«Alle Seicelle nel tempo felice» di Luciano Forcellini


La vedetta arrampicata sulla coffa del veliero gridò: Terra! Terra! I marinai si affollarono sulla tolda per vedere quelle isole coperte di vegetazione che veniveno loro incontro. La caravella «S. Gabriel» si accostò lentamente alla spiaggia e gettò l'ancora nella baia. Il capitano diede ordine di mettere in mare una scialuppa sulla quale presero posto alcuni marinai che, con pochi vigorosi colpi di remo, raggiunsero la riva e si addentrarono nell'isola per esplorarla. Lo spettacolo che si presentò ai loro occhi non dovette interessarli particolarmente: un intrico di vegetali di ogni genere che ostacolavano la loro marcia, grosse palme da cocco cariche di noci e una enorme quantità di rettili. Nessuna traccia di esseri umani e tanto meno di oro o di pietre preziose. In breve i marinai ritornarono sulla spiaggia evitando i grossi granchi che la ricoprivano, risalirono sulla scialuppa e raggiunsero la nave. Riferirono sommariamente ciò che avevano visto e il capitano diede l'ordine di salpare. Correva l'anno 1502; il Capitano era Vasco de Gama; quelle isole erano le Seicelle. La storia di questo arcipelago ha origini molto remote. Alcuni milioni di anni fa la conformazione geografica delle coste dell'Oceano Indiano era notevolmente diversa da quella attuale. Asia e Africa erano unite a formare un unico grande continente. Il Mar Rosso e il golfo di Aden non esistevano, mentre un'enorme striscia di terra, partendo dalle attuali coste del Mozambico, si protendeva verso Nord-Est, forse congiungendosi con l'India. Questo continente (il Gondwana), situato praticamente sull'equatore, era ricoperto di foreste lussureggianti e abitato dagli immensi rettili preistorici, mentre intorno alle sue coste, punteggiate di coni vulcanici, allignavano, favoriti dalle acque tiepide del mare equatoriale, i più vari esemplari di molluschi, di crostacei e di anfibi che la fauna tropicale potesse annoverare. Poi, d'improvviso, il cataclisma. I vulcani sembrarono esplodere, intere montagne scomparvero; terremoti di spaventosa violenza aprirono crepe nel terreno inghiottendo chilometri di foreste; lingue di fuoco, nubi di cenere e massi incandescenti si alzarono verso il cielo mentre fiumi di lava precipitavano verso ii mare; onde immani sommersero la terra e un intero continente sprofondò in pochi istanti inghiottito dalle acque dell'Oceano. Nessuno degli animali terrestri poté salvarsi; solo qualche anfibio e pochi uccelli riuscirono a sopravvivere rifugiandosi sulle cime più alte che le acque non avevano ancora ricoperto o alzandosi in volo. Quando ritornò la calma l'aspetto geografico di tutta la regione era completamente mutato. Dove prima si stendeva la rigogliosa foresta equatoriale, ora si agitavano le acque del mare, rotte soltanto dalle piccole isole costituite dagli spuntoni delle maggiori cime montuose. Migliaia e migliaia di chilometri di territorio erano scomparsi, lasciando come unica testimonianza quelle poche isolette sperdute nell'immensità dell'Oceano Indiano. Erano nate le isole Seicelle. Quale sia stata la vita su questi sperduti e isolati scogli durante le centinaia di migliaia di anni intercorsi fra il grande cataclisma e la scoperta di Vasco de Gama è facile immaginare. Le montagne erte e brulle a poco a poco si spianarono e si coprirono di vegetazione; molluschi acquatici incominciarono a costruire i loro banchi intorno a queste ultime terre emerse e accanto ad esse si formarono scogli e isolette coralline. L'erosione dei venti addolcì i rilievi della terra e il materiale alluvionale trasportato dai torrenti verso il mare, nonché il mare stesso, attenuarono l'aspetto scosceso delle coste formando le spiagge. L'aspetto di queste isole è tuttora incantevole, sebbene l'avanzare della civiltà abbia inferto un duro colpo alle selvagge bellezze naturali dei luoghi, ma nel 1502, all'epoca dello sbarco di Vasco de Gama, esse dovevano apparire come un vero «paradiso terrestre». Specie di piante e di animali ormai estinte in tutto il resto del mondo erano sopravvissute in queste terre grazie all'isolamento