«Il Sabba delle streghe tra i grattacieli» di Mons. Ernesto Pisoni


Vi sono due modi di intendere la psicologia della religione. Il primo modo dovrebbe essere di analizzare i fenomeni religiosi nelle loro motivazioni, verificandole e approfondendole con un'esperienza religiosa personale (instaurando una ricerca sul tipo di motivazione su cui si fonda nella coscienza individuale il sentimento religioso, e dando un giudizio di valore sulle realtà spirituali che lo animano). Ma questo è un modo ritenuto da molti psicologi metodologicamente inattuabiie e scientificamente meno ortodosso. L'altro modo di intendere la psicologia della religione (o della religiosità), è di limitarsi allo studio dei fenomeni psichici relativi alla religione, senza condurre un discorso di valori riferibili alla coscienza individuale e al comportamento personale, ma limitandosi a un'interpretazione fenomenologica della religiosità. C'è, infine, chi tenta una via di conciliazione tra i due opposti punti di vista. Erich Fromm, ad esempio (Psicanalisi e religione, 1961), scrive con coraggiosa semplificazione: «Si può dire che ci sono oggi due gruppi di professionisti che si interessano per mestiere all'anima umana: i preti e gli psicanalisti». Come dobbiamo concepire i loro rapporti? Si deve pensare che io psicanalista cerchi di invadere il terreno del prete creando un'inevitabile rivalità? O non si tratta piuttosto di alleati le cui attività hanno un fine comune e possono e debbono integrarsi e compenetrarsi a vicenda sia in teoria che in pratica? Dopo aver citato come esponenti dei due opposti punti di vista Freud (L'avvenire di un'illusione, 1927 e Mons. Sheen Pace dell'anima, 1949), cita invece come favorevoli a una riconciliazione tra le tesi opposte psicologi come Jung, in Psicologia e religione (1938) e religiosi come il rabbino Liebman in Pace della mente (1946). Aggiunge Fromm: «Questo mio saggio sulla religione e la psicanalisi si propone di mostrare che è errato sia concepirle come due discipline irreconciliabilmente opposte, sia pretendere di identificarle del tutto». Nella moderna psicologia prevale questo secondo modo di affrontare i problemi religiosi. Possiamo dire che il grande maestro e il primo ricercatore in questa direzione - i cui studi rimangono soprattutto dal punto di vista metodologico tuttora validi - è stato William James nella sua opera Le varietà dell'esperienza religiosa del 1902, dove, basandosi sui soli dati dall'esperienza, con il metodo della ricerca sperimentale, cercò di dare un'interpretazione dei fatti religiosi intesi come fattori primari della vita dell'uomo. In questo, che rimane un testo fondamentale, James osserva che la psicologia deve considerare la religiosità solo come accadimento soggettivo, anzi personale, prescindendo dalla sua eventuale corrispondenza a una realtà extra-soggettiva, e distingueva nettamente il «giudizio esistenziale» che rileva i fatti, dal «giudizio di valore». Valutandola dal punto di vista pragmatico infine, egli riconosceva alla religione una nota nettamente positiva, consistente nel conferire alla vita un sapore nuovo unito ad un sentimento di sicurezza e di pace derivante dalla comunione con un universo spirituale invisibile verso cui si orienta come a suo fine l'esistenza umana. Dopo di lui, invece, Freud nel 1907 (Atti ossessivi e pratica religiosa) definisce la religione «la nevrosi dell'umanità», derivando questo suo punto di vista dalla considerazione di analogie intercorrenti fra l'ossessione nevrotica e la fissità del rituale religioso. In Totem e tabù del 1912/13, riprendendo Durkheim, Freud rivestiva le sue tesi di elementi etnologici, introducendo il concetto del padre-capo che uccide i figli, sostenendo che il parricidio è alla radice dell'angoscia religiosa e dell'inibizione morale; e Dio non sarebbe altro che la magnificazione dell'immagine del padre (L'avvenire di un'illusione). E' noto come tutto questo venga contestato ad esempio da Ch. Odier (Le due sorgenti conscie e inconscie della vita morale, 1947), che giudica le tesi di Freud «limitative», identificando esse la religione con lo stato nevrotico, mentre esiste una religiosità normale e sana per valutare la quale non occorre rifarsi a dubbie teorie etnologiche. A loro volta i postfreudiani modificano notevolmente le tesi del Maestro. Il padre non è più il motivo, non è più il modello, bensì l'occasione per la manifestazione di un archetipo divino giacente nell'inconscio ed ereditato dall'individuo; e il sentimento religioso con tutti i suoi simboli, secondo Jung deve essere chiarificato da una conversione intellettuale che tuttavia serbi ed è ricca di avvenire. Forse per queste sue novità interne ed esterne, oltre che per le sue evidenti e in Psicologia e religione Jung definisce la religione l'atteggiamento della coscienza che è stata trasformata dall'esperienza del sacro, che è l'ideale stesso della persona. L'esperienza religiosa è vista come uno stato di grazia, un dono che sostiene