel 1716 per rimanervi questa volta fino al 1733 tra mille difficoltà di carattere prevalentemente finanziario, svolgendo un'attività soprattutto medica. Alla fine dello stesso anno 1716 arrivava a Lhasa, per la lunga via del Ladakh e seguendo lo Tsangpo, il gesuita pistoiese Ippolito Desideri. La rivalità tra i due ordini fu causa di una lunga lite, che Roma decise a favore dei cappuccini; e nel 1721 il Desideri venne richiamato dai suoi superiori. Ma nei pochi anni della sua permanenza egli aveva studiato a fondo il tibetano, leggendo alcune delle principali opere filosofiche del lamaismo e componendo opere apologetiche in quella lingua; fu perciò il primo tibetologo europeo. Ma soprattutto gli dobbiamo una grande relazione sul Tibet, mirabile per acume, profondità e tolleranza, insuperata per quasi due secoli. Nessun argomento sfuggì alla sua attenzione: geografia, religione, storia, costumi, tutto vi si trova. Purtroppo l'opera rimase sepolta negli archivi fino al 1875 e non esercitò alcuna influenza diretta sulla geografia europea. I cappuccini, rimasti padroni del campo, rientrarono ancora una volta a Lhasa nel 1741, e questa volta ebbero qualche successo; ma l'ostilità dell'ambiente rese loro ben presto impossibile l'apostolato, e nel 1745 essi abbandonavano definitivamente il Tibet. Il materiale da loro lasciato è voluminoso, ma di scarso valore geografico, con l'eccezione di qualche memoria del P. Francesco Grazio della Penna e d'una vivace descrizione etnografico-religiosa del P. Cassiano da Macerata. L'epoca delle imprese missionarie si chiudeva così, senza che la scienza europea ne ricavasse un vantaggio sensibile. Minori ancora furono i risultati pratici di alcuni viaggi dello stesso periodo, di cui ben poco sappiamo. Così nel 1709-11 quattro mercanti russi risiedevano a Lhasa, e nel 1717 vi giungeva un francese, di cui ignoriamo perfino il nome. Nel 1731 l'olandese Samuel van de Putte passò per il Tibet andando dall'India alla Cina, e cinque anni dopo compì lo stesso tragitto in senso inverso; purtroppo le note di questo infaticabile viaggiatore furono distrutte dopo la sua morte per espressa disposizione testamentaria. Dopo il 1750 il governo cinese, coadiuvato da quello tibetano, cercò costantemente di tenere il paese chiuso ai viaggiatori europei. Nel frattempo però la graduale conquista britannica dell'India e più tardi quella russa del Turkestan avvicinavano ai confini del Tibet i due colossi, la cui rivalità dominò la storia coloniale dell'Asia nel XIX secolo. E' ragionevole che ambedue, ma soprattutto l'Inghilterra, tentassero per ragioni politiche e strategiche di ottenere precise informazioni sul paese. Nel 1774 le autorità inglesi di Calcutta cercarono di aprire relazioni commerciali col Tibet, inviando George Bogle alla corte del Pan-c'en Lama, secondo gerarca della Setta Gialla. Nel 1783 vi si recò allo stesso scopo Samuel Turner. Ma né l'uno né l'altro ottennero risultati concreti, e i tentativi furono interrotti per più di un secolo. Durante la prima metà del XIX secolo l'attenzione inglese si rivolse soprattutto al Tibet occidentale. Colà si presentava l'appassionante problema delle sorgenti dei grandi fiumi indiani (Indo, Satlej, Gange, Brahmaputra): più d'ogni altro, fu il viaggio di Henry Strachey (1846) a portare un po' di luce sulla questione. Quanto al Tibet centrale esso rimaneva precluso agli Europei, sebbene vi fosse arrivato travestito l' eccentrico medico inglese Thomas Manning (1811), e poi i lazzaristi francesi Huc e Gabet (1846), provenienti da Pechino, subito arrestati e rispediti in Cina dal residente imperiale. In tale situazione il servizio geografico anglo-indiano ricorse all'espediente di inviare clandestinamente dei topografi indiani (i cosiddetti Pundit), che viaggiavano in veste di pellegrini o di mercanti; il migliore tra essi fu Nain Singh (1866-67 e 1874-75). I loro rilevamenti, per quanto approssimativi, sono ancora alla base delle carte moderne del paese; e le loro spietate storpiature dei nomi geografici (trascritti secondo la fonetica inglese, ignorando essi l'alfabeto tibetano) fanno ancor oggi la disperazione degli orientalisti europei. Alla fine del XIX secolo la politica aggressiva inglese riprese, e la spedizione militare a Lhasa (1904) ebbe come corollario l'esplorazione di alcune zone, specialmente del Tibet occidentale: ma col trattato del 1907 Inglesi e Russi concordavano di rinunziare a ulteriori spedizioni esplorative nel Tibet. Dalla parte del Nord intanto erano stati effettuati diversi viaggi; tutti avevano per meta più o meno confessata Lhasa, dove però a nessuno fu dato di giungere, neppure al più grande dei viaggiatori russi, N. M. Przevalskij (1789-80,/1883-85), né al francese Bonvalot (1889-90), né all'altro francese Dutreuil de Rhins, assassinato nel 1894 nel Tibet nordorientale. Tuttavia, i loro sforzi permisero almeno di tracciare carte sufficientemente accurate delle desolate e quasi deserte regioni settentrionali. Importanza decisiva nella storia dell'esplorazione del Tibet ebbero i due viaggi dello svedese Sven Hedin (1899-1902 e specialmente 1905-8), che risolsero definitivamente il problema delle sorgenti dell'Indo, della Satlej e dello Tsangpo, e portarono alla scoperta dell'enorme sistema montuoso del Transhimalaya. L'ultimo grande problema idrografico aperto, quello della continuazione indiana del massimo fiume tibetano Tsangpo, fu risolto nel 1913 da F. F. Bailey e H. T. Morshead, che stabilirono definitivamente la sua identità col Brahmaputra. Nella stessa epoca anche il Tibet orientale veniva percorso e rilevato da viaggiatori europei provenienti dalla Cina, come il tedesco W. Filchner (1903-5 e 1925-8) e il francese J. Bacot (1907 e 1909). A un territorio marginale dell'estremo Ovest (Ladakh e Baltistan) si volgevano le missioni scientifiche italiane di Filippo De Filippi (1913-14) e di Giotto Dainelli (1930). Risolti così i principali problemi geografici, cominciavano a venire affrontati quelli geologici ed etnografici, e poi anche quelli storico-artistici. Pioniere insuperato in quest'ultimo campo fu l'italiano Giuseppe Tucci con le sue varie spedizioni nel Tibet occidentale e poi le due missioni nel Tibet centrale (1939 e 1948). Dopo l'integrazione nella Repubblica Popolare Cinese (1951) il completamento dell'esplorazione e del rilevamento del Tibet divenne di nuovo prerogativa dei Cinesi, concludendo così un ciclo storico bisecolare.

 

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