che le aveva preservate dagli attacchi degli esseri più evoluti e in particolare dell'uomo; c'erano frutti esotici di eccezionale grossezza e sapore, alberi giganteschi dalle ampie foglie, tartarughe di una grandezza mai vista, crostacei e molluschi di ogni genere, il tutto coronato dall'incantevole fascino del paesaggio equatoriale. Queste ricchezze naturali che avrebbero fatto la gioia di qualsiasi botanico o zoologo, o anche più semplicemente di qualsiasi turista odierno, non erano particolarmente interessanti per i marinai di Vasco de Gama, che preferivano certamente i forzieri d'oro del Gran Khan alle tartarughe delle Seicelle. Perciò queste isole vennero nuovamente abbandonate. Dovranno passare ancora quasi tre secoli, prima che l'uomo si decida a occupare stabilmente questo meravigiioso angolo di mondo che la natura sembra aver gelosamente custodito per millenni. Durante questo periodo i contatti degli esseri umani con queste terre furono scarsi e saltuari: poche navi gettavano l'ancora nelle baie di Mahé per rifornirsi d'acqua: qualche vascello pirata che cercava rifugio fra le scogliere dell'arcipelago per sfuggire alle navi da guerra inglesi, alcuni velieri fuori rotta che riparavano le loro avarie usando il legname di quelle foreste e infine rare spedizioni di cacciatori di tartarughe che si procuravano in quelle isole la preziosa corazza che andava particolarmente di moda in Europa presso le famiglie più nobili o abbienti. Nel 1786 finalmente l'uomo scoprì queste isole. I Francesi per primi vi trasportarono, in quell'anno, un contingente di qualche centinaio di Creoli ai quali si aggiunsero, pochi anni dopo, parecchi schiavi negri e alcune famiglie di stretta origine europea. Questa comunità eterogenea, lungi dal coltivare pregiudizi razziali di qualsiasi genere, si dedicò attivamente, in stretta collaborazione, alla colonizzazione di quelle terre raggiungendo in breve tempo uno stato di invidiabile benessere. In questa opera i francesi furono particolarmente favoriti dalla benignità della natura: una terra fertile e rigogliosa che permetteva la coltivazione di ogni genere di spezie, un mare pescosissimo che assicurava ii nutrimento ai pescatori, un clima relativamente mite (malgrado le Seicelle si trovino a un palmo dall'equatore) che non creava disagi agli abitanti e infine i doni della natura sotto forma di tartarughe dalle carni saporite e nutrienti; granchi di enormi dimensioni dalle gustose e bianche polpe, e frutti delicati come quelli del coccodemer, l'albero peculiare dell'isola di Praslin. In questo clima paradisiaco l'unica avversità era costituita dai coccodrilli. Migliaia di questi rettili avevano trovato nelle isole il loro «habitat» ideale. L'uomo, tuttavia, riuscì in poche decine di anni a distruggerli completamente, insieme ai numerosi serpenti più o meno velenosi che infestavano l'arcipelago. Al giorno d'oggi infatti i coccodrilli sono completamente scomparsi mentre solo qualche raro esemplare di crotalo sopravvive nelle isole disabitate. Più tardi le isole Seicelle divennero una colonia inglese, e ancora oggi fanno parte del Commonwealth britannico. Malgrado i 150 anni di dominazione inglese, la seconda lingua ufficiale delle isole è sempre il francese. La nuova repubblica, indipendente dal 1976, comprende, oltre alle Seicelle propriamente dette, alcuni altri arcipelaghi minori: le Amiranti, le Cosmoledo, Aldabra, le isole di Saint Pierre, Assumption, Providence e moltissime altre per un totale di 92 isole di cui solo 33 abitate. Le altre, piccoli scogli di poche centinaia di mq, vengono raggiunte solo saltuariamente dai Seicellesi in occasione di qualche battuta di caccia o durante la stagione dei raccolto delle noci di cocco. Il complesso delle terre emerse è di 408 kmq mentre gli abitanti non superano i 60.000 individui. L'arrivo di una comitiva di turisti curiosi rappresenta sempre per gli abitanti un motivo di festa. Qualche volto nuovo da vedere, e la possibilità di vendere a poco prezzo qualche manufatto dell'artigianato locale, sono ottimi motivi per essere ancora più allegri e felici del solito. Comunque, il fatto