l'esistenza e che è parte indispensabile dell'intero dinamismo psichico. Jung tenta persino un'interpretazione del cristianesimo in chiave psicologica. Dopo questi - che possiamo definire i classici, i ricercatori maggiori - i moderni tornano più o meno alle tesi già enunciate in James e in Durkheim, con accentuazioni limitative e talvolta ostili alla religione, considerando i fenomeni religiosi come condizionati dall'ambiente sociale inteso come anima collettiva, e soprattutto dalla vita economica. Di Marx è nota la posizione sulla religione, intesa come sovrastruttura sociale dipendente da un certo impianto economico, e la sua ostilità al fatto religioso, gridata con il noto aforisma «la religione oppio del popolo». Non è qui il luogo di elencare tutti i tentativi fatti per integrare sociologia e psicologia nella spiegazione dei fenomeni religiosi. Ma non possiamo tacere di Bergson, di Cassirer, di Mircea Eliade, di Guardini, di Lévi-Strauss (Il pensiero selvaggio, 1962), degli italiani Giorgio Zunini (Homo religiosus, 1966), Sabino Acquaviva, Ernesto de Martino, Pettazzoni, Vianello e di altri che fanno notare - in mille modi diversi, con contributi di ricerca e saggi di diverso impegno e sotto diverse angolazioni - la continua presenza della sacralità e della religiosità nella vicenda umana come dimensione primaria e insopprimibile dell'uomo (sesso, violenza, collettivismo, autoritarismo, solidarismi, democrazia, miti collettivi eccetera). Forse a noi possono interessare alcune concezioni di contemporanei basate sulla vita dell'uomo, considerata nelle tre tappe della religiosità infantile, religiosità dell'adolescenza e religiosità matura. Piaget indica analogie tra i miti religiosi dell'infanzia, l'antico pensiero greco e l'ispirazione cosmologica di un bambino di 7 anni, e parla addirittura della religione come di un meccanismo infantile sopravvivente parzialmente anche in individui di età adulta, ma è contraddetto da E. Pichon, W. Dennis, Brenco e altri. Infatti resta ampiamente da provare che la religione si riduca soltanto a figura dell'infanzia che l'età adulta, chiaramente e logicamente raziocinante, abolisce. Non sono di questo avviso, oltre ai post-freudiani Jung e Fromm, anche antropologi come Margaret Mead e psicologi come Kluckolm ed Erikson. Tra gli psicologi, per lo più americani, oggi si tende a considerare la religiosità come fenomeno di vita interpersonale, originatosi più o meno da spinte dell'inconscio. Questi psicologi - Fromm e soprattutto Allport - integrano e descrivono la religiosità come strettamente compenetrata con la maturità personale. Al centro dell'orientamento deve stare Dio, non come mezzo ma come fine dell'uomo intero; la consapevolezza del modello divino rende l'uomo maturo, moralmente esigente con se stesso e tollerante verso i difetti altrui. Al ritratto ideale dell'uomo religioso l'esperienza quotidiana contrappone caricature e ipocrisie. Nella vita religiosa succede che l'ammirazione dell'ideale facilmente entusiasmi tutti ma che poi l'incapacità a comprendere e realizzarlo effettivamente faccia sì che la massa, senza educazione né guida, pur lodando i valori superiori, si pasca di banalità. In verità solo una lunga e profonda opera di educazione può instaurare una vita religiosamente informata: l'ipocrisia più o meno colpevole investe invece coloro che, impreparati, lodano l'ideale che non sono in grado di comprendere e che non possono seguire (G. W. Allport, Le radici della religione, in «Orientamenti pedagogici», 1973, e Divenire, Firenze 1963). E non potendolo seguire si affidano poi a deformazioni semantiche, a simboliche ritualistiche o peggio a feticismi superstiziosi che sono la parodia o la controvisione blasfema di un'autentica religiosità. Curioso e originale il saggio di H. C. Rumke (Psicologia dell'incredulità), che considera la religiosità come senso della totalità dell'essere, elemento essenziale della personalità, e vede nella irreligiosità una forma di nevrosi qualora si attui con la deliberata ricerca di fatti negativi a danno della religione. In realtà, forse, la moderna ricerca psicologica sulla religione - come fatto personale o come fenomenologia sociale - inconsapevolmente si rifà alla definizione di religione che incontriamo nela De officiis di Cicerone: «Religio: aut rem eligere aut religari», il che significa: religione, sentimento religioso, pratica religiosa, o è scelta libera, o è superstizione. Religari sta infatti per «essere legati» a qualcosa, essere affatturati o affascinati. Il significato etimologico di questi termini richiama il concetto della fattura, del malocchio o del malaugurio, purtroppo ancora presente in mille forme, dalla credenza nei numeri negativi (13 o 17) alla fobia dei gatti neri, alle proliferazioni continue delle forme pseudo-magiche, occultistiche o demoniache, che sono surrogati moderni della religione: appunto, le streghe tra i grattacieli.

 

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