«Charlie Parker e la grande svolta» di Franco Fayenz


La grande svolta moderna del jazz si verifica negli anni oscuri della seconda guerra mondiale i suoi promotori sono alcuni giovani musicisti neri eccezionalmente dotati, fra i quali primeggia il saxofonista e compositore Charlie Parker (Kansas City 1920 - New York 1955). L'elaborazione del nuovo linguaggio parte da due premesse polemiche: è ora di farla finita con la figura pagliaccesca del musicista di colore gradito ai bianchi perché si esibisce con buona grazia, e d'altra parte il jazz classico può essere adatto a far ballare la gente, ma non a esprimere la gravità dei tempi e la diversa coscienza che ne deriva. I fattori differenzianti, rispetto agli stili precedenti, del jazz moderno degli anni Quaranta (chiamato bebop nell'inutile lessico esoterico degli specialisti, si possono riassumere con sufficiente approssimazione. L'innovazione più vistosa operata da Charlie Parker e dai suoi compagni riguarda la sezione ritmica dei complessi di jazz, che nelle opere tradizionali era affidata al pianoforte - o più recentemente alla mano sinistra del pianista - alla chitarra, al contrabbasso e alla batteria (in specie alla grancassa) che fornivano una vigorosa e regolare scansione in quattro quarti. Nella scuola parkeriana la chitarra viene munita di un amplificatore ed è usata come strumento melodico; secondo l'esempio dell'indimenticabile Charlie Christian il contrabbasso mantiene la funzione di sostegno ma acquista anche un ruolo d'integrazione solistica o perfino di solismo puro come aveva insegnato Jimmy Blanton; il pianoforte, quando non è in assolo, si limita a riempire le pause degli altri solisti con rapidi accordi; la batteria adotta per l'accompagnamento il piatto pesante, mentre la grancassa e i tamburi servono a produrre una copiosa quantità di accenti che cadono nei punti più impensati del discorso musicale, attenuando la quadratura del giro armonico e dando una tipica impressione di varietà e di frantumazione ritmica. Su questo tessuto effervescente, i tradizionali strumenti melodici (più la chitarra, quando c'è) disegnano arabeschi contorti, nervosi, asimmetrici, non di rado in un ardito rapporto con l'armonia di base, fonte di dissonanze aggressive. Un'altra importante caratteristica è il rifiuto del vecchio repertorio del jazz: i temi sono nuovi e piuttosto complicati, oppure sono ancora quelli classici, ma completamente trasformati in versioni rinnovate alle quali viene dato un titolo diverso. Risulta evidente che il jazz del secondo dopoguerra ha conseguito delle soluzioni, soprattutto nel campo armonico, continuando così quel certo parallelismo riscontrabile, in miniatura, nella storia del jazz comparata con l'evoluzione della tradizione occidentale. Ma sono assolutamente inedite le concezioni ritmiche, e nuovi sono gli aspetti che gli elementi europei vengono ad assumere a contatto con l'improvvisazione solistica, con la singola emotività e sensibilità esecutiva dei jazz, con la sua capacità di deformazione e di filtraggio, che non di rado restituisce alla musica colta del vecchio continente numerosi spunti da adottare. E' quasi superfluo ripetere che il contributo al jazz moderno di Charlie Parker, che si presenta al centro della ribalta nella sua piena maturità artistica verso la fine dei 1944, è essenziale. Descrivere il modo di fraseggiare adottato dalla nuova scuola, le figurazioni melodiche, la volontà di forzare il classico ciclo strofico e i limiti tonali del jazz che sarà ripresa quindici anni più tardi da John Coltrane, Ornette Coleman, Eric Dolphy, Cecil Taylor, significa descrivere soprattutto l'andamento imprevedibiie degli assoli di Parker. L'audizione delle sue opere, anche scelte a caso, conferma oggi l'attualità della sua sonorità tesa e soffocata eppure bruciante come un grido, e delle sue sortite solistiche abnormi, angolose e profondamente sofferte. Oltre che artista illustre, Parker era un professionista quanto mai scrupoloso. Prendeva appunti sul grado di rendimento dei solisti che suonavano con lui, esigeva prove lunghe e approfondite, faceva rifare le registrazioni fonografiche parecchie volte prima di dichiararsene soddisfaffo. Non si stancava mai di esternare le proprie idee: cercava di farsi capire con esempi musicali, discuteva, spiegava; concedeva per l'improvvisazione l'indispensabile libertà, ma la messa a punto formale doveva essere perfetta. Anch'egli tuttavia - è cosa nota - fu vittima degli stupefacenti come Billie Holiday, Lester Young, Fats Navarro, Wardell Gray, Bud Powell. Nei giorni peggiori il musicista esemplare si trasformava in un uomo inavvicinabile che mancava agli appuntamenti, si chiudeva in un mutismo ostinato o addirittura prendeva assoli a sproposito o si addormentava sul palcoscenico. La falcidia di musicisti di jazz causata dall'eroina nel secondo dopoguerra è stata tale da far nascere il fondato sospetto che, nonostante le varie campagne moralistiche, la droga sia stata introdotta nel loro ambiente apposta per screditarlo e per colpire, al di là della musica, i ghetti dei neri d'America. I due aspetti contraddittori di Parker sono simboleggiati da due frasi significative. Ai colleghi più giovani diceva spesso: «Impara tutto sulla musica e sullo strumento che hai scelto, poi dimentica tutto sia sulla musica sia sullo strumento e suona come ti pare». In queste parole sono anticipati gli ideali estetici dei jazz successivo, l'esigenza di un informalismo libertario ma anche la necessità di un solido ancoraggio etimologico e tecnico come argine contro ogni tentativo di raggiro (e quanti ce ne sono stati e ce ne sono, non è nemmeno il caso di sottolineare). Del problema della droga aveva una coscienza lucida e drammatica ma questa non gli evitò, purtroppo, la tragica sconfitta che lo portò alla morte a soli trentacinque anni: «Se un musicista afferma di suonare meglio quando prende la polverina o si fa un'iniezione - ammoniva - è un bugiardo completo. E' possibile che lo abbia pensato anch'io, nei giorni in cui ero imbottito, ma poi mi è bastato ascoltare qualcuno di quei dischi per capire che non è vero: non è vero che sia necessario procurarsi uno stato di esaltazione anormale per essere un bravo suonatore. E io lo so, credetemi. In quel modo si possono sciupare gli anni più importanti della vita, gli anni della possibile creazione». Secondo Parker, le sue opere migliori erano Ko-ko, Bird of paradise, Parker's mood e altre, che costituivano l'esito finale di consapevoli e faticose elaborazioni. Fece realmente ogni sforzo, invece, per togliere dalle circolazione quattro registrazioni effettuate e Los Angeles nel luglio 1946 poco prima di un tremendo collasso nervoso dovuto alla droga che si tradusse, nelle esecuzioni, in imbarazzanti sconnessioni tecniche. Non ci riuscì: l'editore, attento a ben altri scopi, incassò con assoluta indifferenza le sue lavate di capo. Per una singolare beffa del caso, fra quelle quattro registrazioni c'è il famoso Lover man che la decadente Europa, gridando al miracolo, ha accolto come il massimo dei suoi capolavori. Ma Lover man è un'eccezione, un esempio limite, è il frutto unico di un incontro fra il genio e la follia come L'uomo dall'orecchio tagliato di Vincent van Gogh. Il cultore di musica ne seguirà sempre l'allucinante svolgimento con la tensione che esige il momento misterioso in cui si sono sintetizzati la creatività dell'artista e il dramma dell'uomo.

 

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