di vendere «souvenirs» è senz'altro il motivo meno importante. Basti pensare che si possono comprare per poche rupie (la moneta in uso è infatti quella indiana) conchiglie lavorate che a causa della loro fragilità richiedono un'opera di molti giorni da parte di un abile artigiano. Ma come si è detto il lavoro da queste parti è un passatempo e io sono fermamente convinto che il pescatore sarebbe dispostissimo anche a regalarvi le sue conchiglie, dato che egli bada molto di più all'ammirazione che il suo lavoro suscita in voi piuttosto che alle «vili questioni di denaro». La prova di questo mi fu data dal sincero ed eloquente sorriso che un vecchio pescatore mi elargì allorché, dopo aver comprato da lui qualcosa, mi soffermai a lungo presso il muretto sul quale aveva esposto i suoi capolavori e li guardai ad uno ad uno emmirandone l'originalità. Incurante del fatto che io comprassi ancora o meno, sembrava sprizzare gioia da tutti i pori della pelle. Mi spiegò le difficoltà della scelta delle conchiglie adatte alla lavorazione (pochissimi sono infatti gli esemplari perfetti, poiché le scogiiere che circondano l'isola spesso li frantumano prima di portarli sulla rena); mi raccontò della pazienza necessaria per un simile lavoro e mi invitò, seduta stante, ad accompagnarlo nei giorni successivi in una delle sue ricerche lungo le spiagge dell'isola. Questo episodio può rendere un'idea non solo del disinteresse per il denaro ma anche della particolere giovialità che caratterizza i Seicellesi. In effetti tutti gli abitanti hanno un altissimo senso dell'ospitalità e sono sempre pronti a darvi aiuto, a indirizzarvi o ad accogliervi nella loro casa dove una tazza di tè freddo o di latte di cocco è sempre pronta per l'ospite assetato. Mahé, l'isola sulla quale mi trovavo, è la più importante dell'arcipelago (144 kmq) e su di essa sorge la capitale, Victoria. Una capitale in miniatura che non supera i 20.000 abitanti, ma tuttavia dall'aspetto simpatico e pulito: strade razionali e bene asfaltate sulle quali passano silenziosamente le rare automobili di marca americana o italiana, case basse e bianche costruite in muratura o in legno con verande e giardini, il palazzo del Governo dalle linee semplici ed eleganti prospiciente la piazza principale e poi ii porto, moderno e attrezzatissimo, che provoca lo stupore di tutti i turisti (seppi poi che Port Victoria è stazione di carbonamento dell'Ammiragliato). La periferia della città è invece costituita de bungalows isolati o da capanne di legno ricoperte da foglie colossali che si addentrano nella foresta. Uso il termine foresta poiché è quello adottato dagli atlanti geografici, ma in realtà non bisogna assolutamente pensare a qualcosa di selvaggio o di disagevole. In realtà la foresta di Mahé al giorno d'oggi è assai simile a uno dei nostri boschi. Intersecata da moltissimi sentieri, inframmezzata da radure e capanne di contadini, il percorrerla rappresenta più una piacevole passeggiata che una fatica. Recentemente a Mahé sono sorti, a disposizione dei turisti, due alberghi. Per la scelta mi feci consigliare dal mio «amico» intagliatore di conchiglie, che mi indicò l'Hotel «Armes des Pirates» come il più lussuoso. L'Armes des Pirates è qualcosa di diverso da ciò che in genere noi consideriamo un albergo. La costruzione principale, a un solo piano, interamente in legno, non comprende nessuna camera da letto ma è adibita esclusivamente alle sale di soggiorno e da pranzo. Le camere invece si trovano tutte nelle «dépendances» e sono costituite da piccole capanne disseminate nella foresta vicino al mare. Si ha l'impressione di essere in un campeggio più che in una camera d'albergo. Tuttavia, come potei constatare, vi erano tutte le comodità desiderabili e soprattutto una pulizia encomiabile. Il clima delle Seicelle è piuttosto caldo ma non insopportabile. La temperatura in riva al mare non scende mai al di sotto dei 20 gradi (sulle alture 15-16) per raggiungere punte massime intorno ai 40° nella stagione estiva. Tuttavia queste temperature un po' eccessive sono sempre mitigate dal soffio degli alisei di N E (da marzo a settembre) o dei monsoni di S E (da dicembre a marzo). Per godere maggiormente delle ore fresche del mattino, la vita inizia piuttosto presto in tutta l'isola e io mi adeguai all'usanza. Mi preparavo a «subire» una di quelle terribili prime colazioni inglesi a base di carne, uova, frutta, ecc. quando ebbi la gradita sorpresa di sentire che mi avrebbero portato, se lo avessi voluto, del latte fresco appena munto. Per un momento ebbi il sospetto che la cameriera volesse parlare di latte di tartaruga, ma essa mi assicurò con orgoglio che il patrimonio zootecnico dell'arcipelago è più che sufficiente alle esigenze degli abitanti. Naturalmente l'origine di questo patrimonio è di importazione, dato che nessun mammifero viveva nelle isole all'epoca della loro scoperta, ma sia i bovini sia i suini e gli ovini hanno mostrato di acclimatarsi perfettamente alle Seicelle e hanno raggiunto oggi un ragguardevole numero di capi per ciascuna delle tre specie. In effetti è logico che l'allevamento del bestiame sia facilitato in queste terre dove il problema del foraggio non esiste. L'isola infatti è coperta di vegetazione 12 mesi su 12 ed è sufficiente far uscire gli animali dalle stalle perché questi trovino immediatamente di che sfamarsi. Dopo la prima colazione mi recai in città per rendermi conto di come si svolgesse la vita quotidiana. Qui forse provai un po' di delusione, in quanto tutto era identico a ciò che succede nelle nostre cittadine di mare. Donne con le sporte ferme di fronte alle bancarelle del pesce o della verdura, bambini che giocano a gruppi, pochi uomini (in genere pescatori) che parlano fra loro. Giù al mare e vicino al porto invece tutti sono ancora molto affaccendati: chi per la sistemazione delle merci giunte il mese precedente, chi per riverniciare o ripassare la propria barca, chi infine ad aggiustare reti, a rammendare vele o a lavare le cassette e le ceste del pesce. Rimasi colpito dalla mescolanza di razze della popolazione. Accanto ai pochissimi negri puri e ai pochi bianchi (circa un migliaio su tutto l'arcipelago) si vedono cinesi, indiani e soprattutto creoli dalle mille sfumature di colore. La maggioranza della popolazione è infatti creola, con percentuale di sangue bianco variabile, e costituisce una delle razze più belle che la natura abbia creato. Le donne dall'aspetto sano e fiorente hanno lineamenti fini e delicati, gli uomini robusti e muscolosi hanno un fisico invidiabile per resistenza e agilità. Come già si è detto alle Seicelle non esistono problemi razziali. I bianchi puri, chiamati «Grandi Bianchi» costituiscono, è vero, un po' la «élite», la nobiltà della popolazione, ma a parte questo leggero senso di deferenza (dovuto anche al fatto che si tratta delle più antiche famiglie dell'arcipelago) nulla accade che possa far pensare a situazioni di privilegio. Bimbi bianchi, neri e creoli giocano e studiano assieme, donne di tutte le razze si recano negli stessi negozi con gli stessi diritti, inglesi e creoli siedono gomito a gomito, dietro gli sportelli della banca e degli uffici locali. Gli impiegati sono forse gli unici lavoratori dell'arcipelago, insieme con i proprietari di negozio, il cui mestiere possa essere qualificato. La maggioranza degli abitanti infatti esplica una quantità tale di mansioni che sarebbe veramente impossibile stabilire quale sia la sua vera occupazione. Ebbi occasione di parlare con un giovane creolo che trasportava alcune casse nel porto. Gli chiesi se quello fosse il suo lavoro. «Oggi, sì» mi rispose laconicamente. «E domani?» insistei stupito della risposta. Egli allora mi spiegò che l'indomani si sarebbe recato sulle spiaggia a prendere i granchi, poiché il lavoro del porto è saltuario e si svolge solo in occasione dell'arrivo di qualche nave, mentre per il resto dell'anno egli diveniva contadino durante il raccolto dei cocchi e della cannella (uno dei più importanti prodotti d'esportazione dell'isola), cacciatore durante la stagione della caccia alle tartarughe e pescatore durante gli altri periodi. Malgrado tutte queste attività alla fine dei conti scoprii che il giovanotto guadagnava ben poco, ma quando in parole povere gli chiesi come potesse «sbarcare il lunario» con così poco denaro mi guardò come se avessi detto una grande assurdità e mi spiegò pazientemente che le piastre che guadagnava gli servivano esciusivamente per vestirsi, per divertirsi o per togliersi qualche particolare soddisfazione. Per quanto riguardava le strette necessità della vita non vi era infatti alcun bisogno di lavorare, poiché la capanna in cui viveva e i mobili se li era costruiti lui stesso usando direttamente il legno della foresta, e quanto al cibo se uno proprio non aveva la possibilità di comperarsi la carne, poteva sempre pescare del pesce o raccogliere dei granchi, e se proprio non avesse avuto nemmeno voglia di pescare avrebbe sempre potuto sfamarsi con i frutti della foresta. A questo punto si potrebbe pensare che una buona parte dei Seicellesi viva in uno stato semiselvaggio, ma questo non è affatto vero. Le loro capanne, anche se le costruiscono da soli, sono fatte a regola d'arte. Non un'asse sconnessa, non una goccia di pioggia che entri dal tetto, le pareti sono imbiancate e pulite, il pavimento è ricoperto di stuoie di bambù, i mobili sono razionali e comodi (in genere li comprano), hanno l'acqua proveniente dall'efficientissimo acquedotto di Victoria, anche se molti preferiscono costruirsi dei condotti privati (fatti con canne di bambù) che collegano direttamente le loro case con i freschi ruscelli che irrigano tutta l'isola. Per quanto riguarda la qualità del cibo (diciamo «raccogliticcio») vi posso garantire che pochi piatti della nostra cucina possono eguagliare le specialità locali. A detta di tutti la carne di tartaruga è squisita, anche se il sottoscritto non ha avuto il coraggio di assaggiarla. Per esperienza diretta posso garantire che un piatto di cime di bambù in insalata è quanto di meglio si possa desiderare nel campo delle verdure. Il loro aspetto è simile a quello dei nostri gambi di sedano, mentre il loro sapore si avvicina, sia pur lontanamente, a quello degli asparagi. Inutile parlare poi dei frutti del cocco, che tutti conosciamo, mentre meritano invece una parola a parte i granchi giganti. Questi crostacei si nutrono delle polpa delle noci di cocco e abbondano su tutta l'isola, in particolare su quelle spiagge ove le palme si spingono fino alla riva del mare. Essi prediligono l'alba per le loro spedizioni a terra alla conquista del cibo ed io ebbi l'occasione di assistere ad una di queste «incursioni» unendomi ad alcuni cacciatori (o pescatori?) indigeni e nascondendomi dietro i cespugli poiché l'animale è molto diffidente e al primo accenno di pericolo si rifugerebbe in mare dove la sua cattura è praticamente impossibile. Alle prime luci dell'alba dunque i granchi si avvicinano a frotte preceduti da alcuni esploratori e si adagiano sui bassi fondali a pochi metri dalla riva. Gli esploratori si spingono invece sul bagnasciuga e si accovacciano sulla rena guardandosi attorno. Se tutto appare tranquillo, sollevano il loro grosso addome sulle robuste zampe come tanti «centometristi» prima del via e con una velocità assolutamente insospettabile percorrono alcuni metri con la loro andatura obliqua fino a raggiungere qualcosa che possa offrire loro un riparo: un sasso, un cespuglio o una semplice buca nel terreno. Qui si appiattiscono nuovamente in attesa, mentre il grosso del gruppo ne prende il posto sulla linea dell'acqua. Un battaglione da sbarco non si comporterebbe diversamente. A questo punto il minimo rumore sospetto sarebbe sufficiente a provocarne la fuga. Ma quella mattina tutto dovette sembrar loro tranquillo perché i primi si alzarono nuovamente sulle zampe e si diressero verso le palme più vicine. Come se fosse stato dato un segnale tutti gli altri li seguirono e in pochi istanti la spiaggia brulica di queste irte creature che correvano a scatti diagonali verso le palme. I primi frattanto senza esitazione avevano iniziato la salita aggrappandosi con le zampe alle scaglie che ricoprono i tronchi delle palme da cocco. Ciascun granchio sceglieva il proprio albero e ne risaliva velocemente il tronco. Normalmente questi animali non appena raggiunta la cima tagliano con le robuste chele i piccioli delle noci di cocco che, cadendo dall'alto (le palme raggiungono i 25-30 metri), si frantumano consentendo così ai crostacei di gustarne la polpa. In quell'occasione i malcapitati granchi non poterono condurre a termine l'operazione perché gli indigeni che erano con me iniziarono il loro attacco e si precipitarono di corsa sulla spiaggia menando bastonate qua e là per tramortirli, mentre i pochi superstiti cercavano disperatamente di raggiungere il mare. Anche quelli che avevano già iniziato la scalata, anziché cercare rifugio sulle cime degli alberi ormai vicine, preferirono tentare la fuga verso il mare e pertanto finirono in gran parte nelle mani dei cacciatori, che hanno cura di non ucciderli poiché la loro carne è molto più gustosa se vengono cucinati vivi. I Seicellesi vollero ad ogni costo farmi dono di alcuni fra i migliori esemplari, che io portai all'albergo perché mi venissero cotti per pranzo. Ebbi così modo di constatare che nessuna aragosta può reggere il paragone con questi crostacei. Un'altra caccia piuttosto interessante è quella alle tartarughe marine. Questi animali galleggiano durante il sonno. Gli indigeni approfittano di ciò per avvicinarsi cautamente ed afferrarle per lo scudo gettandole sulle barche prima che abbiano il tempo di reagire. La cattura di questi grossi anfibi è infatti impossibile se l'animale è sveglio, poiché al primo accenno di pericolo si inabisserebbe scomparendo alla vista dei cacciatori. Gli esemplari catturati vengono poi allevati in specchi d'acqua chiusi fino al giorno della macellazione. La caccia alle tartarughe terrestri è invece facilissima, poiché basta rovesciare l'animale sul dorso per togliergli qualsiasi possibilità di fuga o di difesa. Né offrirebbe difficoltà maggiori la caccia alle «sule» e alle «fregate», gli uccelli marini che popolano gran parte delle isolette disabitate dell'arcipelago e in particolare Aldabra. Questi uccelli sono infatti così numerosi e così poco timorosi dell'uomo che è possibile prenderli al volo con le mani. Gli indigeni tuttavia non si occupano di cacciarli poiché essi sono molto più utili da vivi che da morti; infatti, mentre la loro carne non è commestibile, questi uccelli servono ad incrementare i giacimenti di guano che costituiscono un discreto reddito per i Seicellesi. Se in queste isole la caccia è facile, pescare lo è altrettanto. Infatti le scogliere coralline che le circondano hanno creato dei bassi fondali che la marea scopre e ricopre. Durante la bassa marea accade così che molti pesci (anche di dimensioni notevoli) rimangano imprigionati in piccole pozze d'acqua isolate, dove è facilissimo raccoglierli con le mani. Le difficoltà di comunicazione fra le Seicelle ed altre terre rendono comunque impossibile l'esportazione del pesce che pertanto serve soltanto a soddisfare il fabbisogno locale. Due altre voci figurano invece fra i prodotti di esportazione dell'arcipelago: quella delle spezie (ed in particolare della cannella) e quella della copra, la polpa della noce di cocco dalla quale si ricavano vari grassi vegetali (olio di cocco, margarina, ecc.). Un altro prodotto peculiare delle Seicelle è il coccodemer (Lodoicea sechellarum), pianta che merita qualche parola di spiegazione per la sua originalità. Essa alligna esclusivamente sull'isola di Praslin, la seconda dell'arcipelago per grandezza dopo Mahé. Simile come struttura alla normale palma da cocco, se ne differenzia per l'altezza (circa 30 metri contro i 20-25 dell'altra) e per l'immensità delle sue foglie, che fra picciuolo e lamnia possono raggiungere i 9/10 metri di lunghezza e i 4 di larghezza. A foglie così gigantesche fanno riscontro altrettanto giganteschi frutti che consistono in grosse noci (oltre 1 metro di circonferenza) del peso di 20/25 kg. Il coccodemer ha un dimorfismo sessuale molto accentuato che si rivela già nell'aspetto generale dell'albero. L'individuo di sesso maschile infatti è più alto e imponente, le sue foglie sono più grandi e il suo tronco è più robusto. La differenziazione si accentua maggiormente nei frutti: il frutto maschile è una inflorescenza di forma allungata, simile a una gigantesca zucchina, mentre quello femminile ha una curiosa forma che ricorda il tronco di una donna privato degli arti. La storia di questi frutti è piuttosto interessante. Poiché essi galleggiano nell'acqua e possono resistere per molti mesi in mare senza deteriorarsi, accadeva, all'epoca in cui il coccodemer era una pianta ancora sconosciuta, che alcuni di essi, caduti in mare e trasportati dalle correnti, raggiungessero le coste dell'India e della Cina. La meraviglia che suscitavano in chi li trovava era grande e su di essi per lunghi anni si fecero le più strane congetture. Chi pensava che fossero prodotti direttamente dal mare e chi addirittura li designava come il «frutto proibito» del Paradiso Terrestre. Questa leggenda si radicò talmente che quando venne scoperta l'isola di Praslin si pensò di aver trovato appunto il luogo nel quale sorgeva il Paradiso stesso. Comunque, i frutti del coccodemer vennero considerati per secoli delle rarità e, pagati a peso d'oro, divennero gli ornamenti preferiti delle sontuose dimore dei marajá e dei più ricchi mandarini. Il frutto impiega un tempo lunghissimo a maturare (circa 10 anni), ma i Seicellesi non hanno fretta e in cuor loro si interessano maggiormente alla bellezza esteriore del «loro» albero che non alle possibilità economiche di sfruttamento dei suoi frutti. All'epoca del mio soggiorno, infatti, su tutto l'arcipelago credo che l'unica persona che avesse dei problemi di «incremento della produzione», di «sfruttamento razionale» ecc. fosse il governatore inglese, sir Thorp. Egli infatti era perennemente preoccupato per ii bilancio di amministrazione dell'arcipelago. La sua prima aspirazione era quella di far asfaltare l'intero lungomare, che presentava ancora lunghi tratti in terra battuta, ma in questa sua impresa non era assolutamente aiutato dalla popolazione, che amava la sua isola così com'era, col suo lungomare senza asfalto, con le sue spiagge senza cabine, con la sua chiesetta un po' nuda ma serena, con i suoi sentieri scoscesi ma pittoreschi, con le sue valli incolte ma meravigliose. Mi domandai spesso, durante il mio soggiorno, chi avesse ragione e talvolta pensando alle enormi possibilità non sfruttate di quella terra fertile parteggiavo per il governatore, talaltra di fronte all'incomparabile bellezza di quelle isole tropicali comprendevo il modo di pensare dei Seicellesi, che vivono perennemente immersi in simile spettacolo, godendo di esso senza preoccuparsi dell'indomani. La risposta definitiva comunque potei darla soltanto il giorno della partenza, quando vidi la nave con la quale dovevo ripartire avvicinarsi lentamente e attraccare al suolo. Un gruppo 5 o 6 turisti scendeva la passerella. Uomini e donne dalla pelle ancora arrossata per la bruciatura del sole tropicale, che si guardavano attorno con l'aria leggermente sospettosa di che teme che il facchino gli rubile valige o che il venditore di «souvenirs» voglia truffarlo. E di fronte a loro, Victoria: i ragazzi e le ragazze dalla pelle scura sorridenti e festosi che agitavano i fazzoletti e le mani alla vecchia nave che ogni mese portava loro un soffio di novità, ii robusto creolo che «oggi» faceva il facchino per l'Hotel Armes des Pirates, e il vecchio contadino che «oggi» faceva il taxista mettendo a disposizione dei nuovi arrivati la sua auto fuori moda, e in un angolo il solito pescatore che «oggi» faceva il commerciante di conchiglie lavorate, e tutto intorno gli uomini sfaccendati, i negozianti che avevano abbassato le saracinesche e le massaie con i figli per mano che «oggi» facevano i curiosi. Sì! avevano ragione loro: i Seicellesi. A che scopo asfaltare il lungomare? A che scopo lavorare di più per esportare più copra? Né l'asfalto né la copra valgono la felicità di riposarsi sulle rive dei freschi ruscelli della foresta, di sdraiarsi sotto le palme in riva al mare o anche più semplicemente quella di recarsi al porto per accogliere sorridendo 5 o 6 turisti che arrivano e per salutarne uno che parte.

 

eXTReMe Tracker

Shiny Stat

free counters